un bacio degli abissi

Il libro
Dal giorno in cui Calder e Lily si
incontrano sulle sponde del Lago
Superiore, niente è più come
prima. Abituato ad ammaliare le
ragazze con il suo sorriso, Calder
crede che conquistare Lily sarà
un’impresa facile. Ma si sbaglia.
Lily non è come le altre, adora
nuotare e scrivere poesie, e fin dal
primo istante capisce che le
leggende del lago, che parlano di
feroci sirene e crudeli tritoni
affamati delle emozioni degli esseri
umani, potrebbero avere un
fondamento. Lo legge negli occhi
di Calder, che dicono più di mille
parole e celano un segreto
inconfessabile: lui e le sue sorelle
sono emersi dagli abissi per
vendicare la morte della loro
madre. Ma vicino a Lily, poco a
poco, Calder rischia di dimenticare
la sua missione…
L’autore
Anne Greenwood Brown è
cresciuta negli Stati Uniti,
nell’arcipelago
delle
Isole
Apostle del Lago Superiore.
Sporgendosi dal ciglio delle navi,
si è sempre chiesta quali
meraviglie si nascondessero tra
le acque di questo lago antico,
così profondo e vasto, e ora lo
sa. Un bacio dagli abissi è il
suo primo romanzo.
ANNE GREENWOOD BROWN
traduzione di Maurizio Bartocci
In memoria di mio
nonno,
Norman Edward Biorn,
che adorava il lago
Mamma, posso fare una
nuotata?
Sì, figlia mia adorata.
Ricorda i tuoi vestiti di
piegare,
ma all’acqua non ti
avvicinare.
Anonimo
1
LA CHIAMATA
Non avevo ucciso nessuno per tutto
l’inverno, e devo ammettere che non
mi dispiaceva. Certo, lo avrei voluto
tanto, ma troppe morti per
annegamento sarebbero sembrate
sospette e avrebbero alimentato
parecchie chiacchiere. Gli abitanti
spaventati di una città erano l’ultimo
fastidio di cui avevo bisogno. Inoltre,
negare al mio corpo ciò che più
desiderava cominciava a darmi un
piacere perverso. L’autocontrollo era
la mia più recente ossessione. Dubito
che le mie sorelle avrebbero potuto
dire altrettanto.
Sorgendo dalle acque del Mar dei
Caraibi, le mie dita scivolarono
lungo il banco di coralli morti fino a
trovare il reticolo che cercavo.
Seguendolo verso la superficie giunsi
al punto in cui avevo abbandonato i
miei vestiti umani. Il cellulare
squillava da qualche parte tra gli
abiti ammucchiati. “Maris” pensai
digrignando i denti. Nel corso della
giornata mi aveva già chiamato così
tante volte che avevo smesso di
contarle. A ogni tentativo avevo
lasciato partire la segreteria
telefonica.
Il rumore di un tuffo in acqua
distolse la mia attenzione dalla
suoneria, e mi voltai di scatto verso
l’oceano. A un centinaio di metri
c’era una ragazza su un canotto
gonfiabile, il corpo delineato da una
luce gialla. Non era ancora matura.
Magari, se avessi aspettato, la luce
gialla si sarebbe tramutata in
qualcosa di più brillante – di più
soddisfacente – qualcosa per cui
sarebbe valso la pena annientare il
mio tanto sudato autocontrollo.
Contro ogni sforzo di volontà, il
ricordo
dell’ultimo
omicidio
tormentava ogni centimetro del mio
cervello. Mi tentava, mi derideva per
aver pensato di riuscire davvero a
risollevarmi dalla mia vera natura.
Le mie dita si contrassero al ricordo
vecchio di mesi: la cattura,
l’immersione, la forma delle gambe
umane che lasciava il posto a coda e
pinna, il formicolio al centro del
petto mentre inchiodavo la preda sul
fondo dell’oceano, assorbivo la luce
inebriante, estraendo la brillante
emozione dal suo corpo fino a sentire
quasi…
“Oh, ma che diamine.”
Ma prima di tuffarmi per
raggiungere l’ignara ragazza, il
cellulare riprese a squillare. Per un
istante provai l’impulso di buttarlo in
mare; in fin dei conti era uno di
quelli usa e getta. Ma sarebbe stato
un gesto un po’ estremo. Perfino per
me. Meglio lasciar scattare la
segreteria. Insomma, non è che non
sapessi perché Maris mi stava
telefonando. Il vecchio, familiare
richiamo era tornato. Quel richiamo
– da un punto in fondo alla gabbia
toracica, fra il cuore e i polmoni – mi
diceva che era quasi giunto il
momento di lasciare il caldo delle
Bahamas e tornare dalla mia famiglia
nelle nere e fredde acque del Lago
Superiore. Era tempo di migrare.
Un brivido mi increspò la pelle
delle braccia. “Controllati, Calder”
mi dissi. “Fa’ finta di niente. Non
devi partire proprio adesso.” Sentivo
il ricordo della voce di mia madre
che pronunciava le stesse parole,
quando stavo per compiere la mia
prima migrazione. “Concentrazione,
figliolo”
mi
aveva
detto,
scarmigliandomi i ricci. “Il tempismo
è tutto.”
Nonostante
fossero
passati
quarant’anni, la scomparsa di mia
madre mi stringeva ancora il cuore.
Rievocarla era una sofferenza. E il
Grande Lago rendeva i ricordi
ancora più dolorosi. No, non c’era
nessuna valida ragione per tornare
negli Stati Uniti. Però non avevo
altra scelta.
L’impellenza di migrare era
irrefrenabile. Molto più potente di
quella di uccidere. A ogni fase della
luna, a ogni cambio di marea,
diventava sempre più impossibile
ignorarla. In base all’esperienza
sapevo che mancavano solo poche
settimane al momento in cui mi sarei
ricongiunto alle mie sorelle. Prima
della fine di maggio, sarei sfrecciato
nell’acqua come un razzo. Guai a chi
fosse capitato sulla mia strada.
Il cellulare ricominciò a squillare.
Imprecai rassegnato, mi tirai per
metà fuori dall’acqua, rovistai fra i
vestiti e schiacciai il tasto di
risposta.
— Gentile a prendere la chiamata
— disse Maris.
— Cosa vuoi?
— È ora. Torna a casa. Subito. —
La sua voce, sarcastica al principio,
risuonava adesso del solito
fanatismo. Sullo sfondo sentivo le
voci delle altre mie sorelle, Pavati e
Tallulah, un’eco del suo entusiasmo.
— Perché proprio adesso? —
chiesi in tono inespressivo. — È
ancora aprile.
— Perché fai tanto il difficile?
— Così. — All’altro capo vi fu
una lunga pausa. Chiusi gli occhi e
aspettai che lo capisse. Non impiegò
più di una manciata di secondi.
— Quanto tempo?
— Cinque mesi.
— Accidenti. Calder, perché ti
comporti sempre da masochista?
Dio, sarai a pezzi.
— So quello che faccio. Tu non ti
impicciare, Maris. — Era inutile
cercare di darle spiegazioni sulla
mia astinenza. Riuscivo a malapena a
darle a me stesso. Restai a guardare
con malinconia la ragazza del canotto
che sguazzava tranquilla verso la
riva, continuando a splendere di
giallo.
— La tua salute mentale, invece, è
affare mio, eccome. Pensi di
sapertela cavare da solo? Un
omicidio, Calder. Uno solo. Ti
farebbe sentire molto meglio.
— Sto bene — dissi sprezzante, a
denti stretti.
— Sei un somaro, ma non è questo
il punto. Ho una cosa che ti tirerà su
il morale.
Alzai gli occhi al cielo e attesi
che partisse in quarta. “Buona
fortuna” pensai.
— Abbiamo trovato Jason
Hancock.
Al suono di questo nome il mio
cuore sobbalzò, ma restai calmo per
non darle soddisfazione. Niente di
nuovo. Il mio silenzio generò
qualcosa all’altro capo del filo.
Panico? Ora la voce di Tallulah
risuonava attraverso il ricevitore, un
flusso liquido di parole fin troppo
rapide per riuscire ad afferrarle.
Lasciai che lo sguardo vagasse
fino alla sottile trina di nuvole sopra
di me. Le mie sorelle sembravano
convinte. Magari questa volta ci
avevano azzeccato. — Bene. Mi
metto in viaggio domani.
— No — disse Maris. — Non c’è
tempo per venire a nuoto. Prendi
l’aereo.
Riagganciò prima che potessi
protestare.
Rovesciai la testa indietro, fin
dove il collo me lo permetteva,
assorbendo
gli
ultimi
raggi
ultravioletti.
I
polpastrelli
affondarono nel corallo mentre li
immaginavo attorno al collo di Jason
Hancock, per trascinarlo sott’acqua e
osservare le ultime bolle uscirgli
dalla bocca.
Un trillo di voci femminili mi
strappò alle mie fantasie. Guardai
oltre il muro di cespugli di ibisco e,
come mi aspettavo, vidi il bagliore
dell’emozione pura emanata dalle
loro forme. Distolsi gli occhi dalle
aure color sorbetto all’arancio e
ignorai ancora una volta la tentazione
di uccidere. Le parole di Maris mi
risuonarono in testa: “Uno solo. Ti
farebbe sentire molto meglio.”
Gli antichi miti su sirenette e
sirenetti avevano ribaltato i fatti. Non
eravamo soliti attirare le navi contro
gli scogli. Gli esseri umani erano le
uniche esche lucenti e felici che
catturavano la nostra attenzione.
Possedevano
ciò
che
noi
desideravamo più di ogni altra cosa:
ottimismo, entusiasmo, felicità. Ogni
emozione positiva bastava a
infonderci la furia, costringendoci a
partire alla carica, a catturare, ad
assorbire la gioia dei loro cuori e
portarla nei nostri. Anche un solo
grammo di buoni sentimenti bastava a
concederci una breve tregua dalla
naturale cupezza delle nostre menti.
E le ragazze che si stavano
avvicinando ne promettevano ben più
di un grammo.
Del resto, fin dove volevo
spingermi con questo tentativo di
austerità? Avevo sentito storie di
miei simili quasi morti per
l’astinenza dalle luminose emozioni
umane, denutriti e infelici, e infine
impazziti.
Cominciarono a tremarmi le mani
mentre immaginavo di rapire non una
ragazza sola, ma tutte quante, il tuffo,
l’annegamento, e poi assorbire sotto
pelle le loro aure vibranti – il calore,
la frizzante euforia. Era ciò che
volevo. E sarebbe stato facile
ottenerlo. Poteva essere tutto mio. E
ne era passato di tempo, tanto, così
tanto…
Scossi il capo e attesi che le
ragazze passassero. Non era colpa
loro se mi ero spinto così in basso.
Non meritavano di essere strizzate,
gli involucri vuoti ammucchiati sotto
gli scogli, solo perché avevano
incrociato la mia strada. Le loro
risate svanirono man mano che si
addentravano nell’entroterra.
Appena sicuro di avere qualche
minuto di solitudine, mi tirai
completamente fuori dall’acqua
turchese e mi adagiai sulla roccia. La
trasformazione iniziò prima che
riuscissi a riprendere fiato. Per
prima cosa, la contrazione; poi la
lacerazione, mentre il corpo si tirava
e si tendeva contro se stesso. Le ossa
si spaccarono e si allungarono,
incastrandosi in articolazioni che
fino a poco prima non esistevano
nemmeno. Restai a dibattermi in
silenzio sul corallo, ferendomi le
spalle e digrignando i denti per il
dolore, finché alla fine non mi
rovesciai sul dorso, boccheggiante e
sanguinante sulla roccia.
Mi rimisi in piedi barcollando e
mi vestii alla svelta. Dio, speravo
proprio che Maris non mi
richiamasse a casa così presto per
nulla. Se questo Jason Hancock era
q u e l Jason Hancock, non sarebbe
stata certo una delle nostre classiche
uccisioni. Non avrei voluto assorbire
nulla di ciò che il suo corpo aveva
da offrire. Non avrebbe contato
neppure come esperimento di
autocontrollo. Questa volta si
sarebbe trattato di pura e semplice
vendetta.
Con quella parola che mi gravava
sulla lingua, calai i Ray-Ban sugli
occhi e distolsi lo sguardo
dall’oceano. Era una trappola
inevitabile: giungeva l’ora di tornare
a nord.
2
IL FRATELLO RILUTTANTE
Minneapolis brulicava sotto di noi
mentre
stavamo
sorvolando
l’aeroporto a bordo di un DC-9.
Avevo i quadricipiti paralizzati dalla
disidratazione, e senza volerlo mi
sfuggì un lamento. Meno male che
non cercavo compassione. Tanto
nessuno mi avrebbe sentito con il
rombo dei motori.
Un uomo d’affari barcollò lungo
l’angusto corridoio, urtando con il
grasso ventre le spalle degli altri
passeggeri.
— Chiedo scusa, chiedo scusa —
disse. Un bambino gettò a terra il suo
giornaletto di giochi di parole e la
matita rotolò dalla mia parte.
Slacciai la cintura di sicurezza e mi
sporsi oltre il bracciolo per
raccogliergliela.
— Giochi di parole! Forte —
commentai, appoggiando la matita sul
suo tavolinetto.
Il ragazzino annuì. — Mi serve un
aggettivo.
“Infelice.
Ansioso.
Superincavolato.” — Prova con riluttante
— gli dissi con un sorriso ironico.
Raddrizzai le gambe e spazzolai via
le briciole dei salatini dai pantaloni.
— E come si scrive?
Lo scrissi io per lui, poi respirai a
fondo con il naso. L’aria secca e
stantia, intrisa dell’alito e della
puzza di sudore delle persone, mi
filtrò nei polmoni. Dallo zaino presi
una bottiglietta di plastica e strizzai
le ultime gocce d’acqua nella bocca
arsa. Secondo il mio orologio, ero
asciutto da diciannove ore. In passato
avevo raggiunto il limite di
ventiquattro. Maris mi aveva sempre
avvisato che oltre non si poteva
andare, e io non avevo mai sentito la
necessità di sfidarla. Almeno, non su
questo punto.
L’assistente di volo era ferma a
poche file da me, intenta a
controllare che fossero tutti pronti
per l’atterraggio. Alzai la bottiglia
vuota e la agitai per farle cenno di
avvicinarsi. Quando mi guardò,
inarcai sarcastico le sopracciglia.
“Ehi, dolcezza. Sì, tu. Un po’ più
svelta, per favore.”
— Posso esserle d’aiuto, signore?
— Una bottiglietta d’acqua.
— Mi dispiace, ma il servizio
bevande è terminato. Abbiamo
iniziato la discesa. — Indicò il
finestrino per convincermi.
Fuori, tracce di neve sporca e
tardiva incrostavano i campi di grano
e i fossati lungo le strade del
Minnesota. Serrai i denti. “Speriamo
che Maris abbia ragione sennò
aiuto…” Già in passato c’era stato un
falso allarme.
Mi passai le dita fra i capelli neri,
tirandone le punte ingarbugliate, e mi
aggrappai ai braccioli mentre l’aereo
toccava terra, con il senso di perdita
di controllo che precede il lento calo
di velocità. Tutti si alzarono ancora
prima che il segnale delle cinture di
sicurezza si spegnesse.
Recuperai dalla tasca del sedile il
berretto da baseball con il simbolo
del villaggio turistico in cui avevo
trascorso l’inverno. Passai le dita sul
bordo consunto, quindi me lo calcai
sugli occhi. Accesi il cellulare e
schiacciai il tasto di chiamata. Maris
rispose al primo squillo.
— Siamo atterrati — dissi. —
Vieni a prendermi. E accidenti,
Maris, al suolo c’è ancora la neve.
— No, non c’è. Adesso rilassati,
fratellino. Non ti abbiamo mica fatto
tornare dal paradiso dei bikini per
nulla. Ne varrà la pena.
— Sicura che questa volta non ti
sbagli?
— Assolutamente sicura. E non ti
avremmo chiamato se avessimo
creduto di farcela da sole. Per quanto
detesti ammetterlo, tu sei superiore a
noi per molti versi.
Feci una smorfia. Non era vero.
Ma non era neppure una falsa
lusinga. Maris sceglieva le parole
come un chirurgo sceglie il bisturi;
nonostante avessimo passato tutto
quel tempo distanti, lei sapeva
sempre come fare colpo su di me.
Alla sola menzione della parola
superiore, l’impulso di migrare mi
squarciava disperatamente il cuore,
sempre più, come un gancio infilzato
nella carne.
“Sì,
sì.
Arrivo”
pensai,
rispondendo tanto all’impulso quanto
a mia sorella.
Mi alzai, abbassando la testa sotto
la cappelliera. Feci cenno al
ragazzino di precedermi. Lui
trascinava e sbatteva lo zaino mentre
attraversava il corridoio. Gli
assistenti di volo sfoggiarono una
sfilza di sorrisi sfavillanti al mio
passaggio. Avrei distolto lo sguardo
per evitare ogni possibile attrazione,
ma non irradiavano nessun colore.
Dietro i loro sorrisi non si celava
nessuna vera emozione.
Entrai nella passerella di sbarco,
un vento pungente passava attraverso
le sottili pareti pieghevoli. Avrebbe
potuto benissimo essere gennaio.
Maledissi Maris mentre attraversavo
l’aeroporto per raggiungere il
marciapiede davanti al terminal
Lindbergh. Non c’era ragione di
fermarsi al ritiro bagagli. Tutte le
mie cose le avevo addosso o nello
zaino: pantaloni, bermuda, sandali
consumati, felpa, due T-shirt logore,
un orologio da immersione, cellulare
e berretto da baseball. Le mie sorelle
possedevano qualcosa in più, ma non
molto. Viaggiavamo tutti con poco
bagaglio.
Tesi le braccia lungo i fianchi e
cominciai a saltellare, spostando il
peso da un piede all’altro per
riscaldarmi. Ogni trenta secondi
guardavo l’orologio. Non sapevo se
sarebbero venute a prendermi in
auto, ma le riconobbi all’istante,
appena scorsi una vecchia Chevy
Impala sgusciare attraverso i veicoli
in fila, praticamente fermi. Mi
domandai,
mestamente,
dove
l’avessero sgraffignata. Sembrava in
buone condizioni, di gran lunga
migliori di quelle della Dodge Omni
dell’estate precedente. Probabile che
il proprietario fosse da qualche parte
a scervellarsi, vittima dei poteri
ipnotici di mia sorella. Sapeva di
aver perso qualcosa. Ma cosa?
Tallulah e Pavati avevano
abbassato il finestrino, tenevano la
testa fuori e mi sorridevano. I lunghi
capelli
neri
di
Pavati
le
svolazzavano intorno al viso come
onde ribelli; i capelli più corti di
Tallulah erano lisci come spesse
tende dorate. Scossi il capo fingendo
disgusto per la loro passione per gli
oggetti rubati e salii dietro con
Tallulah, che mi diede un energico
bacio sulla guancia.
— Non ce l’avrei fatta ad
aspettare un minuto di più — disse.
— Mi sei mancato davvero, davvero
tanto.
— Anche tu, Lullah — dissi. Era
quasi la verità.
Maris si buttò indietro i capelli
biondissimi. — Sì, sì. Bacio, bacio.
Adesso datti una calmata. Dobbiamo
parlare di questioni serie, e mi serve
un caffè.
3
LE SORELLE WHITE
Tallulah voltò le spalle al barista del
Daily Grind e con passo lieve venne
al nostro tavolo. Fra le lunghe dita
teneva in bilico quattro bicchieri di
plastica colmi di caffè. Li posò e ne
prendemmo uno per ciascuno. Maris
si sporse verso di me, poggiando i
delicati avambracci sul tavolo, le
mani intrecciate, le nocche bianche.
Mi scrutò il volto. I muscoli della
mia mandibola si contrassero in
risposta.
— Devi mangiare di più, Calder.
Sei pelle e ossa.
— Sto bene.
— Hai lavorato molto durante
l’inverno?
— Abbastanza. Ma il biglietto
dell’aereo mi ha steso.
— Possiamo coprirti le spese —
disse Tallulah. — Quest’inverno Pav
ha fatto la cameriera a New Orleans.
Ha messo da parte tutte le mance.
Annuii. Non ci serviva molto, ma
ogni tanto i soldi facevano comodo.
Probabilmente Pavati aveva un
piccolo tesoro nascosto nel
bagagliaio dell’Impala rubata. Gli
umani le davano mance come se lei
servisse i segreti dell’universo su un
piatto
d’argento.
Mi
fece
l’occhiolino, tolse il coperchio di
plastica dal suo bicchiere e raccolse
la schiuma con un dito.
Un uomo, seduto a un tavolo
accanto, le fissava la bocca. Come
biasimarlo? Nel bene e nel male, la
natura ci aveva creato per attirare
l’occhio umano, ma Pavati era un
esemplare
particolarmente
splendido, per essere un mostro. A
differenza della carnagione pallida di
Maris e Tallulah, quella di Pavati era
color caramello e sciroppo di
cioccolato. Come una diva di
Bollywood, aveva spalle quadrate,
vita stretta, ciglia lunghe e due occhi
che brillavano di lavanda. Come la
chiamava Maris, l’Esca Perfetta.
Persino io, suo fratello, potevo
cadere nella sua trappola ipnotica e
ritrovarmi a fantasticare su di lei in
modo morboso. Era un’esperienza
umiliante e disgustosa, anche quando
sapevo che lei lo faceva apposta. —
Tanto per ridere — diceva.
“Pavati” brontolai mentalmente.
Forse non ero del tutto innocente
quando si trattava di giocherellare
con le mie vittime prima di
ammazzarle, ma almeno lo facevo
per alleviare le loro paure. Pavati
sapeva
essere
assolutamente
devastante con il suo fascino. Se
questo Jason Hancock era la persona
giusta, non avrebbe avuto scampo.
Pavati studiò il mio umore tetro e
rise fra sé e sé. Maris era meno
divertita dalla depressione in cui mi
ero lasciato sprofondare. Socchiuse
gli occhi. — Questa volta, abbiamo
ragione noi — disse.
— Non voglio pronunciarmi.
— Porta la famiglia a Bayfield,
nella vecchia casa. Che possibilità ci
sono? È questa la famiglia giusta,
Calder. È lui.
Adesso aveva tutta la mia
attenzione, ma cercai di celare
l’euforia solo per farle girare le
scatole. — Diciamo, tanto per
parlare, che tu abbia ragione e che
l’abbiate trovato — dissi. — Come
pensi di concretizzare il piano?
Un sorriso si allargò poco a poco
sul volto di Maris. Pavati sollevò
rapida lo sguardo.
Tallulah spinse la sua sedia più
vicino alla mia e mi prese
sottobraccio. — Non è bello riaverlo
qui? — domandò alle altre due. Mi
diede un bacio sulla guancia e mi
strinse forte la mano; in risposta,
strinsi due volte la sua, prima di
lasciarla andare. Questa immagine
esteriore di una famiglia felice era
una manna per Tallulah. Fossimo
stati noi due da soli, forse questa
famiglia avrebbe funzionato per
davvero. Ma era inutile stare qui a
fare congetture. Non ci saremmo mai
liberati di Maris.
Tallulah si girò verso di lei. —
Diglielo — mormorò.
Maris annuì una volta, felice di
prendere la parola. — Abbiamo
tenuto d’occhio la famiglia per un
po’ — disse. Aveva un luccichio
d’argento negli occhi.
— Lo davo per scontato. — Feci
dondolare la sedia indietro.
— Ha due figlie.
— Molto affezionate al padre —
aggiunse Pavati.
— E quindi? — domandai.
—
Sono loro — Maris si
interruppe per creare un effetto
drammatico
—
il
nostro
lasciapassare.
Dondolai in avanti, facendo
sbattere le gambe della sedia sul
pavimento. — Cavolo, Maris, non ti
pare un tantino… perverso?
Sorrise e si appoggiò allo
schienale. — Grazie.
— Sul serio? — Guardai
speranzoso Tallulah. Lei era
d’accordo? — Dobbiamo rendere la
faccenda più complicata del
necessario? Perché coinvolgere i
figli? Se pensi che lui sia la persona
che credi, perché non lasciare che se
ne occupi Pavati?
— Mi sembra una buona idea —
disse Pavati, rincuorandosi.
Maris alzò gli occhi al soffitto. —
È sposato.
— Allora?
— Molto sposato. Dubito che sia
il tipo che si invaghisce della bella
ragazza acquatica.
Scossi il capo. — È evidente che
non conosci gli uomini.
Maris si protese verso di me. —
Ha ucciso nostra madre, Calder.
— No. Non è stato lui. Il debitore
era Tom Hancock. Suo figlio è solo
secondario.
— Tu sai cosa intendo.
— Cosa ti fa pensare che Jason
Hancock sappia qualcosa della
promessa di suo padre? O le
conseguenze che ha avuto la scelta di
infrangere quella promessa su nostra
madre? E su di noi?
— Ma che dici? — domandò
Maris in tono agitato e incredulo. —
Non vuoi riscuotere il debito?
Mi
avvicinai
a
lei,
incoraggiandola ad abbassare la
voce. — Lo voglio sì. Voglio Jason
Hancock tanto quanto te. Sto solo
dicendo che… se questo Jason
Hancock è veramente il figlio di Tom
Hancock… non c’è motivo di
rendere la cosa più drammatica del
dovuto. Lasciamo che Pavati lo
seduca. Una volta che l’avrà attirato
in acqua, potremo tutti intervenire
per trascinarlo sotto. Così giustizia
sarà fatta. Dolce e rapida. Fatta. Poi,
ognuno di noi potrà riprendere la sua
strada.
— Perché non vuoi restare con
noi, Calder? — domandò Pavati. Il
suo labbro inferiore si piegò in una
posa seducente. L’uomo al tavolo
accanto si leccò le labbra di riflesso.
— Vi siete guardate allo specchio
di recente, voi tre? — In realtà,
guardavo solo Maris. Le estati erano
già abbastanza terribili. L’idea di
passare l’inverno a New Orleans con
le mie sorelle superava ogni limite
dell’immaginazione.
—
Una
congrega di sirene vendicative?
Magnifico.
Gli occhi di Maris guizzarono
elettrici, tanto da far sibilare e
tremolare le luci sopra di noi. Un
ragazzetto foruncoloso, seduto lì
vicino, girò sui tacchi e corse via.
Gli altri clienti alzarono gli occhi al
soffitto.
— Stammi bene a sentire, Calder
White. — Pronunciò il mio nome a
denti stretti. — Non fare scherzi. Fa’
come dico io. E quando sarà finita,
giuro che te ne potrai andare e che
non ti romperemo più le scatole.
— Maris! — la implorò Tallulah.
Maris la liquidò con un gesto
della mano. — Che ne dici, Calder?
La tentazione era forte. Ero stato
con le mie sorelle da quando avevo
tre anni. Da allora in poi, ero rimasto
legato a loro, le nostre menti erano
collegate da un filo invisibile che
non potevo recidere. Alla morte di
nostra madre, Maris divenne il capo
della nostra piccola famiglia;
soltanto lei aveva il potere di
rendere liberi gli altri.
Se Maris diceva che mi avrebbe
lasciato andare…
No, era impossibile immaginarlo.
Ma se diceva sul serio…
Be’, se avessi mai sentito la
mancanza delle mie sorelle, avrei
sempre potuto cercarle. Ma le
condizioni le avrei stabilite io.
Niente più convocazioni
di
emergenza. Niente più viaggi basati
sul senso di colpa. Niente più
impellenze fisiche di riunirsi a ogni
primavera. L’indipendenza non era
qualcosa di naturale per la nostra
specie, ma io non ho mai sostenuto di
essere venuto alla vita in modo
naturale. E questo Maris non mi
permette di dimenticarlo.
Le dita di Tallulah si serrarono
sul mio bicipite, mentre Pavati
continuava a spostare lo sguardo da
me a Maris.
— Affare fatto. — Queste parole
passarono amare sulla lingua.
Tallulah emise un piccolo suono
soffocato, ma io non la guardai. — E
adesso che facciamo? Sempre che
non abbiate preso una cantonata.
— Tu cercherai di conquistarti
una delle due sorelle — disse Pavati.
— E come?
— Sono certa che troverai il
modo. — Maris si sporse sul tavolo
e mi passò le dita fra i folti ricci. —
Non sei così brutto.
Tallulah si agitò vedendo Maris
che mi toccava.
Pavati rise e scosse la chioma, e
la collana le tintinnò. Alcune gocce
di sudore imperlarono il labbro
superiore dell’uomo alla sua sinistra.
I miei occhi sfrecciarono da quella
parte, ma lui si affrettò a distogliere
lo sguardo.
Pavati si avvicinò, mettendomi un
braccio intorno alle spalle. — Fatti
invitare a casa loro, Cal. — Nel suo
respiro c’era ancora il caldo del
Delta del Mississippi, e le sue labbra
piene mi sfiorarono l’orecchio
quando disse: — Conosci i suoi
genitori. Diventa il suo fidanzato.
Feci di sì con la testa. La
seduzione proposta continuava a
svolgersi come un film nella mia
mente – i finti sorrisi, il bacio
ingannevole…
— Conquista la fiducia di Jason
Hancock — continuò Pavati. — Digli
che non sei mai andato a pesca. Fatti
invitare al lago.
Chiusi gli occhi.
— A quel punto, arriviamo noi —
disse briosa.
Mi immaginai loro tre trasformate
che come squali giravano intorno alla
barca, con i piccoli corpi che
fendevano l’acqua, e scavalcavano
furtive la battagliola.
— E poi?
— Implorerà misericordia. Ci
chiederà perché — disse Tallulah
con la sua voce squillante.
— Noi ce la prenderemo comoda
— sussurrò Pavati.
— Diremo a Jason Hancock
dell’incidente in barca di suo padre
— disse Maris. — Gli racconteremo
come nostra madre riuscì a salvarlo.
— Pagando un caro prezzo —
intervenne Tallulah.
— Gli diremo che suo padre era
debole. E che promise di darle suo
figlio, in cambio della sua miserabile
vita. Gli diremo che nostra madre
acconsentì. Gli diremo che —
continuò Maris parlando a denti
stretti — Tom Hancock può non aver
mantenuto la promessa, ma che lui,
Jason Hancock, appartiene ancora a
noi.
— E lo trascineremo giù. —
Tallulah mi appoggiò la testa sulla
spalla.
— Lentamente — aggiunse Maris.
— Lasceremo che torni su a prendere
aria, ma poi lo ritrascineremo giù.
Scossi il capo.
— E poi, ancora una volta —
disse Pavati. La sua risata leggera mi
fece venire la pelle d’oca sulle
braccia.
— Urlerà — dissi. — Attirerà
attenzione indesiderata.
— Fidati, fratellino — disse
Maris. — Quando arriverà qualcuno,
lui se ne sarà già andato da un bel
pezzo.
4
LILY HANCOCK
Maris imboccò una strada tranquilla
di
South Minneapolis,
fece
inversione e parcheggiò sul ciglio
della strada, a pochi edifici di
distanza da una casa a due piani in
stile Tudor con il cartello VENDESI in
giardino, e un furgone per i traslochi
davanti all’ingresso. I miei occhi si
concentrarono sul nome stampigliato
sulla cassetta delle lettere: HANCOCK.
— Coraggio — disse Maris. —
Vediamo cosa ne pensi.
Esitai. Non era proprio nel mio
stile fare irruzione nelle altrui
dimore.
— Ascolta, fratellino. Se non lo
scoprirai da te, mi toccherà starti a
sentire mente ti lamenti finché non
arriviamo a nord. Entra in quella
casa. Controllali. Se non sei convinto
che sia l’uomo giusto, allora… ce ne
occuperemo quando sarà il momento
opportuno.
Le rivolsi un secco cenno del
capo e scesi dall’auto. La strada era
costeggiata da filari di aceri in fiore.
A parte la frenetica attività del
furgone dei traslochi, non si sentiva
volare una mosca.
Mi mossi di soppiatto lungo lo
steccato dei vicini e lo scavalcai,
atterrando silenzioso nel cortile degli
Hancock.
L’erba
gialla
mi
scricchiolava sotto i piedi mentre mi
avvicinavo lentamente alla porta di
servizio. Aprii uno spiraglio e
sgattaiolai dentro. Non ricordavo
l’ultima volta in cui ero stato in una
vera casa, ma la cucina – spoglia dei
suoi arredi – era stranamente
familiare, con le pareti gialle e il
lavello argenteo. Ma mentre cercavo
a fatica di recuperare dal buio
qualche ricordo, fui travolto
dall’odore della candeggina, che mi
fece arricciare il naso.
Mi intrufolai nelle stanze vuote,
alla ricerca di indizi che
confermassero che Maris aveva
trovato i veri Hancock, ma dentro
non c’era rimasto molto. Vicino alla
porta d’ingresso c’erano alcuni
scatoloni accatastati con scritto
STAMPE E COSE DI MAMMA . Un altro
scatolone, con l’etichetta ALBUM
FOTOGRAFICI, mi fece fermare. Lo
aprii con cura e sfogliai l’album in
cima alla pila. Dopo tre pagine,
trovai una foto di famiglia. Il padre
mi fissava da quella felice
composizione. Che fosse il figlio di
Tom Hancock?
Richiusi lo scatolone e andai alle
finestre del salotto, mentre uno dei
traslocatori spingeva una sedia a
rotelle sullo scivolo del furgone. Un
altro uomo dava istruzioni su dove
metterla. Prima che potessi prendere
in considerazione il secondo uomo,
le assi di legno mi scricchiolarono
sopra la testa. Sapevo che stavo
tirando un po’ troppo la corda, ma la
curiosità era forte.
Avanzai furtivo lungo la parete,
salendo con cautela, controllando
ogni passo, evitando cigolii, finché
non giunsi alla prima camera, sulla
cui porta c’era ancora un cartello
scritto a mano. LILY, diceva.
All’interno si muoveva qualcuno,
producendo tintinnii e lasciando
cadere oggetti su una superficie dura.
Sgattaiolai dentro e mi nascosi
nell’armadio, in modo da non urtare
le grucce di metallo e regolando le
asticelle dell’anta con il dito. Mentre
guardavo dalla fessura, i miei occhi
guizzavano per la stanza. Segni
profondi indicavano il punto in cui
prima si trovava il letto. I muri erano
rovinati da rettangoli più scuri e
frammenti di nastro adesivo. La porta
del bagno era socchiusa, e
un’adolescente era china sul ripiano
bianco, protesa verso lo specchio.
“Deve essere Lily” pensai mentre la
studiavo: altezza media, ricci biondo
rame che le ricadevano morbidi sulla
schiena.
La ragazza avvicinò la punta di
una
matita
nera
all’angolo
dell’occhio e tirò una grossa linea
lungo le ciglia. Rise a un pensiero
tutto suo e ripassò la matita per
ingrossare il tratto. I miei occhi
erano fissi sul suo fondoschiena,
rotondo e attraente sotto una
minigonna nera, e le budella mi si
attorcigliarono come un serpente in
un barattolo.
La ragazza tornò nella stanza da
letto, a pochissimi centimetri dal mio
nascondiglio. Posò a terra una borsa
di velluto verde e si sedette per
allacciarsi gli anfibi malridotti,
calzati sopra un paio di collant color
prugna. I suoi colori vivaci e i
capelli biondo rame mi ricordavano
un dipinto a olio dell’epoca classica.
Memorizzai
ogni
dettaglio,
chiedendomi se dovesse essere lei il
mio obiettivo, desiderando che fosse
lei il mio bersaglio.
Un cerchio della sua pelle
sbucava sul ginocchio da uno strappo
delle calze. Mi ipnotizzò. Grande
quanto una monetina, come un petalo
rosa brillante che galleggia
sull’acqua invernale… Il flusso di
elettricità schizzò dalle mie dita alle
grucce di metallo, con uno lieve
schiocco. Ci fu un lampo, e mi voltai
di scatto. Ero ancora teso come una
corda di violino. Dio, ma che ci
facevo qui
dentro? Regolai
nuovamente le asticelle dell’anta per
vedere meglio.
Una ragazzina più bassa – sua
sorella? – era ferma sulla soglia. Era
più giovane di quanto mi aspettassi.
Piccola, con riccioli biondi. Lo zaino
rosa, parzialmente aperto, traboccava
di libri e bambole. Storse la bocca e
guardò la sorella.
— Che ti sei messa? Sei proprio
strana.
La ragazza più grande arretrò ma
non rispose.
La più piccola si appoggiò allo
stipite. — Mi hai sentito? — disse.
— Che strana. Perché ti devi
conciare in quel modo?
Mi parve di vedere la sorella
grande soffocare un sorriso.
— Sai che ti dico? “Strana” è
esattamente il modo in cui volevo
apparire. Grazie, Sophie.
— Se mi rovini la possibilità di
farmi nuovi amici, io ti ammazzo.
La ragazza più grande finì di
allacciarsi lo stivale destro e questa
volta sorrise per davvero. Sorrisi
anch’io. C’era qualcosa nelle
minacce di morte della più piccola
che solleticava il mio lato più
oscuro.
— Allora cercherò di non farti
diventare la reietta sociale di North
Woods — disse.
La più piccola emise uno sbuffo
esasperato mentre l’altra si chinava
per raccogliere un libro da terra. La
camicetta si sollevò, mettendo a nudo
la parte bassa della sua schiena.
— Oh, mio Dio, Lily! Ma quello è
un tatuaggio? Adesso lo dico a
mamma e papà.
La ragazza di nome Lily si
abbassò la camicetta e si raddrizzò.
Voltandosi verso la sorella, disse: —
No, non glielo dirai.
— Perché no?
Mise le mani sulle spalle della
sorella. — Perché non mi faresti mai
una cosa simile, e io non la farei mai
a te.
Sophie Hancock abbassò il mento
e guardò a terra. Attesi che
scoppiasse a ridere e che corresse
dai genitori. Invece, rimase ferma
dov’era. Non capivo. Le mie sorelle
avrebbero colto al volo l’occasione
per rendermi la vita difficile. Persino
Tallulah, in una delle sue giornate
nere.
— D’accordo. Non dirò niente.
Ma tanto lo scopriranno lo stesso.
Lily Hancock annuì. — Per allora,
avrò trovato un modo per farglielo
digerire.
Sophie si voltò e la guardai andar
via, analizzandola da un punto di
vista strategico. Era più piccola,
forse più facile da manipolare.
Dovevo ripensare una nuova tattica.
Adesso, a parte Lily Hancock, e
me chiuso nell’armadio, la stanza era
vuota. Si chinò di nuovo per
prendere il libro da terra. Era
enorme, con la rilegatura allentata e
la copertina piena di crepe. Si aprì a
una pagina bianca eccetto che per una
scritta sbavata, in una calligrafia
vistosa e svolazzante.
Un sacrificio insignificante
Per una persona amata quanto te.
Dubitai che la destinataria di quel
messaggio fosse lei. Forse era stato
scritto prima della sua nascita. E non
doveva avere più di diciassette anni.
La ragazza accarezzò la scritta
prima di richiudere delicatamente la
copertina e di sfiorare il dorso.
Riuscii a vedere il titolo prima che
lo mettesse nella borsa: Antologia
dei poeti vittoriani. Caspita, era un
libro antico. Cosa le piaceva di
quella roba vecchia? Le mie
riflessioni furono interrotte da una
donna che chiamava dalla tromba
delle scale, così trasalii di nuovo,
rischiando di svelare la mia
presenza.
— Lily, tesoro? — chiamò. — Sei
ancora lassù? È ora. Ti stiamo
aspettando.
— Arrivo, mamma. — Lily
Hancock si sistemò la coda di
cavallo. Abbottonò il gilè di
broccato nero che accentuava la sua
forma a clessidra, poi si mise la
borsa di velluto a tracolla. Dopo
aver gettato un ultimo sguardo alla
stanza, si diresse alla porta. Un
clacson suonò proprio mentre i suoi
piedi varcavano la soglia.
— Insomma, ho detto che arrivo.
E che diavolo!
Quando gli anfibi di Lily
toccarono le scale, mi mossi per
uscire dall’armadio. Ma dovetti
nascondermi di nuovo quando la
ragazza tornò all’improvviso per
staccare il cartello LILY dal chiodo
sulla porta. Rimase a guardare la
maniglia chiusa per troppi secondi
prima di scendere con passi pesanti
le scale. A questo punto, non so cosa
fosse più assordante: la porta di casa
che sbatteva o il cuore che mi
martellava in petto.
Andai alla finestra e appoggiai la
fronte sul vetro. Di sotto, gli
Hancock caricavano le ultime
piccole scatole nel SUV. Il padre
aiutò la madre a sedersi,
assicurandosi che stesse comoda, e
le passò un bastone da passeggio.
Non erano esattamente felici di
andarsene. Si vedeva benissimo. Le
loro aure erano del tutto sfasate.
Ansia, forse. Questo potevo
immaginare, a giudicare dalla luce
verde smorto che avvolgeva l’auto.
Mi chiesi se fossero coscienti di ciò
a
cui
andavano
incontro.
Conoscevano la vera storia della
famiglia Hancock? Se Maris aveva
ragione, le ragazze sapevano che il
loro padre era in pericolo?
Me la svignai giù per le scale,
uscendo dalla porta sul retro. Il cane
di un vicino mi inseguì, con un
ringhio che gli gorgogliava nel petto.
Lo guardai negli occhi e pensai:
“Vattene subito!” Il cane abbaiò e
corse via, lasciandomi alla ricerca di
un posto da cui spiare.
— Si parte — disse l’uomo al
volante, ma senza ingranare la
marcia. — Non riesco a crederci.
Finalmente me ne vado. — Sobbalzai
al suono della sua voce, attutita dai
vetri chiusi della macchina, ma
ugualmente nitida per poterla udire.
Da dietro un albero, ascoltai la
loro conversazione. Quante volte mi
ero immaginato Jason Hancock – la
sua figura che mutava di anno in
anno, mentre da neonato diventava
ragazzo e poi uomo? Il suo volto, i
suoi capelli… la sua voce. Non me
l’ero mai immaginata tanto delicata.
— Sarà un bene per tutti noi —
disse. Non ero sicuro di chi cercasse
di convincere. — Soltanto un cielo
azzurro,
aria
pulita,
acqua
cristallina… — A questo punto, si
interruppe e la famiglia attese in
silenzio che riprendesse a parlare.
Invece, tacque; così Lily Hancock si
sporse in avanti e appoggiò il mento
sullo schienale del sedile.
— L’acqua ce l’abbiamo anche
qui, papà. Minneapolis, la città dei
laghi. Ti dice niente?
— Non essere impertinente! — le
disse sua madre.
— Ma non è la stessa cosa —
ribatté Jason Hancock, scuotendo la
testa. — Il Lago Superiore sembra
più un oceano. Vedrete.
— Lo so — disse Lily, forzando
un sorriso. — Mi dispiace. — Mise
la mano sul sedile del padre. — Sarà
fantastico, ragazzi.
La signora Hancock le accarezzò
la mano, per rassicurarla.
Lily si girò verso il finestrino e i
suoi occhi grigi si trovarono in linea
con i miei. Per un istante, pensai che
mi avesse visto.
Mi rintanai dietro l’albero e
contai fino a cinque prima di
sporgermi un’altra volta. Quando lo
feci, lei aveva smesso di guardare
dalla mia parte; stava scorrendo le
canzoni sul suo lettore MP3 e stava
infilando gli auricolari nelle
orecchie, con un’espressione di
paziente resa sulla faccia.
Jason Hancock fece retromarcia.
Quando tornò a guardare dritto
davanti a sé, ne studiai i lineamenti.
Aveva sicuramente un’aria familiare.
Il vecchio Hancock non l’avevo mai
conosciuto, ma avevo visto il suo
volto nei pensieri di mia madre in
punto di morte: Tom Hancock che
scappava con la sua famiglia,
privandola della giovane vita che le
aveva promesso; lei in corsa sulla
riva, all’inseguimento della sua
auto sul lungolago.
I pezzi del mosaico si
incastravano
alla
perfezione.
Quest’uomo, a differenza degli altri
che mi avevano mostrato le mie
sorelle, era effettivamente il figlio di
Tom Hancock. Non avevo dubbi. Le
mie dita si piegarono, quindi si
chiusero in un pugno.
Il SUV passò davanti alle cassette
delle lettere, puntando verso la
strada. Allo stop, Hancock inserì la
freccia e svoltò a destra.
Maris diede due colpi di clacson.
Le feci un gesto sconcio e tornai di
corsa alla macchina. Tallulah aprì lo
sportello e le scivolai accanto.
— Allora? — chiese Pavati. Si
attorcigliò un ricciolo nero intorno al
dito indice, con gli occhi lavanda,
appassionati e nervosi, puntati nello
specchietto retrovisore.
— Allora? — ripeté Tallulah.
Guardai le labbra di Maris
tendersi in una lunga linea retta. Gli
occhi erano d’argento, entità senza
anima. Per quanto fossi anch’io
ansioso di mettere fine a questa
ossessione per gli Hancock, lei era la
più maniaca di tutti. Presi in
considerazione la possibilità di
giocare con i suoi nervi, ma ebbi un
inaspettato moto di compassione. —
D’accordo. Sono convinto.
Le ragazze proruppero in uno
scroscio di risa che mi fece trasalire.
Quando si trattava del risultato che
tanto volevamo ero dalla loro parte,
ma non riuscivo ancora a
condividere i loro metodi. Certo,
avevo immaginato molte volte di
uccidere Hancock, ma non era mia
intenzione prolungare la tortura.
Soprattutto se non sapeva nulla della
promessa fatta dal padre. Comunque,
nonostante ignorasse tutto, noi
dovevamo pur sempre ammazzarlo.
Ma senza farlo soffrire. E più ci
pensavo, più mi convincevo che
Hancock non sapesse nulla. Perché
altrimenti si sarebbe trasferito di
nuovo sul lago con la famiglia?
— Lui non sa niente — sghignazzò
Maris. Io annuii. Il fatto che non
sapesse nulla rendeva le cose più
facili. Anzi, sembrava tutto un po’
troppo facile. Forse era questo che
mi metteva addosso un certo
nervosismo. Se ci fossimo rilassati
troppo, se avessimo dato troppo per
scontato, avremmo commesso degli
errori stupidi.
Maris ingranò la marcia e mandò
su di giri il motore; le gomme
scricchiolarono, lasciando lunghi
segni neri sulla strada altrimenti
tranquilla.
5
IL VIAGGIO
La luce e l’ombra guizzavano come
fiamme sotto le mie palpebre mentre
sonnecchiavo sul sedile posteriore
dell’Impala. Non ero molto curioso
di sapere dove ci stesse portando
Maris.
Eravamo
creature
abitudinarie. Tempo pochi minuti e
saremmo stati al fiume Gorge, sotto il
vecchio mulino di Pillsbury.
Avremmo lasciato l’auto e seguito il
Mississippi verso sud, fino al punto
in cui confluisce il fiume Saint Croix,
poi verso nord fin dove possibile.
Avremmo macinato a piedi l’ultima
trentina di chilometri fino al Lago
Superiore.
Feci un respiro assonnato e
lasciai che Tallulah mi sprofondasse
accanto; qualche minuto dopo, però,
Maris interruppe quell’attimo di
piacere fermandosi di colpo in un
parcheggio. Andai a sbattere contro
il suo poggiatesta.
Tallulah si tirò su a sedere e, per
un istante, restammo tutti a guardare
fuori dal finestrino. Dall’altra parte
del fiume, la città di Minneapolis
brillava di freddo vetro e acciaio, gli
edifici stretti fra loro quasi fossero
alla ricerca di un po’ di tepore.
Mi trascinai giù dalla macchina e
seguii le mie sorelle lungo il sentiero
tortuoso che passava sopra i
ponticelli traballanti. Maris portava
la nostra borsa ed era in testa al
gruppo. Arrivati in fondo, i miei
piedi sprofondarono nel suolo saturo.
Un airone blu tentava di guadare le
secche sotto il ponte di Stone Arch.
Dopo le piogge invernali, il fiume
era così gonfio da ricoprire i tronchi
degli alberi sulla sponda. A parte gli
uccelli, in giro non si vedeva
nessuno. Ottimo. Era impossibile
denudarsi in pubblico; per non
parlare del processo di metamorfosi.
Maris si passò la borsa sopra la
testa e la posò a terra accanto a sé.
Entrò nel fiume. L’acqua le lambiva
le caviglie. Spinse in avanti le spalle
e si incurvò. La lunga gonna di Pavati
si trascinava nell’acqua. Al centro
del fiume c’era un’anatra che
allungava il collo e si scuoteva il
freddo di dosso. Catturò la mia
attenzione. Se le anatre potessero
lamentarsi…
— Sapete che vi dico? Lasciamo
stare — dissi. — Non lo faccio. Non
così presto. Non esiste.
Tallulah rimase sbigottita, mentre
Maris e Pavati si voltarono
lentamente a guardarmi.
— Se solo non avessi fretta…
Credi che aspettare ancora qualche
settimana ti ucciderà? — Odiavo
comportarmi in modo infantile, ma
odiavo anche il freddo. Insomma, il
freddo lo odiavo sul serio. Maris
alzò le sopracciglia come a dire che i
ragazzi grandi non dovrebbero
comportarsi in questo modo.
— Fa sempre freddo — disse.
— Davvero? Hai mai nuotato in
questo fiume, in questo periodo
dell’anno? — Indicai concitato il
corso d’acqua gonfio.
Maris mi guardò come se fossi un
bambino petulante.
— Quando si tratterà di Hancock
farò tutto quello che dici, ma in
questo fiume io non ci metto piede,
Maris. Puoi riportare le mie chiappe
a nord.
Tallulah si sporse verso di me,
appoggiandomi la mano sui reni. —
Oh, dai — disse a Maris. — Credo
che in questo momento ci serva un
compromesso. E tenere l’auto
potrebbe tornare utile.
Pavati guardò Maris per avere
indicazioni, e Maris soppesò
l’espressione implorante di Tallulah.
Capitolò con un cenno del capo, e
Pavati fece spallucce. Si strizzò
l’acqua dalla lunga gonna e raccolse
la nostra borsa.
Tornammo alla macchina e
quando Maris la fece partire con uno
scatto, Tallulah appoggiò la testa al
finestrino e disse: — Vacci piano —
anche se non era chiaro a chi fosse
destinato il suo rimprovero.
Un flusso di oscenità sgorgava
sottovoce, costante, dalla bocca di
Maris. Non avrei mai vinto questa
battaglia senza Tallulah, cosa che
aveva messo Maris di pessimo
umore. Per fortuna, aveva deciso di
riservarmi il suo silenzio. Ottimo. Mi
dava il tempo per riflettere.
Pavati mi passò una scatola di
cracker e una bottiglia d’acqua, e a
fior di labbra le dissi: — Grazie. —
Erano ormai passate ventitré ore dal
momento in cui mi ero immerso
l’ultima volta, e avevo bisogno di
trattenere più umidità possibile. La
pelle si stava già tirando intorno agli
zigomi. Misi la scatola di cracker fra
le ginocchia, affondai la mano
distratto e iniziai a bere avidamente.
La prima decisione: a quale
sorella Hancock sarebbe stato più
facile arrivare? Quale di loro era più
legata al padre? La minore era
piccola di corporatura, forse debole.
Mi tornò alla memoria ciò che aveva
detto alla sorella, che voleva farsi
dei nuovi amici. Io potevo essere uno
di loro. Ma forse sembravo troppo
maturo. Lo scopo era avvicinarla,
non respingerla.
Secondo i criteri degli umani
avevo circa diciotto anni, quindi
sembravo più vicino all’altra sorella,
per
l’età.
“Lily”
pensai,
immaginandomi il cartello sulla
porta. Sarebbe stato più sensato, e lei
era sicuramente la più affascinante
tra le due. Inoltre, era abbastanza
grande perché potessi impiegare con
lei i miei metodi più evoluti.
Immaginai le mie dita scorrerle sul
collo, sulla spalla, sul braccio,
mentre le cingevo la morbida vita.
Ingoiai il groppo che mi stava
salendo in gola. Ma lei era davvero
così legata al padre da portarmi da
lui?
Le
preferenze
personali
passavano in secondo piano rispetto
agli aspetti pratici. Decisi, dunque,
di dedicarmi alla sorella minore. Ci
avrei scommesso qualunque cosa:
era lei la cocca di papà. E sarebbe
stato anche più facile manipolarla.
Sorrisi compiaciuto. Non sapevo
nulla su Pavati e i suoi metodi con gli
umani, ma avevo anch’io i miei
trucchetti. Avrei fatto il fratello
maggiore. Trovato un interesse
comune. Le bambole? Sbuffai e
Tallulah si tirò su a sedere
velocemente per vedere cosa non
andasse.
— Va tutto bene — le dissi. Un
istante dopo, il cellulare cominciò a
vibrarmi in tasca. Lo presi e vidi un
messaggio di Tallulah. Mi guardò
inarcando le sopracciglia e io le
scoccai uno sguardo perplesso.
LU: Vuoi
parlare?
La guardai di nuovo e lei rovesciò
maliziosa la testa in direzione di
Maris. Oh. Ecco, dunque, di cosa si
trattava. Davvero non avevo voglia
di parlare di me e Maris. Tallulah
avrebbe cercato di distogliermi
dall’argomento.
CALDER: Nn mi farai cambiare idea.
LU: Nn posso nemmeno provarci?
CALDER: Tu nn sai com’è.
LU: Scommettiamo?
CALDER: x te è un’altra
cosa – Io
SONO diverso.
LU: Nn ti ho mai visto come 1
diverso. Solo Maris. Devi
smetterla di pensarla così.
CALDER: Troppo tardi, nn importa +.
Mi offre una via d’uscita.
Accetto.
Tallulah si voltò di nuovo verso il
finestrino e appoggiò la testa al
vetro. La strada procedeva dissestata
verso nord attraverso le sonnolente
cittadine del Wisconsin – alcune
poco più grandi del loro nome scritto
sui cartelli – e superando campi di
grano arati, negozi di articoli per la
caccia e caseifici. Il cellulare vibrò
di nuovo.
Nn xmettere a Maris di avere
tanta influenza su di te. Nn puoi
farcela da solo.
CALDER: Aspetta e vedrai.
LU: Quindi, cosa…???? Dopo l’estate
resterai alle Bahamas x tutto
l’anno?
CALDER: Hai 1 idea migliore?
LU: Sì. Una. Resta con noi. : )
LU:
CALDER: Lascia
perdere. >: (
Tallulah si chinò e si mise il
telefono fra le ginocchia. I pollici
volavano sulla tastiera.
LU: Non tornerai più?
CALDER: L’idea è questa.
LU: A ME NON PENSI?
CALDER: ?????????
LU: Fanculo, Calder.
CALDER: Puoi venirmi a trovare.
Tallulah si sedette dritta,
accigliata, e mi diede un pizzico sul
petto. Forte. Sapevo di essere stato
ingiusto. Si sarebbe sempre sentita
costretta a seguire Maris nella
migrazione a nord, proprio come me
(per adesso). Forse era la mentalità
del gruppo così comune nei pesci.
Forse, si poteva chiamare in molti
altri modi. Per me, poco importava.
La verità è che era tutta una
schifezza.
Cinque ore dopo aver lasciato
Minneapolis, intravedemmo il primo
scorcio del Lago Superiore, quello
che gli antichi chiamavano il Grande
Gitche Gumee. Dovevo ammettere
che era un sollievo essere arrivati a
destinazione; un senso di ritorno a
casa e di completamento che nessun
altro corso d’acqua avrebbe mai
potuto procurarmi. I volti delle mie
sorelle esprimevano lo stesso
entusiasmo e la stessa speranza.
Pavati tremava con il palmo
schiacciato sul vetro; le nocche di
Maris sbiancarono sul volante.
Tallulah abbassò il finestrino e piegò
la testa al vento.
Restavano ancora poche ore di
luce quando arrivammo a Bayfield.
Quasi tutti i giardini erano una
macchia gialla di narcisi, e molti
negozi erano ancora chiusi per la
stagione. Maris parcheggiò vicino ai
giardinetti in fondo a Dock Road. Il
sole era sospeso sugli alberi come
un’arancia matura.
Inspirai e assorbii gli odori
familiari del mio nuovo ambiente:
pesce marcio, griglie al carbone, e
linfa di pino. Dall’odore si intuiva
che il canale non si era congelato del
tutto durante l’inverno, ma la
temperatura era sicuramente glaciale;
addirittura più bassa di quella del
Mississippi. Il vento che soffiava me
lo garantiva. Non dovevo guardare
Maris per capire che il mio senso di
disagio le procurava un godimento
immenso. Ormai ero a corto di scuse.
Il traghetto delle cinque e mezzo per
l’isola di Madeline era a metà del
canale. La stagione era appena agli
inizi, così poche persone stavano
facendo la traversata, con le auto
sormontate da portabagagli e kayak. I
passeggeri erano in piedi, lungo il
parapetto del ponte superiore, stretti
nelle loro giacche a vento.
Restammo a guardare dalla
macchina, resistendo al fascino
onnipresente dell’espressione felice
degli umani e al bagliore color
lampone che delineava la sagoma del
traghetto.
— Pazienza — disse Maris. —
Restiamo concentrati su Hancock.
Quest’estate dovremmo darci una
regolata. Non voglio che accada
nulla che lo metta in allarme.
Annuimmo. Era impegnativo.
Mantenere
la
concentrazione
sull’obiettivo era il Compito Numero
Uno.
Mi pentii di non avere ucciso
nessuno quando ero ancora alle
Bahamas.
Era
uno
stupido
esperimento – vedere per quanto
tempo avrei resistito – e cosa avevo
ottenuto? Alla fine, niente. I fili
troppo familiari della depressione
cominciavano già a tirarsi nelle vene.
Avrei potuto ricorrere alla dose
emotiva garantita da una vita umana;
in particolare adesso che ero
bloccato con Maris ventiquattro ore
al giorno, sette giorni su sette. Chiusi
gli occhi, escludendo i passeggeri
del traghetto dalla mia vista, mentre
ripetevo il mantra: “concentrati,
concentrati, concentrati.”
6
TRASFORMAZIONI
Restammo seduti per più di due ore
nell’auto parcheggiata, a guardare
fuori dai finestrini, quasi senza
parlare. Ogni tanto uno di noi
lanciava un’occhiata a Maris, per
sapere se fosse il momento più
sicuro per uscire. Avevo i muscoli
tesi in previsione del trauma, ma a
questo punto il mio corpo desiderava
l’acqua, a prescindere dalla
temperatura. Erano passate trenta ore
dalla mia ultima immersione. Era una
situazione nuova per me, e Maris mi
studiava incuriosita dallo specchietto
retrovisore. Ai miei piedi c’erano
una decina di bottiglie d’acqua vuote.
Ne avevo bevuto solo metà; il resto
l’avevo versato direttamente sulla
pelle.
Fuori dal mio finestrino, alcune
barche a vela coperte stavano
all’asciutto. Fissavo il nome su una
delle prue scoperte. KISMET. Era
quella?
Da quando, piccolissimo, ero
caduto dalla barca dei miei genitori,
mi ero sforzato di ricordarne il nome.
All’epoca non sapevo leggere e
questo rendeva ancora più difficile
ricordare. Il mio unico ricordo era la
forma vaga delle lettere. Forse una
K? Oppure una R? Al contrario di
me, le mie sorelle erano nate così.
Invidiavo le loro menti tranquille,
che non si opponevano mai alla loro
natura, che non avevano mai l’assillo
di un dubbio.
Quando il cielo si oscurò, infine,
Maris fece un cenno e ci
precipitammo tutti fuori dall’auto.
Era la sera di un giorno feriale e il
parco era finalmente deserto.
Tuttavia, non potei fare a meno di
guardarmi alle spalle per assicurarmi
che fossimo soli. Le ragazze non se
ne preoccuparono. Si stavano
spogliando, infilando i loro vestiti e i
cellulari sotto il sedile della
macchina. Maris afferrò la sacca di
tela e se la mise a tracolla sul petto
nudo.
— Ti abituerai, Cal — disse
Tallulah; nel suo tono freddo si
sentivano ancora gli scampoli dei
nostri ultimi messaggi. — Ti abitui
sempre.
Pavati mi fece l’occhiolino. —
Nuota veloce. Ti scalderai.
Eravamo tutti nudi, ora. Il vento
mi fece drizzare i peli sulle braccia.
— Provate a prendermi — dissi.
Corsi sull’erba fino al molo, saltai
sulla balaustra e mi tuffai, staccando
le mie sorelle di appena mezzo
secondo.
Mentre fendevo con le mani il
superficie del lago, la temperatura
gelida mi tagliò la pelle, come
migliaia di lame. Il cuore si
contrasse e feci una smorfia di
dolore. Fiori bianchi di luce brillante
sbocciarono nel mio campo visivo.
L’acqua mi riempì le orecchie con un
fischio metallico. Freddissima, mi
invase i polmoni e feci il mio primo
respiro profondo dopo quelli che mi
erano parsi secoli, gustandone la
pienezza. Nonostante il cielo
notturno, sotto la superficie la luce
rimbalzava e giocava tra le dita e
intorno alle braccia. Mi accorsi
appena della mia temperatura
corporea: si era abbassata per
corrispondere a quella del lago.
Arrendendomi
all’inevitabile,
rilassai i muscoli e mi spinsi a
gambe unite, con un movimento
fluido, godendomi la sensazione di
scioglimento che vibrava e pulsava,
mentre il fremito del cambiamento mi
invadeva il corpo. Le cosce prima mi
pizzicarono, poi mi bruciarono, con
la metamorfosi che avanzava,
annodandomi le ossa, lacerandomi la
pelle con le squame e la pinna.
Come sempre, Pavati si trasformò
prima di tutti e schizzò in avanti con
una velocità notevole. La sua coda
blu cobalto mi balenò in faccia. —
Esibizionista! — scherzai, e sentii
una risata sottile in risposta.
Tallulah mi nuotava accanto,
aspettando
che
finissi
la
trasformazione. Un anello metallico
argentato le comparve intorno al
collo, così come sapevo sarebbe
comparso sul mio. La sua metà
inferiore era già coperta di squame,
simili a lustrini d’argento.
Maris ci sfrecciò vicino senza
degnarci di uno sguardo; la sua coda
snella color onice non era più di
un’ombra.
Le
ragazze
si
trasformavano sempre prima di me.
Erano nate così; in più, non si
spingevano mai tanto a sud come me.
I loro corpi non impiegavano mai
molto ad acclimatarsi.
Il mio corpo si gonfiò e con un
forte colpo delle gambe la mia coda
si era formata del tutto. Assaporai la
libertà – ero più che mai vicino a
essere felice – e schizzai come un
missile nell’acqua sempre più
profonda.
Tallulah e io avanzammo sul
fondale sabbioso, alla ricerca di
eventuali pericoli. Era ancora troppo
presto perché ci fosse abbastanza
vegetazione, così ci tenemmo lontani
dalla rotta del traghetto. Sarebbe
bastata una sola persona affacciata
sul ponte per far scoppiare uno
scandalo. Di solito, questo voleva
dire più scocciature per il testimone
che per noi. La gente non vedeva di
buon occhio gli avvistamenti di
sirene. Ma non c’era bisogno che alle
orecchie di Hancock arrivassero
queste voci; soprattutto nella remota
eventualità in cui conoscesse la
storia di suo padre.
Mentre fendevo l’acqua buia,
costellazioni di minuscole particelle
mi scorrevano intorno. Alle mie
orecchie piacevano gli schiocchi
delle trote di lago e le intense
vibrazioni delle barche in lontananza.
Schizzai oltre alcuni tronchi
sommersi per rincorrere uno
storione. La sua pelle ruvida mi
ricordava gli squali tigre con cui
avevo giocato solo il giorno prima.
Gli passai le dita sulla testa piatta e
sulla schiera di bitorzoli spinosi del
dorso. Era giovane, grande appena la
metà di me.
Tallulah mi tirò per un braccio,
trascinandomi in un’altra direzione.
Distolsi gli occhi dal mio pesce e
capii per quale motivo: una fila di
reti lungo la costa. Con un colpo di
coda, smuovendo la sabbia e
spaventando lo storione, avanzai in
senso perpendicolare rispetto alla
rotta originaria. Tallulah non si
staccò mai dal mio fianco.
Seguimmo la linea distante
dell’Isola di Madeline, superandone
la punta settentrionale. Tallulah mi
guardò scherzosa, sfidandomi a una
gara. Girammo intorno a Madeline
per due volte prima di dirigerci
verso il punto in cui eravamo soliti
campeggiare sull’Isola di Basswood.
Avrei voluto nuotare ancora un’ora –
diamine, per quanto si era inaridito il
mio corpo avrei potuto nuotare tutta
la notte – ma seguii la scia di
Tallulah, perché se il giorno seguente
avessimo lanciato l’Operazione
Hancock, avrei avuto bisogno di
dormire.
Dopo pochi minuti, il familiare
terreno roccioso di Basswood ci
venne incontro, dandoci il benvenuto
a casa. Quando l’acqua fu troppo
bassa per nuotare, cercammo
un’insenatura tra le rocce e un punto
sabbioso dove poterci trasformare.
Per la prima volta, Tallulah si
allontanò da me, concedendo a
entrambi lo spazio di cui avevamo
bisogno. Costringere i nostri corpi a
tornare in forma umana era una cosa
schifosa, e tanto. Da bambini,
lasciavamo di rado l’acqua; di solito,
il cambiamento ci faceva vomitare
sulla sabbia. In questi giorni, il
peggio che mi capitava erano i conati
secchi.
Quando le ossa iniziarono a
dividersi, inarcai la schiena e mi
preparai al dolore. Contorcendomi
nella sabbia, mi morsi il labbro fino
a sentire il sapore del sangue e
iniziai ad ansimare; i respiri
irregolari mi bruciavano i polmoni.
Un minuto dopo, l’ultimo tremore mi
percorse fino alle dita dei piedi,
mentre sputavo e tossivo.
Tallulah guardò in basso, verso di
me, mentre mi passava accanto.
Strizzò
l’occhio
alla
mia
vulnerabilità, un risultato inevitabile
ora che mi trovavo nudo, incapace di
correre. Alzai gli occhi per guardare
l’acqua che le scorreva lungo le
braccia in piccoli rivoli, cadendo
dalle dita. Le sue gambe nude erano
arrossate per il trauma recente.
Dopo un altro minuto, il mio
respiro si regolarizzò e mi trascinai
sulla sabbia asciutta; ritrovai le
gambe e mi diedi una spinta per
alzarmi. Le mie sorelle sedevano
sulla spiaggia, indossando gli stracci
di cotone ingiallito che avevano
tirato fuori dalla sacca di Maris. Gli
anelli
argentati
stavano
già
scomparendo dai loro colli. Pavati
mi lanciò un paio di calzoncini
logori, mentre alimentava il piccolo
falò con la legna trasportata dalla
corrente. Su uno spiedo, Maris aveva
infilzato il mio amico storione.
7
IL TRASLOCO
Il mattino dopo, mi svegliai prima
delle ragazze. Per alcuni minuti restai
sdraiato sulla sabbia, in silenzio e
senza muovermi, la schiena contro un
masso, la pelle fresca all’ombra
delle querce, mentre il cervello
cercava di ricordare dove mi
trovassi. I discorsi del giorno
precedente iniziarono a farsi strada
nella mia coscienza. Maris si rigirò
nel sonno e mormorò qualcosa di
incomprensibile. Mi alzai e lei rotolò
nel posto che avevo appena liberato.
Bisbigliò di nuovo: — Avrebbe
dovuto tornare.
Con un calcio sollevai la sabbia,
che le sporcò le gambe. — Sono
tornato. Smettila, Maris. — In
risposta, gemette e si raggomitolò.
Il sole stava sorgendo e lanciava
raggi di luce rosata sulle guglie e sui
dettagli di pan di zenzero degli
edifici più antichi di Bayfield. Strinsi
i denti in vista del lavoro che mi
aspettava. Sapevo cosa dovevo fare.
Ma per quanto fossi ansioso di
affrancarmi da Maris e dalla mia
famiglia, la priorità principale
sarebbe stata il cibo, una montagna di
cibo. Anche a questa distanza
riuscivo a sentire l’odore del lievito
e della pancetta che si spandeva in
aria dai vari caffè della città.
Buttai i calzoncini tra i cespugli e
lasciai un biglietto per le mie sorelle
nella sabbia: sto lavorando per voi.
Tre passi lunghi e mi tuffai nel
lago, nuotando nella scia di sole fino
a raggiungere l’acqua alta. Contai i
secondi in silenzio, mentre avveniva
la trasformazione. Fu più rapida
della sera prima, ma diamine,
dovevo lavorare ancora molto sui
tempi.
Una barca da pesca mi passò sulla
testa e approfittai dello scafo per
nascondermi. La sua ombra era larga
e profonda, e riuscii a seguirla fin
dentro Bayfield. Quando virò a sud
lungo la costa, sgusciai sotto il molo,
per arrampicarmi sulle rocce
appuntite. Il mio respiro usciva in
sbuffi grigi e ghiacciati, e chiusi gli
occhi di fronte ai fili delle vecchie
ragnatele che orlavano il fondo del
molo. Contorcendomi, il recente
taglio sulla spalla, che aveva appena
iniziato a rimarginarsi, si riaprì.
L’odore dei panini alla cannella era
l’unica distrazione dal dolore.
Quando passò tutto, mi trascinai
sulla riva, cercando di cogliere le
voci, sentire se c’era qualcuno nei
paraggi, quindi spalancai la portiera
dell’Impala e scivolai all’interno. I
pantaloni e la maglietta erano piegati
sotto il sedile, dove li avevo lasciati
la sera prima. Me li infilai a fatica
sul corpo umido e aggiustai i capelli,
fino a ottenere uno stile volutamente
spettinato. Incontrare gli Hancock
significava
avere
un’aria
presentabile o, in altre parole, stare
in piedi su due gambe, essere in
ordine e, soprattutto, affabile.
Girai la chiave e l’auto tossì e
sbuffò prima di accettare di
muoversi. Andai dritto al Blue Moon
Cafe, con il suo profumo intenso di
burro fuso e caffè che filtrava dalla
porta a zanzariera color blu vivo.
Davanti alla vetrina dell’ingresso
apparve una donna dall’aria materna;
attaccò al vetro il cartello CERCASI
PERSONALE. Quando si ritrasse, entrai
e mi riempii le braccia dei muffin del
giorno prima da un cestino sul
bancone di marmo. Quando stavo per
girarmi, la donna tornò indietro.
Beccato.
— Oh-oh. Chi abbiamo qui? —
Appoggiò sul banco due scatole
bianche di cartone e mi studiò con un
sorriso divertito.
Il nome Hancock era scritto a
pennarello nero sulla scatola in cima
al mucchio. Lasciai cadere la
refurtiva nel cestino e dissi: — Mi
scusi.
Rise e consultò una lavagna
attaccata alla parete. Sembrava una
lista di cose da fare, con poche voci
già spuntate. — Lieta di conoscerti,
Mister Mi Scusi. Sono la signora
Boyd.
— A dire il vero, mi chiamo
Calder White, signora, e mi dispiace
tanto. — Abbassai la voce e la
guardai, fissandola negli occhi;
cercai di trasferire la mia volontà
nella sua mente, rendendo i miei
pensieri suoi. Provai a richiamare
immagini che mi facessero sembrare
affidabile: c’ero io, strizzato in uno
dei suoi grembiuli azzurri, intento a
lavorare alla cassa.
— Sono al verde — dissi — ma
qui c’è un profumo incredibile, non
ho saputo resistere.
Le sue pupille si dilatarono e
ridacchiò amichevolmente. — Ho
appena sfornato una teglia di muffin.
— Posò una mano sulle scatole. —
Devo consegnarli alla vecchia casa
degli Hancock.
— Capisco.
— In questo momento, mio marito
Bill è da loro per spostare un po’ di
roba pesante. Stavo appunto per
raggiungerlo con i dolci. Sai cosa ti
dico? Portaglieli tu; ne aggiungo un
paio per te.
— Affare fatto.
— Aspetta, ti scrivo l’indirizzo.
— Prese una penna e strappò un
foglio dal libretto delle ricevute.
— So dov’è.
Alzò lo sguardo, con gli occhi
ancora spalancati. — Sai dove devi
andare?
— Esatto. — Sollevai le scatole e
mi voltai in direzione della porta.
Peccato che Maris non mi avesse
visto in azione. Mi sarei conquistato
una notte senza i suoi rimproveri.
Avevo mandato giù i due muffin
prima ancora di raggiungere il limite
nord della città, correndo il più
veloce possibile. Dopo circa un
chilometro, rallentai fino ad andare
quasi a passo d’uomo e contai i
boschetti di betulle… Tre, quattro,
cinque… Finché non comparve il
vialetto a me noto. Era come lo
ricordavo, uguale a quarant’anni
prima, con una vegetazione più fitta,
però. Erbacce gialle calpestate e
rimasugli di neve si aggrappavano ai
bordi della strada. Nei solchi delle
ruote si aprivano piccole buche.
Passai lentamente sui dossi
naturali fino ad arrivare alla casa
degli Hancock: due piani di assi
scrostate, con un tetto a punta e un
piccolo portico buio che sprofondava
al centro. Sotto la punta del tetto,
appena sopra il portico, c’era una
finestra quadrata. Un abbaino sul lato
destro della casa si affacciava sul
lago. Le finestre del primo piano
erano chiuse con il compensato. Le
tegole giacevano in cortile, anziché
sul tetto. Il tempo non era stato
clemente.
Lì vicino, Hancock stava ridendo
e dispensava pacche sulle spalle agli
uomini che lo aiutavano, lanciando
sguardi di scuse alla moglie,
appoggiata a un bastone. Per
l’omicidio di Jason Hancock sua
moglie sembrava la miglior
candidata a battermi sul tempo.
Parcheggiai sul margine più
distante, graffiando la portiera del
passeggero con i rami degli alberi.
Un corteo di uomini, donne e
pochi bambini portava scatoloni in
casa, tornava a mani vuote, solo per
prendere un altro carico e ripetere il
viaggio.
Diverse
persone
indossavano le felpe del Northland
College, anche se l’età del college
l’avevano superata da un bel pezzo.
Colleghi?
Hancock
era
un
professore? Non lo avevo mai
considerato nient’altro che una
preda. Qualcuno aveva già faticato
abbastanza da togliersi la felpa e
lasciarla sul retro di un furgone. La
presi e, anche se mi andava un po’
stretta, riuscii a infilarmela lo stesso.
La figlia più piccola degli
Hancock scese con attenzione i
gradini del portico, schivando un
pericolo che io non riuscivo a
vedere. Forse una tavola rotta?
Sembrava ancora più giovane di
quanto ricordassi. Che ruolo avrei
potuto avere per lei? Insegnante?
Eroe? Eroe, forse, sarebbe andato
bene. Avrei potuto attirarla nel
bosco, dove si sarebbe persa al
momento giusto. Dopo una ricerca
infruttuosa, sarei comparso con lei
tra le braccia. In questo modo mi
sarei
guadagnato almeno una
dimostrazione di gratitudine. Per
esempio una gita a pesca sul lago.
Come avrebbe potuto rifiutarsi, Jason
Hancock?
Lily Hancock uscì poco dopo,
indossava la stessa minigonna di
velluto del giorno prima, un cardigan
rosa e un basco giallo. Sorrisi al
ricordo della reazione della sorellina
a questo abbinamento. Lily si fermò
sul portico e posò una mano sulla
balaustra. Ne saggiò la resistenza, ma
la balaustra oscillò. I suoi occhi
scrutarono il soffitto del portico.
Percorsi il vialetto che conduceva
alla casa, con le scatole di muffin in
mano. Dal lago soffiava una brezza
fresca. Lily si pulì le mani sulla
gonna e si abbassò il cardigan. “Non
ha ancora mostrato il tatuaggio”
pensai. Sophie mi notò subito e
sorrise. Mi corse incontro per
salutarmi ma Lily restò sui gradini,
pietrificata. Per un istante pensai che
mi avesse riconosciuto.
— Sei qui per aiutarci? — chiese
Sophie, la voce acuta e speranzosa.
Con la coda dell’occhio vidi che
Lily assisteva sbalordita al mio
scambio di battute con sua sorella.
Un’altra ragazza raggiunse Lily sui
gradini. Tesi le orecchie nello sforzo
di ascoltare in lontananza la loro
conversazione, mentre parlavo con
Sophie.
— Sono qui per consegnare i
muffin — dissi — ma sarò lieto di
darvi una mano.
— E quello chi è, Gabrielle? —
chiese Lily.
— Bene, li porto dentro. Tu puoi
cominciare a prendere qualcosa dal
furgone — disse Sophie. Prese i
dolci e si diresse verso casa.
La ragazza vicino a Lily bisbigliò:
— Non l’ho mai visto prima, ma se
al college mi aspettano ragazzi
come lui, non vedo l’ora di andarci.
Guarda i capelli. E poi, mio Dio,
hai visto che braccia?! Anche se è
ha la felpa, si vede che va in
palestra.
— Va bene, mi metto al lavoro —
dissi a Sophie.
— Lo trovi bello? Forse. Ma
quell’abbronzatura non se l’è certo
fatta da queste parti — disse Lily.
— Chissà da dove viene…
Jason
Hancock
comparve
sull’altro lato del furgone. Guardò in
direzione di Lily e seguì i suoi occhi
fino a me. I nostri sguardi si
incrociarono e io strinsi i denti. Per
parlare, fui costretto a rilassare la
mascella.
— Salve — dissi con finto
entusiasmo. — La signora Boyd mi
ha mandato a consegnare la colazione
per i ragazzi. Pensava anche che
avrei potuto darvi una mano. — La
voce mi tremò e mi schiarii la gola
per riacquistare il controllo. Un
attimo dopo la signora Hancock girò
intorno al veicolo, camminando
cautamente sul terreno irregolare con
l’aiuto di un bastone.
— Grazie mille — disse
Hancock. — Mi chiamo Jason
Hancock. Lei è mia moglie, Carolyn.
Hancock si sporse per stringermi
la mano ma, per fortuna, avevo
appena afferrato uno scatolone. Non
ero sicuro di poter sopportare alcun
contatto fisico. Ero già al mio limite
massimo.
— Calder White — dissi.
— Piacere di conoscerti, Calder
White — disse la signora Hancock.
— È molto gentile da parte tua
volerci aiutare. Sa il cielo quanto ne
abbiamo bisogno. — A questo punto
rise, la voce lieve e tintinnante. Mi
sarebbe piaciuto stringerla a lei, la
mano.
— Conosci le nostre figlie? — mi
chiese Hancock. — Lily è la
maggiore. — Fece un cenno verso il
portico e Lily sollevò incerta una
mano. — Sophie è appena corsa
dentro. Questa era la casa dei miei
genitori.
Annuii e mi sforzai di sorridere.
— Immagino di non essermi reso
conto delle condizioni in cui versava.
— Posò una mano sulla spalla della
moglie e la strinse, come per
scusarsi. — Carolyn ha ragione. Ci
aspetta molto lavoro.
Le sue parole mi arrivavano a
stento. La mente correva veloce,
cercando di ignorare la simpatia che
mi ispirava la signora Hancock e
studiando le alternative per attirare il
marito sul molo. Se avessi eliminato
Hancock da solo, però, senza
coinvolgere le mie sorelle, l’avrei
pagata. Eppure, ci sarebbe voluto
solo un attimo per afferrarlo…
Dovevo
concentrarmi
su
qualcos’altro. Maris voleva una
morte lenta.
— Lei pesca? — chiesi. “Ma che
combini?”
Mi
rimproverai
mentalmente; stavo già fallendo. Non
mi faceva bene stargli così vicino.
Non riuscivo a rimanere lucido.
L’aria era ridotta a un rivolo di
ossigeno. Avevo sempre avuto la
lingua così spessa?
Jason Hancock ridacchiò. — No,
per niente.
Mi incamminai veloce verso la
casa e Hancock mi seguì. Quando sul
portico passammo vicino a Lily, la
guardai di sfuggita. La ragazza di
nome Gabrielle si dondolava avanti e
indietro sui talloni, chiaramente
divertita per qualcosa.
— Ma comunque in casa abbiamo
l’attrezzatura per andare a pesca e a
caccia — proseguì Hancock.
Attraversammo l’ingresso e lui
indicò un’impressionante teca piena
di fucili, sopra il caminetto. — Erano
tutte di mio padre. Io sono più un tipo
da libri. Insegnerò a Northland dal
prossimo semestre.
Posai lo scatolone sul tavolo da
pranzo e mi guardai intorno: sulla
sinistra, un piccolo soggiorno con la
moquette verde rovinata, pannelli di
pino nodoso e un caminetto di pietra;
a destra, una minuscola cucina con il
pavimento scheggiato e la carta da
parati strappata con immagini di
spighe di grano. Sembrava che,
dietro il soggiorno, ci fosse una
camera da letto. Una stretta scala di
legno, aperta su un lato, sorgeva al
centro della casa.
Ai piedi della scala, alcune foto
in bianco e nero pendevano storte
dalla parete. Mi avvicinai, fissando
un volto. Staccai la foto dal chiodo e
tolsi uno spesso strato di polvere.
— I miei genitori — disse Jason
Hancock, schiarendosi la voce. —
Sono sempre vissuti qui da quando si
sono sposati. Io ero ancora piccolo.
— Tom Hancock.
— Giusto — mi disse, sorpreso.
— I tuoi nonni lo conoscevano?
Prima di avere il tempo di
rispondere, le assi del pavimento
scricchiolarono e ci girammo
entrambi verso la porta. Lily era là,
insieme all’altra ragazza che
giocherellava nervosa con i suoi
pantaloncini. Lily si portò una ciocca
di capelli ramati dietro l’orecchio. I
miei occhi seguirono la linea pallida
e lunga del suo collo, ora scoperto.
— Ciao — disse, poi si morse il
labbro inferiore. — Mi chiamo Lily
Hancock. — L’altra ragazza le diede
una gomitata, forte. — Giusto. Lei è
Gabrielle Pettit.
— Il padre di Gabrielle è un
falegname tuttofare. Mi aiuterà ad
aggiustare il tetto — spiegò Hancock,
mentre si passava il burro di cacao
sulle labbra screpolate, poi tornò al
furgone.
— La signora Boyd mi ha chiesto
di portarvi i muffin — dissi. —
Pensavo di restare, se per caso vi
serve una mano.
— Mio fratello è sul retro —
disse la giovane Pettit. — Anche lui
sta aiutando.
— Allora. Vivi da queste parti?
— mi chiese Lily.
— Sì, certo, laggiù. — Feci un
gesto vago e sperai che le bastasse.
Sophie Hancock si affacciò da dietro
Lily e mi sorrise timidamente. —
Bene… Mi sa che andrò a prendere
un paio di scatoloni, allora. —
Nessuno obiettò nulla, così uscii
veloce dalla porta.
— Che Dio sia lodato —
bisbigliò sghignazzando la giovane
Pettit.
Travestii una risata da colpo di
tosse e mi fermai ad aiutare un
gruppo di uomini in difficoltà con un
materasso. Le ragazze tornarono sul
portico; mi sentivo i loro occhi sulla
schiena.
— Pensi che dovrei andargli a
parlare? — chiese Gabrielle. —
Faremmo doppia coppia.
— Quale doppia coppia? —
chiese Lily.
— Tu e mio fratello, io e lui.
— No, non penso. E poi
dovremmo aiutare mio padre, non
combinare incontri.
— Tuo padre ha già chi lo aiuta.
Quando raggiunsi finalmente il
furgone, un tipo emerse dal retro,
tenendo in equilibrio una pila
impressionante di scatoloni. A
giudicare dalla sua somiglianza con
Gabrielle, immaginai che fosse il
fratello. I muscoli erano gonfi sotto il
peso che portava.
— Piantala di fare lo spaccone,
Jack — gridò Gabrielle. — E vedi di
non rompere niente.
— Tranquilla, ho tutto sotto
controllo — rispose lui. Presi
anch’io alcuni scatoloni e seguii Jack
Pettit in casa. Nel varcare la soglia,
mi sembrò che avesse fatto
l’occhiolino a Lily, ma forse me
l’ero immaginato.
Posò gli scatoloni sul bancone
della cucina, facendo cadere a terra
un enorme barattolo. Depositai il mio
carico sul tavolo e rimisi il barattolo
al suo posto.
— Ah, grazie — disse Jack. —
Non l’avevo visto.
— Non c’è problema — dissi.
— Sei un Hancock pure tu? — mi
domandò.
— Figurati. — Quasi scoppiai a
ridere.
— Io lavorerò con mio padre —
disse Jack. — Trasformeremo questo
posto infernale nella topaia che era
prima. — Alzò gli occhi al cielo. —
Sarà
un’estate
davvero
entusiasmante.
Guardai oltre la sua spalla, in
direzione di Lily e Gabrielle,
impegnate ad aiutare la signora
Hancock a riempire una credenza di
tovaglie. Gabrielle colse il mio
sguardo e trascinò Lily verso me e
Jack.
— Già — dissi. — Magari ci
vediamo in giro. — Jack e io
tornammo a prendere altri scatoloni,
raggiungendo la porta nello stesso
momento, con Lily e Gabrielle
appena dietro di noi.
Mentre io e Jack eseguivamo il
balletto del “dopo di te; no, dopo di
te”, ci scontrammo frontalmente. Jack
inspirò stupito a pieni polmoni. Voltò
la testa di scatto per guardare prima
Lily, poi me, e di nuovo Lily. La
tristezza si affacciò agli angoli dei
suoi occhi, prima che anche il suo
viso si rabbuiasse del tutto. Inspirò
di nuovo, trattenendo il fiato.
— Tutto bene, amico? —
domandai, mentre pensavo “Lo sa.
Com’è possibile?” Ma fui costretto a
ridere di me. La paranoia era un
effetto collaterale della mia
astinenza.
Avevo
spinto
quest’esperimento così al limite che
adesso mi trovavo in acque
inesplorate. Mi domandai cos’altro
sarebbe successo.
8
IPOCRITA
Tutti gli scatoloni erano stati portati
nelle rispettive stanze. Posai le
ultime cose di Sophie nella sua
camera al primo piano, dalla parte
del lago. A giudicare dalle pareti
celesti, questa doveva essere stata la
cameretta di Jason Hancock. I muri
conservavano
una
fragranza
persistente, a me stranamente
familiare. Mi sforzai di individuarla,
ma dovetti abbandonare il tentativo.
Aprii uno scatolone e iniziai a
riporre sugli scaffali i libri di
Sophie.
Al piano di sotto, diversi uomini
stavano spostando i mobili più
ingombranti nel soggiorno. Al piano
superiore, dalla camera accanto
venivano le voci dei fratelli Pettit
che discutevano con Lily. Era
difficile escludere tutti quanti e
concentrarsi solo su Sophie,
soprattutto perché i Pettit parlavano
di me.
— Sei sicura di poter lasciare
quel tizio nella camera della tua
sorellina? — chiese Jack. Nella sua
voce si mischiavano preoccupazione
e sfiducia.
— Andiamo, non essere
disgustoso. Non è qui per divertirsi.
Ci sta aiutando con il trasloco,
come tutti gli altri.
— Comunque, non lo vorrei
certo vicino a mia sorella.
Gabrielle scoppiò a ridere. — Mi
si può avvicinare quando vuole.
Amo il pericolo.
Sorrisi tra me e me, e posai sullo
scaffale l’ultimo libro della serie Il
club delle babysitter.
— Calder, mi puoi aiutare con
questo? — chiese Sophie. — C’è
troppo nastro adesivo. Non riesco a
romperlo. — Mi alzai e presi le
chiavi della macchina dalla tasca.
Tagliai il nastro e indicai il
contenuto – perlopiù animali di
peluche – che sembrava appartenere
all’assistente di un mago.
— Dubito seriamente che sia
pericoloso — disse Lily. Il rumore
del nastro che veniva tirato e tagliato
seguì le sue parole.
— Non importa — disse Jack. —
Gliela farei vedere io.
— Nessuna di noi ha bisogno
della tua protezione, Jack — disse
Gabrielle.
— Cosa vuoi attaccare alle
pareti? — chiese Jack. Colsi un
lieve spostamento d’aria, come
quando si toglie di mano qualcosa a
qualcuno.
— Cosa ti piace di più? I panda o
le rane? — chiese Sophie.
— Hmm, cosa? Oh, le rane,
credo.
Mi porse un animale verde di
peluche. — Puoi prendere questo,
allora.
— Sono ritratti di poeti famosi
— disse Lily.
— Sembra un mucchio di gente
morta — ribatté Jack.
— Senti, non fare l’ignorante —
gli disse Gabrielle. Mi giunse il
suono di qualcuno, probabilmente
Jack, che si batteva i pugni sul petto
come un gorilla.
— E poi — proseguì Gabrielle —
come può sembrarti più strano dello
schifo appeso in camera tua?
— Quella è arte — disse Jack. —
E i miei quadri non fanno schifo.
— Come no — disse Gabrielle.
— Sono capolavori.
Sentii passi leggeri in corridoio e
quando alzai lo sguardo, vidi Lily
davanti alla porta di Sophie. Aveva
perso il basco e i capelli erano
spettinati. Mi lanciò un’occhiata
nervosa. — Va tutto bene, qui? —
chiese.
Mi domandai se Jack Pettit non
avesse ragione. Forse mi stavo
comportando con troppa familiarità,
e troppo presto? Avevo sempre
difficoltà a valutare il normale
comportamento umano. “Vacci
piano” mi dissi. “È il momento di
fare un passo indietro.”
Dalle scale, Hancock chiamò i
Pettit. — Gabrielle, Jack, vostro
padre sta per andare via.
Jack fu subito accanto a Lily, i
suoi occhi non mascheravano certo la
sua disapprovazione nei miei
confronti, né la delusione di
doversene andare. Gonfiò il petto
con un respiro e gli tornò
l’espressione confusa di prima.
Stavolta ero sicuro di non essermelo
immaginato.
Mi alzai, lasciando cadere la rana
di Sophie sul letto. — Bene, abbiamo
finito — dissi a voce un po’ più alta
del necessario. — Spero di rivedervi
presto. — “Alcuni più di altri”
aggiunsi mentalmente, facendo a
Sophie un cenno di saluto. Lily
aggrottò la fronte.
— Te ne vai? — chiese Sophie,
stringendosi al petto un orsacchiotto
arruffato. — Di già? — Allargò gli
occhi e sporse il labbro inferiore. —
La rana non la vuoi? — Mi ricordava
una versione più piccola e umana di
Pavati.
— Oh, scusa — dissi recuperando
il regalo. — Certo che la voglio.
Il furgone dei Pettit mi superò
mentre ero diretto alla macchina. Gli
altri traslocatori fecero lo stesso, con
l’aria stanca. Uno di loro si
massaggiò la spalla prima di salire
sul suo veicolo. Un altro cercava
sotto l’auto la felpa scomparsa.
Guidai
per
circa
mezzo
chilometro e parcheggiai nei pressi
di un attracco; dopodiché, tornai
indietro a piedi. Avevo ricevuto da
Maris istruzioni precise: dovevo
imparare il più possibile e il prima
possibile, così mi preparai a studiare
gli Hancock per il resto del
pomeriggio, per vedere cosa
facevano quando non sapevano di
essere osservati.
Seduto tra i rami di pino, spiavo
le finestre da poco riaperte. Speravo
di scoprire qualcosa di importante,
per tenere Maris alla larga per il
resto della notte. Forse mi avrebbe
addirittura lasciato dormire.
Il sole del tardo pomeriggio
disegnava lunghe ombre sul giardino
davanti alla casa degli Hancock.
Faceva freddo in mezzo agli alberi. E
non si sentiva volare una mosca. Gli
Hancock si erano sistemati. La
signora Hancock era in cucina ad
aprire scatoloni. Da un’altra finestra
intravedevo Hancock che montava
una libreria.
Lily era sdraiata sul pavimento
del soggiorno, con le ginocchia
piegate e i piedi incrociati in aria.
Leggeva un libro, ma non voltava le
pagine. Sembrava che leggesse
sempre le stesse righe, muovendo la
bocca. Le stava imparando a
memoria?
Sophie giocava poco più in là.
Ken e Barbie erano in costume da
bagno e nuotavano nella moquette
verde, come se attraversassero un
canale. Quando raggiunsero la base
della teca con i fucili, Ken e Barbie
si trasformarono in scalatori e
cominciarono ad arrampicarsi sugli
sportelli in mogano.
Al di là dei vetri, gli Hancock
vivevano la loro vita, ignari del
pericolo che rappresentavo. Da
qualche parte nel passato, in un
angolo lontano della memoria,
potevo ricordare cosa significasse
avere una famiglia. O qualcosa di
simile, almeno. Mi preoccupava il
pensiero di dover distruggere
quest’immagine di pace. Il dubbio mi
torceva le budella. Forse non ci sarei
riuscito. Forse non ne avrei avuto il
coraggio. Ma se non avessi portato a
termine l’opera, Maris non mi
avrebbe mai lasciato libero.
Ero un vero ipocrita. Perché mi
stava bene distruggere una famiglia,
quando sapevo cosa significava
essere distrutto? “Perché questa è
giustizia” ricordai a me stesso. “Se
lo meritano.”
Mi agitai nel mio nascondiglio.
“Fate qualcosa” pensai “dite
qualcosa.” Il silenzio si trascinava.
Immaginai il mio primo rapporto a
Maris: — Abbiamo sottovalutato i
nemici. Sono letali. C’è il serio
pericolo che gli Hancock ci annoino
a morte. Ripiegare, ripiegare,
ripiegare. — Stavo per ridere delle
mie stesse battute, quando un rumore
di piatti infranse il silenzio. Feci un
salto e mi nascosi meglio tra i rami.
— Carolyn! Stai bene? — Jason
Hancock era scattato in piedi. Le
ragazze si guardarono per un attimo,
prima di corrergli dietro. Mi
arrampicai più in alto per avere una
visuale migliore. Carolyn Hancock
sedeva sul pavimento della cucina,
raggomitolata tra i cocci. Ai suoi
piedi c’era uno scatolone vuoto con
la scritta PIATTI DI TUTTI I GIORNI.
— Pensavo fosse uno dei miei
giorni buoni — mugolò tra le
ginocchia. Lily si chinò vicino alla
madre e aiutò Hancock a farla
rialzare.
— Va tutto bene, Carolyn.
— Come fa ad andare tutto bene ?
— chiese lei.
— Sono solo piatti, mamma.
— Stupidi piatti. — Ne raccolse
uno che era riuscito a sopravvivere e
lo schiantò a terra. — Stupida casa.
Stupido corpo.
— Carolyn. Tesoro… Shhh,
amore, è tutto a posto.
Sophie singhiozzò e scappò per le
scale. Lily la seguì, chiamandola. La
signora Hancock piangeva sulla
spalla del marito. — Non mi lasciare
mai — disse, posandogli la testa sul
petto.
Lui la sorresse fino al divano.
Passando per la porta della cucina,
prese il bastone.
— Come potrei?
— Jason, cosa ci facciamo qui?
— Lo sai cosa ci facciamo qui.
Farà bene, a tutti, Carolyn. Vedrai.
— Clima salubre — disse lei con
disgusto. — Avremmo potuto andare
ovunque. Perché proprio qui? Perché
proprio adesso? Com’è possibile che
le cose possano andare bene?
Lo sguardo di Hancock si posò sul
soffitto. Dalla camera al piano di
sopra, il pianto straziante di Sophie
mi riempì le orecchie di vergogna.
9
INDECISIONE
Io e le mie sorelle riaffiorammo uno
alla volta, a una cinquantina di metri
dalla battigia degli Hancock. Dietro
la villa, le sagome delle cime degli
alberi perforavano il cielo rosa e
viola. Avevamo ripetuto questa scena
ogni estate, per oltre quarant’anni:
nuotavamo avanti e indietro di fronte
alla casa, osservando la facciata e
sperando di cogliere i segni del
ritorno della famiglia. Sembrava
quasi irreale vedere la luce alle
finestre rimaste buie tanto a lungo.
I nostri corpi galleggiavano
nell’acqua nera, nient’altro che
ombre. Non avevamo alcun timore di
essere scoperti. Tallulah ruppe il
silenzio.
— Cosa hai deciso, Cal?
— La più giovane.
Tallulah sembrava contenta della
mia scelta. Sollevata, forse. Pavati
non altrettanto.
Maris annuì. — È più piccola. Più
debole. Come pensi di agire?
Feci una smorfia. — Le piacciono
le cose belle. Pavati?
Lei si voltò al suono del suo
nome, ma tenni gli occhi fissi davanti
a me.
— Ti seguirà — dissi.
— Certo che lo farà.
— Voglio che giochi con lei. Sii
gentile. Sorprendila. Falla divertire.
Tienila fuori oltre l’ora di cena.
— Posso farlo senza problemi.
— Tallulah, sai essere delicata?
Un’espressione preoccupata le
attraversò il volto. — Quanto
delicata?
— Dovrai farla svenire, ma senza
ucciderla. Pensi di riuscirci? — Tra
le mie sorelle, era lei ad avere
maggiori possibilità di farcela. La
fissai negli occhi, mentre la sua
mente elaborava la mia richiesta.
Immaginai le sue mani intorno al
collo di Sophie, mentre le toglieva
lentamente l’ossigeno e Pavati le
sorrideva, dicendole che aveva l’aria
stanca, e che forse aveva voglia di
dormire un po’.
— Penso di sì. Se farò attenzione.
— E io cosa faccio? — domandò
Maris.
— Tu non devi fare niente.
Si finse offesa, ma poi aggiunse:
— Forse hai ragione tu.
— Dopo che avrà perso i sensi,
portatela
sugli
scogli.
La
cercheranno. Mi unirò alle ricerche.
Le ragazze annuirono.
— Quando si sveglierà —
continuai — potrete dire che è
svenuta. Io la riporterò a casa.
— Sarai il loro eroe — disse
Pavati.
— È quello che penso — dissi. —
Sarà anche un motivo per tornare da
loro, per vedere come sta. Mi auguro
che vorranno ringraziarmi. È qui che
la tua piccola battuta di pesca entra
in scena, Maris.
Un sorriso lento e sottile le
affiorò sulle labbra. I suoi capelli
galleggiavano
sulla
superficie
dell’acqua
come
inchiostro
rovesciato.
— Dopodiché, me ne occuperò io
— disse.
Scrollai le spalle. — Come vuoi.
La luce nell’abbaino illuminò un
sentiero attraverso il giardino
laterale fino all’acqua. Si poteva
vedere il viso di Sophie. Si stava
spazzolando i capelli.
— È lei? — chiese Pavati; uno
sguardo di adorazione le riempì gli
occhi.
— Sì.
— Una ragazzina così carina.
— Già. — La mia voce si
appiattì.
— Se avessi una figlia — disse
Pavati — vorrei che fosse
esattamente come lei. — Mi mise una
mano sulla spalla. — Non ti
preoccupare, so cosa fare. Domani
andrò a cercarla. — Si appoggiò a
me per spingersi verso l’alto e si
sollevò dall’acqua. Chinò la testa e
si tuffò nel lago. Maris e Tallulah la
seguirono senza nemmeno uno
zampillo.
Rimasi indietro, a guardare
Sophie alla finestra. A un tratto si
alzò e uscì dal mio campo visivo;
quindi, spense la luce. Stavo per
seguire le mie sorelle quando la
porta di casa si spalancò e dal
portico emerse una figura che si
incamminò verso il lago. Ero
pietrificato. Jason Hancock si stava
forse avvicinando alla sponda?
Sarebbe stato così facile? Mi sentivo
un coccodrillo in agguato, che
osserva una zebra mentre si avvicina
all’acqua per bere.
Quasi senza volerlo, fluttuai più
vicino alla riva.
Ma non era Jason Hancock. Era
Lily che si avvicinava al molo.
Scalciò via i sandali e sollevò la
gonna, prima di sedersi sul bordo,
lasciando dondolare le gambe fuori
dal pontile e dentro il lago gelido.
Era normale?
Scesi sott’acqua come una lenza
di piombo e cercai il suo odore. Era
dolce, con un tono speziato, come di
arancia o di aghi di pino. Riemersi
tenendo solo gli occhi e il naso sopra
il pelo dell’acqua. Non mi ero reso
conto di essermi avvicinato tanto alla
riva e la mia prima reazione fu di
panico. Mi abbassai di un centimetro.
— Non c’è bisogno che ti
nascondi. So che ci sei — disse.
“Merda.” Il cuore mi arrivò allo
stomaco, come un pugno. Swuuushh!
Ero sparito. Nuotai verso nord di una
ventina di metri, fino a un ramo di
salice che pendeva basso sull’acqua,
come una lunga panca.
Jason Hancock stava percorrendo
il pontile verso la figlia. Sulle
braccia si stava strofinando una
pomata e la sua pelle luccicava,
persino in questa luce morente. —
Scusa, tesoro — disse. — Sembravi
così tranquilla, seduta qui fuori. Non
volevo disturbarti.
Si sedette accanto a lei e le cinse
le spalle mentre io, nascosto
nell’ombra, cercavo di ridurre i
battiti del cuore. Sbirciai oltre il
ramo di salice.
— Tu lo sai che mamma è
arrabbiata per la casa — disse Lily.
— Le passerà.
— È un disastro, papà. Qui cade
tutto a pezzi e tu non sei esattamente
un carpentiere.
Sorrise. — Ho chi mi aiuta,
ricordi? Ti preoccupi sempre troppo.
Tua madre starà bene, vedrai.
— Ho sentito cosa ti ha chiesto —
disse Lily. — In che modo questo
trasloco dovrebbe rendere le cose
più facili per lei?
— Che vuoi dire?
— Insomma, lo ammetto, Bayfield
è più tranquilla di Minneapolis, ma
la sua salute può davvero migliorare
qui? Mi chiedo semplicemente se
questo cambiamento sia dovuto più
alla tua curiosità che ad altro.
— Lily Anne Hancock, tua madre
è sempre stata la mia priorità numero
uno. L’unica cosa che ho sempre
voluto fare è prendermi cura di lei.
— Va bene. Solo che stavo
pensando ai racconti del nonno. Però
magari volevi…
— La tua stanza ti piace? — le
domandò Hancock.
— Non cambiare discorso, papà.
— Questo è un discorso. È una
domanda.
— Bene — disse Lily. Annuì
lentamente, soppesando le parole. —
È carina, credo. Accogliente.
Hancock toccò l’acqua con la
punta delle dita e sbuffò. — Forse
non hai tutti i torti. Questo trasloco è
per tua madre, ma non posso negare
che questo posto mi piace. Non so
cosa sia, Lily, ma è come se il lago
mi chiamasse. Davvero, a volte mi
pento di non aver mai imparato a
nuotare.
— Se fossimo ancora a
Minneapolis, potresti prendere
lezioni in piscina, sai, uno di quei
corsi per principianti.
Hancock sorrise e baciò la figlia
sulla guancia. — Sei stata brava. Lo
so che ti manca la città e ti sono grato
per aver dato a questo posto una
possibilità. Lascia le preoccupazioni
a me, Lily. Mi prenderò cura di tua
madre. Tu cerca di divertirti.
— Mi divertirò, certo — disse
Lily. — Lo sapevi che Bayfield è
tipo la capitale delle mele del
Midwest settentrionale?
Hancock ridacchiò e le tolse il
braccio dalle spalle. — Forse tu e
Sophie
dovreste
andare
in
esplorazione domani. Fare un giro in
centro, oppure nel bosco.
Mi rianimai a questo suggerimento
e mi avventurai fuori dal mio
nascondiglio.
— Sì, mi sembra fantastico. Sono
sicura che Sophie impazzirà per una
passeggiata nel bosco.
Ah, sarcasmo. Era lei il mio tipo.
Jason Hancock buttò indietro la
testa e rise. — Già, forse no —
disse. — Non è mai stata un’amante
della natura.
Lily si appoggiò alla spalla del
padre. — Ti voglio bene, papà.
Nuotai sul fondo e presi una rotta
per Basswood. Qualcuno potrebbe
sostenere che fosse destino che
assistessi a questo dialogo tra padre
e figlia, che fosse il segno che
Hancock e Lily avevano un legame
più forte di quanto inizialmente
pensassi. Però, anche se la sorella
maggiore era l’obiettivo più adatto ai
miei gusti, non potevo abbandonare il
piano per una questione di preferenze
personali. Sophie era la sorella
giusta. E poi, ai segni non ci credevo
proprio.
10
IL PIANO PERFETTO
Per tutta la notte lavorai ai dettagli
del mio piano. Il tempismo sarebbe
stato importante. La nostra capacità
di persuasione doveva essere
perfetta. Non avevo calcolato il
fattore clima, ma era l’unico aspetto
che non potevo controllare. Insomma,
uno dei tanti.
Il
nuovo
giorno
portò
nell’atmosfera un cambiamento che
mi faceva pizzicare la pelle e mi
premeva sulle tempie. Tra i rami
degli alberi serpeggiava una carica
elettrica e tutti gli animali del bosco
si erano ammutoliti. Quanto avrebbe
tardato la pioggia?
Erano le tre quando le sorelle
Hancock si avviarono per la loro
marcia nel bosco. Avevano appena
messo piede fuori dalla porta quando
nel vialetto entrò il furgone con la
scritta PETTIT: EBANISTA E TUTTOFARE .
Jason Hancock seguì le figlie per
dare il benvenuto al signor Pettit.
Gabrielle e Jack uscirono dallo
sportello
del
passeggero
e
superarono rapidi la macchina, per
andare a salutare Lily.
Le mie sorelle e io, invece,
eravamo sulla terraferma da appena
pochi minuti. Loro si trovavano da
qualche parte a nord della casa degli
Hancock, io mi ero appostato tra gli
alberi, appena fuori dalla porta
principale. Mi tremavano i muscoli
delle gambe, perché si erano
trasformati da poco. Appoggiato a un
albero, mi sforzai di ascoltare la
conversazione tra gli Hancock e i
Pettit.
Le onde si infrangevano sulla
riva, rendendo difficile distinguere le
parole. Frasi sul tetto da riparare,
ovviamente. Pettit padre indicò i
figli. Fece un cenno a Sophie.
Gabrielle Pettit non sembrava molto
loquace. Gli uomini parlavano e
indicavano la casa. Dal lago giunse
un momento di silenzio inatteso e
Lily disse: — Noi andiamo a fare un
giro nel bosco.
Raddrizzai la schiena e mi sporsi
in avanti.
Jack Pettit scosse la testa. Si portò
le mani alla cintura degli attrezzi
intorno ai fianchi e indicò il cielo.
Per tutta la mattina era stato coperto,
però ora le nuvole non somigliavano
più a una tela grigia, ma a un turbine
di ceneri. Guardai con ansia le
giovani Hancock per capire cosa
avrebbero deciso di fare.
Lily scrollò le spalle e io mi
ripresi. Certo, non le piaceva sentirsi
dire cosa fare. Se mi somigliava
almeno un po’, si sarebbe precipitata
subito nel bosco. La sua
testardaggine
avrebbe
potuto
presentare un problema anche per
me, se si fosse rifiutata di accettare il
mio invito e di separarsi dalla
sorella. Proprio in quel momento
Lily baciò il padre sulla guancia e se
ne andò, trascinandosi appresso
Sophie.
Spinsi il tasto INVIO del cellulare.
— Sono partite… Sì, tutte e due…
Verso ovest… Non lo so. Dovrai
inventarti qualcosa… Aspetta, fammi
sentire.
Chiusi gli occhi e inspirai.
L’odore familiare di arance mi
riempì le narici, più diluito nell’aria
di quanto non fosse stato in acqua.
— Arance — dissi; poi annusai
ancora in cerca dell’odore di Sophie.
L’aria, all’improvviso asciutta, mi
andò di traverso. — Talco in
polvere… Sì, le seguirò per un po’,
ma non voglio avvicinarmi troppo.
Dove siete? Se cambiano direzione
vi chiamo, ma tra un quarto d’ora
dovreste sentire il loro odore.
Lily teneva ancora per mano la
sorella. Sophie non sembrava
condividere l’entusiasmo di Lily per
l’avventura. Si stava lamentando per
qualcosa, indicando i suoi sandali.
Seguirono un sentiero battuto dai
cervi fino a incrociarne uno che
invece era opera dell’uomo. Il nuovo
viottolo era costeggiato da tronchi
senza corteccia. Schegge di legno
ricoprivano i cigli. Sophie si storse
le caviglie sul suolo morbido e si
fermò battendo i piedi. Incrociò le
braccia. La pazienza di Lily mi
meravigliava.
— Ecco, prendi questo — disse
Lily. Si tolse il cardigan e lo porse
alla sorella, rimanendo solo con una
canottiera di pizzo. — Meglio?
Sophie annuì e la bocca di Lily
scivolò in un sorriso che non
riconoscevo. Era di scherno? No,
non sembrava, perché mise un
braccio intorno alle spalle della
sorella e la strinse a sé. Era qualcosa
di più morbido. Mi soffermai a
cercare
nel
catalogo
delle
espressioni umane che conservavo
nella mente. Ma non ne trovai.
L’espressione apparteneva alla mia
madre sirena. Mi sembrava quasi di
sentirla: “Ecco, Calder, così va
meglio, vero? Lo sai, sentiresti più
caldo se passassi più tempo a
nuotare e meno tempo a esplorare i
relitti delle navi.”
Scrollai la testa per liberarmi di
quell’immagine e fissai l’espressione
di Lily. Elaborai. Memorizzai. I suoi
capelli biondo rame catturavano i
pochi frammenti di luce tra gli alberi.
Ogni ciocca era di un colore
leggermente diverso, rifletteva la
luce come piccoli arcobaleni. Le
scendevano a cascata sulla schiena in
morbidi riccioli. Le braccia e le
gambe erano lunghe e agili.
Camminava sicura. La sua voce…
Mi
riscossi
dalle
mie
fantasticherie quando mi accorsi che
si erano allontanate e che non
riuscivo più a sentirle. Arrancarono
fino alla fine del sentiero e del
sottobosco. La foresta decidua
cedeva il posto ai pini, ora più
diradati lungo il terreno melmoso.
Estrassi dalla tasca il cellulare e
attesi che Pavati rispondesse. —
Senti. Piccolo cambio di piano.
La voce di Pavati uscì acuta dal
telefono.
— Lascia che sia io ad
avvicinarmi per primo — dissi. Il
nuovo piano prendeva forma man
mano che parlavo. — Non voglio che
la più grande si agiti troppo quando
le separerai. Dammi cinque minuti e
poi fatti vedere. E comunque, la più
piccola vuole tornare indietro.
Sfrutta quest’opportunità. Distrarrò
la sorella maggiore. Offriti di
accompagnare la piccola a casa.
Tallulah la farà svenire non appena
l’avrai allontanata dalla vista della
sorella.
Spensi il telefono e lo infilai in
tasca.
Le sorelle Hancock si fermarono
ad ammirare il lago dal punto più
alto; o almeno, una delle due. Con
aria annoiata, Sophie si era messa a
staccare la corteccia di un pino.
Feci rumore, per non spaventarle
comparendo all’improvviso. Lily si
voltò, sorpresa. Alzai le mani, a
palmo aperto, per rassicurarla.
— Ehi. Scusa. Non era mia
intenzione spaventarti — dissi.
“Quello succederà dopo.”
Un sorriso enorme si aprì sul
volto di Sophie, ma Lily sembrava
meno sicura.
— Ciao, Calder — disse Sophie.
— Cosa ci fai qui?
— Quello che fate voi — dissi.
— Una passeggiata. Che ne dite del
panorama? È eccezionale, vero?
Lily concordò e si voltò di nuovo
a guardare il lago. — Ho sentito che,
a volte, fanno regate di vela intorno
all’Isola di Madeline.
— Non prima dell’estate. —
Pensai a come aveva reagito
all’avvertimento di Jack Pettit a casa
e dissi: — Ehi, fa un po’ freddo. —
Speravo di ottenere la stessa
reazione di sfida. Così non avrebbe
pensato a tornare indietro con
Sophie, appena fosse comparsa
Pavati. — Per una ragazza —
aggiunsi.
Lily sollevò il mento e strinse la
bocca.
“Bingo.”
Una risata familiare emerse dagli
alberi, e Pavati e Tallulah apparvero
sul sentiero nella nostra direzione,
provenivano dalla stessa parte da cui
erano
arrivate
le
Hancock.
Vedendoci, Tallulah si finse
sorpresa.
— Oh — esclamò Pavati. —
Ciao, tesoro. — Fissò gli occhi
ipnotici su Sophie e colsi l’elettricità
nell’aria. Lanciai uno sguardo alla
bambina che, come immaginavo,
stava assumendo l’espressione vitrea
tipica delle nostre prede pochi
secondi prima di finire sott’acqua.
Avendo sperimentato sulla mia pelle
l’effetto di Pavati, sapevo cosa stava
accadendo a Sophie. L’incantesimo
era un sedativo: non provava quasi
nulla. Gli umani raramente si
ribellavano. Tom Hancock era stato
uno dei pochi a farlo. Speravo che la
resistenza non fosse una caratteristica
di famiglia.
— Oh, non mi aspettavo di
vedervi qui. Ti presento le mie
sorelle — spiegai a Lily, che non
avrebbe mai lasciato Sophie con
degli sconosciuti. Non che io fossi
molto più di un estraneo, ma speravo
che le presentazioni avrebbero
placato ogni timore.
Tallulah mi guardò, sorpresa. Non
avevamo parlato di un approccio
tanto personale.
Pavati non sembrò farci caso.
Stava
ancora
sorridendo
intensamente a Sophie. — Hai freddo
— suggerì, e Sophie annuì
istintivamente, stringendosi nel
cardigan.
— Senti, Lily — dissi, facendo
ricorso a tutto il mio fascino. — Se
vuoi continuare la tua esplorazione,
posso mostrarti io qualcosa. È poco
più avanti, lungo il sentiero.
— Certo — rispose. Aveva le
pupille dilatate e feci un rapido
cenno a Tallulah, che lo colse
all’istante e disse: — Bene, che ne
pensi se accompagniamo noi tua
sorella a casa, allora?
— Mi sembra fantastico —
risposi al posto di Lily e, benché
guardassi solo lei, sentii la sorellina
ripetere la parola fantastico.
E così, semplicemente, se ne
erano andate, e io ero rimasto solo
con Lily. Un attacco di nausea mi
rigirò lo stomaco. In lei c’era
qualcosa che mi terrorizzava, così
interruppi il contatto visivo; Lily
scosse la testa e tornò a guardare il
lago.
— Allora, cosa volevi mostrarmi?
— mi domandò.
— Ehm. Uno scoglio, qua vicino.
Seguimi. — La superai e la mia mano
sfiorò la sua. L’elettricità mi vibrò
sulle dita ed ero sicuro che l’avesse
sentita anche lei. Si portò la mano al
viso per esaminarla.
— Qualcosa non va? — chiesi.
— No — rispose. — A meno che
non stia per venirmi una sincope.
— Non stai per avere nessuna
sincope — dissi ridendo. Ritrassi
ogni emozione, per mitigare gli
impulsi elettrici che, per natura, mi
scorrevano nel corpo. Paura, rabbia,
qualunque emozione intensa – in
questo caso, una fortissima tensione
dei nervi – andava sempre tenuta
sotto controllo. Se permettevo alle
emozioni di prendere il sopravvento,
rischiavo di incenerire un albero
solo appoggiandoci la mano. Era
l’aspetto che meno preferivo di me
stesso. Ogni somiglianza con le
murene mi disgustava. Preferivo
pensare che l’unica viscida tra di noi
fosse Maris.
Camminammo fra gli alberi e fino
al limitare della scogliera. L’Isola di
Basswood era vicinissima e riuscivo
ancora a scorgere i resti del nostro
falò della sera precedente. Soffiando,
il vento catturò una manciata di
cenere e la sollevò dal terreno.
L’acqua e il cielo erano adesso
dello stesso grigio carbone,
trasformando Basswood in una nave
spaziale buia e alberata che
galleggiava in aria. Speravo che Lily
non si accorgesse delle nuvole che
stavano diventando minacciose, così
da prolungare ancora un po’ questo
momento.
Betulle bianche e pioppi tremuli
ornavano il margine della scogliera;
la loro corteccia era una pelle sottile
in confronto a quella stratificata dei
pini. I pioppi crescevano alla rinfusa,
aggrappati alla parete, spesso con
angolazioni azzardate sopra l’acqua.
Mi avvicinai al bordo e iniziai a
scendere lungo la roccia, usando uno
dei pioppi per reggermi.
— Ma che fai? — mi domandò
Lily.
Sentivo preoccupazione nella sua
voce. Feci il respiro più profondo
che i polmoni mi consentirono di fare
ed esalai tutta l’emozione dal corpo.
— Prendimi la mano — dissi. — Ti
aiuto a scendere.
Lily la guardò incerta, quindi fece
scivolare lentamente la sua mano
nella mia. Era sorprendentemente
calda. Avvolsi le dita intorno alle
sue, e una strana elettricità mi
percorse il braccio. Non mi
sembrava che lei l’avesse percepita.
— Attenta a dove metti i piedi —
dissi. Trovò un appiglio e
scendemmo per circa due metri, fino
a raggiungere uno scoglio color ferro
proteso sul lago, a circa tre metri
sull’acqua. La roccia era costellata
di incavi naturali, pieni di vecchia
acqua piovana ormai calda dopo
giorni di sole. Insetti microscopici
pattinavano sulla superficie delle
pozze.
— Oh, che meraviglia — disse.
— Quanto è selvaggio… E primitivo.
— Molto selvaggio — dissi —
ma adesso diventa anche meglio.
Sdraiati e guarda oltre il ciglio. Ci
sono delle rondini che hanno
nidificato nei buchi nell’arenaria.
Non stavo cercando affatto di
ipnotizzarla, eppure lei seguì le mie
indicazioni. Stava reagendo a me o al
panorama? Con i polpastrelli si
aggrappò al ciglio della roccia e si
sporse oltre.
— Non vedo niente — disse.
— Davvero? — Mi sdraiai vicino
a lei, con le spalle nel vuoto e mi
piegai per vedere. — Forse devi
sporgerti di più. — Lily si spinse in
fuori e piegò la testa. Strisciò in
avanti ancora un po’, poi prese fiato
bruscamente e tese i muscoli della
schiena. Prima che potessi capire
cosa stava succedendo, cadeva dalla
roccia dentro l’acqua ghiacciata.
Alzai gli occhi e vidi Maris
incombere su di me, osservando i
cerchi concentrici che, più in basso,
segnalavano il punto in cui era
scomparsa Lily.
11
CAMBIO DI PIANI
— Ma che diamine? — Scattai in
piedi. — L’hai spinta? — Mi guardai
intorno alla disperata ricerca di
qualcosa per raggiungere Lily. Ma
niente era abbastanza lungo. Il panico
mi bloccò le gambe. — Cosa faccio?
— Cosa fai? — Maris mi guardò
incredula. — Di che parli? Volevi
fare un salvataggio… Allora salvala.
— Insomma, Maris. In questa
cavolo di acqua? Sei matta?
Avevamo un piano. È Sophie la
sorella giusta, ricordi?
Il lago era di onice, con macchie
grigie nei punti in cui il sole lo
illuminava. Ci affacciammo oltre il
bordo della scogliera, guardando in
basso, verso le onde. Proprio sotto di
noi l’acqua si agitava in una spuma
color burro che si schiantava sulla
roccia.
Lily emerse con un rantolo che
arrivò fino a noi. Sentivo il freddo
penetrarle nella pelle. Con una mano
tremante si toccò dietro la testa e
quando la tolse c’era una macchia di
sangue. Per non farci vedere, io e
Maris arretrammo dal bordo con un
lungo passo.
— A-Aiuto! Qu-qualcuno! Calder!
— chiamò Lily.
Tesi i muscoli d’istinto. — Non
posso entrare in acqua con lei. —
Maris lo sapeva. Ringhiai per la
frustrazione. — Non sono ancora
riuscito a sviluppare una tolleranza
al lago. Non sarei capace di frenare
la trasformazione.
— Va bene. Aspetteremo. —
Maris guardò le nuvole. — Tra pochi
minuti morirà comunque. — Maris si
sedette sulla roccia. — Forse è anche
meglio così. Potrai portare entrambe
le figlie a casa: una morta, l’altra in
fin di vita. — Sembrava che stesse
visualizzando l’immagine ed era
evidente che le piaceva.
Un peschereccio passò vicino alla
riva, ma non vide la ragazza in
acqua. Sollevò una raffica di onde
che investirono Lily mandandola a
sbattere sul bordo frastagliato della
costa. All’inizio rimase bloccata, poi
fu risucchiata indietro, solo per
essere di nuovo schiantata sulla
roccia. Un’altra onda la sollevò e le
schiacciò la faccia su uno scoglio.
Non aveva appigli. Nulla a cui
appoggiarsi. In alto vorticavano le
nuvole.
Mezzo secondo dopo, avevo il
telefono all’orecchio. — Pavati,
Tallulah ha già fatto qualcosa? —
Buttai fuori l’aria. — Bene, non
farlo… Mi hai sentito. Abbiamo un
grosso problema. I o ho un grosso
problema — mi corressi. — Porta la
ragazzina dritta a casa. Ti spiegherò
dopo… Pavati? Mi stai a sentire?
Arrivò un — Sì — dall’altra parte
proprio quando il mio telefono emise
un fischio. Credito esaurito. Lo buttai
tra gli alberi.
Dal lago non arrivavano più
grida. Guardai oltre il bordo. Lily
sporgeva dall’acqua, con le braccia
in alto, la testa inclinata indietro. La
faccia le andò sotto, poi riemerse e
tornò di nuovo giù. Espirava e
inspirava rapidamente ogni volta che
tornava in superficie.
— Oh, cavolo, quello che sto per
fare è assurdo — dissi togliendomi i
vestiti.
— Ci vai, allora? — mi chiese
Maris con voce annoiata.
— Ho alternative?
Entrambi sentivamo i singulti di
Lily che respirava con affanno. Non
riusciva a incamerare abbastanza
ossigeno per chiedere aiuto. Non le
restava molto tempo. Speravo con
tutto me stesso che non ci fosse
nessun altro sul sentiero, con un
temporale così vicino. L’ultima cosa
di cui avevo bisogno era uno
spettatore.
Rimasi nudo sul bordo della
scogliera e chiusi gli occhi, le labbra
serrate. Non sapevo con certezza
cosa aspettassi… Forse qualcosa che
mi convincesse che stavo per fare la
cosa più stupida del mondo. Non mi
ero mai trasformato vicino a un
essere umano, non vicino a uno che
avevo intenzione di risparmiare. Per
quel che ne sapevo, nessuno di noi
l’aveva mai fatto. Se avesse
funzionato, lei non sarebbe riuscita a
vedermi, e il Lago Superiore era
famoso per la sua limpidezza.
Pregustavo il momento. Un
formicolio si fece strada nel mio
corpo, partendo dalle dita dei piedi e
risalendo verso l’alto. Calpestò il
mio autocontrollo coltivato con tanta
cura, finché i miei organi interni non
iniziarono a muoversi frenetici come
le macchine di un autoscontro. La
corrente elettrica era così forte che
mi si drizzarono i capelli.
— Datti una calmata, Calder —
disse Maris mentre si esaminava le
unghie. — Se entri in acqua con
questo voltaggio, rischi di friggere
tutti i pesci nel raggio di cinquanta
metri. Verranno a galla e questo
probabilmente non servirà neppure
ad aiutare la ragazza.
Lanciai un ultimo sguardo verso il
precipizio. Lily era sparita.
Espirai, soffiando via tutta
l’elettricità, fuori da me e nell’aria.
Crepitò nell’umidità. Quando sentii
solo un lieve torpore, mi tuffai.
Una strana sensazione di calma mi
investì mentre mi libravo in aria.
Entrai nell’acqua con una tale
precisione che mi sembrò di passare
per la cruna di un ago.
Giù, giù, per almeno sei metri,
finché non toccai la sabbia con le
mani. Aprii gli occhi e nuotai
indietro verso la roccia. Mi agitavo
mentre avveniva la trasformazione,
poi dibattei la coda ancora di più per
smuovere il fondo sabbioso. Se non
potevo oppormi al cambiamento,
dovevo impedire a Lily di vedermi,
ma l’acqua torbida rendeva più
difficile a me vedere lei. Seguii il
suo odore, girando in tondo,
toccando la coda con la testa.
Agitavo le braccia in avanti, alla
ricerca di un’anomalia.
Quando toccai qualcosa di lungo e
morbido – non un ramo, bensì un
braccio – voltai la ragazza per
guardarla. Aveva gli occhi chiusi, la
bocca rilassata. Pallide particelle
gialle galleggiavano nell’acqua che
le riempiva la bocca. Era già andata.
Schizzai verso la superficie,
saltando tre metri fuori dall’acqua e
atterrando sulla roccia meglio di
qualunque attrazione di SeaWorld.
Maris mi guardava con faccia
inespressiva.
Sul viso e sulle spalle nude di
Lily erano attaccati frammenti di
roccia. Premetti le labbra sulle sue e
iniziai a soffiare. Non successe nulla.
Soffiai ancora. E poi ancora.
Boccheggiò e tossì, poi sputò una
fontana d’acqua. La mia coda
argentata si dimenava sulla pietra.
Maris mi scavalcò e buttò la sua
giacca sul viso di Lily. Non c’era
bisogno che vedesse il mostro che le
si contorceva accanto.
Mi rotolai sulla schiena, mentre il
cuore mi batteva a singhiozzo, con un
ritmo sincopato. Stringendo i denti
mentre la pelle si contraeva e
lacerava, gemetti di dolore, tremando
come un epilettico e succhiandomi il
sangue dal labbro, mentre la coda si
divideva, trasformandosi un paio di
gambe umane.
Maris non guardò mentre mi
alzavo e mi infilavo i pantaloni. Era
ferma e tranquilla vicino a Lily,
ancora immobile sulla roccia.
— Lily. — Le tolsi la giacca dalla
faccia e la scossi. — Stai bene? Oh,
andiamo. Lily.
Aveva la pelle pallida e
traslucida come la sua canottiera
color avorio. Un rivolo rosso le
scendeva da un taglio sullo zigomo e
le labbra, leggermente schiuse, erano
del colore dei lillà. Sulle ciglia
aveva dei granelli di sabbia.
Avrebbe potuto essere una bambola
di pezza, inerte tra le mie braccia
tremanti.
— Lily — la chiamai di nuovo. La
voltai su un fianco. La canottiera si
sollevò, mostrando il tatuaggio sulla
schiena. Sei parole in una grafia
elegante con l’inchiostro nero: Non è
vile la mia anima.
Ansimò, facendo un altro respiro
irregolare. — S-Sto be-bene —
disse. Aveva il corpo scosso dagli
spasmi.
— No, non stai bene. —
Appallottolai la mia maglietta e
gliela passai sulle braccia nel
tentativo di farle tornare il colore
sulla pelle. Non volevo toccarla
direttamente. Non ancora.
— S-scusa — disse. Per cosa si
stava scusando? Stava delirando?
Avevo aspettato troppo? Aveva
perso qualche neurone?
Continuavo a strofinare per
scaldarla. Quasi non mi accorsi di
Maris che si allontanava.
— C-c-come? — La sua mascella
si contraeva con violenza e i denti le
battevano così forte che temevo
finissero per rompersi. Rotolò su un
fianco.
— Non alzarti — dissi, ignorando
la sensazione soffocante che avevo
ancora dentro.
Si sedette e vomitò oltre il bordo
della roccia. Era proprio quello che
mi serviva per calmarmi. Risi così
forte da farla trasalire.
— Non ti preoccupare, ti tengo io
— dissi, mentre sollevavo Lily dalla
pietra e risalivo l’argine. Cullata tra
le mie braccia, mi posò la testa sulla
spalla. Quasi la stessa scena che mi
ero immaginato per la sorella
minore. Il cielo scuro, come
l’inchiostro che ti macchia le tasche,
mentre le prime gocce di pioggia mi
cadevano sulle spalle nude.
Il viso di Lily pareva tranquillo e
rilassato. Mi curvai sopra di lei per
proteggerla dalla pioggia e le
accarezzai la guancia con il pollice.
Mi preoccupava la sfumatura blu che
le tingeva ancora le labbra. Feci un
respiro e mi resi conto di avere
trattenuto il fiato fino a quel
momento.
Poco a poco la casa diventò
visibile. Jason Hancock era in cortile
ad aiutare Pettit che lanciava attrezzi
nel furgone. Quando Hancock mi
vide, scansò Pettit e mi venne
incontro di corsa. Lanciai un altro
sguardo al volto di Lily. Se Maris
avesse avuto la più pallida idea di
cosa provavo, mi sarebbe stata
addosso come uno squalo su una
foca.
12
LA RENDO NERVOSA
Due giorni dopo seguii Lily al Blue
Moon Cafe e restai seduto ad
aspettarla sulla panchina del parco,
dall’altra parte della strada,
ficcandomi in bocca patatine fritte
una dietro l’altra come se fossero
legate. Consultai l’orologio. Era lì
dentro da venti minuti. Il ginocchio
mi ballava su e giù. “Andiamo,
andiamo, andiamo. Che stai
facendo?” Non si era seduta a un
tavolo – questo mi era chiaro – però
ci stava mettendo troppo per ordinare
un caffè. Guardai di nuovo
l’orologio.
Una ragazza scivolò accanto a me
sulla panchina e mi sorrise. Le mie
labbra si mossero di riflesso.
Indossava la metà superiore di un
bikini e pantaloncini da calcio, e
dondolava un infradito che le
pendeva dal piede.
Vedendomi muto, mi porse la
mano. — Katie — disse.
A volte avrei davvero desiderato
non avere questo effetto sugli umani.
Era più irritante che lusinghiero e, in
questo momento, di un pessimo
tempismo.
— Calder — dissi, pulendomi il
sale caduto sulla maglietta e
stringendole la mano. Leggera e
molle.
— Non ricordo di averti mai visto
da queste parti, Calder — disse.
Faceva quasi le fusa e mi voltai a
guardarla con più attenzione. Non
aveva ancora ritratto la mano, così
toccò a me lasciare la presa per
primo.
— La mia famiglia ha una barca a
vela giù al porto — disse. — Si
chiama Ragtime. Dovresti venire a
vederla, qualche volta. Magari per
una gita in mare?
— Non lo so — dissi, reprimendo
un sorriso. — Non sono molto
amante dell’acqua.
— Allora un cinema, magari?
La faccenda si faceva ridicola;
non avevo nemmeno attivato il mio
fascino.
Lily uscì dal Blue Moon e si
fermò sul marciapiede, di fronte a
noi. Mi guardò, con gli occhi grigi
spalancati, poi scorse la ragazza al
mio fianco. La bocca le si aprì
formando una piccola “o”.
— Scusa — dissi, senza guardare
quella ragazza fastidiosa in faccia.
— Devo andare.
Mi alzai, buttai il pacchetto vuoto
delle patatine nel secchio e
attraversai in fretta la strada. Lily si
guardò intorno nervosamente e si
mise a tirare quelli che sembravano
due calzini a strisce infilati sulle
braccia. Mentre mi avvicinavo, notai
che aveva fatto i buchi per le mani;
nella destra stringeva un foglio di
carta.
— Bene, vedo che ti sei ripresa
— dissi, tenendo la voce bassa, con
una cadenza lenta, nel modo
rassicurante che – sapevo – faceva
sentire gli umani a proprio agio. La
guardai negli occhi, preparandomi a
piegare la sua volontà alla mia, ma
riuscii a sostenere il suo sguardo per
un secondo soltanto.
— Ehm. Sì. Mi sono fatta una
decina di docce bollenti, sai? E mia
madre mi ha quasi annegata nella
camomilla.
Sorrisi e cercai di pensare a
qualcosa di intelligente da dire, ma
avevo il cervello in pappa.
— Non sono sicura di averti
ringraziato come si deve l’altro
giorno — disse, guardandosi le
scarpe.
“Lo fa apposta a non guardarmi
negli occhi?” — Oh, certo che l’hai
fatto. In ogni caso, hai detto qualcosa
del genere. Hai farfugliato per tutto il
tempo, mentre stavamo tornando.
A quel punto mi guardò. — Mi hai
portato davvero a casa?
Sbattei le palpebre. — Non ho
fatto niente di speciale.
Scosse la testa e guardò oltre la
mia spalla. — È stata la cosa più
strana del mondo. Un attimo prima
ero sulla roccia e l’attimo dopo
pensavo che sarei annegata e poi è
stato come se stessi volando.
— Non mi sorprende — dissi.
L’elettricità mi ustionò le vene e
d’istinto feci un passo indietro,
mentre i peli mi si rizzavano sulla
nuca. — Hai sbattuto la testa molto
forte sulla roccia. Ti hanno dovuto
mettere dei punti?
Non sembrava che mi stesse
ascoltando.
— È stato davvero strano. — La
sua voce era poco più di un sussurro.
Come se avesse ripetuto questa frase
a lungo. Anche ora non ero sicuro
che stesse parlando con me. — Era
proprio come… Non fa niente. —
Scosse nuovamente la testa.
— No, dimmelo. Mi hai
incuriosito. — Terrorizzato era più
esatto. Sapeva di essere stata spinta?
— Ecco, sembrerà strano, ma…
nel Lago Superiore non ci sono i
delfini, vero?
Mi sforzai di dominare la mia
espressione. — Delfini? Non dire
assurdità. È un lago di acqua dolce.
Probabilmente il freddo ti ha dato
alla testa.
Mi guardò accigliata. — Lo so, è
solo che…
— Allora, cos’è quel foglio che
hai in mano? — chiesi, indicando il
diversivo più facile che potessi
trovare.
Si guardò la mano come se avesse
dimenticato cosa stava stringendo.
Tirò il calzino sopra il gomito.
— Oh. Questo. Mi serve un
lavoro.
— Lunedì non inizi la nuova
scuola?
— No. È troppo tardi per
quest’anno, mia madre si è
organizzata per darci lezioni private,
per questi ultimi due mesi. Così
posso diplomarmi con la mia vecchia
classe.
— E come va?
— Abbiamo appena cominciato,
ma penso bene. Devo scrivere un
saggio comparativo sull’Ode su
un’urna greca di Keats e Navigando
verso Bisanzio di Yeats, ma la
mamma mi ha concesso un po’ di
tempo in più perché sono quasi
annegata e tutto il resto.
— Il vantaggio di avere un
genitore come insegnante.
— Hai studiato anche tu a casa?
— mi chiese.
Scrollai le spalle. — Immagino si
possa dire così. Ho avuto una
formazione… molto pratica.
— Esatto. Ecco cosa voglio dire.
Basta
solo
sapere
come
sopravvivere. Amo la poesia.
Almeno è utile. Ma dove mi farà
arrivare il calcolo avanzato?
— Non saprei — risposi. Avrei
voluto chiederle un’infinità di cose.
Centinaia di domande, in realtà, ma
per ora potevo sceglierne una sola. Il
resto avrebbe dovuto aspettare.
— Come mai non eri mai venuta a
Bayfield prima? Insomma è così,
vero?
— Esatto. — Fece una pausa. —
Immagino che prima mio padre non
fosse pronto. — Guardò il foglio che
teneva in mano e lo arrotolò
formando un tubo. Se lo portò agli
occhi come se fosse un cannocchiale
e mi guardò.
— Cioè?
Lasciò cadere il cannocchiale e si
mise una mano sul fianco. — Lo sai
che fai un sacco di domande
personali?
— Be’, immagino che averti
salvato la vita mi dia il diritto di
sapere qualcosa di te. — Una ciocca
di capelli le era finita sul viso e
gliela sistemai dietro un orecchio. Mi
tirò uno schiaffo sulla mano.
— Va bene — disse. — Vediamo
se questo ti basta. A settembre andrò
all’Università del Minnesota e, prima
di allora, devo guadagnare un bel po’
di soldi. — Si voltò a guardare
dubbiosa il Blue Moon. — E mi
piace il caffè.
Con un cenno di approvazione, le
augurai buona fortuna per il lavoro e
poi rimasi impalato e stupido, senza
nient’altro da aggiungere. Fu un
momento strano; probabilmente si
stava chiedendo perché non me ne
andassi, e io mi chiedevo cosa
aspettasse lei.
— Mi devo vedere con un po’ di
gente qui — disse alla fine.
— Ti sei già fatta dei nuovi
amici? — Le parole mi uscirono
incredibilmente rabbiose, e Lily
trasalì.
— Solo Gabrielle e Jack Pettit —
disse con una vocina. — Li hai
conosciuti l’altro giorno a casa
nostra. Hanno detto che mi avrebbero
mostrato la città.
— Potrei farlo io. — Ancora
troppo arrabbiato. Rilassai le spalle
per sopprimere la cupezza che mi
stava invadendo la mente. —
Scaricali. Vieni con me. Sarà più
divertente, te lo assicuro. E poi, me
lo devi.
— Insomma… Grazie, ma non
posso. Ho già detto che mi sarei vista
con loro e sembrerà brutto, ma ti
sono davvero grata per avermi tirata
fuori dal lago, ma davvero, Calder,
tu mi rendi un po’ nervosa.
Non stava funzionando. Avrebbe
dovuto avvicinarsi a me, non
allontanarsi. Forse aveva un buon
intuito, ma mi sembrava di essere in
avaria o qualcosa del genere. L’altra
ragazza sulla panchina non aveva
provato nessun disgusto. Tutto il
contrario. “Cos’ha questa Hancock?”
mi chiesi. “Perché Maris non mi ha
lasciato seguire il mio istinto?
Sophie non avrebbe creato tutti
questi problemi.”
— Scusami — dissi. Feci un
passo indietro. Forse mi ero
avvicinato troppo. — Non volevo
innervosirti. Volevo solo vedere
come stavi. Assicurarmi che stessi
bene e che ti sentissi meglio. Tutto
qua. In ogni caso, adesso me ne vado.
Posti da vedere, gente da incontrare.
“Penoso.”
Alzai la mano per salutarla, ma se
ne era già andata. Non capivo. Non
che volessi che le ragazze umane mi
sbavassero dietro – certo che no –
ma potevano almeno avere la
decenza di farlo quando lo
desideravo. Mi allontanai a testa
bassa, le mani infilate in tasca. Era
un mistero. E probabilmente non
valeva il disturbo. Non era comunque
troppo tardi per ripristinare il piano
con Sophie. Mi voltai a guardare e
vidi che Lily mi stava osservando. Il
sangue le salì al volto e si girò
dall’altra parte.
“Bene. Non tutto è perduto ancora.
Dovrai solo essere paziente con
lei…”
Jack
e
Gabrielle
Pettit
accostarono in una Pinto verde
pisello. Il motore si spense con uno
scoppio e loro due balzarono giù.
Gabrielle prese sottobraccio Lily,
rise delle sue maniche a calzino e
iniziò a camminare con lei. Le seguii
con gli occhi finché non sentii che
Pavati mi stava osservando dall’altro
lato della strada.
Il suo volto e i suoi capelli si
confondevano con la vernice color
cioccolato della facciata del negozio
di panini, non l’avevo notata.
Attraversò l’incrocio saltellando e
mi prese per mano.
— Calder — Strascicava le
parole. — Che fai?
— Lo sai cosa faccio — scattai.
— Mi avvicino alla ragazza. Come
pianificato.
— Davvero? Allora perché si sta
allontanando da te?
— Ah, ah. Davvero spiritosa,
Pavati.
— Cos’è che ti disturba? Sei
tremendamente distratto e non sei
venuto all’isola, ieri sera.
— E allora?
— Allora ti conosco, Calder.
Vuoi sempre restare da solo quando
hai qualcosa per la testa.
— Cavolo, forse perché mi piace
restare da solo.
— Ehi, ti capisco se non vuoi
stare sempre con Maris. È un po’…
La guardai con l’aria di chi la sa
lunga, sfidandola a completare la
frase.
— Fastidiosa — disse. — Può
diventare stancante assorbire quel
tipo di energia tutto il giorno. Ma non
penso che sia questo. — La
preoccupazione lampeggiò nei suoi
occhi color lavanda. — Non è che
prevedi che il piano non funzionerà,
vero? Pensi che dovremmo fare solo
un attacco rapido?
— No!
Rimase a bocca aperta.
— No. Insomma, non penso ci sia
niente di sbagliato, nel nostro piano.
Ci vorrà solo un po’ più tempo del
previsto. — Una piccola parte di me
si illuminò all’idea di passare più
tempo con Lily.
— Allora, com’è che si chiama?
— mi domandò Pavati alla fine, con
un sospiro. Sapeva di pesce
affumicato e… tabacco da pipa.
— Dove sei stata, Pav?
— Non importa.
Mi chinai e le diedi una bella
annusata. — Accidenti, hai preso un
vecchio? Hai sentito cosa ha detto
Maris. Dobbiamo andarci piano. È
un’estate lunga, Pavati. Siamo qui
solo da pochi giorni.
— Rilassati, Calder. Era uno e
uno soltanto.
— E abbiamo un obiettivo
prioritario. — I resti della felicità
dell’uomo le illuminavano ancora gli
angoli della bocca. Irritato da quella
mancanza di autocontrollo, ma
invidioso della sua conquista,
allungai un dito verso le sue labbra.
Forse potevo raccogliere un po’ di
luce, per me. Sorrise e mi abbassò la
mano con gentilezza.
— Allora, come si chiama la
ragazza, Cal?
Distolsi lo sguardo dalla sua
bocca e la fissai negli occhi. Questa
volta era il mio turno di sentirmi
imbarazzato. — Lily.
— Può rappresentare un
problema?
Aggrottai la fronte. — Cosa
vorresti dire?
— Ascolta, Calder. Come regola,
è un errore innamorarti della tua
preda.
Feci un largo sorriso. Di tutti noi,
Pavati era l’unica ad avere
esperienza in questo campo. Non
sapevo niente sull’amore; sapevo
solo che nessuno degli amanti di
Pavati sopravviveva fino al secondo
appuntamento. — Davvero, Pav? È
la regola?
— Sì, esatto.
Incrociai le braccia al petto e mi
sporsi all’indietro per guardarla
bene. — E pensi che mi stia
innamorando? Di lei? Ti sembra
possibile?
Mise un braccio intorno al mio.
— Non ne sono sicura, ancora.
Ma dovrai stare attento. Fidati di me
su questo.
— Non dovresti proiettare la tua
propensione al romanticismo su di
me. — Sfilai il braccio e aggiunsi:
— È solo una ragazza.
— Ah-ah. Non è solo una ragazza
— ribatté Pavati, scuotendo la testa.
— Rovinerai tutto, se ti innamori di
lei.
— Non ti seguo. Lasciamo stare,
in ogni caso. È una conversazione
ridicola. Ho tutto sotto controllo.
— Fa’ come vuoi, ma io ti terrò
d’occhio.
Scrollai le spalle. — Tienimi
d’occhio quanto ti pare.
Ci soffermammo a guardare Lily
Hancock, che ormai era quasi fuori
dal nostro campo visivo. — È solo
un mezzo per un fine.
— Come dici tu.
Sospirai. Pavati sarebbe rimasta
ferma nella sua posizione. Niente
avrebbe potuto farle cambiare idea.
— Non pensi che dovresti
seguirla e iniziare a raccogliere
informazioni? Più tardi Maris ti farà
il terzo grado.
Mi allontanò con una spinta sulla
schiena. Mi infilai di nuovo le mani
in tasca e mi incamminai nella
direzione che avevano preso Lily e i
suoi nuovi amici. — Ci vediamo
dopo sull’isola, allora?
— Non vedo l’ora — disse Pavati
con un cenno della mano, mentre i
suoi braccialetti d’oro tintinnavano.
13
LEGGENDA
Seguii l’odore dei fiori d’arancio
lungo la strada, fino all’incrocio, poi
lo ritrovai nello stesso parco dove
avevamo lasciato la nostra macchina.
Lily e i fratelli Pettit erano saliti
sulle altalene. Non si dondolavano,
ma erano semplicemente seduti sui
sedili di plastica e trascinavano i
piedi a terra, sollevando nuvolette di
polvere intorno alle caviglie.
Mi buttai dietro una barca in
secca, poi seguii la linea delle
rastrelliere per biciclette, fino a un
grosso
bidone
verde
dell’immondizia. Mi accovacciai a
terra e sollevai le ginocchia fino al
mento.
Una coppia di anziani mi passò
accanto e mi guardò incuriosita. Non
c’era motivo per starsene seduto in
terra, vicino al cassonetto. Feci loro
un cenno e la donna alzò incerta una
mano per rispondere al saluto.
L’uomo mi guardò accigliato e prese
la moglie per mano. Si allontanarono
dondolando allegramente le braccia,
tranquillizzati, a quanto pare, dal
fatto che non ero un giovane
delinquente. La loro soddisfazione
reciproca era palpabile. Disegnava
un’aura gialla intorno ai loro corpi,
che sapeva di caramelle al limone.
Ringraziai il cielo di non averli
incontrati in acqua. Le mie sorelle
erano già abbastanza feroci nella
loro
brama
di
emozioni.
L’impulsività odierna di Pavati ne
era solo un esempio. Guardai la
coppia di anziani. Se avessi
incrociato quel tipo di amore in
acqua… non avrebbero avuto
scampo, per come ero ridotto.
La voce di Lily si levò dall’altra
parte del bidone, ricordandomi
perché ero là. Gabrielle Pettit rideva
fragorosamente. Mi irritai all’idea
che stesse prendendo in giro Lily.
— Devi aver sbattuto la testa
parecchio forte — le disse con
un’altra risata.
— Non fare la stupida — disse
Jack. — Tu non sai cosa ha visto.
— Sono certa che non ha visto un
delfino. Anzi, ci scommetto la pelle.
Ammesso che un delfino abbia
trovato il modo di arrivare fin qui.
Allora stava ancora pensando a
quello stupido delfino.
— Secondo voi cos’era, ragazzi?
— chiese Lily. — Era davvero
grande.
— Alcuni storioni diventano
enormi — disse Gabrielle. — A
volte superano persino i due metri.
— Girò e girò ancora, finché non
ebbe attorcigliato le catene alla cima
dell’altalena.
Jack annuì. — In questo periodo,
sono più sul metro, metro e mezzo al
massimo.
— No, era più grande — disse
Lily. — Più grande di me.
Chiusi gli occhi per rivedere
l’intera scena nella mia testa.
Credevo che Lily non fosse
cosciente. Cosa avevo fatto? Cosa
aveva visto?
— Mi ha afferrata, facendomi
volare fuori dall’acqua. Voglio dire,
ero caduta da un’altezza notevole,
poi sono schizzata fuori dall’acqua e
sono atterrata sulla roccia. È stato
come essere sparata dalla bocca di
un cannone.
— Tesoro — disse Gabrielle — a
me
sembra
decisamente
un’allucinazione.
— Poi Calder mi ha portata a
casa.
— Parli di quel tipo sexy del
trasloco? — Gabrielle sollevò i
piedi da terra e iniziò a turbinare in
un vortice di lunghi capelli neri. —
Non ci avevi detto che eri andata a
spasso con lui.
— Non ero andata esattamente a
s p a s s o con lui. Ero uscita con
Sophie. Lui è comparso dopo.
— Vedi, questa storia non mi
piace — commentò Jack. — Ho
sempre vissuto qui e non ho mai
sentito parlare di quel tipo. Inoltre,
se era con te, perché non ti ha
salvata?
— Lo ha fatto. Mi ha tirata fuori
— disse Lily. — Insomma, dice di
averlo fatto. — Scosse la testa. —
Potrei giurare di aver visto anche
qualcos’altro. Qualcosa di grande…
con un anello d’argento intorno al
collo.
— Oh, no — disse Jack. Le
parole gli uscirono in un lungo
sospiro.
Gabrielle lo guardò e aggrottò la
fronte. — Senti, sta’ zitto. Non
rifilarle le tue scemenze.
— Un anello d’argento? —
domandò Jack, ignorando sua sorella.
— Esatto — rispose Lily. — Non
riesco a smettere di pensarci.
— Andiamo, voglio farti vedere
una cosa.
— No, Jack. Non farlo — disse
Gabrielle. — La ragazza è già
abbastanza confusa di suo.
Jack afferrò la mano di Lily e
attaccarono a correre. Gabrielle si
accodò, del tutto contrariata. Mi alzai
e li seguii, nascondendomi dietro le
barche in secca, una fila di gommoni
e alcune automobili parcheggiate.
Tornarono alla Pinto e immaginai
di averli persi, ormai. Una volta
saliti in macchina, sarebbero stati
fuori dalla mia portata. Invece, non
salirono a bordo. Jack aprì il
bagagliaio. Tirò fuori un oggetto
piatto e quadrato e lo rigirò per
mostrarlo a Lily. Era un quadro
dipinto a olio. Grezzo. Di scarse
qualità artistiche. Ma abbastanza
nitido. Era Pavati. O qualcosa che le
somigliava. Capelli scuri ondeggianti
che le avvolgevano le spalle. Occhi a
mandorla color lavanda, incorniciati
da folte ciglia. Pelle scura, illuminata
da una fonte di luce nascosta. Le
braccia, la coda blu cobalto…
L’anello d’argento intorno al collo.
Non era un prodotto della sua
immaginazione, ma come faceva Jack
a essere ancora vivo se aveva
conosciuto Pavati?
Lily guardò prima il quadro, poi
Jack. — Vorrai scherzare!
— Hai detto che aveva un anello
d’argento intorno al collo.
—
Sì
—
disse
Lily,
concentrandosi di nuovo sul dipinto.
La sua voce si sentiva appena. —
Una sirena? — La sua immaginazione
non si era spinta a tanto.
— L’ho dipinto per il corso di
arte — disse Jack. — Dovevamo
dare forma a una leggenda
americana.
— Pensate che il Lago Superiore
sia abitato dalle sirene?
— No — rispose Gabrielle,
mentre Jack faceva una smorfia. —
No, non lo pensiamo. Il disegno di
Jack si basa su una leggenda del
Maine. Diglielo, Jack.
— Subito — disse Jack con
riluttanza. — È una leggenda dei
Passamaquoddy. La storia parla di un
indiano, di sua moglie e delle sue
due figlie che vivevano nei pressi di
un grande lago.
— No, non un lago — lo corresse
Gabrielle. — Era l’Oceano
Atlantico.
— Sì, giusto. L’oceano. La madre
diceva sempre alle figlie di non
entrare in acqua perché, se lo
avessero fatto, sarebbe successo
qualcosa di terribile. Le ragazze,
però, uscirono di nascosto. Volevano
raggiungere a nuoto un’isola che si
vedeva dalla loro tenda.
— E poi? — chiese Lily.
— Non fecero più ritorno.
— Uffa, Jack. — Gabrielle mise
un braccio intorno alle spalle di Lily.
Jack proseguì. — Si misero tutti a
cercare le ragazze, ma non riuscivano
a trovarle. Il padre uscì in canoa nel
lago e le vide nuotare, ma non
somigliavano più alle sue figlie.
Sembravano serpenti neri ed erano
come intrappolate nelle alghe.
«Il padre provò ad avvicinarsi,
ma più si avvicinava, più loro
sembravano
affondare
nella
vegetazione. Più affondavano, più
diventavano belle. Ma senti questa:
avevano anelli d’argento intorno al
collo.
«Da allora, ogni volta che gli
indiani uscivano in canoa, le ragazze
cantavano e li trasportavano
sull’acqua. Gli indiani non avevano
bisogno di remare. Le sirene erano
come gli angeli custodi della tribù.
Un giorno, però, qualcuno provò a
catturarne una.
— E le tagliò i capelli. Bla, bla,
bla — disse Gabrielle. La storia di
Jack doveva averla giù sentita
un’infinità di volte. Alzò gli occhi al
cielo e sperai che questo convincesse
Lily a lasciar perdere l’intera
faccenda. Jack Pettit era fin troppo
convincente.
— Le tagliò i capelli? — ripeté
Lily, gli occhi spalancati.
— Esatto — disse Jack. — Provò
a prenderla, ma era troppo scivolosa.
Riuscì solo ad afferrarla per i capelli
e, quando li tagliò, lei rovesciò la
canoa e lo fece annegare.
— Spaventoso — disse Lily.
— Sì, ma ricorda — disse
Gabrielle — non ci sono leggende
sulle sirene da queste parti.
— Non esattamente — disse Jack.
— Gli Anishinabe hanno leggende
sulle divinità dell’acqua. Li
chiamano manitù. Non dovresti
escludere niente.
— C’è una corso d’acqua
navigabile che va dal Maine a qui —
disse Lily.
Infilato nel mio nascondiglio, mi
battei la fronte con un pugno. Perché
cercava in tutti i modi di farlo
diventare realtà?
— Avrebbero potuto seguire la
Via Marittima di San Lorenzo fino al
Lago Superiore. Avrebbe senso.
— Ma ti ascolti, Lily? Non ha
senso per niente. — Gabrielle aveva
chiaramente raggiunto il limite. —
Sbrighiamoci, ho fame. Andiamo al
supermercato. Ho un buono sconto.
— La mia sirena non era
scivolosa — disse Lily. — Non
somigliava nemmeno a un serpente…
— Passò un dito sul disegno,
tracciando la coda.
— Tu non hai una sirena — disse
Gabrielle. Prese il quadro dalle mani
di Jack, lo buttò nel portabagagli e
chiuse lo sportello. Poi trascinò Lily
lontano dalla macchina e sul
marciapiede. Jack le seguiva. — Che
mi dici di Calder? — le chiese
Gabrielle. — Gli hai chiesto se ha
visto qualcosa di strano?
— Mi ha detto che sono stupida a
pensare di aver visto un delfino.
Immagino abbia ragione lui.
— Senti — disse Jack. — L’ho
già detto una volta e lo dirò ancora:
non penso che dovresti continuare a
frequentare quel tipo.
Camminavo dietro di loro e
lanciavo occhiate assassine a Jack.
Non aveva bisogno di allontanare
Lily da me ancora di più. Ci stavo
già riuscendo io, più che bene.
— Insomma, a che pensava
quando ti ha detto di sporgerti dalla
roccia? È come se avesse voluto farti
cadere di proposito. A me sembra un
imbecille.
— In effetti è strano che non
abbiamo mai sentito parlare di lui,
fino a oggi — ammise Gabrielle. —
Come hai detto che fa di cognome?
— Ehm, White? Mi pare sia
questo il cognome che ha detto a mio
padre.
— Bene, ecco un modo per fare
chiarezza — disse Jack. Erano quasi
alle porte del supermercato. Un
vecchio telefono a gettoni, fissato
con dei bulloni arrugginiti, si trovava
sul muro esterno fra il negozio di
alimentari e la Pizzeria di Big Mo,
con un elenco telefonico legato alla
mensola. Jack cominciò a girare le
pagine
deformate
dall’acqua
partendo dall’ultima.
— Ah. C’è un White. Solo il
numero di telefono, però. Niente
indirizzo.
— Forza, chiamalo! — disse
Gabrielle.
— Non voglio sprecare il mio
credito per quel tizio.
Lily non stava ad ascoltare. Era
ancora presa dalla conversazione
precedente. — Qualunque cosa fosse,
è stato incredibile. La cosa più
fantastica che abbia mai visto.
Jack annuì. — Ti credo.
— Davvero?
Gabrielle alzò gli occhi al cielo.
— Quello che hai visto? Erano solo
le endorfine. Ti hanno fatto sentire
felice perché non eri morta, quindi
tutto ti sembrava bello. Non
dimenticare, sai chi ti ha tirata fuori
e sono pronta a scommettere che quel
Calder White non porta un anello
d’argento intorno al collo. E non ha
nemmeno una coda, se è per questo.
Lily sembrava a disagio. Non
poteva negare che l’avessi riportata a
casa con le mie gambe. E per quanto
ne sapeva, non portavo anelli intorno
al collo. Aggrottò le sopracciglia e
piegò in basso gli angoli della bocca.
Sapevo che avrei dovuto
conoscerla meglio per capire cosa
pensava. Se aveva già cominciato ad
avere sospetti sul mio conto, avrei
dovuto cambiare tattica un’altra
volta.
Lily e i due Pettit entrarono nel
negozio di alimentari e io emersi da
dietro il cassonetto, scorgendo il mio
riflesso nella vetrina del Blue Moon
Cafe. Gli occhi si posarono sul
cartello CERCASI PERSONALE.
14
PROMESSA
Il giorno dopo mi ritrovai a
camminare su e giù nell’ombra di una
caverna, scrutando il mondo
attraverso una cortina di edera. Ogni
cosa era cupa. La depressione mi
attanagliava, nutrendosi della mia
paura di fallire con Lily,
ingozzandosi del timore di non
liberarmi mai di Maris. Oppure
erano i ricordi dolorosi del Lago
Superiore a spingermi così vicino
all’oblio? In ogni caso, ero al limite
e guardavo avvicinarsi una sfortunata
donna in kayak.
Con il fiato sospeso aspettai il suo
compagno. Chi va in kayak viaggia
sempre in coppia. Come le strolaghe.
Mentre si avvicinava, però, mi resi
conto che era sola. Avrei dovuto
saperlo. La sua aura vibrava di onde
viola: il colore dell’indipendenza e
dell’avventura.
Un
compagno
l’avrebbe rallentata.
Mi sentivo stringere le budella
mentre la vedevo avvicinarsi e
aspettavo il momento giusto. Se le
avessi dato troppo preavviso, se mi
avesse visto troppo presto, il sapore
delizioso delle sue emozioni intense
avrebbe fermentato fino a putrefarsi
in paura. L’ansia degli umani era già
abbastanza amara per la mia lingua,
ma la loro paura… La paura mi
costringeva a vomitare per ore tra i
cespugli.
Dal collo le pendeva una
macchina
fotografica
dall’aria
costosa. Era così pesante da non
oscillare mentre remava. La donna
posò la pagaia e prese la macchina
fotografica, avvicinandola agli occhi.
La puntò su un cumulo di rocce alla
mia destra e cominciò a scattare foto
mentre esaminava la vegetazione,
abbassando l’obiettivo sulle onde
che lambivano l’ingresso della
grotta.
Poi rimase pietrificata.
Sapevo cosa aveva inquadrato
nell’obiettivo.
Balzai e le fui vicino, prima che
lasciasse cadere la macchina. Una
volta rovesciata la canoa, fu fin
troppo facile tirarla fuori. La
macchina fotografica si sfilò dal
collo e finì sul fondo del lago,
cancellando
qualunque
prova.
Intrappolai la donna tra le braccia,
trascinandola sempre più giù, e attesi
che le sue emozioni filtrassero nella
mia pelle. Ci stavano impiegando più
tempo del solito e ottenni solo un
rivolo di eccitazione, prima che il
sapore acido del panico mi colpisse
la lingua. Spalancai gli occhi e vidi
Maris osservarmi compiaciuta dal
fondo del lago. Fu il suo sorriso
malevolo a indurmi a liberare la
donna, che si affrettò verso l’alto,
con una scia di bollicine che le
uscivano dal naso. Non mi voltai per
vedere se avesse raggiunto la
superficie. Non avrebbe mai
denunciato alle autorità l’aggressione
da parte di un sirenetto. E comunque,
anche se lo avesse fatto, chi le
avrebbe creduto?
Maris scosse la testa disgustata.
— Seguimi — disse. Il suo ordine fu
come un pugno telepatico allo
stomaco.
Nuotammo verso l’isola di
Manitù, finché lei non si fermò per
riemergere. Io uscii dall’acqua
cinque secondi dopo.
— Guardati intorno, Calder. Cosa
vedi?
— Qualcuno che si gode la mia
sofferenza — dissi.
Un sorrisetto le tese gli angoli
della bocca. — Touchée. Ma lo
riconosci, questo posto?
Girai in cerchio, calcolando la
distanza tra Manitù e la terraferma,
fino all’isola più vicina. Formavano
un triangolo con me al centro. Sì,
riconoscevo il posto. — È dove sono
caduto in acqua.
— Bingo.
Il ricordo della barca a vela
affiorò nuovamente, con le lettere
misteriose dipinte sullo scafo, i miei
genitori umani che si allontanavano,
mentre si affrettavano ad ammainare
le vele per tornare indietro, per
lanciare un salvagente… I polmoni
mi bruciarono al ricordo; sentivo
ancora il sole affievolirsi in puntini
di luce mentre le acque buie
inghiottivano il mio corpicino e il
cuore smetteva di battere.
— Forse nostra madre avrebbe
dovuto lasciarti morire, Calder?
La domanda mi riportò al
presente.
— Me lo sono chiesta spesso —
proseguì Maris. — Non sei mai stato
del tutto adatto per questa vita. Se ti
servono ulteriori prove, quella donna
di prima…
— Sono solo fuori allenamento.
— È questo che intendo. Perché
mai saresti fuori allenamento? Non è
normale.
Non sapevo cosa risponderle. Ma
sapevo dove voleva andare a parare
e conoscevo la risposta alla domanda
successiva.
— Era anche mia madre, Maris. E
voglio vendicare la sua morte.
— Stupido ragazzino — disse con
tono di sufficienza. — Lo so che vuoi
farlo. La domanda che ti pongo è: ci
riuscirai?
— Falla finita, Maris. Abbiamo
stretto un patto. Posso farlo. E lo
farò. E una volta che tutto sarà finito,
non dovrai più perdere tempo a
chiederti se io sia normale oppure
no.
Prima che Maris avesse il tempo
di rispondere, una 330 Sun Sport
superò un’insenatura della costa, con
il motore che faceva turbinare
l’acqua, il conducente concentrato
sulla riva, intento a ispezionare le
rocce con un binocolo. Dietro di lui,
Maris e io non tentammo nemmeno di
inabissarci.
— Dovrei prendere lui? — chiesi
ironicamente. — Servirebbe a
dimostrarti qualcosa?
— No — rispose calma. — Lui
no.
Mi concentrai sulla figura a bordo
della barca. Cosa aveva di tanto
speciale? Quando riconobbi Jack
Pettit nel fortunato navigante, rimasi
di stucco. — Perché no?
— Lui è di Pavati.
Soffocai con una risata. — Oh,
andiamo, mi vuoi dire che lei ha la
precedenza?
— Dovrai chiederlo a lei.
— Non importa. Può prenderselo
pure. Tra l’altro, farei tardi al
lavoro.
— Hai un lavoro? — mi chiese
divertita.
— Sono il nuovissimo barista del
Blue Moon Cafe.
— Hanno assunto te? — chiese
Maris.
— Forse non sono del tutto privo
di talento, Maris. So essere
persuasivo. E fa parte del mio piano.
Come ho detto, non devi preoccuparti
per me. Ho tutto sotto controllo.
Inarcò le sopracciglia in
un’espressione dubbiosa e nuotò via,
lasciandomi a sprofondare nella
malinconia in cui mi aveva trovato.
Mentre nuotavo verso il molo di
Bayfield, sentii che Tallulah mi
seguiva a qualche metro di distanza.
— Calder, aspetta.
Mi voltai a guardare e vidi che
aveva un neonato tra le braccia. La
gola mi si strinse per il disgusto e mi
sollevai immediatamente. — Oh,
insomma, Lu. Perché?
Quando mi porse il fagotto, però,
capii che non si trattava di un
bambino. Era solo un pesce bianco
gonfio di uova. Scoppiò a ridere,
leggendo la mia impressione nei
pensieri che sfumavano, e mi cinse il
collo con un braccio lungo e cereo,
per farmi avvicinare. Ridacchiando,
la allontanai ed esaminai il suo
bottino.
— Dove sei stato? — mi
domandò, rivelando con il pensiero
la sua vivida immaginazione.
Spalancai gli occhi di fronte a
quelle
immagini.
— Insomma,
Tallulah, vuoi smetterla? Non sono
Pavati. Smetti di immaginare il
peggio. — Ma non potevo fare a
meno di aggrapparmi all’ultima
scena che mi aveva mostrato: Lily su
un’amaca, sdraiata sotto di me, le sue
dita nei miei capelli, il suo tallone
che mi risaliva lento sul polpaccio.
Tallulah sorrise e mi prese per
mano. Nuotammo insieme, il pesce
infilato sotto un braccio, le nostre
code argentate e identiche che
luccicavano e si muovevano in
perfetta sincronia. Di nuovo mi
chiesi come sarebbe stato per noi
vivere senza Maris. Ci saremmo uniti
alle sirene del Lago Michigan?
Ripensandoci, forse no. Con la
fortuna che ci accompagnava, non
sarebbe stato un grande affare.
Inoltre, non era già abbastanza brutto
essere legato alle mie sorelle? Non
riuscivo a immaginare di poter
creare lo stesso legame duraturo con
degli sconosciuti. Come per ogni
branco di pesci, una volta formato,
nessun individuo poteva staccarsi dal
gruppo. Comunque, non a lungo e non
per scelta. Per quanto ne sapevo, ero
l’unica eccezione alla regola e
potevo godermi la pausa invernale
solo per pochi, dolci mesi. La
speranza mi esplose nel cervello
come crisantemi di luce. La
promessa di essere liberato dal
controllo del gruppo era troppo
meravigliosa da immaginare. Ero
certo che Lily mi avrebbe portato
Hancock. Alla fine. Non avrei
aspettato a lungo per avere la mia
ricompensa.
Tallulah scese di una decina di
metri e trovò da sedere su un ampio
masso, sul fondo del lago. Consultai
l’orologio, poi le girai intorno per tre
volte, osservandola mentre scopriva
i denti e li affondava nel pesce,
strappandone la carne con una scossa
della testa. Quando ebbe finito, mi
guardò con tristezza e si limitò a
dire: — Non mi piace che passi il
tempo con lei. — Il viso di Lily
lampeggiò di nuovo nella sua mente.
— Non devi mica fartelo piacere
— dissi.
— Se solo Maris ne fosse
rimasta fuori… Il piano originario
era migliore. — Mi mostrò i denti e
distolse lo sguardo, e la testa le si
riempì immediatamente di immagini
confuse: un banco di alose, un
ristorante a New Orleans, il sedile
posteriore dell’Impala.
Scoppiai a ridere, riconoscendo il
tentativo di tenere segreti i suoi veri
pensieri. Confondere le immagini era
un trucco che usavo spesso con le
mie sorelle e non avrei privato
Tallulah di quel po’ di riservatezza
che si era creata. Era sempre pronta
a ripagare i favori.
Le feci l’occhiolino e la salutai,
ma prima di andarmene mi afferrò
per la mano e mi tirò indietro, finché
ci trovammo faccia a faccia.
— Ho sentito quello che Maris ti
ha detto prima.
Ma certo. Maris non era mai
discreta.
— Non penso che nostra madre
abbia sbagliato a rianimarti,
Calder. Non l’ho mai pensato. Sei
una bellissima creatura, con tutto il
tuo strano comportamento. Non mi
interessa quello che pensa Maris.
— Quindi non pensi che fallirò?
— No, non lo penso. Devi
farcela, Calder. E poi, quando ti
avrà lasciato libero… — Mi strinse
più forte la mano. — Voglio che mi
porti con te.
Tirai via le dita.
— Prometti che mi poterai con
te. — Le sopracciglia le si
sollevarono in una V rovesciata.
— Devo andare, Lu. Non voglio
fare tardi il primo giorno. — Mi
diressi
verso
la
superficie
dell’acqua, lasciandola sotto una
pioggia di scintille blu, senza averle
promesso niente.
— Non ti lascerò fallire — mi
gridò da lontano, con le parole
distorte dalla mia scia.
Più tardi, quella sera, molto
tempo dopo la fine del mio turno al
caffè, tornai fuori dalla casa degli
Hancock drogato di caffeina, facendo
avanti e indietro nell’acqua placida.
Come avrei fatto, esattamente, a far
funzionare il piano? Una brezza
soffiò tra gli alberi, portando al mio
naso un odore frizzante di agrumi e
pino. Quando superai una linea
invisibile nell’acqua, l’aria si riempì
di un ronzio sommesso, seguito da un
r umor os o chunk, e il lago fu
illuminato da riflettori in un raggio di
trenta metri dall’estremità del pontile
degli Hancock.
Mi immobilizzai, accecato per un
attimo. La luce del portico si accese
e la voce di Hancock disse forte: —
Che succede? Chi va là? Fatti
vedere.
— Va tutto bene, papà. Non è
niente. Sono solo pipistrelli a caccia
di zanzare. Devono aver attivato i
sensori di movimento.
Mi schermai gli occhi con una
mano e cercai di localizzare la voce.
Seduta sull’estremità del pontile, i
piedi in acqua, gli occhi brillanti,
Lily mi guardava dritto in faccia. La
luce sul portico si spense, Hancock
borbottò qualcosa sul fatto che Lily
dovesse tornare in casa “prima di
subito”.
— Che ci fai qui fuori? —
bisbigliò Lily. Spense una piccola
torcia e chiuse il libro.
— Mi crederesti se ti dicessi che
ero solo di passaggio?
Sbuffò. — Non sai mentire,
Calder White.
Il mio cuore ebbe un piccolo
sussulto al suono del mio nome sulle
sue labbra e mi sforzai di impedire
alla pinna caudale di sbucare
dall’acqua. — Scusa se ti ho
spaventata.
— Non mi hai spaventata.
— Davvero?
— No. Ma non mi hai ancora
detto cosa ci fai qui fuori. Se ancora
non lo sapessi, nessuno fa il bagno
nel Lago Superiore, soprattutto ad
aprile, a mezzanotte. E poi, è
pericoloso. Ci sono… Lasciamo
stare.
Evitando l’ovvia domanda, mi
concentrai
sul
suo
profilo,
penetrando l’oscurità. Ero sicuro che
di me non potesse vedere nient’altro
che la faccia, ma questo non mi
aiutava a calmare i nervi. Questa
ragazza sapeva troppo. E aveva
decisamente molto autocontrollo. Il
meglio che potessi fare era girare le
accuse contro di lei.
— Potrei essere io a chiedere a te
cosa ci fai qui fuori, nel cuore della
notte.
— Sono a casa mia. Vivo qui.
Posso fare quello che mi pare.
Sospirai sconfitto. — Va bene.
Hai vinto.
— Allora? Me lo dici o devo
immaginarmi il peggio?
“Il peggio?” Per un secondo
pensai di dirle la verità; non che mi
avrebbe creduto. Se le avessi detto
che ero un serial killer che si
aggirava intorno alla sua famiglia di
notte, l’avrebbe etichettato come
semplice sarcasmo. — Se proprio
vuoi
saperlo,
quest’estate
parteciperò a una gara di triathlon e
dovrò nuotare per un chilometro e
mezzo all’aperto. Di giorno ci sono
troppe barche, per questo mi alleno
di notte.
Sbuffò. — Le barche sono ancora
in secca.
Mi affannai per trovare una
risposta, ma lei continuò a parlare:
— Spero che tu stia indossando una
muta.
— Ma certo.
Lily storse la bocca come se non
credesse alle stupidaggini che le
stavo rifilando. Si alzò in piedi. —
Come vuoi.
— Dove vai?
— Dentro. È tardi. — Si guardò
alle spalle, in direzione della casa.
— E devo assicurarmi che tu non
abbia fatto venire un infarto a mio
padre o qualcos’altro. — Borbottò
qualcosa sottovoce che suonava
come “folle”, ma non ero certo che
parlasse con me o con se stessa.
Accese la torcia. Il fascio di luce le
dondolava
davanti
mentre
camminava rapida verso casa, con il
vecchio libro di poesie stretto al
petto.
15
VITTORIANI NEL VERDE
La mattina dopo ero appoggiato al
muro di mattoni della Libreria
Harbor, con il ginocchio sollevato e
la visiera del berretto calata sugli
occhi. I capelli iniziavano ad
asciugarsi e ad arricciarsi sulle
punte. La libreria era ancora chiusa.
Consultai
l’orologio. Avrebbe
dovuto essere già aperta.
Alcune persone camminavano sul
marciapiede e rispondevo con un
cenno ai loro saluti. Un uomo, con il
giornale sotto braccio, stava
portando a passeggio un bassotto che
quasi toccava terra con la pancia. Il
cane mi guardò con gli occhi
arrossati, mentre trotterellava verso
l’angolo, e il suo unico pensiero era:
quanta strada manca?
Dietro di me, la serratura scattò e
io sobbalzai per il rumore.
— Entra, entra pure — disse una
donna. La sua felpa delle isole
Apostle era nuova e non era ancora
stata lavata. Mentre entravo, si
arrotolò le maniche sopra i polsi.
— Chiedo scusa per il ritardo —
disse. — Ero andata a recuperare la
gatta. È scappata dal retro quando
sono arrivata. — Una gatta maculata
si strofinò sui jeans della donna,
all’altezza delle caviglie, facendo le
fusa soddisfatta. Mi chinai per
accarezzarle la testa e lei sollevò il
muso per annusarmi le dita. Soffiò e
corse nella stanza sul retro.
— Scusala, a volte è proprio
suscettibile. Posso aiutarti a trovare
qualcosa?
— Poesie — dissi mentre mi
alzavo.
— Ecco, non abbiamo una scelta
e n o r m e in merito. Abbiamo
soprattutto i titoli di maggior
successo e alcuni libri di interesse
locale, ma… — Mi passò accanto e
tirò fuori una scala da dietro il
bancone. — Penso… — disse,
appoggiando
la
scala
e
arrampicandosi fino al terzo scalino.
Guardò in basso, verso di me. —
Robert Frost?
— A dire il vero, cercavo
qualcosa dei vittoriani. — Emise una
specie di “uh” fiacco e passò il dito
su alcuni volumi sullo scaffale più
alto. — Che ne dici di questo?
Dovrebbe coprire il periodo
Regency e l’epoca vittoriana. — Mi
porse il libro e me lo rigirai tra le
mani. Sulla copertina c’era scritto
Un’epoca di eleganza. Sotto il titolo
dorato lessi i nomi di Brontë, Byron,
Keats, Kipling, Rossetti, Tennyson,
Wordsworth, Yeats.
— Perfetto — dissi, sorridendo.
— Oh, bene. Sono lieta che faccia
al caso tuo. Allora, vediamo… —
Scese dalla scala e andò alla cassa.
Tirai fuori una banconota da venti
dollari stropicciata. Nelle sue pieghe
c’era ancora l’odore di New
Orleans.
— Un appassionato di poesia, eh?
— Non esattamente. Non ancora,
comunque. — Le porsi i soldi
proprio quando la gatta si affacciò da
dietro l’angolo per guardarmi. La
fissai intensamente e lei mi mostrò i
denti.
— Signora Murphy, no — la
rimbrottò la donna. — Devi essere
gentile con i clienti.
— Non fa niente — dissi, e me ne
andai. Poco dopo, lungo la costa
trovai un tratto erboso del parco
cittadino, tra la marina di Bayfield e
il molo dei traghetti. Una fila di
massi enormi riparava la spiaggia
dalle onde. Una quercia bianca e
nodosa cresceva al centro del parco.
Al limitare della sua ombra, trovai il
posto giusto per sedermi sull’erba.
Aprii il libro e studiai l’indice,
quindi iniziai da Emily Brontë,
cercando nelle sue poesie qualcosa
di utile, seducente, che potesse
attirare Lily e porre fine alla ridicola
repulsione che provava nei miei
confronti. Allora, i miei occhi si
posarono sull’arma più ovvia. Avevo
già letto il primo verso, non sulla
pagina di un libro, ma sul tatuaggio
di Lily: Non è vile la mia anima.
Feci un’orecchia alla pagina e
bisbigliai ogni verso finché non mi
rimase scolpito nella memoria; poi
passai alla Carica della brigata
leggera di Tennyson, con i versi
“Mezza lega avanti, nella valle della
Morte”. Un altro componimento era
interamente dedicato alle “Isole blu”,
un altro ancora alla Dama di Shalott.
Chi erano queste persone? Tutti
loro si ponevano la mia stessa
domanda: come sfuggire a una vita in
cui ogni cosa buona era effimera?
Quando arrivai a Yeats, però, il
cuore quasi si fermò.
Una sirena trovò un ragazzo che
nuotava,
Lo prese per sé,
Strinse il corpo al suo corpo...
Chiusi il libro di scatto e premetti
gli occhi sulle ginocchia. Cosa ne
poteva sapere Yeats?
Nonostante la giornata di sole,
un’ombra si posò su di me,
rinfrescandomi la pelle, mentre
gocce d’acqua mi cadevano sui piedi
scalzi. Non avevo notato nessuna
nuvola, prima. Cercai di proteggere
il mio nuovo libro dalla pioggia e
sobbalzai quando scorsi Tallulah che
mi osservava dall’alto. Era
completamente vestita (grazie al
cielo!), ma aveva i capelli ancora
gocciolanti. Il suo viso eclissava il
sole, creando un alone di luce intorno
alla testa.
— Cosa ci fai qui, Lu?
— Ti cercavo — disse.
— Bene, mi hai trovato. Siediti.
Si mise a sedere vicino a me e
l’umidità mi impregnò il fianco
destro,
calmandomi,
mentre
ripercorrevo mentalmente le poesie.
Come se riuscisse a leggermi il
pensiero anche a terra, Tallulah si
sporse per afferrare il volume.
— Che roba è?
— Compiti per casa.
Il libro si aprì alla pagina segnata
e Tallulah sfogliò oltre, fermandosi
con uno sbuffo. — Cavolo e questa
cosa sarebbe?
Non dovevo tirare a indovinare
per sapere quale stesse leggendo. —
Poesia vittoriana. A Lily piace
questa roba. Ci credi?
— Solo una coincidenza, giusto?
— Oh certo, voglio dire, ci sono
tante altre poesie là in mezzo che non
c’entrano niente con noi, ma è strano,
vero?
— A dir poco.
— Pensi che sia un bene o un
male?
— Penso che dipenda dall’uso
che ne farai, Calder. Usala a tuo
vantaggio, senza farci scoprire,
ovviamente.
— Figuriamoci.
— Basta che ti sbrighi, capito? —
Si raggomitolò su un fianco e mi
posò la testa sulla spalla. — Ecco.
Che ne pensi di questa? — disse,
mostrandomi una pagina diversa. —
Se mi leggessi questa, potresti farmi
qualsiasi cosa. — Le sfilai il libro
dalle dita e lessi ad alta voce:
La prima volta che mi baciò,
baciò solo
Le dita della mano che scrive;
Da allora divenne più pura e
bianca,
Restia alle lusinghe del mondo,
incline a dire: “Senti?”,
Quando parlavano gli angeli. Un
anello d’ametista
Non vorrei qui, più puro alla vista
Di quel primo bacio. Più in alto il
secondo,
In cerca della fronte, che colse per
metà,
E per metà sopra i capelli. O
sublime ricompensa!
Crisma d’amore che la corona
dell’amore,
Con dolcezza salvifica, precedeva.
Il terzo, sulle mie labbra, fu
deposto
In purpurea perfezione; da quel
giorno,
Con orgoglio, ripeto: “Mio amato,
o mio!”
— Inutile — disse, sospirando
profondamente. — Con questa roba
credo che non andrai molto lontano.
Questo libro dovrebbe avere
un’etichetta di avvertimento.
— Attenzione, usare con
moderazione? — suggerii.
Annuì. — Oppure: tenere lontano
dal fuoco.
— Ricevuto — dissi, facendo un
rapido saluto militare.
16
COME UN LIBRO
Due giorni dopo, avevo appena finito
di strofinare i tavoli e le sedie
variopinte del Blue Moon Cafe e
stavo iniziando a lucidare il bancone
di marmo. Quando la campanella
della porta suonò, alzai lo sguardo e
Lily varcò la porta con indosso una
giacca di velluto blu e un cappello di
feltro. Fece due passi, poi si fermò di
colpo quando vide un sorriso
allargarsi sul mio volto.
— Oh, insomma. Ancora tu? —
Allontanò le braccia dal corpo
formando una strana angolazione.
Sapevo che avrebbe reagito in questo
modo. L’avevo previsto. Fu ancora
più divertente di quanto avessi
immaginato.
— Ancora io — dissi, scrollando
le spalle e dando un’altra strofinata
al bancone.
Guardò in giro nervosa, come a
chiedersi se dovesse andarsene, ma
poi drizzò le spalle e assunse una
posa decisa. Calpestò a passi svelti
il pavimento a scacchi e si mise le
mani sui fianchi. — Che cosa fai qui?
— Io qui ci lavoro — risposi in
modo molto pratico, piegando lo
strofinaccio bagnato. — La domanda
più giusta è, che cosa ci fai t u qui?
— Trattenni un sorriso. Conoscevo
la risposta, ma era comunque
divertente chiederlo. Maris mi aveva
trovato lavori davvero schifosi, in
passato. Almeno questo si stava
rivelando
uno
spasso.
Era
imbarazzante quanta soddisfazione
ottenessi a punzecchiare Lily.
— Lavoro qui adesso — disse. —
È il mio primo giorno.
— Ma non mi dire. Be’, in questo
caso prendi un grembiule. Lo trovi
qui sotto. — Mi chinai per finire di
riempire la vetrina con i dolci di
pasta sfoglia. Lei si piegò sul
bancone e mi scrutò.
— Mi stai tampinando? — chiese.
— Qui c’ero prima io.
— Sapevi che stavo facendo
domanda per un lavoro qui.
Mi alzai e affrontai direttamente
l’accusa. —Ti è mai venuto in mente
che forse lavoravo già qui quando me
l’hai detto?
Lei rimase in silenzio per un
attimo, valutando la possibilità, in
bilico tra l’imbarazzo e il dubbio
persistente. Poi disse: — È vero?
— No.
Sospirò e mi lanciò un’occhiata
esasperata. La sua smorfia mi
strappò un sorriso. Tutta la situazione
era irritante. Lei doveva essere
malleabile, persuasibile. Facile da
abbordare. È questo che doveva
succedere. “Non fallire, Calder. Non
ti permetterò di farlo.”
Lily espirò tutta l’aria dai
polmoni e mi rivolse uno sguardo
durissimo. — Allora mi stai davvero
seguendo.
Era inutile mentire. — Sì. Ti sto
seguendo.
L’espressione del suo volto,
attentamente controllata, vacillò. —
Perché?
Mi sporsi sul bancone, unendo le
mani e avvicinando il mio viso al
suo. Ci guardammo di nuovo negli
occhi, ma stavolta rifiutai di lasciarle
allontanare lo sguardo. — Perché mi
piaci. Scusami se ti rendo nervosa.
Ogni colore svanì dal suo volto.
— Pensavo che tu mi credessi pazza.
— Mi piace la pazzia.
— Sei incredibile — borbottò.
— Così mi hanno detto.
Sfilò la giacca di velluto dalle
spalle e l’appese a un gancio fissato
alla parete. La camicetta di pizzo
arrivava a stento alla parte alta della
gonna, mostrando un ritaglio di pelle
pallida. Tirai fuori un grembiule blu
e glielo lanciai. Lily girò intorno al
bancone mentre se lo legava in vita.
La signora Boyd uscì dal retro,
intenta a spuntare le voci da una lista
infilata in un portablocco a molla. La
sua gonna a fiori rosa e blu
ondeggiava a ogni passo. Non stava
guardando dove andava, e rischiò di
sbattere contro Lily.
— Oh. Lily Hancock, vero? Bene.
Puntuale. Mi piace. Devo prendere
altro latte all’emporio. Calder, tra
poco dovrebbero fare una consegna,
quindi se l’autista ha bisogno della
firma, mettila pure tu.
— Lily, Calder può spiegarti tutto.
Ha iniziato da pochi giorni, ma
impara molto in fretta. Sei in ottime
mani. — Piegò la lista e la mise in
borsa, infilando il portablocco dietro
il registratore di cassa. — Torno
presto — disse. La campanella della
porta tintinnò.
Lily si girò per avvicinarsi a me.
— Tu mi devi spiegare tutto?
Scrollai le spalle. — Non c’è
granché da dire. Il registratore di
cassa ha ogni voce del menu su un
tasto diverso. Premi quello che
ordinano, e poi il tasto TOTALE. E dai
il resto. Ti insegnerò come usare la
macchina del caffè man mano che
arrivano gli ordini.
— Ci sarà parecchia gente?
— Ne dubito. Ce ne sarà di più
quest’estate, quando cominceranno
ad arrivare i turisti, ma sarà di una
noia mortale almeno fino alla fine di
maggio. Non avrai molto da fare,
tranne parlare con me.
— Grandioso.
Strascicò la parola, per farmi
capire quanto poco l’allettasse
l’idea.
Per un istante i nostri sguardi si
incontrarono. Mi immersi nel grigio
chiaro dei suoi occhi, il cielo prima
della tempesta, quasi la stessa
intensità dell’alone che si agitava
intorno alle curve del suo corpo. Mi
ricordò il colore che hanno i
ragazzini quando si sentono
tartassati, ma per Lily la vibrazione
era diversa, più argentea, come un
martirio rassegnato o la disponibilità
al sacrificio.
— Cosa fai? — mi chiese.
— Ti guardo. Lo trovi tanto
odioso?
— Odioso? Chi lo dice?
— Mmm. Io, credo. — Allungai
un braccio verso di lei, e mi tirò uno
schiaffo su una mano.
— Be’, non fissarmi così. Non mi
piace — disse.
— Cosa diresti se ti dicessi che
non posso farne a meno?
— Direi che sei odioso.
— Perché non ti piaccio, Lily
Hancock? — Non capivo perché la
domanda fosse uscita così diretta.
Probabilmente
perché
stavo
diventando matto a non saperlo. Se
avessi fatto qualcosa di sbagliato,
avrei dovuto cambiare strategia. O
c’era dell’altro? A prescindere dal
piano di Maris, volevo comunque
piacere a Lily? Spinsi con forza
questo pensiero fuori dalla mia testa.
Era ridicolo.
Lily incrociò le braccia sul petto.
— D’accordo. Ecco qui. Perché hai
aspettato tanto per venirmi a salvare?
— Tanta ostilità solo per questo?
Davvero inutile. Lily, sono arrivato
il prima possibile.
La ragazza mi fissò il collo e il
mio pomo d’Adamo vacillò. Sapevo
che l’anello d’argento non si vedeva,
ma lei sembrava capace di guardarmi
dentro. Si avvicinò e io feci un
rapido
passo
indietro,
all’improvviso… nervoso, come se
lei rappresentasse un pericolo ignoto.
L’accusa di Pavati aleggiava da
qualche parte nella mia mente.
— Immagino di sì — disse lei.
— Ed è evidente che stai bene.
— Se lo dici tu. — Gettò
un’occhiata al locale. — C’è
qualcosa in particolare che dovrei
fare?
— Vieni con me. — La portai
nella stanza sul retro e le mostrai
dove la signora Boyd conservava i
sacchi di caffè. — Portane un paio di
là tutte le mattine. Uno per il
contenitore. L’altro va sotto. I
tovaglioli e la carta assorbente sono
qui, su questo scaffale. — Presi una
grossa manciata di tovagliolini di
carta. — Assicurati che i contenitori
siano ben pieni.
— Capito — rispose lei,
arrancando sotto il peso del sacco di
caffè.
— Allora — dissi, soffocando
una risata. “Resta sempre sul vago.
Continua la conversazione.” — Per
ora Bayfield ti piace?
Lily fece un sospiro esasperato.
— Be’, come sai, l’inizio è stato
davvero interessante. Uff. — Lasciò
cadere il sacco sul bancone.
— Certo, ma sto ancora
aspettando che tu mi dica perché non
sei mai stata qui prima.
— Non so. Mamma e papà una
mattina
hanno
semplicemente
annunciato che ci saremmo trasferiti.
C’era qualcos’altro che non
voleva dirmi, ma annuii. — La
spontaneità è un’ottima cosa. Le cose
migliori nella vita accadono quando
lasci che gli eventi… si svolgano.
Quando cerchi di controllare troppo
una situazione, ti rovini con le tue
mani.
— So cosa intendi. — Tornò
indietro a prendere il secondo sacco,
mentre io la seguivo da vicino.
— Allora, tuo padre insegna al
college?
— Sì. Insegnerà alla facoltà di
Studi umanistici e Naturali dal
prossimo trimestre. Ma basta parlare
di me — aggiunse subito. — Cosa mi
dici di te?
— Ehm. Che cosa vuoi sapere? —
chiesi, deluso che non fosse più
disposta a essere l’argomento della
conversazione. — Sono un libro
aperto.
— Allora dimmi tutto — ribatté.
Si guardò intorno alla ricerca di
qualcosa con cui tagliare il sacco; le
porsi un paio di forbici.
— Che ne pensi della versione
ridotta?
— Puoi cominciare da lì. Va bene
qui? — chiese, aprendo il
contenitore del caffè. Feci un cenno
di assenso con il capo.
—
Bene,
vediamo,
mi
piacciono… i calzettoni di lana e le
magliette di cotone.
— Ne prendo atto. Cos’altro? —
Si passò le dita tra i capelli e li
raccolse in un largo chignon. Mi
chiesi come sarebbe stato passarle le
dita tra i capelli in quel modo, e mi
lasciai distrarre da questa fantasia,
finché la pelle non mi bruciò sotto il
suo sguardo paziente.
— Mi piace il colore dei Caraibi.
— Smisi di parlare per un attimo e
assorbii l’energia del suo sorriso
prima di aggiungere: — Cani, non
gatti. Boxer, non slip. Rosse più
delle brune… — La osservai di
traverso; per un attimo, il mio
sguardo incrociò il suo. — Ho una
predilezione per le ragazze con le
giacche di velluto… e penso che tu
sia la ragazza più bella che io abbia
mai visto.
Si strozzò per la sorpresa,
borbottò e scosse la testa. — Vedi?
È questo che intendo.
— Cosa?
— Nessuno parla così. Ti
conosco appena.
Rimasi sinceramente confuso.
Alle ragazze non piaceva sentire
queste cose? Inoltre, senza forzature,
era pure la verità. — Be’, io parlo
così. E dovresti essere abituata al
fatto che le persone ti dicano che sei
bella.
— Be’, non lo sono — ribatté, e
sembrava che iniziasse a irritarsi di
nuovo con me. Il sentimento era
reciproco.
Mi appoggiai alla parete e
sollevai un ginocchio. — Va bene.
Ritiro tutto. Sei assolutamente
comune. Noiosa, noiosa, noiosa. Un
tipo qualunque sotto ogni aspetto.
— Molto meglio — disse lei,
rasserenata. Mi pugnalò la spalla con
un dito.
Entrò una donna che comprò sei
brioches al cioccolato. Lily le mise
in un sacchetto, poi le mostrai come
battere l’ordine. — Grazie. Torni
presto — disse, salutando con la
mano mentre la cliente usciva dalla
porta.
— Allora… — dissi ritornando
all’attacco — torniamo a te. Alla tua
famiglia. Com’è tuo padre?
Dev’essere di una noia mortale per
generare una persona banale come te.
Lei emise un sospiro esasperato.
— È divertente. — Poi sorrise come
se stesse ricordando una battuta. —
Ama molto mia madre, e non è del
tutto sgradevole in pubblico. — Un
altro sorriso.
— Davvero? Niente battute
stupide?
Nessun
pantalone
imbarazzante?
Lily si lasciò cadere su una sedia
di colore viola acceso e infilò una
pila di tovagliolini nel contenitore di
acciaio inossidabile. — No. È in
gamba. Ha passato un brutto periodo
da ragazzino con i genitori, quindi
penso che ce la metta tutta per essere
un buon padre. Aveva sempre
desiderato tornare qui, ma credo che
avesse paura di farlo.
— Di cosa c’è da avere paura?
Lily esitò, come se non avesse
avuto l’intenzione di andare così
presto sul personale. Restò con la
bocca spalancata e arrossì. — Si
potrebbe dire che questo luogo ha
fatto a pezzi la sua famiglia.
Rimasi affascinato dall’ironia.
Non era stata la mia famiglia a venire
distrutta? Non potevo farla fermare
lì. La fissai negli occhi e le imposi la
volontà di condividere altre
informazioni.
Alcuni
pensieri
uscirono da me – immagini di noi due
che sussurravamo in confidenza – e li
spinsi nella sua mente, forzandola a
fidarsi. Lei li combatté. Era più forte
di quanto mi aspettassi, forse più di
qualunque umano avessi mai
incontrato. Ma proprio quando
pensavo di non potermi aprire un
varco, e di essere un fallimento più
grande di quanto persino Maris
avesse ritenuto, la resistenza di Lily
crollò.
Drizzò il mento e disse: — Si
dice che questo luogo abbia portato
alla follia mio nonno.
Mi appoggiai al bancone,
sentendo il marmo fresco sotto i
palmi delle mani, e mi preparai a ciò
che sarebbe arrivato dopo. Lei
spinse indietro con forza la sedia,
facendola stridere sul pavimento.
— Disse di aver visto un mostro
nel lago. — Mi osservò con
attenzione. — Ti sei pentito di averlo
chiesto?
— No — risposi.
— Trascinò via l’intera famiglia
da qui senza alcun avvertimento.
Tutti dissero che era pazzo. In
seguito, a mio padre non venne mai
permesso di entrare nell’acqua – in
nessun luogo – e di certo non
tornarono mai qui. Persino quando
mio padre fu grande abbastanza da
venirci da solo, se ne tenne alla larga
per una forma di rispetto.
— Allora perché ha cambiato
idea?
— In parte a causa della salute di
mia madre. E il nonno è morto a
gennaio. Penso che per mio padre
questo trasferimento sia una
questione “prendi di petto i tuoi
demoni”.
Deglutii forte. Per fortuna non
aveva modo di sapere che il demone
si trovava a pochi centimetri da lei, e
stava usando il beccuccio per il
vapore per trasformare una caraffa di
latte in una schiuma perfetta.
— L’ossessione per il mostro
mandò in pezzi il matrimonio dei
miei nonni. Il nonno venne persino
curato per un po’. Non lo so. Forse
era pazzo, ma a parte le storie strane,
a me è sempre sembrato piuttosto
normale. Perché mi guardi così?
— Così come?
— Come se provassi dolore o
qualcosa del genere. — Si accigliò.
— Tu sei qui da molto tempo, giusto?
Hai mai visto…
Sobbalzai. Non so cosa vide sul
mio volto, ma qualunque cosa fosse
la fece inspirare a fondo.
— Oh santo cielo, lo sai. Hai
sentito le storie! È così, vero?
Finsi di essere distratto dal
termometro sul beccuccio per il
vapore e respinsi sdegnato l’accusa.
— Calmati, Lily. Sto solo pensando
che la tua è una storia davvero
interessante. Tuo nonno ha mai detto
che aspetto avesse il mostro? —
Chiusi la valvola del beccuccio.
— Sai che ti dico? Lascia
perdere.
Il modo in cui scosse la testa
mentre pronunciava quella frase, la
maniera in cui il suo viso assunse la
stessa espressione di quando
guardava il dipinto di Jack Pettit…
Capii che sapeva con esattezza da
che genere di demone il vecchio li
aveva
messi
in
guardia.
Naturalmente, tutti pensarono che
fosse matto, ma suo figlio non era
così ignaro come avevamo creduto.
Non mi stupiva che ce l’avesse
con me per averle dato della pazza.
Magari pensava che fosse genetico.
Forse la mia piccola acrobazia di
salvataggio le aveva fatto temere di
finire in un ospedale psichiatrico.
Per questo la rendevo nervoso.
Dovevo subito mettere fine alla
questione.
— Ascolta, Lily. Solo perché tuo
nonno ha perso le rotelle, non
significa che sia pazza anche tu.
Vedere i delfini nel Lago Superiore
non ti rende una svitata.
— Ah sì? E cosa mi rende?
— Be’, resto ancora della mia
teoria sulle allucinazioni indotte
dall’ipotermia, ma che ne dici se
pensassimo che ti rende fantasiosa?
Non c’è niente di sbagliato in questo.
Anzi, io la definirei una qualità.
Lei sorrise; capii che le era
piaciuta quest’interpretazione. Era il
momento di giocare il mio asso nella
manica.
Alzai un dito e andai nella stanza
sul retro, tornando con il mio nuovo
libro di poesie. Girai la copertina
verso di lei in modo che potesse
leggere il titolo. Le si illuminarono
gli occhi. Mi venne in mente
l’espressione bersela tutta.
— L’immaginazione è alla radice
di ogni sforzo creativo, Lily. La
pittura, la poesia… Guarda Mary
Shelley. Se non avesse visto il
mostro nella sua mente, non avrebbe
mai scritto Frankenstein. Oppure, a
pensarci bene, La dama di Shalott di
Tennyson non parla di una ragazza
impazzita?
— Maledetta, più che altro.
— È comunque una poesia
bellissima.
— D’accordo — disse Lily. —
Capisco cosa stai cercando di dire.
Non sapevo ti piacessero le poesie.
Non penso di conoscere un solo
ragazzo a cui piacciono.
Le feci l’occhiolino e lei arrossì,
allontanando lo sguardo mentre la
campanella suonava sopra la porta
d’ingresso. Irrigidii la schiena
quando vidi le mie sorelle entrare nel
locale schierate a triangolo, con
Maris davanti. Aveva i capelli
sciolti dietro le spalle, come un
mantello, sopra una semplice
maglietta bianca. Le sue iridi
d’argento brillavano.
Pavati mi strizzò l’occhio. La
camicetta rosa da zingara era
scivolata scoprendole una spalla.
Tallulah notò il libro mentre lo
infilavo sotto il bancone, poi alzò lo
sguardo, fingendo di leggere la
lavagna del menu.
— Cosa posso servirvi? — chiese
Lily in tono vivace.
Avrei voluto mettermi tra lei e
Maris, ma dovetti accontentarmi di
stare fermo immobile al suo fianco.
Lily non diede segno di aver
riconosciuto
Pav
e
Lulah
dall’incontro nel bosco (e neanche
dal dipinto di Jack). Speravo che non
le ricordasse. Volevo solo servirgli
da bere e spingerle fuori dalla porta.
— Ciao — disse Pavati. — Ti
ricordi di me?
Lanciai un gemito.
— Le sorelle di Calder — rispose
Lily.
— Maris White — disse Maris,
porgendole la mano. — Non ci siamo
ancora presentate.
Trattenni il fiato.
— Lily Hancock — disse lei,
stringendo con noncuranza la mano di
Maris. Non sembrò accusare alcun
segno di dolore.
Emisi un sospiro mentre la
macchina del caffè sibilava e
strideva. Mi affrettai a preparare le
bevande e a metterle nei bicchieri da
asporto.
Maris mi lanciò un sorriso
condiscendente. Portarono i bicchieri
a un tavolo vicino alla finestra e
disposero le sedie in una posizione
insolita, con lo schienale attaccato al
vetro, tutte rivolte in linea retta verso
il bancone. Sollevarono i bicchieri in
armonia coreografica, bevendo a
piccoli sorsi. Senza mostrare alcun
segno di volersene andare. Senza
parlare. Limitandosi a osservarmi.
“Che discrezione, ragazze. Il minimo
che possiate fare è battere le
palpebre.”
— Forse dovresti andare a
prendere un altro sacco di miscela
French Roast — dissi a voce bassa a
Lily.
Lei iniziò a protestare, poi inarcò
le
sopracciglia
e
lanciò
un’occhiataccia alle mie sorelle. Non
disse altro, limitandosi a voltarsi e
ad andare nel retro.
— Che cosa pensate di fare? —
chiesi a Maris.
— Siamo solo venute a vedere
come vanno le cose. Non c’è niente
di male, ti pare?
—
Non dovete
seguirmi
dappertutto.
— Pavati pensava che fosse
meglio venire a controllare.
La guardai di traverso e lei
scrollò le spalle.
— Smettetela di preoccuparvi. Sta
andando tutto benissimo. — “Tranne
il fatto che Jason Hancock è già in
guardia contro i mostri del lago, e
Lily pensa di aver visto una sirena.”
— Ho solo bisogno di qualche altra
settimana.
— Dieci giorni, Calder. Ti
concedo dieci giorni. Voglio porre
fine a questa storia.
Esitante, Lily tornò dal retro
portando un altro sacco di chicchi.
Non c’era un buon posto dove
metterlo. Le mie sorelle si alzarono,
raschiando il pavimento con le sedie.
— È stato un piacere conoscerti,
Lily Hancock — disse Maris.
Pavati salutò con la mano, e
Tallulah mi lanciò uno sguardo
nervoso. Si avvicinò con la scusa di
gettare via il bicchiere e si chinò per
darmi un bacetto sulla guancia. Mi
sussurrò all’orecchio: — Attento,
Calder.
Girai gli occhi e cercai di
tranquillizzarla. — Te l’ho detto,
Lulah. Ho tutto sotto controllo. A
stasera.
Si allontanò, mimando con le
sopracciglia le parole “lo vedremo”.
Anche dopo che la porta si chiuse,
Lily continuò a guardare nella loro
direzione, incantata, poi scosse la
testa come per scendere dalle nuvole.
Perché non poteva avere la stessa
reazione con me?
— Le tue sorelle sono molto
belle.
— Sono una spina nel fianco,
ecco cosa sono — dissi, cercando di
far svanire in lei il loro ricordo.
Pavati somigliava moltissimo al
dipinto a olio di Jack Pettit. Non
c’era bisogno di rafforzare queste
idee nella mente di Lily. — Non
pensi lo stesso di tua sorella?
— Sophie? No, affatto.
—
Davvero?
Avevo
l’impressione che voi due non foste
molto simili.
— Be’, non lo siamo, ma questo
non significa che lei sia una spina nel
fianco. Sophie ha solo bisogno di
essere seguita. Non mi dispiace. È
molto dolce.
Provai un moto di disgusto per me
stesso. Lily era brava, sincera e
affettuosa, e io stavo cercando di
sfruttare queste qualità. Mi facevo
schifo. Digrignai i denti e afferrai il
bordo del bancone, mentre un calore
elettrico mi irritava la nuca.
— Stai bene?
— Sì, sì. Sto bene — sussurrai,
allontanandomi da lei. Toccai la
macchina per il caffè, una scintilla
bianca balzò dalle mie dita
all’apparecchio.
— Cavolo. Sei sicuro di stare
bene? — Lily allungò il braccio e mi
toccò la fronte con il dorso della
mano. — Sei bollente.
Sussultai, poi risi al suo
involontario doppio senso. Sembrava
che Lily Hancock avesse un
interruttore collegato al mio cervello.
In questo momento mi stava
accendendo e spegnendo così
velocemente che la mia testa era una
luce stroboscopica.
— Credevo avessi detto che non ti
piaccio — scherzai.
Lei sgranò gli occhi. — Mi
riferivo alla tua temperatura, idiota.
Ma tanto per essere chiari, non ho
mai detto che non fossi bello. Se
ricordi, ho detto che mi rendi
nervosa.
— Giusto. Quindi mi trovi bello?
Lily mi diede una botta sulla testa
con il cappello a tesa larga, poi tornò
al registratore di cassa, dicendo: —
Sei davvero irritante. Se le tue
sorelle sono spine nel fianco, penso
che l’hanno imparato da te.
17
NON UN’ANIMA CODARDA
La signora Boyd indicò l’orologio.
— Ottimo primo turno, sarete una
squadra eccellente quest’estate.
Incartò alcuni muffin vecchi di un
giorno e li diede a Lily. — Portali a
casa. E di’ alla tua famiglia di
passare qui qualche volta.
— Senz’altro. E grazie. — Lily
recuperò la sua borsa da sotto il
bancone e tirò fuori il cellulare.
— Oh, non disturbare i tuoi
genitori — disse la signora Boyd. —
Scommetto che Calder sarà felice di
darti un passaggio in macchina. —
Mi fece l’occhiolino. Le avrei dato
un bacio. — Vi ho messi entrambi di
turno presto domattina. Ce la fate ad
arrivare per le sei?
— Io ci sarò — disse Lily. Mi
guardò per vedere se l’offerta della
signora Boyd fosse legittima. Annuii
e la guidai fuori fino alla mia
macchina. Salì nel posto del
passeggero,
e
attraversammo
Manypenny Avenue verso la strada
di campagna. Era una sensazione
incredibile averla in auto, seduta
accanto a me, come due persone
normali uscite a fare un giro. Si tolse
i sandali e mise i piedi sul cruscotto.
Spinse il sedile indietro mentre Bob
Marley suonava a tutto spiano dagli
altoparlanti.
Lily canticchiò il ritornello di “I
shot the sheriff”. Poi allungò una
mano e gemette, strofinandosi i
polpastrelli. — I piedi mi fanno male
da morire. È dura non potersi sedere
tutto il giorno.
Il mio sguardo andò avanti e
indietro tra la strada e il turchese
brillante sugli alluci di Lily, intorno
all’arco del piede, di nuovo sulla
strada, e poi lungo la curva del suo
polpaccio fino al ginocchio, scoperto
perché la gonna lunga era scivolata
in alto, intorno alle cosce. Mi ripresi,
prima che la fantasia mi distraesse
dal mio vero compito.
Lily si sporse in avanti per
cambiare stazione radio, poi la sua
mano si fermò a mezz’aria. La infilò
sotto il sedile e tirò fuori la gonna di
Pavati, la stessa che aveva indosso
poco prima.
— Che cos’è? — Lily la sollevò
per mostrarmela.
“Oh, merda.” — Non lo so. Mi
sembra una gonna.
— Non è di tua sorella? — Si
chinò e tirò fuori la camicetta rosa
coordinata, poi la maglietta bianca e
i jeans di Maris. — Perché hanno
lasciato i vestiti nella tua macchina?
Scrollai le spalle, cercando di
pensare a una spiegazione sensata.
Meglio aderire il più possibile alla
verità. — Sono andate a nuotare,
immagino.
— Non si infurieranno, capendo
che te ne sei andato con i loro
vestiti?
Sospirai. Addio alla normale gita
verso casa. — Perché non lasci che
sia io a preoccuparmi delle mie
sorelle? — Lily guardò in avanti e
incrociò le braccia sul petto.
Qualche minuto dopo, svoltai
nella sua stradina; Hancock uscì per
venirci incontro. Parcheggiai la
macchina mentre lui posava le mani
sul bordo del telaio e si sporgeva dal
finestrino aperto. Piegai la mascella
mentre sentivo la bocca che
diventava asciutta.
— La porti a casa di nuovo, vedo.
— La sua voce era amichevole, ma
piuttosto dura. Un avvertimento
paterno, forse? Sogghignai al
pensiero che Jason Hancock dovesse
mettere in guardia me.
— Sì, signore. Lavoriamo
entrambi al Blue Moon.
— Ma davvero?
— Grazie per il passaggio,
Calder. Ci vediamo presto — disse
Lily. E anche se scese subito dalla
macchina, non sembrò del tutto
disturbata al pensiero.
— Certo. Buona serata, Lily.
— No — disse Hancock —
perché non rimani? Potresti aiutarmi
ad avvicinare una catasta di legna
alla casa. Dopo faremo un falò e
cucineremo gli hot dog vicino al
lago.
Lily si irrigidì, ma i suoi occhi
brillarono di aspettativa. Decisi che,
in fondo, non avrei spinto troppo in
là il mio autocontrollo accettando
l’invito. Inoltre, a Maris avrebbe
fatto piacere.
— Certamente. — Slacciai la
cintura di sicurezza e scesi. Hancock
mi fece segno di muovermi. Lily ci
seguì nervosa.
— Allora, hai detto che abiti a
nord di Bayfield? — chiese
Hancock, guardandomi da sopra la
spalla.
Ah. Non si trattava di spostare la
legna. Voleva sapere che tipo fosse il
ragazzo che frequentava sua figlia.
Nascosi un sorriso dietro la mano.
Per quanto Hancock potesse pensare
male di me, e a prescindere dalla
storia che aveva sentito dal padre,
ero sicuro che potenziale serial
killer non fosse ancora tra le sue
preoccupazioni. Mi preparai alla
sfilza di bugie ben ripassate che
avrei dovuto propinargli per il resto
del pomeriggio.
— Ci abitavamo, signore.
— Abitavate?
— Avevamo una casa estiva dalle
parti di Cornucopia. Ma i miei
genitori l’hanno venduta e hanno
comprato una barca a vela.
Si fermò e si voltò per guardarmi.
— Sei un marinaio?
— Non proprio. Più che altro mio
padre. Ha iniziato con le navi in
affitto sull’isola di Madeline. Ora,
quando veniamo per l’estate, stiamo
sulla nostra barca.
— Così presto nella stagione?
Come si chiama la barca?
Lily arrivò al fianco del padre.
Gli diede un bacio sulla guancia; io
deglutii forte. — Lo stai
interrogando, papà.
— È il mio lavoro, Lil.
Sollevammo quattro assi e
iniziammo a tornare verso la casa.
Lily inarcò le sopracciglia verso di
me e mosse le labbra come per dire:
“Mi dispiace.”
— Allora, quanti anni hai,
Calder?
— Diciotto, signore.
— Vai al college?
— Non ancora.
— Lavorerai per un po’?
— Qualcosa del genere. — Posai
la mia estremità delle assi sulla pila
che già prendeva forma accanto alla
veranda. Tornammo alla catasta
originaria a prendere un altro carico.
Fu allora che scorsi la signora
Hancock. Su una sedia vicino al lago,
con una tela su un cavalletto, una
coperta lavorata all’uncinetto avvolta
intorno alle spalle. La luce del sole
filtrava attraverso i rami degli alberi,
gettandole sul corpo tre strisce simili
ad artigli.
— Non mi avevi detto che tua
madre è un’artista.
— Oh, sono piena di segreti —
rispose Lily con fare misterioso. Il
modo in cui lo disse, abbinato ai
miei pensieri più cupi, mi fece ridere
a voce alta. Inarcò le sopracciglia
come a dire che non era così
divertente.
— Com’è andato il lavoro, Lily?
— gridò la signora Hancock. — C’è
anche Calder? Il nostro eroe! —
Sorrise e alzò una mano, invitandoci
ad andare da lei. Mentre ci
avvicinavamo
i
miei
battiti
aumentarono all’impazzata. Non
sapevo se dipendesse dal fatto che la
signora Hancock si trovava su una
sedia a rotelle – si era fatta così male
quando era caduta in cucina? –
oppure se era la sensazione di
trovarsi vicino a una madre.
Qualunque madre.
Il volto di Carolyn Hancock si
addolcì quando mi guardò. Forse lo
stavo immaginando? Cercare la
realizzazione di un sogno era un altro
sintomo dell’astinenza prolungata?
Cominciavo a delirare?
— Ciao, mamma. — Lily si chinò
per darle un bacio sulla guancia. —
Calder e io lavoriamo insieme al
caffè.
— Be’, è meraviglioso — disse la
donna. — Jason, non farlo stancare
troppo. Lasciali rilassare. Hanno già
lavorato tutto il giorno.
Hancock borbottò e ci lasciò
andare. Lily mi fece segno di
seguirla. Esitai, riluttante a lasciare
la signora Hancock.
— Vai pure — disse la madre,
fraintendendo la mia titubanza. —
Jason avrà molto aiuto domani. Voi
andate.
Seguii la ragazza fino al pontile.
Sophie mi venne accanto e mi toccò
un gomito. Sobbalzai al contatto
inaspettato.
— Vuoi venire con me, Calder?
Ho costruito un forte stamattina, al
margine del bosco. Dentro ci ho
messo le mie bambole più semplici,
come se fossero in albergo.
— Mi piacerebbe, Sophie, magari
fra un po’?
Si accigliò e se ne andò mettendo
il muso.
Lily si voltò a guardare per
vedere se la stavo seguendo. Si era
già seduta sul margine del pontile, tra
i due riflettori appena installati. Mi
tenni addosso le scarpe, scavalcando
i sandali e il cappello che aveva
tolto, e camminai lungo la banchina.
Lei aveva steso due teli da mare
sulle assi di cedro e lì mi sdraiai.
Lily ciondolava le gambe nude
nell’acqua. Immaginai l’odore di
arance diffondersi in tutto il lago.
— Perché tua madre è sulla sedia
a rotelle?
Lily mi guardò fisso. — Sei molto
schietto, vero?
— È un male?
— No. — Sospirò. — A dire il
vero è piacevole. Quasi tutti si
sentono troppo a disagio per
chiederlo. Fingono che sia normale,
quando è evidente che non lo è.
Aspettai. Lily si alzò e si tolse la
maglietta. Balzai a sedere in preda
allo shock, senza capire subito che
indossava il costume da bagno sotto i
vestiti. Mi lanciò un largo sorriso,
godendosi la mia espressione
scandalizzata.
— È bene essere preparati —
disse. Si sfilò la gonna ancheggiando
e si avvicinò con grazia al molo.
— Aspetta, non farlo! — L’acqua
le arrivava soltanto alle cosce. Sotto
i raggi diretti del sole era più calda
che in pieno lago, ma non avevo mai
visto un umano in acqua in questo
periodo dell’anno. Almeno, non di
sua spontanea volontà. La pelle le
stava già diventando livida? Non ne
ero sicuro.
— Cosa c’è? — chiese Lily.
— Non possono essere più di
dieci gradi.
— Davvero? Non mi sembra così
male.
— Sul serio — dissi. — Esci.
Non sei stata tu a dire che nessuno
nuota in aprile? È pericoloso
senza… una tuta da immersione.
Scrollò le spalle. — Ormai penso
di essermi abituata. — Sparì
sott’acqua e risalì con il mento in
avanti, lasciando che i lunghi capelli
bagnati si trascinassero in una coltre
compatta dietro di lei. Sulle braccia
e sulla pancia le spuntò la pelle
d’oca, ma non aveva fretta di uscire.
Mi morsi l’interno della bocca.
— Per rispondere alla tua
domanda — continuò — mamma ha
la sclerosi multipla. Alcune giornate
sono meglio di altre. Un paio di
giorni fa camminava con un bastone;
oggi ha bisogno della sedia. È
frustrante non sapere come sarà ogni
giorno. È come se la stessimo
perdendo un po’ alla volta. Voglio
dire, ti sembrerà strano: lei è qui, ma
mi manca davvero tanto mia madre.
Lily non sapeva quanto lo capissi.
— Quando si è ammalata?
— Quando avevo dodici anni. È
cominciato
lentamente,
ma
quest’anno la malattia è diventata
davvero brutta. Certi giorni riesce a
malapena a tenere in mano i pennelli.
Il dottore dice che vivere in città le
stava mettendo addosso troppo
stress. Ha detto che dovevamo
andare in un posto più tranquillo.
Papà ha pensato che fosse il
momento migliore per tornare qui.
Non lo so. Immagino sia una cosa
buona. Insomma, c’è meno gente che
la fissa.
— Perché la fissano? — chiesi,
attento a eventuali segni di ipotermia
sulla sua pelle.
— Perché non sanno cosa c’è che
non va. Così cercano di capirlo. A
volte vorrei che uscissero allo
scoperto e lo chiedessero, come hai
fatto tu.
— Probabilmente pensano che sia
scortese — risposi.
Lily posò le mani piatte
sull’acqua e si girò rapidamente in
cerchio, mandando alcune goccioline
a spargersi sulla superficie. — È più
da maleducati fissare.
— Non è una cosa di cui essere
imbarazzati.
Smise di girare e alzò il mento in
aria. — Non sono imbarazzata. Solo
che sarebbe bello avere di nuovo una
famiglia normale. — Piegò la testa di
lato e mi esaminò attentamente, con
la fronte aggrottata. — Tu non vieni
in acqua?
— Anche tu dipingi? — le chiesi,
evitando la domanda.
— No. Per niente.
— Hai l’aria da artista. O almeno
ce l’avevano i tuoi abiti, prima che li
togliessi. — Armeggiai con la
camicetta di pizzo e la giacca di
velluto che giacevano ammucchiati ai
miei piedi. — Vesti come un’artista.
— Recito una parte.
— Cosa vuoi dire?
— Voglio essere una poetessa,
quindi cerco di vestirmi così… o
come immagino che vestirebbero le
mie poetesse preferite.
— Ti piacciono anche i Vittoriani
— dissi con sicurezza.
— Come hai fatto a indovinare?
— Il tuo tatuaggio.
Il suo volto si aprì in un largo
sorriso e mi fece cenno di tenere la
voce bassa. — Conosci quella
poesia?
— In parte. — Lasciai che la mia
mente tornasse alle mie recenti
sessioni di studi e tirai fuori le
parole dalla memoria:
Non è vile la mia anima,
non trema nella tempestosa sfera
del mondo
vedo risplendere la gloria celeste
risplende così la mia fede
armandomi contro ogni paura.
Annuì e dalle spalle emanò un
bagliore color miele. La luce seguì la
curva delle braccia e si fece più
intensa in un dolce arancione.
Conoscevo bene questo colore. Lily
era felice. Potevo solo sperare di
esserne io la causa.— È fantastico —
disse. — Sono colpita.
— Allora, in base a cosa decidi
come dovrebbe vestirsi un poeta?
Scrollò le spalle. — Semplice,
davvero. Guardo cosa indossano tutti
gli altri e faccio l’opposto.
“Mancanza
di
conformità”
riflettei. “Che lusso.”
— Sentiamo, allora.
— Sentire cosa? — chiese.
— Qualche poesia. La tua poesia.
Nonostante il freddo, un flusso di
sangue le infiammò il volto. — Non
posso declamare qualcosa così.
— Perché no? — chiesi.
Farfugliò, chiaramente colta in
contropiede. — Devo essere…
ispirata. Devo guardare qualcosa di
bello… o di sorprendente.
Mi indicai come a dire: “E io
cosa sono?”
Lei rispose alla domanda come se
l’avessi fatta. — Tu sei un ragazzo
irritante che non ha problemi a fare
domande ma non condivide le
risposte. — Unì le mani a forma di
coppa e mi lanciò contro l’acqua.
Mi piegai su un fianco, evitando
lo spruzzo. — Vediamo di farti
cominciare — dissi. — Che ne dici
di un limerick? C’era una volta un
ragazzo sorprendente.
Lei scosse la testa.
Così continuai. — Che credeva la
sua ragazza fuori di mente.
Inarcò le sopracciglia verso di
me. Stavo decisamente spingendo
con la battuta sulla “sua ragazza”, ma
lei continuò da dove avevo interrotto.
— La ragazza infastidì — disse.
— Ma a evitar lei non riuscì —
aggiunsi.
Sorrise sicura di sé e terminò con
forza: — L’insistenza e il silenzio
così strani.
— Ah. Hai ragione, Lily Hancock.
Sei una poetessa.
— Oh, chiudi il becco. Perché non
entri? Non si sta troppo male al sole.
— Stai mentendo. Ma anche se
fosse vero, non ho portato un costume
— dissi, respingendo la proposta con
un gesto della mano.
— Nuota con gli slip.
— No, grazie.
— Peggio per te.
Le piaceva prendermi in giro. Una
scia di lieta soddisfazione bruciò
come un fuoco rosa, poi vorticò
lontano in una girandola. Era un
magnete che mi attirò verso Lily.
Quasi senza volerlo, allungai una
mano. Lei si avvicinò, non capendo i
motivi del mio gesto, e mi sorprese
intrecciando le sue dita alle mie.
Osservai – inorridito, ammaliato – il
bagliore
strisciare
via
dai
polpastrelli, attraversare il dorso
della mia mano e finirmi sul polso.
Gli avambracci ronzarono e si
infiammarono, finché il calore
avanzò lungo il braccio e si smorzò
sul petto, esplodendo alla fine
attraverso le labbra con una risata
improvvisa e sorprendente.
— So che sai qualcosa — disse
lei a voce bassa — su ciò che vide
mio nonno nel lago. Voglio che me lo
riveli.
— Non ho niente da dire.
— Calder, dici più con gli occhi
di quanto riesce a dire gran parte
della gente con la bocca. In questo
momento i tuoi occhi rivelano che hai
paura. Un minuto fa dicevano che non
è sicuro nel lago. Tanto vale che tu lo
dica apertamente, Calder. So che sai
qualcosa. — Poi abbassò le
sopracciglia e improvvisò un
terribile accento russo. — Noi avere
modo per fare te parlare.
— Già, be’… buona fortuna.
— Jason! — chiamò la signora
Hancock. — Sto perdendo il sole.
Puoi spostarmi?
Lasciai la mano di Lily, che finì
nell’acqua con un tonfo. — Posso
farlo io! — gridai alla donna.
— Leccapiedi — disse Lily.
— Non so perché è così difficile
convincerti — risposi — ma non
sono un ragazzo così cattivo.
— Parole degne di un vero serial
killer.
Il mio stomaco si strinse fino a
diventare un nodo freddo e duro. —
Vedrai — dissi, forzando un sorriso
negli occhi. — Uno di questi giorni
potrei addirittura piacerti.
18
LA MINACCIA
Un’ora dopo arrivò un furgoncino e
ne scesero in massa i Pettit,
chiudendosi le portiere alle spalle.
Gli occhi di Jack si misero a cercare.
Quando trovò Lily seduta accanto a
me vicino al fuoco, si accigliò.
Gabrielle arrivò subito, di corsa.
— Ho invitato anche i Pettit al
nostro barbecue — disse Hancock
alla moglie. — Martin, serviti pure,
prendi una birra dalla ghiacciaia.
— Devo proprio andare — dissi
alzandomi in piedi.
— Di già? — chiese Lily,
togliendomi dalle mani il sacchetto
di patatine e rovesciandolo
rumorosamente.
Erano passate più di dodici ore da
quando mi ero immerso nel lago, di
norma sarebbe stato uno scherzo da
ragazzi, ma il fuoco mi stava
asciugando a un livello pericoloso.
Dovevo davvero andarmene, ma Jack
sembrava troppo lieto del mio
annuncio, così cambiai idea.
— Credo di poter restare ancora
per un po’ — dissi, avvicinando la
mia sedia a Lily.
Jack borbottò qualcosa sottovoce;
la ragazza posò una mano sul
bracciolo della mia sedia con
dolcezza.
Hancock attizzò il fuoco,
mandando in aria uno spruzzo di
scintille. — Come state ragazzi?
Contenti della scuola agli sgoccioli?
Jack allontanò lo sguardo dalla
mano di Lily sulla mia sedia e lo
rivolse al padre della giovane. Il
signor Pettit parlò fuori dai denti. —
Jack non è andato a scuola
quest’anno.
— Mi sono soltanto preso un anno
di riposo — disse il giovane. —
Inizierò il college il prossimo
autunno, se le cose andranno bene.
Per il momento, seguo alcuni corsi
parauniversitari di pittura.
— Oh, sei un artista? — domandò
la signora Hancock, con il volto che
le brillava alla luce del fuoco. —
Dovresti venire a dipingere con me
qualche volta.
— Mi piacerebbe molto. Ora sto
seguendo un corso di arte e
mitologia. Tutti i classici greci e
anche alcune cose celtiche e dei
nativi americani. Ho dipinto un
quadro a olio sulle leggende degli
indiani Passamaquoddy del Maine.
Lily l’ha visto.
— Non ne so niente — disse
Hancock.
— Sono come le storie sui grandi
spiriti manitù di queste parti —
spiegò il signor Pettit. Scosse un
sacchetto di semi di girasole,
lasciandoseli cadere in bocca e
riempiendosi una guancia.
— Esistono molti manitù nella
tradizione del popolo Anishinabe —
disse Jack mentre il signor Pettit
sputava i gusci nel fuoco. — Uno
giace a faccia in su, sul fondo del
lago. Gli indiani gli offrivano
tabacco o pezzi di rame perché non
ribaltasse le loro canoe.
Lily si alzò a sedere e guardò
ansiosa il padre.
Hancock si mosse sulla sedia. —
Conosco le antiche miniere di rame
— disse. — Fa parte del mio
programma di studi per il prossimo
trimestre. Ma non ci sono mostri nel
lago.
— Non ho parlato di mostri —
disse Jack, mentre il signor Pettit
rideva fragorosamente.
— Non fraintendere il ragazzo —
disse suo padre. — Non siamo
superstiziosi, ma i racconti sugli
spiriti manitù sono tornati di moda
dal ’67, dopo…
Hancock si alzò, battendo in
ritirata verso casa. Lily guardò sua
madre, che scosse la testa per farla
stare zitta.
— Be’, sapete… — finì il signor
Pettit, con la voce che si affievoliva
fino a svanire nel nulla.
— Cos’è successo nel ’67? —
chiese Lily. Rivolse la domanda al
signor Pettit, ma teneva lo sguardo su
di me.
— Lascia perdere, papà — ribatté
Gabrielle. Tirò di lato i capelli neri
e cominciò a sistemarli in una lunga
treccia.
Jack avvicinò la sua sedia a
sdraio fino a premere il ginocchio
contro quello di Lily.
— Non ci è voluto molto tempo
perché le leggende sui manitù si
trasformassero in storie sulle sirene.
Diciamo solo che alcune persone, da
queste parti, hanno iniziato a soffrire
di quella che si potrebbe chiamare
febbre da sirene — continuò il signor
Pettit. Sputò tra i denti, sparando
semi di girasole nei tizzoni sibilanti.
— I venditori di magliette fecero una
piccola fortuna. La gente era convinta
che un lago così grande, così
profondo,
dovesse
contenere
qualcosa. Ma durò un’estate soltanto.
Poi la gente rinsavì. Ho ancora una
maglietta da qualche parte.
— Quindi lei pensa che non ci sia
niente nel Lago Superiore? — chiese
Lily.
Gabrielle sgranò gli occhi; il
signor Pettit sghignazzò benevolo. —
Stiamo parlando del Grande Gitche
Gumee — rispose. — Un lago antico
e di una profondità inimmaginabile.
Non arriverei certo ad affermare che
nelle sue acque non c’è niente.
— Potrebbe essere vero — disse
Jack. La sua voce era bassa e incerta;
ci voltammo tutti a guardarlo. Con la
punta dello stivale, il ragazzo girò un
altro ceppo nel fuoco.
— Cos’hai detto, figliolo?
— Ho detto che potrebbe essere
vero. Le sirene, intendo. C’è la
Strega di Novembre.
— La Strega di Novembre è il
nome di una tempesta — rispose
Gabrielle.
— Secondo la leggenda —
aggiunse il signor Pettit — la Strega
di Novembre aveva tre sorelle che si
aggiravano nel Gitche Gumee.
Lily rabbrividì.
Jack corrugò la fronte. — E una
volta ho sentito un’altra storia —
disse, interrompendosi un istante per
soppesare le parole.
— Basta così, figliolo — disse il
signor Pettit.
Il ragazzo continuò. — Su alla
taverna dei Peterson. Ho parlato con
un vecchio. Mi ha raccontato che
esistevano alcuni discendenti del
grande spirito manitù, che però non
sapevano di esserlo. Disse che
abitavano in città, camminavano per
le strade, proprio come noi.
— Non penso che si possa
smettere di essere un mostro marino
— suggerii. Era troppo bello per
essere vero; e se fosse stato
possibile, io l’avrei saputo.
— Non sto dicendo questo —
ribatté Jack, la sua voce schioccò
come un telo da spiaggia. — Non
dico che smettono. Dico che non lo
sanno.
— Be’, io mi sono spaventato —
dissi con una risata. — Stavolta
penso davvero di dovermene andare.
Lily allungò una mano verso di me
e mi toccò timidamente la mano.
— Be’, se proprio devi andare —
disse Hancock mentre tornava al
falò, passandosi la vasellina sulle
mani. La luce tremolante del fuoco si
rifletteva dalle finestre alle sue
spalle. Non sembrava dispiaciuto che
me ne andassi, così rimasi sorpreso
quando aggiunse: — Ma non
abbiamo nemmeno cominciato con
gli hot dog. Magari la prossima volta
potremmo cenare con te, tua madre e
tuo padre?
Feci un secco cenno di assenso.
Se prima volevo andarmene, ormai
era diventata una necessità. Eccolo
qui – l’invito per cui avevo lavorato,
arrivava anche prima del previsto –
ma sulle sue labbra era blasfema
persino l’allusione al nome di mia
madre. Risvegliò una rabbia che non
provavo da anni. Se avessi potuto
uccidere Hancock sulla terraferma,
lo avrei fatto in questo momento. Di
fronte a tutti.
— Calder, stai bene? — La voce
di Lily era allarmata.
Potevo soltanto immaginare
l’espressione folle sul mio viso. Mi
trascinai fino alla macchina e saltai
dietro il volante. Mi resi vagamente
conto del fatto che Lily mi aveva
seguito. Afferrò il bordo della
portiera e si sporse all’interno. —
Come mai tanta fretta?
La preoccupazione nei suoi occhi
fece leva su un angolo ignoto del mio
cuore. Volevo dirle di non
preoccuparsi, che non agivo sempre
da pazzo. Invece, ingranai la marcia
e feci girare le ruote sulla stradina di
ghiaia, coprendola di polvere. Non
potevo permettermi di essere
educato. Dovevo essere prudente. In
questo
momento,
significava
allontanarmi di molto, moltissimo.
Ma la cosa buffa era che
allontanarmi da Hancock significava
allontanarmi anche da Lily. E più si
ingrandiva la nuvola di polvere tra
lei e me, più quell’impiccione di
Jack Pettit si sarebbe sentito a suo
agio. Lily Hancock era già
abbastanza astuta, senza che tra noi si
mettesse anche un sabotatore
alimentato dal testosterone.
Schiacciai a fondo il freno e
barcollai fuori dalla macchina,
sbattendomi la portiera alle spalle.
Alcuni scoiattoli fuggirono mentre
camminavo a passi pesanti nel bosco,
verso l’acqua. Mi gettai con foga nel
lago,
completamente
vestito,
fermamente
deciso
a
non
trasformarmi. Era ancora difficile,
ma non più impossibile.
Attinsi
a
tutta
la
mia
concentrazione. Le gambe tremavano,
i polmoni bruciavano per l’acqua. Mi
soddisfai saturando il corpo
dall’esterno. Volevo essere pronto se
lei avesse avuto bisogno di me,
anche se non ero certo di quale
potesse essere questa necessità. Di
certo non sarei uscito di corsa
dall’acqua solo per mettere la senape
sul suo hot dog. Avevo abbastanza
autocontrollo per non farlo. Giusto?
L’odore della betulla che
bruciava mi riportò indietro.
Arrancai nell’acqua finché non
riuscii a vedere il riverbero del
fuoco di bivacco. I volti degli
Hancock e dei Pettit brillavano per la
luce e il calore, contro l’oscurità.
Provai un tuffo al cuore quando posai
lo sguardo su Lily. Stava fissando
intensamente le fiamme. Alcune
scintille volarono nella sua
direzione, ma lei reagì appena.
Gabrielle Pettit sedeva alla sua
sinistra, Jack alla sua destra. Il viso
del ragazzo era rivolto a lei, si
vedeva chiaramente. Posò un braccio
sullo schienale della sua sedia e si
chinò per sussurrarle qualcosa
all’orecchio. Senza volerlo serrai i
pugni. D’accordo, allora non ero
ancora del tutto pazzo. Avevo
ragione. Jack Pettit era una minaccia.
19
QUEL CHE VOGLIO DA TE
Dopo mezzanotte strisciai nell’amaca
che gli Hancock avevano fissato tra
due pini bianchi. Era una tela color
verde foglia, decorata con frange di
cotone bianco, ed era il luogo
perfetto per nascondersi, dormire e
passare un po’ di tempo lontano dalle
mie sorelle. Questa sera c’era anche
il vantaggio che Gabrielle Pettit era
rimasta a dormire qui, e l’amaca era
un posto utile da cui origliare le
chiacchiere nella stanza di Lily; le
due ragazze non davano segno di
voler dormire.
Le voci arrivavano dalla finestra
aperta della camera da letto.
Avevano già discusso gli argomenti
indispensabili: scuola, moda e film.
Gabrielle aveva rivelato a Lily le
notizie più importanti su tutti i
ragazzi più popolari della città – non
che Lily sembrasse molto interessata
o preoccupata – ed erano ormai
passate a un argomento che
prometteva di essermi più utile.
— Allora — la incalzò Gabrielle.
— L’altro giorno. Quando ti abbiamo
aiutato con il trasloco.
— Sì? — chiese Lily.
— L’idea che ti aiutassi a metterti
con Jack non sembrava interessarti
molto.
— Oh.
— Mi chiedevo — continuò
Gabrielle — se avessi un ragazzo a
Minneapolis.
— No. E tu?
Gabrielle rise. — Non è la cosa
più facile da fare quando hai Jack
come fratello.
— È protettivo?
—
Immagino
che l u i si
definirebbe così.
— Ho sempre voluto un fratello
maggiore.
— Intendi qualcuno che ti
presenta i suoi amici carini? Fidati,
non è così meraviglioso. E dato che
tutti gli amici di Jack sono andati al
college, in giro non c’è praticamente
nessuno.
— Intendevo più qualcuno con cui
parlare di alcune cose. Quando ero
piccola avevo un’amica immaginaria.
Le confidavo tutto.
Sogghignai nell’amaca. A quanto
pareva, io e Lily avevamo almeno
una cosa in comune.
— Del tipo? — le domandò
Gabrielle.
— Non saprei. Le cose che mi
facevano paura o che mi
elettrizzavano, o che volevo tenere
nascoste ai miei genitori.
— Io avevo una cagnolina così.
Era un’ottima ascoltatrice.
— Esatto — disse Lily.
— Allora, di cosa hai paura?
Lily esitò. — Non saprei…
perlopiù mi preoccupo che le cose
vadano in pezzi.
Due a zero per le cose in comune.
Non ero preoccupato per le “cose”
che andavano in pezzi; mi
preoccupava il fatto che andassi in
pezzi io.
— I tuoi genitori stanno per
divorziare? — domandò Gabrielle.
Lily rise. — Non direi proprio.
Intendevo in senso letterale. Questa
casa, mia madre, me… mi preoccupa
che le cose vadano letteralmente in
pezzi.
Gabrielle ammutolì, forse si
pentiva di essersi addentrata in un
discorso così personale. Poi dalla
finestra uscì un suono secco di
metallo che graffiava altro metallo.
Fiori arancioni fluttuarono nell’aria.
— Hai alcuni… ehm… vestiti
interessanti — disse Gabrielle. —
Questo è molto carino. Eleganza
bohémienne, forse.
— Grazie. Dici?
— No, sul serio. È davvero molto
bello. — Di nuovo il suono del
metallo. — Mmm. Allora, torniamo
ai ragazzi. Oh, posso provare questo?
— Come no — rispose Lily.
— È stato un piacere rivedere
quel Calder.
Posai subito un piede a terra e
fermai
il
gentile
dondolio
dell’amaca. Lily non disse nulla.
Avrei voluto vedere la sua faccia.
— L’hai invitato tu? — domandò
Gabrielle.
— No. Non proprio.
Qualcuno si agitò; le molle del
letto cigolarono.
— Allora? Si è presentato da sé?
— Lavoriamo insieme al Blue
Moon — rispose Lily.
— Sul serio?
Lily fece una risata nervosa. —
Mi ha dato un passaggio a casa, così
papà gli ha chiesto di fermarsi per
dargli una mano a sistemare alcune
cose. Quindi, sì.
— E poi è rimasto?
— Direi di sì.
— È un autentico splendore. Non
sembra nemmeno vero. Parla in
modo buffo, però. Ci hai fatto caso?
È come se le sue parole fossero
liquide. Le mette insieme in un modo
un po’ strano.
Lily non rispose. Significava che
era d’accordo? Oppure no?
Sembrava che Gabrielle non sapesse
come interpretare quel silenzio.
— Non lo pensi anche tu? — la
spronò.
— È bellissimo, senza dubbio —
disse Lily con un sospiro. — Come
potrei non pensarlo? Ma anche lui lo
sa.
Il sogghigno sparì dal mio viso.
— Oh — disse Gabrielle. — Si
dà delle arie?
— Direi che sa come farne uso.
Può guardarti e… be’…
Gabrielle ridacchiò. — Dovrò
andargli vicino e controllare di
persona.
Lily all’inizio non rispose. Restai
in attesa nel silenzio, chiedendomi
cosa stessero facendo. Alla fine
domandò: — Come mai Jack non ha
voluto andare al college?
— Dovrai chiederlo a lui. Doveva
andarci, ma è cambiato qualcosa
l’estate scorsa, ed è diventato più
strano, imbronciato, per tutto
l’autunno e l’inverno. Pensavo che
una ragazza potesse magari farlo
tornare come prima. Per questo
pensavo a te. Ti guarda in modo
buffo.
— Buffo nel senso di strano o
buffo nel senso che lo faccio ridere?
— Nel senso che mi pare
interessato a te.
— Mi dispiace, Gabby, non
succederà.
— Già, dopo stasera lo penso
anch’io.
— Stasera?
— Be’, è evidente che Calder ti
viene dietro. Peggio per me. — Fece
una risatina.
— Ne dubito sinceramente —
ribatté Lily. — Non è nemmeno un
buon candidato come fratello
maggiore.
— Non parla?
— Oh, parla eccome — disse
Lily. — Parla molto, ma in realtà non
ti dice nulla. Non so se mi spiego.
— Mmm — aggiunse Gabrielle.
— Tipico dei maschi.
Lily si fece silenziosa e, di nuovo,
avrei voluto trovarmi in un punto con
una visuale migliore.
— Calder… — cominciò a dire
Gabrielle.
— Hai fame? — la interruppe
Lily.
— Cosa? Oh, sì, certo.
Quattro gambe scesero in punta di
piedi le scale che portavano in
cucina. Rotolai giù dall’amaca e
tornai in mezzo agli alberi. Le
ragazze si appoggiarono al piano di
lavoro, consentendomi così di
vederle per la prima volta dopo un
bel po’ di tempo. Lily sembrava più
pallida del solito, tranne che per i
cerchi neri sotto gli occhi. Gabrielle
si infilava in bocca palline al
formaggio.
— Allora se la storia che hai con
Calder non funziona… — disse
Gabrielle.
Lily aggrottò le sopracciglia.
— Dico solo — aggiunse
Gabrielle — che se non funziona, ci
metterai una buona parola per me,
eh?
Prima che Lily riuscisse a
rispondere, un ramoscello si spezzò
nel vialetto. Mi girai. Maris? No, non
avrebbe mai attaccato sulla
terraferma. Non era degno di lei.
Socchiusi gli occhi nell’oscurità e
concentrai lo sguardo su una sagoma
familiare. Sperai che la mia prima
ipotesi fosse esatta.
Il raggio della torcia di Jack Pettit
ondeggiava e serpeggiava sul terreno
davanti a lui. Tuttavia, sobbalzò
quando vide che mi precipitavo
verso di lui nel buio.
— Cosa… cosa ci fai qui? — mi
chiese.
— Ho perso il portafoglio. Sono
tornato a cercarlo. E tu?
Mi guardò scettico. Immagino che
recuperare portafogli nell’oscurità
non fosse normale per gli umani. In
particolare senza una torcia. Dovevo
appuntarmelo.
— Sono qui per portare fuori le
ragazze — rispose Jack. — C’è una
festa a… be’, non importa.
— Sono sicuro che stanno già
dormendo. Io e Lily iniziamo il turno
molto presto domattina.
— Pfff. Chi sei, sua madre? —
chiese Jack. — E poi, come fai a
saperlo? Anche se stanno davvero
dormendo, scommetto che a Lily
andrebbe di fare un salto a una festa.
Gabby non si tira mai indietro.
Lo fissai dall’alto in basso e lui si
mosse a disagio nelle scarpe.
— D’accordo — ribatté
seccamente. — Allora, come stanno
le cose tra te e Lily?
— Le cose?
— Sì — disse Jack, mentre
portava lo sguardo sulla luce
proveniente dalla finestra di Lily. —
Le hai chiesto di uscire?
— Non ancora.
— Che cosa aspetti?
“Ottima domanda” pensai. —
Forse aspetto che lei abbia voglia
che io lo faccia.
— Ah. — Jack si mise a braccia
conserte. — Non pensavo che fosse
tanto presa da te. — Fece un largo
sorriso; mi chiesi quale dei suoi
denti brillanti si sarebbe rotto con
maggiore facilità. — Calma, amico
— disse, alzando le mani a palmi
aperti. — Sto solo scherzando.
Una falena bianca passò tra noi,
poi svolazzò oltre la mia mano. Dal
mio dito medio si sprigionò uno
schiocco di luce blu, facendola
cadere a terra in un mucchietto
bruciacchiato.
— Ma che cavolo! — gridò Jack
indietreggiando di qualche passo.
— Penso che alla tua festa ci
andrai da solo — dissi, sentendo la
scarica elettrica pulsarmi tra le dita.
Allungai una mano per farlo girare
sui tacchi, ma lui stava già tornando
di corsa alla macchina.
Dopo che la luce dei fanalini di
coda fu scomparsa, tornai all’amaca
e provai a dormire. Forse ci fu
qualche fugace momento in cui
sognai: immagini di tende da sole
rosa e tamburi d’acciaio, uno sfondo
turchese. Maris e uno storione, il
volto di mia madre. Ma per la
maggior parte del tempo, restai
sveglio a fissare il cielo frammentato
tra i rami degli alberi.
Non sapevo quanto tempo stesse
passando, o quanto fossimo vicini
alla mattina; né quanto stessi
allontanando la possibilità che
Hancock mi mollasse un pugno per
aver dormito nel suo giardino.
Rotolai giù dall’amaca, mi alzai in
piedi e mi diressi verso il vialetto.
La ghiaia brillava di viola nelle
prime luci del mattino, e mi
scricchiolava sotto i piedi.
— Di nuovo nel ruolo del viscido
pedinatore?
Mi girai di scatto. Lily era
affacciata alla finestra della sua
stanza, in stile Giulietta, con le mani
sul davanzale.
— Accidenti, Lily, mi hai
spaventato. Che ci fai alzata?
— Penso che ci sia una domanda
più interessante di questa, non credi?
Cosa diavolo ci fai tu laggiù?
— Shhh — dissi. — Non vorrai
mica svegliare tutti.
La ragazza si guardò alle spalle,
scavalcò la finestra e salì sul tetto
della veranda.
— Attenta! — Alzai le mani,
pronto ad afferrarla se fosse caduta.
— Che ti succede? — mi chiese.
Ottima domanda. — Ho solo
dimenticato il mio… — Indicai
vagamente il punto in cui era stato
acceso il falò.
Lei mi guardò perplessa. —
Forse, se non fossi corso via così in
fretta, non ti saresti scordato niente.
— Mi dispiace.
— È stato scortese. — Il tetto
scricchiolò; il piede di Lily produsse
un cigolio sulle assicelle.
— Be’, almeno ti ho lasciata in
buona compagnia. — La mia voce
suonò stranamente arrabbiata, e le
sue sopracciglia si inarcarono.
— Ma dici sul serio? Si tratta di
questo? Hai qualcosa contro Jack
Pettit?
— Non essere ridicola.
— Va bene. Allora perché sei
qui? A meno che tu non intenda tirar
fuori un’altra delle tue stupide scuse.
— Si avvicinò strisciando al bordo
del tetto; formai un cesto con le
braccia. — Sai, probabilmente sei il
peggior bugiardo che abbia mai
conosciuto.
— È stato Jack Pettit a sistemare
quel tetto? — chiesi rabbrividendo.
— Insieme a suo padre.
— Potrebbe sfondarsi.
Lei rise e si sedette sul bordo,
dondolando le gambe oltre la
grondaia. Persino nel buio, un alone
rosa si diffondeva dalle punte degli
alluci, come candele di cera rosa.
— Che cosa vuoi da me? — le
chiesi. Non capii da dove mi fosse
uscita la domanda. In qualche modo,
i nostri ruoli si erano invertiti senza
autorizzazione.
— Te l’ho detto quel che voglio
— rispose.
Ridacchiai sottovoce.
Si sporse e allungò una mano
verso di me. — Tu sai dare le
risposte alle domande che mi faccio
sin da piccola, dal momento in cui ho
sentito per la prima volta mio nonno
raccontare quella storia.
— Sei libera di pensarlo, ma ti
sbagli. Ora vuoi andartene da quel
tetto? Sto per avere una crisi di
nervi.
— Visto? — disse lei. — Parli di
nuovo con gli occhi, Calder White.
Tu sai delle cose. E voglio saperle
tutte anche io.
— Sei incredibile — mormorai.
— Ah — ribatté. — Me l’hanno
detto.
20
ROSA
La signora Boyd aveva aperto la
porta, e l’aria fresca del mattino
entrava nel locale. Io e Lily
sedevamo a un piccolo tavolo
rotondo con una pila di tovagliolini
di carta e un contenitore di posate
appena pulite davanti a noi. Le nostre
mani si toccavano, mentre a turno le
allungavamo per prendere coltelli e
forchette da arrotolare nei tovaglioli.
Cercai di farlo sembrare casuale, ma
era una manovra ben studiata.
Mezz’ora dopo avevamo accumulato
una piccola pila di coperti. Nessuno
dei due parlò.
Mi chiesi se fosse ancora
arrabbiata con me per aver lasciato il
falò in quel modo scortese. Come
darle torto? Io ero ancora infuriato
perché aveva permesso a Jack Pettit
di avvicinarsi troppo. Era forse
cieca? Non vedeva cosa voleva da
lei? Era subdolo come un serpente.
Se avesse avuto la possibilità di
scegliere, sarebbe andata con lui a
quella festa?
O forse era furiosa perché sapeva
che le stavo mentendo. E come darle
torto anche in questo?
Lily portò il vassoio con le posate
dietro il bancone. Io rimisi la sedia
al suo posto, facendola stridere sul
pavimento, e la seguii.
— Che fai oggi dopo il lavoro?
— le chiesi.
— Chi è che lo vuole sapere?
— Pensavo che magari potevamo
fare qualcosa.
Lily si voltò, lasciò cadere il
vassoio sul bancone con un tonfo e si
piantò le mani sui fianchi. —
Dipende. Mi mollerai da sola
un’altra volta?
— Mi sono già scusato.
— E non mi rivelerai niente?
— No. — Allungai una mano; Lily
non obiettò quando lasciai scorrere
le dita sul suo braccio, dalla spalla
al polso. Tremò appena e si
allontanò. — Ma solo perché non c’è
niente da rivelare.
Si premette un dito sulle labbra
quando un gruppetto di ragazzi entrò
dalla porta, afferrando gli skateboard
dopo averli sollevati con un calcio.
Raggruppati intorno a un tavolo,
svuotarono le tasche e misero in
comune gli spiccioli. Due vennero a
ordinare un caffellatte grande alla
menta.
La signora Boyd aveva messo sul
bancone un cesto di mele; ne tagliai
una a spicchi mentre Lily preparava
il drink. Afferrai una saliera e sparsi
il sale sulle fette.
— Metti il sale sulla mela? —
domandò Lily con interesse. Mise il
coperchio sul bicchiere di carta e lo
porse al ragazzo più basso.
Sollevai due volte le sopracciglia
verso di lei, che scosse la testa. Aprì
la bocca per dire qualcos’altro,
quando si udì la campanella alla
porta.
Jack e Gabrielle entrarono mentre
i ragazzi con gli skateboard stavano
uscendo. Lo sguardo sul volto della
ragazza fu impagabile, tra la sorpresa
e la soddisfazione. Risucchiò l’aria
tra i denti e sollevò le sopracciglia
verso Lily. In contrasto, potevo
cogliere l’odore del testosterone di
Jack. Serrò i denti e i muscoli della
mascella gli si gonfiarono.
— Ciao, ragazzi — disse Lily. La
guardai con attenzione. Il suo tono
luminoso confermava la sua completa
ingenuità riguardo alle vere
intenzioni di questo ragazzo.
— Ciao, Calder — disse
Gabrielle. Si appoggiò con tutto il
corpo al bancone, lasciando che la
maglietta a V si aprisse. — Sei
andato via troppo presto ieri sera.
Jack rimase fermo dietro la
sorella, a braccia conserte. Non mi
era chiaro se questa dimostrazione di
machismo fosse per Lily o per me. La
mente mi corse d’istinto a pensieri di
violenza. Jack iniziò a squadrarmi e
smise solo quando il suo sguardo
corrucciato si posò sulle mie mani.
Mi misi a braccia conserte,
assumendo la sua stessa posa.
Quando capì che lo stavo prendendo
in giro, abbassò le braccia.
Sorrisi. — Ti sei divertito ieri
sera, Jack?
— Eh? Ma cosa…
Lily mi tirò un calcio sul piede.
— Ignoratelo. Volete un caffè?
— No — rispose Jack. — Siamo
passati soltanto per dirti che stasera
faremo una grigliata, da noi. Ci
saranno molti nostri amici. Vieni
pure, se ti va, Lily. Sei invitata. —
Mi
fissò
per
rafforzare
l’affermazione. Passai in rassegna un
elenco di potenziali risposte. Volevo
dire che lei aveva già un impegno.
Con me. Ma a Lily non piaceva
sentirsi dare ordini.
— Sì, certo, sembra divertente —
rispose lei. — Ti andrebbe, Calder?
L’espressione di Jack si inacidì,
con mia grande soddisfazione, ma
avevo bisogno di forzare la sorte.
— Stasera ho già un impegno —
dissi. Lily piegò le sopracciglia in
risposta. Curiosità? Delusione?
Chissà. Diede la schiena ai Pettit e
mi chinai sul suo orecchio. — Ma
voglio comunque fare qualcosa con
te oggi pomeriggio. Posso portarti a
Big Bay?
Il suo piccolo cenno di assenso
bastò a rendermi forte.
Qualche ora dopo, la aspettavo
impaziente al molo. La corsa del
traghetto per l’Isola di Madeline
sarebbe partita da Bayfield sette
minuti dopo. Non dieci, sette. I
residenti regolavano gli orologi in
base al mostro di ferro. “Lily non
verrà” pensai depresso. Aveva solo
cercato di mostrarsi gentile dicendo
che sarebbe venuta a Big Bay con
me. Forse aveva ricevuto un’offerta
migliore da Gabrielle, alla fine del
nostro turno.
Parecchi bambini con jeans e
giacche a vento gialle mi passarono
davanti di corsa, ridendo e lanciando
raggi di arcobaleno dai loro visi
felici. Muovevo con ansia il
ginocchio su e giù, cercando di
ignorarli. Non era facile. La loro
eccitazione all’idea di andare sul
traghetto bruciava come un’insegna
al neon che diceva: “Prendimi,
prendimi, prendimi.” Chiusi gli occhi
di fronte ai bambini riccamente
illuminati e affondai i denti nel
labbro inferiore.
Dov’era Lily? La separazione
fisica mi stava divorando. Perché
non si sentiva così anche lei?
Maledissi il fiasco totale che ero
diventato.
Appoggiai la schiena su uno
steccato di legno e chiusi gli occhi al
vento che mi soffiava lieve sul viso.
Le
sagole
sferragliarono
e
risuonarono contro gli alberi del
veliero nel porticciolo turistico.
— Calder!
Mi girai di scatto al suono del mio
nome e mi scappò subito un sorriso.
Lily mi stava correndo incontro.
Indossava una gonna assolutamente
ridicola, un patchwork di riquadri di
velluto e cachemire, lunga fino alla
caviglia. Aveva uno zainetto appeso
al braccio. I capelli le scivolavano
sulla schiena in allegri ricci, sopra
un’attillata maglietta blu. Le
brillavano gli occhi per l’aspettativa.
All’inizio pensai che sulle spalle
portasse un maglione rosa, ma mentre
si avvicinava notai l’alone che
emanava dalle braccia, rivelando il
suo entusiasmo. Gemetti per il
desiderio. Peggio che i ragazzini.
Non che non l’avessi già vista così,
ma ora non avevo scuse per fuggire.
Sarei stato intrappolato con lei al
mio fianco per parecchie ore… con
lei che sprigionava questa succulenta
dolcezza nell’aria. Che mi faceva
pizzicare la lingua. Implorando di
essere consumata. Una familiare
freddezza mi avvolse la mente.
Perché avevo pensato che sarebbe
stata una buona idea?
— Stai bene? — mi chiese.
Mi riuscì di tirar fuori un apatico
— Benissimo — e la spinsi verso il
traghetto, che aveva già caricato un
vecchio furgone Volkswagen e molte
macchine con i kayak sul tetto. Lily
tirò fuori una tessera e la mostrò al
capitano. — Abbonata — mi disse.
Procedemmo, serpeggiando tra le
macchine, fino a un punto lungo la
ringhiera. Quando tutte le auto furono
al loro posto, con il freno a mano
inserito, l’equipaggio tolse le cime
d’ormeggio dalle bitte di ferro e ci
allontanammo dal molo. Il capitano
spinse sul motore, facendoci salpare
in direzione dell’isola di Madeline.
Lily si sporse dal parapetto,
lasciando che l’acqua le imperlasse
il viso. Tremò; esitai qualche
secondo prima di metterle un braccio
intorno alle spalle. Non si oppose.
Indicò il lago e disse: — Sembra
un tessuto brillante.
Annuii, mentre con la mente
correvo alla ricerca di qualcosa di
intelligente da dire. Non la trovai.
Impacciato e senza equilibrio,
ringraziai i motori del traghetto, tanto
forti da scusare il mio silenzio.
Giocherellai con la pittura della
ringhiera che si staccava.
Il vento disperse il bagliore rosa
dal volto di Lily, frantumando il suo
alone e spandendo macchioline rosa
sulle onde, come petali di un fiore.
Stare così vicini rese le cose più
facili, ma rimasi comunque stupito
del mio autocontrollo. Per un paio di
volte ebbi l’istinto di prenderla e di
tuffarmi oltre il parapetto del
traghetto. Ma c’erano troppi
testimoni. Inoltre, perché mettere fine
a tutto questo?
Come se mi leggesse la mente,
Lily sospirò e si appoggiò ancora di
più. Contemplai il suo viso, ma lei
guardava in avanti, rendendo
impossibile interpretare il suo
linguaggio del corpo. Voleva che la
baciassi? Non ne ero certo. Voglio
dire, con qualsiasi altra ragazza
sarebbe stata l’ipotesi ovvia, ma in
Lily non c’era granché di ovvio. Se
voleva che la baciassi, e se l’avessi
fatto, avrei presentato un bel
rapporto positivo a Maris questa
stessa notte. Se invece avessi agito, e
lei non lo avesse voluto, avrei perso
tutto il terreno guadagnato nelle
ultime ventiquattr’ore.
Strinsi la presa intorno alle sue
spalle; lei si appoggiò ancora di più
contro di me. Non che non avessi mai
baciato qualcuno prima. Quante volte
il bacio era soltanto un preludio
all’uccisione? Era una mossa che
avevo praticamente inventato io.
Tolsi il braccio e le toccai il mento
con un dito. Lei schiuse le labbra,
morbide e calde, in attesa. Ma non
sapevo come baciarla. Quando la
guardai negli occhi, vidi soltanto il
mio inganno. Mi schiarii la gola e
tornai a scrostare la vernice.
Non impiegammo molto ad
attraversare il canale. Piccoli edifici
pallidi punteggiavano la costa. I loro
pontili si protendevano sul lago come
dita minuscole. Alcuni bambini
coraggiosi correvano sulla spiaggia e
saggiavano l’acqua con i piedi nudi,
mentre gli adulti li osservavano
stretti in pantaloni lunghi e maglioni.
Il traghetto virò e indietreggiò
verso il molo. Due gabbiani girarono
in cerchio su un palo di legno
macchiato di nero per il creosoto, e
atterrarono sulla ringhiera a pochi
centimetri da dove eravamo
appoggiati io e Lily. Uno degli
uccelli mi guardò per un secondo,
accusandomi con il suo occhio
giallo. — Pericolo? — domandò.
Risposi alla sua domanda; si alzò di
nuovo in volo, librandosi sul tetto di
un lungo edificio bianco.
Il capitano spense il motore; Lily
barcollò. L’afferrai prima che
cadesse.
— Bella presa — disse, con un
sorriso di apprezzamento.
L’aiutai a rimettersi in piedi. —
Direi proprio di sì — fu la mia
risposta arguta. Le allusioni
avrebbero dovuto compensare il
romanticismo. Almeno per il
momento.
Il negozio che noleggiava motorini
era a un solo isolato dall’approdo
del traghetto, all’angolo tra Main
Street e Middle Road. Ci accolse un
uomo barbuto in pantaloni corti e
maglietta dei Led Zeppelin. Lily
osservò l’insegna dietro la sua testa,
TUTTI I MINORENNI DEVONO ESSERE
ACCOMPAGNATI DA UN GENITORE , e
poi me che guardavo l’uomo. Senza
interrompere il contatto visivo, ci
consegnò due caschi.
— Andate a Big Bay? — chiese.
Feci segno di sì con la testa.
— Vi serve una cartina?
Scossi il capo. Feci un cenno a
Lily e lei uscì rapida dal negozio.
— Ma che diamine…? — disse
divertita. — Non ci ha nemmeno
chiesto i documenti. — Si attorcigliò
i capelli in cima alla testa e infilò il
casco scuotendolo un po’.
— Ottimo — dissi, facendole
l’occhiolino. — Sono senza
documenti.
— Hai almeno pagato per questi?
Mi misi a cavalcioni di una
Honda blu e avviai il motore. Lily si
tirò su la gonna e salì dietro di me.
Oscillammo piano sulle ruote, più
volte, prima di imboccare Middle
Road. Lei mi avvolse le braccia
intorno alla vita, facendo passare i
palmi lungo i fianchi, con i pollici
premuti sugli addominali, e mi
appoggiò la testa sulle scapole.
Scivolai indietro contro il suo
calore.
La cittadina lasciò il posto alla
foresta, e gli alberi apparvero su
entrambi i lati. Lunghe ombre
tagliavano la strada. Riuscivo a
sentire i pensieri di numerosi cervi e
di una volpe annidati nel bosco,
appena fuori dalla portata degli occhi
umani. Mi osservarono passare.
Meravigliandosi. Preoccupandosi. La
volpe balzò veloce dentro un tronco
cavo e si acquattò.
Tenevo gli occhi dritti davanti a
me, in attesa del punto in cui la
strada sarebbe arrivata alla spiaggia,
curvando poi di novanta gradi a
sinistra, verso Town Park. Indicai il
lago davanti a noi; Lily annuì
appoggiata alla mia schiena. Il sole
colpiva l’acqua, trasformandola in
argento, mentre io piegavo la moto in
curva. Dopo qualche minuto,
scorgemmo l’insegna marrone di
Town Park e accostammo nel
parcheggio. Spensi il motore e
abbassai il cavalletto. Lily scavalcò
il sellino per scendere.
— Pensi che sia abbastanza caldo
per fare una nuotata? — mi chiese.
— Per te, forse — risposi. — Hai
una tolleranza più alta di qualunque
persona che io abbia mai conosciuto.
— Compreso te?
— Compreso me senz’altro. Io
resto sulla spiaggia.
— Oh, non fare il bambino.
— Vedremo. — Azzardai a
prenderle la mano. Il ben noto
formicolio mi risalì il braccio fino al
cuore, e il bagliore rosa fluorescente
pulsò dalle sue spalle, diffondendosi
sul suo corpo come una sagoma
perfetta. Le lasciai la mano, e il
bagliore si affievolì fino a diventare
un’ombra
color
ruggine.
Interessante. Era più felice quando
la tenevo per mano.
Seguimmo la passerella incrostata
di licheni fino ai gradini che
scendevano al ponte. Parecchie assi
erano marce e rotte, così passammo
con attenzione, attraversando il
precipizio e poi procedendo sulla
sabbia, oltre gli alberi, finendo sulla
spiaggia inondata dal sole. Alcune
famiglie camminavano lungo la riva.
Lily corse davanti a me,
togliendosi i vestiti. Non sapevo
decidere cosa fosse più attraente; se
la morbida rientranza della vita, o il
bagliore arancione che le fluiva dalle
braccia gocciolando dai suoi
polpastrelli come un gelato sciolto.
Le altre persone presenti sulla
spiaggia osservavano incredule Lily
sguazzare nell’acqua e tornare di
corsa da me, per schiantarsi sul mio
petto.
La sua pelle scintillava e le venne
la pelle d’oca su tutto il corpo.
Allungai una mano dietro le spalle e
mi sfilai la felpa, facendola passare
sopra la sua testa. Lei alzò le
braccia, lasciando che le infilassi la
maglia al contrario.
La voce di Maris mi ringhiò
nell’orecchio. “Ricordati perché sei
qui, Calder.”
“Me lo ricordo” pensai,
trascinando
un dito
intorno
all’orecchio di Lily per sistemarle
una ciocca di capelli.
“Spingiti troppo oltre e giuro
che…” mi ammonì la voce di Maris.
“Cos’è troppo oltre?” mi
domandai. Lily tremò. “Posso
farcela” pensai. “Posso superare
questa linea. Posso soddisfare Maris
e in qualche modo occuparmi di
questa ragazza.” Spinsi tutti i miei
pensieri contraddittori in fondo alla
mente. Che alternativa avevo?
Un vento freddo mi colpì il petto
nudo; Lily mi guardò contrita. —
Avrei dovuto portare un asciugamano
— disse. — Perché non ci ho
pensato?
— Te ne avrei portato uno io, se ti
avessi pensato tanto pazza da entrare
in acqua. — Rimpiansi la scelta
delle parole, ma lei fece un largo
sorriso. — Pensavo scherzassi.
— La pazzia. Immagino di averla
nel sangue. — Sciolse la coda di
cavallo e scosse i capelli.
— Mmm. Giusto. Il tuo pazzo
patrimonio genetico. — Mantenni lo
sguardo sui miei piedi mentre facevo
la domanda che mi tormentava da
quando ero un bambino. — Allora,
cos’è successo a tuo nonno, a
proposito? Dopo che è andato via di
qui.
Ruotai le caviglie nella sabbia,
cercando di sembrare moderatamente
interessato – come se non
m’importasse affatto – ma la pelle mi
formicolava per l’aspettativa. Nel
corso degli anni le mie fantasie erano
state pittoresche. Quella che avevo
scelto alla fine vedeva Tom Hancock
nascosto in una grotta, a nutrirsi di
parassiti.
— Te l’ho già detto — rispose
Lily, scacciando una libellula dalla
mia spalla.
— Voglio dire, com’è finita?
Abbassò gli occhi sulla sabbia e
mi coprì le punte dei piedi con le
sue. — Alzheimer. Non riconosceva
più nemmeno mio padre. Ogni
frammento di normalità se ne andò
via, un po’ alla volta. L’ultima cosa
che disse a mio padre fu: “Tua madre
ti sta chiamando, ma non andare a
casa.”
— E cosa vorrebbe dire?
— Dato che mia nonna era morta
cinque anni prima, un bel niente. Mio
padre pensò significasse che il nonno
voleva che restasse con lui. Così
naturalmente lo fece. Gli tenne la
mano in punto di morte. E continuava
ancora a parlare del mostro… —
Lily mi lanciò uno sguardo. —
Spezzò il cuore a mio padre. Mamma
non ci permise di restare a guardare.
Non sono sicura che avrei voluto
farlo. Hai mai conosciuto qualcuno
con l’Alzheimer?
— No.
— È terribile. Osservare una
persona finire in pezzi in quel modo,
poco a poco. Non penso che sarei
riuscita a vederlo andare via. Alla
fine.
Seguì un momento di silenzio, poi
Lily sorrise e scrollò le spalle,
cambiando umore con la stessa
facilità con cui si volta la pagina di
un libro. Mi trasse verso quello che
dichiarava essere “il posto perfetto”
e spiegò la gonna come fosse un telo
da mare. Mi distesi accanto a lei,
dimenando il corpo fino a creare la
mia forma nella sabbia. Mi
concentrai sul calore della mia
schiena, anziché sulla brezza che
rinfrescava la pelle. Le palpebre si
arrossarono e poi si scurirono
quando una nuvola ci passò sopra.
Lily si drizzò a sedere, ma io non mi
mossi. Ero grato per quel silenzio.
Qualche minuto dopo caddi
addormentato.
Ma il mostro era rimasto sveglio
più che mai.
21
NON TENTARMI
Calore. Fu la prima cosa che notai e
la ragione per cui compresi che stavo
sognando. Era il tipo di calore che
veniva dall’essere abbrustoliti dal
sole a picco in alto e dalla sabbia
rovente in basso. Nel mio sogno,
aprivo gli occhi e riconoscevo il
paesaggio che mi circondava, grato
di essere tornato alle Bahamas. Il
turchese e il rosa sostituivano il
marrone cupo e il verde dei Grandi
Boschi del Nord. Un uomo dalla
pelle scura suonava un tamburo
d’acciaio sotto una tenda a strisce,
mentre i turisti sorseggiavano
bevande colorate con le cannucce di
plastica. La sabbia era polvere sotto
la mia pelle e la facevo scorrere dal
pugno come in una clessidra.
In contrasto con il calore esterno,
il mio cuore tremava di freddo. La
mente era annebbiata, cupa e afflitta,
mentre respingeva i fili di
disperazione che erano ormai
intessuti dentro di me come la trama
e l’ordito su un telaio. Istante dopo
istante, i fili diventavano sempre più
stretti, finché la disperazione quasi
non mi soffocò.
Avevo già provato questa
sensazione. Fin troppe volte. Era
solo questione di minuti, prima che la
depressione diventasse così spessa
da ingoiare gli ultimi residui di
raziocinio. Mi chiesi che cosa mi
avrebbe fatto scatenare, questa volta.
Un sorriso? Una risata? Sperai solo
che chiunque mi capitasse, non fosse
troppo giovane. I bambini erano più
difficili da maneggiare, dopo
l’euforia del primo momento.
Poi il sogno cambiò forma con la
sabbia,
mentre
qualcuno
si
avvicinava.
Un lieve bisbiglio al mio
orecchio: — Ti ricordi di noi?
Un fremito di aspettativa mi
correva lungo le gambe.
Guardai in alto, riparandomi gli
occhi dal sole. Due sagome scure
guardavano in basso, verso di me,
con le braccia stranamente allungate,
le teste piccole.
— Al bar, ieri sera — dissi
intontito, cercando di ricordare i loro
nomi.
Ma
certo,
non
potevano
accorgersi del pericolo che
rappresentavo. Non sembravo altro
che la perfetta avventura estiva:
esotico, affettuoso, prodigo di risate.
Le amavo perché non avessero paura,
non come Pavati, che giocava con le
sue prede come un gattino con un
gomitolo, che lo fa rotolare via prima
di tirarlo di nuovo a sé privando
lentamente le sue vittime delle loro
emozioni, finché non erano troppo
intontite per reagire. No, non ero per
niente come Pavati. Le mie vittime
morivano sempre con dignità; facevo
in fretta.
— Andiamo a fare il bagno nude
— disse una delle ragazze, la sua
voce suonò lontana, mentre l’altra
rideva. I miei occhi saettarono dalla
sua parte e il cuore trasalì di
desiderio.
— Ci chiedevamo se ti andasse di
unirti a noi.
Una di loro – non saprei dire
quale – mi prese la mano e mi
sollevò, conducendomi a un punto
nascosto su una roccia abbarbicata in
alto, lontano dalla spiaggia pubblica.
La sentivo tirarmi per un braccio,
benché la visuale si stesse
restringendo e non riuscissi più a
vederla.
Si fermò. Si voltò. Mi baciò. Rise
in una maniera che mi fece ribollire
dentro. La seconda ragazza disse: —
Bacia anche me, Calder — e il suo
sorriso fu come un lampo che
illuminò l’intera scena.
Mi ritrovavo nudo e senza fiato e,
con un unico movimento fluido, le
avvolgevo entrambe nelle mie
braccia. Le loro grida di gioia mi
riempivano le orecchie, mentre mi
tuffavo nell’oceano, portandole
sempre più a fondo, premendo i loro
corpi contro il mio, mentre la
metamorfosi
prendeva
il
sopravvento.
Continuavamo a scendere, la
pressione crescente dell’acqua mi
aiutava a spremere la vita dai loro
corpi. Le emozioni luminose
uscivano dalla loro pelle e
penetravano nella mia.
Come un’osmosi di champagne.
Mi sprizzava nelle vene,
rendendomi così leggero che dovetti
sforzarmi di non farmi riportare in
superficie. Invece, continuai a
trascinarle verso il basso, in un
vortice, giù nella sabbia, strizzandole
come strofinacci senza guardarle in
faccia; non volevo vedere i loro
occhi rovesciarsi indietro, le bocche
aperte.
Ci volle solo un minuto.
Una volta assorbito tutto il
possibile, diedi un’ultima spremuta,
quindi abbandonai i loro gusci vuoti
nel solito posto.
Riemersi esultante, sentendomi
dieci volte più grande ed ebbro di
vittoria.
E poi mi accorsi che qualcuno mi
stava guardando.
Era Lily. Ero sveglio. E –
dannazione – faceva freddo.
Inghiottii la fame, che adesso mi
lacerava il cuore con denti affilati
come rasoi.
— Cos’hai da guardare? —
ringhiai. Mi buttai un braccio sugli
occhi.
— Chi dice che sto guardando? —
ribatté lei.
— Lo dico io. Sento che mi stai
fissando. — Mi stupiva essere tanto
conscio della sua presenza. Mi
domandai da che distanza sarei
riuscito a sentirla. — Che fai?
— Scrivo.
Tirai indietro il braccio e la
guardai strizzando gli occhi. Reggeva
un quaderno in equilibrio sulle
ginocchia, lo zaino aperto ai piedi.
Lily chinò la testa sulla pagina,
mentre la penna graffiava la carta. —
Che scrivi?
— Scrivo di te — disse senza
alzare gli occhi e senza scusarsi
minimamente.
Feci una risata forte, amara. —
Credo di non volerlo sapere.
— Cerco solo di descrivere come
sei. Sei italiano? — Stavolta mi
guardò assottigliando gli occhi.
— No.
— Irlandese? Armeno?
— No, perché?
— Non ho mai visto nessuno che
ti somigli, finora. Capelli neri ricci.
Pelle olivastra. E non sembra che tu
abbia necessità di raderti; non hai
nemmeno un filo di barba. E hai gli
occhi verdi. Voglio dire, chi ha gli
occhi come i tuoi? Magari brillano
anche al buio.
— Non brillano.
Mi passò un dito su un braccio,
saggiandone la levigatezza. — Te le
depili o cosa?
— Faccio parte della squadra di
nuoto — spiegai, con una contrazione
agli angoli della bocca.
— Stai mentendo.
— In parte.
— Non farlo.
— Scusa. — La guardai con gli
occhi socchiusi e lei arrossì.
— Va bene, cosa sei, allora? —
mi domandò, enfatizzando il cosa più
di quanto mi sembrasse normale. O
era solo la mia immaginazione?
— Sono qui. Ecco cosa sono.
La bocca le si contrasse in un
sorriso. — Immagino che basti.
Mi girai di fianco su un gomito e
mi avvicinai a lei. — Allora, ti rendo
ancora nervosa?
— Assoluta-maledettamente-sì.
— Lily tornò al suo quaderno. Io mi
sdraiai sulla sabbia e lasciai che le
mie dita disegnassero dei cerchi sul
tatuaggio in fondo alla sua schiena. Il
sole era quasi scomparso e il vento
stava diventando più freddo.
— Lily?
— Che c’è?
— Sei sicura di voler andare dai
Pettit, stasera?
— Sei sicuro che tu n o n ci
andrai?
— Sicuro — dissi. — Non vorrei
rovinare la festa di Jack.
— Speravo di sì.
— Cosa? Che gli rovinassi la
festa?
Con il quaderno mi diede una
botta in testa. — No, stupido.
Speravo che ci venissi.
— Vedremo — dissi, sollevato
per avere fatto abbastanza progressi
da rendere felici, almeno per un’altra
notte, sia Maris sia me stesso. — E
ora rivestiti, fa freddo. E io rivoglio
la mia felpa.
22
FALÒ
Una labrador color miele percorreva
su e giù la spiaggia dietro la rimessa
dei Pettit. Mi guardava, la guardavo.
Di tanto in tanto si abbassava sulle
zampe anteriori, poi spiccava un
salto e riprendeva a camminare. Il
falò ardeva dietro di lei. Era stato
acceso in una vasca di ceramica
conficcata per metà nel terreno, ad
appena una decina di metri dalla
costa, e i rami secchi al suo interno
bruciavano luminosi, spargendo
scintille nell’aria.
Qualcuno gettò una bracciata di
foglie nel fuoco, ignorando le
proteste di alcune ragazze, e una
nuvola di fumo si levò gonfia dalla
vasca. I partecipanti alla festa
arretrarono tra gli alberi, per evitare
l’odore tossico, e una nube grigia si
riversò sul lago.
Il fumo soffocò qualsiasi luce
generata dalle fiamme, fui costretto a
impegnarmi a fondo per individuare
Lily in quella foschia. La vidi – come
sospettavo, o forse temevo – al buio,
vicino a Jack Pettit. O magari era lui
a stare vicino a lei, perché quando
Lily si scansò da una parte, lui si
avvicinò di nuovo. Si chinò per
bisbigliarle qualcosa all’orecchio.
Lei sorrise. Era appoggiata di
schiena a un albero. Non riuscivo a
capire se fosse divertita o
semplicemente educata, e… Come
diamine si era vestita? Jack
giocherellava con la frangia del
foulard di seta che lei aveva avvolto
intorno alla testa.
La luce si rifletteva su qualcosa
alle sue spalle. Assottigliai gli occhi
al buio e vidi un sacchetto per i
rifiuti appeso a un pino. A terra,
intorno ai piedi di Lily, c’erano
almeno una decina di lattine di birra
e di bicchieri di carta. Un fusto di
birra argentato sbucava per metà da
dietro l’albero.
— Chi è la tua amica? —
domandò un ragazzo.
— Lily Hancock — rispose Jack,
chiaramente felice di mostrare una
certa intimità con lei. — Lily, lui è il
mio amico Bryce. È all’ultimo anno
delle superiori.
— Non mi pare di averti mai vista
a scuola — disse Bryce. — Non vai
a Bayfield.
— Mi sono trasferita qui da poco
— rispose Lily. — Inoltre, per il
momento studio a casa.
— Che peccato. — Bryce mise
una mano sul tronco a cui era
appoggiata Lily e le si avvicinò. —
Sarebbe bello vedere una faccia
nuova a scuola. Le altre ragazze le
conosco tutte dai tempi dall’asilo.
Cercai di cogliere la reazione di
Lily, ma non ci riuscii. Gabrielle
arrivò di corsa e diede una botta con
i fianchi a Bryce.
— Bello, levati — disse
Gabrielle. — Dalle tregua.
— Che problema hai, Gabby? —
le domandò Bryce. — Stavo solo
salutando la nuova arrivata.
— Lily, vieni con me — disse
Gabby. Prese Lily per mano e la
trascinò via. — Voglio presentarti un
po’ di gente. — Poi urlò, voltandosi
verso Bryce: — Gente meno
insopportabile.
Lily se ne andò con Gabby. Avrei
voluto seguirla per assicurarmi che
stesse bene, ma lo sguardo lascivo di
Bryce aveva tutta la mia attenzione.
Schiacciò la sua lattina vuota e la
gettò a terra, sotto il sacchetto
dell’immondizia.
— Si veste in modo strano —
disse Bryce.
— Oh, strana lo è di sicuro —
ribatté Jack.
— Però è carina, vero? — disse
Bryce.
Jack non rispose.
— Sì — disse Bryce — è
decisamente carina. Con chi è
venuta?
Jack incrociò le braccia sul petto
e si protese in avanti, conficcando il
gomito in pancia all’amico. — L’ho
invitata io. Se sta qui con qualcuno,
sta qui con me.
Senza preavviso, l’elettricità mi
schizzò dalla testa alle braccia,
sprigionando un lampo bianco
sull’acqua. In spiaggia sobbalzarono
tutti. — Era un fulmine? — domandò
qualcuno.
— Le previsioni non davano
pioggia — disse un ragazzino. —
Speriamo che non piova — disse un
terzo. — Non avrò un’altra serata
libera nel fine settimana fino al
giorno dei caduti.
Un pesce morto galleggiava
accanto alla mia mano tesa. — Pensi
che stia con te? — mormorai,
afferrando il pesce. Lo lanciai
colpendo Jack dritto in mezzo agli
occhi. — Non hai idea di chi c’è qui
con te.
— Che diavolo è stato? — gridò
Jack. Il cane annusò il terreno,
seguendo la scia del pesce straziato.
Una volta trovato il suo obiettivo, gli
diede un paio di belle annusate,
prima di starnutire e sedersi su un
piede di Jack.
— Sparisci, stupido cane. — Jack
raccolse un bastone e lo lanciò
lontano, in acqua. Il cane trottò verso
il lago, poi iniziò a nuotare
nell’oscurità. Nuotò per oltre dieci
metri, alla ricerca del bastone, poi
tornò indietro, con il trofeo tenuto
rispettosamente fuori dall’acqua.
Lasciò cadere il pezzo di legno ai
piedi di Jack e si scrollò l’acqua dal
pelo.
— Che schifo. Sparisci. — Jack
scagliò il bastone ancora più lontano.
Un lancio impressionante, con un
atterraggio a pochi centimetri dalla
mia mano. Se non fossi stato sicuro
del contrario, avrei detto che aveva
mirato proprio a me.
Il cane entrò di nuovo in acqua.
Mentre si avvicinava, riuscivo a
scorgerne il muso e l’espressione
stanca.
Conoscevo
bene
la
frustrazione di quella costrizione
istintiva. Il suo naso si abbassava
sempre di più sull’acqua, mentre i
suoi pensieri scorrevano come le
immagini di vecchie diapositive:
coniglio, ciotola, qualcuno che le
accarezza la testa, e poi…
stanchezza… PANICO.
— Non ti voltare, vecchia mia.
Vieni da me. Ti aiuterò.
Il cane uggiolò e si avvicinò.
— Così va bene. Ancora un po’.
Le misi una mano sotto la pancia –
sentendo ogni costola – e la sostenni.
La portai a riva, diversi metri a nord
dalla festa.
Mi nascosi di nuovo, pentendomi
di avere lasciato i vestiti in
macchina. Sbirciare dai cespugli
iniziava a essere stancante, oltre che
umiliante. Perché non irrompere alla
festa sulle mie gambe come ogni
persona che si rispetti?
Non risposi alle centinaia di
domande che mi frullavano nel
cervello. Forse perché avevo la testa
in piena confusione, forse perché
stavo ascoltando il basso ringhio di
avvertimento del labrador, ma non mi
accorsi subito della ragazza che
saliva sulla barca da pesca, né della
sagoma scura che l’allontanava dalla
sponda del lago. I miei occhi
cercarono Lily sulla riva, mentre un
sottile filo dell’odore di agrumi e
pino galleggiava lungo l’acqua
increspata.
— Divertitevi — disse una voce
che riconobbi essere di Gabrielle.
La barca ondeggiò quando la
figura scura scavalcò la prua con una
gamba e montò sullo scafo. Dalla
sagoma capii che era un maschio. Il
vento sul lago gli fece volare via il
cappuccio della felpa e lui mosse un
altro passo, facendo oscillare la
barca. La ragazza gridò, poi rise,
dicendo: — Mi ha convinta Gabby.
Non farmene pentire.
— Lily — mormorai.
Il ragazzo, ancora in piedi sulla
barca, tirò la corda di accensione
due volte, finché il motore non prese
vita con un ruggito. Manovrò la
valvola e la prua uscì dall’acqua.
Lily era rivolta al centro della barca.
Si chinò in avanti, reggendosi sui
lati, finché il motore non si spense
bruscamente – a pochissimi metri
dalla riva – e lei fu spinta indietro.
— Jack, sei un pessimo
conducente — gridò all’altra figura.
Era peggio di quanto pensassi. Cosa
ci faceva in barca con lui? La prua
era sprovvista di illuminazione. Mi
guardai intorno, sperando di non
vedere altre imbarcazioni. Una
collisione era più di quanto mi
servisse in questo momento. Jack si
alzò e barcollò verso il sedile
centrale. La barca ondeggiò
pericolosamente, agitando l’acqua.
— Sei ubriaco? Che fai? — Nella
voce di Lily risuonava il panico.
— Cosa faccio io? Cosa fai tu! —
disse lui in tono di scherno.
— Ci manderai a picco.
— Non è vero. — Si avvicinò
ancora, sedendosi sul bordo del
sedile centrale. — Si sta bene, vero?
Lontani dalla folla. Insomma, sono
simpatici, credo, ma non vedevo
l’ora di rimanere solo con te.
— Pensavo che avremmo fatto un
giro — disse Lily.
— Certo, lo faremo. Ma prima
volevo parlarti. — Jack parlava
biascicando le parole. — Non è una
cosa che posso dire davanti agli altri.
Ci ho provato, credimi.
— Di cosa vuoi parlare?
— Di loro. — Rise nervosamente.
— All’inizio pensavo che fossi una
di loro. Il giorno del tuo trasloco.
Sentivo il loro odore per tutta casa.
Aromatico. Come di fumo e incenso.
— Fece una breve risata. — Quando
sei caduta nel lago e non facevi che
parlare di quello stupido delfino, ho
pensato che fosse tutta una copertura.
Ma non aveva senso. — Sospirò,
deluso. — Non sei una di loro. Gli
sei solo andata vicino. Molto.
Lily si allontanò. — È quello che
stai dicendo che non ha senso.
— Non fa niente — disse lui. —
Non devi fingere con me. Anch’io
sono stato vicino a una di loro. Molto
vicino.
— Vicino a cosa?
Lui sorrise. — Falla finita. Lo sai
di cosa parlo. Quella cosa che
chiamavi delfino. — Rise di nuovo e
abbassò la voce. — Sirene.
— Sirene? — disse Lily. —
Pensavi che i o fossi una sirena? —
Sorrise, ma da questa distanza non
capivo se si sentiva lusingata o
divertita. — Le sirene profumano di
incenso?
Annuì e le si avvicinò ancora, fino
a sfiorarle le ginocchia. — Una di
loro veniva a trovarmi la scorsa
estate. Tutte le settimane. Avevamo
un posto speciale dove incontrarci,
su alcune rocce piatte, leggermente a
sud di qui.
— E ora?
— È da questo autunno che non la
vedo. Ma ho sentito il suo odore
addosso a te. — Si protese
speranzoso. — Pensavo che magari
tu l’avessi vista. Doveva tornare a
trovarmi.
Dal mio nascondiglio, nuotai in
cerchio e gettai le braccia in aria. —
Dannazione! — esclamai. Allora era
questo che intendeva Maris? Pavati
non aveva la precedenza su Jack
Pettit come preda: lui era uno dei
suoi giocattoli. Come avevo fatto a
non accorgermene? Maris e Pavati
stavano diventando brave a celare i
loro pensieri.
— Aspetta, mi stai dicendo che
non ho avuto le allucinazioni? — gli
domandò Lily. — Quello che ho
visto... è lei? Il mio delfino è la
sirena del tuo quadro?
Jack non ascoltava. — Per
tantissimo tempo ho sperato di essere
una di quelle persone di cui mi
parlava il vecchio pescatore.
Persone che non sanno nemmeno di
essere manitù… O sirene o altro. Se
ne vanno in giro come gente
normale… Pensavo che fosse per
questo che lei era venuta a cercarmi.
Forse sapeva qualcosa che io
ignoravo. Ho fatto alcune prove, ma
non è successo niente. Non riesco
nemmeno a trattenere il respiro per
più di diciassette secondi.
Jack schiacciò il naso sulla pelle
di Lily, nell’angolo tra il collo e la
spalla. Inspirò a fondo e gemette. —
Hai un profumo così buono. Proprio
come il suo.
Le mise una mano dietro la nuca.
In qualsiasi altra circostanza sarebbe
stata una scena romantica, ma era
come vedere tutti i film dell’orrore
di cui avevo sentito parlare. Lily
piegò il polso, appoggiandogli il
palmo della mano, piatto e rigido, sul
petto. Quando fu chiaro che non ero
l’unico a voler tenere alla larga Jack
Pettit, scattai verso la barca, tenendo
gli occhi appena sopra il pelo
dell’acqua.
Jack afferrò le estremità del
foulard di Lily e la tirò bruscamente
a sé. La barca iniziò a oscillare. Lily
urlò quando Jack piantò le labbra
sulle sue. Lo respinse e gli diede uno
schiaffo in faccia.
Jack trattenne il respiro, quasi che
lei gli avesse tirato acqua ghiacciata
e la colpì, forte. Lily cadde dal
sedile. Una vena pulsava al centro
della fronte di Jack, mentre la tirava
di nuovo verso di sé e le afferrava il
viso con entrambe le mani.
— Portala da me — disse. —
Dille che voglio vederla. Dille che
non resisto più.
Lily lanciò un grido, subito
soffocato.
Forse era per l’oscurità o perché
aveva gli occhi chiusi, ma Jack Pettit
non vide il braccio uscire dall’acqua.
Il mio braccio. Le mie dita
annaspavano, ansiose di ghermirlo
alla gola. Lo afferrai per il collo e lo
trascinai giù dalla barca con una
velocità tale da farlo scomparire
prima che Lily riaprisse gli occhi.
L’avevo quasi trascinato sul
fondale, quando mi ricordai di Lily.
Tornai in superficie, quel tanto che
bastava per spingere la barca a riva,
e sentii la punta della mia coda
sbucare dall’acqua. L’aria fredda
della notte mi sferzò la pinna.
Lily rimase con il fiato sospeso.
Dannazione. Cosa aveva visto?
Mentre pensavo alla mia mossa
successiva, Jack si dimenava,
agitando l’acqua. Tornò in superficie
e gridò, prendendo una boccata
d’aria. Lo afferrai per la nuca e lo
spinsi giù, schiacciandolo sulla
sabbia. Gli strofinai la faccia sui
detriti e poi lo lasciai.
— Jack! Jack! Jack! — gridarono
i ragazzi dalla spiaggia. Qualcuno
entrò in acqua e tirò la barca con Lily
in secca. Avrei dovuto ricordarmi di
ringraziarlo, chiunque fosse. Per
prudenza spinsi Jack in basso ancora
una volta, tanto per essere sicuro che
avesse imparato la lezione, quindi mi
dileguai.
23
LETTURA DI POESIE
Quando arrivai al lavoro il giorno
successivo, la signora Boyd mi
salutò mentre era intenta a passare lo
straccio sul pavimento, dietro il
bancone. La mattinata sarebbe stata
ancora più lenta del solito, con i
nostri pochi “clienti fissi” in chiesa.
— Lily non lavora oggi? — le
domandai.
— Arriverà per le dieci —
rispose la signora Boyd. Ripose lo
straccio e andò nel suo ufficio,
chiudendosi la porta alle spalle.
Mi dedicai al cruciverba del New
York Times , guardando l’orologio e
compilando una ventina di parole
prima che Lily varcasse la soglia del
locale. Un lieve livido a forma di
dita seguiva la linea del suo zigomo.
Strinse le labbra e si mise le mani
sui fianchi. — Che hai da ridere?
— E chi ride? — Alla vista di
quel livido, mi pentii di non avere
fatto fuori Jack Pettit quando ne
avevo avuto la possibilità. — Mi
stupisce solo che ti sia presentata al
lavoro.
— Perché?
— Una lunga giornata al sole e
all’aria aperta, seguita da una serata
impegnativa. — Scrollai le spalle,
cercando di mantenere leggera la
conversazione. Andai dietro il
bancone e mi legai il grembiule blu
in vita.
Lei mi seguì. — Cosa ti fa credere
che abbia avuto una serata
impegnativa?
Mi voltai ed eccola. A pochi
centimetri da me. Le passai accanto e
andai sul retro a prendere del
colombiano decaffeinato. — Non sei
andata alla festa dei Pettit?
— Ci sono andata. — La sua voce
era proprio dietro il mio orecchio.
— Ecco, è quello che intendevo.
— Tornai al bancone, aprii la
confezione di caffè e riempii il
contenitore sotto la macchina
dell’espresso. L’aroma ricco del
caffè mi investì la faccia.
— Pensavo che magari ti avrei
visto là, ieri sera — disse.
— Non ero stato invitato — le
rammentai. Le toccai il naso con un
dito e le passai di nuovo accanto. —
E poi, ti avevo detto che avevo un
impegno.
Si morse il labbro inferiore,
riflettendo su cosa dire. — Pensavo
che magari avresti cancellato il tuo
impegno per stare lì con me.
Stropicciai imbarazzato i piedi e
cercai qualcosa da pulire. — Dico
male? — domandò.
— No — dissi con un sospiro. Mi
arresi e mi appoggiai al muro.
Abbassai il mento sul petto. — Mi
sarebbe piaciuto essere là con te.
— Per un secondo, mi è sembrato
di vederti davvero.
Alzai
lo
sguardo.
—
Probabilmente il fumo ti ha giocato
qualche brutto scherzo.
Sorrise e annuì, come se le avessi
risposto a un’altra domanda. La
signora Boyd uscì dal suo ufficio,
chiuse a chiave la porta e si diresse
sul retro senza rivolgerci la parola.
La guardai allontanarsi e, quando mi
voltai di nuovo, Lily arricciò il naso.
— Lo sai? Sono tre giorni che porti
gli stessi vestiti. Non hai nient’altro?
— Non tutti abbiamo il lusso di
merletti
e
velluto, signorina
Hancock. — Le parole mi erano
uscite più taglienti del necessario,
ma ero felice che i vestiti sporchi
mascherassero gli odori che lei forse
andava cercando.
Abbassò la testa. — Scusa. Non
volevo criticare. Davvero. — Tra
noi si creò un lungo silenzio. Poi lei
disse: — Se ti interessa, sono stata
con Gabby quasi tutta la sera. Jack è
andato a letto presto. Ha avuto un
piccolo incidente con la barca.
— La gente dovrebbe stare più
attenta in acqua.
Assottigliò gli occhi. — Devo
stare attenta in acqua anche io?
Incrociai le braccia al petto e la
guardai dritta in faccia.
— Di cosa stiamo parlando, Lily?
— Parlo del fatto che forse mio
nonno non era pazzo, dopotutto. Jack
non la pensa così.
Non risposi.
— Ehi, sto parlando con te —
disse, dandomi una botta sulla spalla
con la base del palmo.
Alzai gli occhi al soffitto. — Cosa
vuoi che ti dica, Lily? Che penso che
tu abbia ragione? Be’, non è così.
Vuoi sapere cosa penso? Penso che
passi troppo tempo con Gabrielle
Pettit. E già che ne stiamo parlando,
non mi piace molto nemmeno suo
fratello. Vuoi parlare di mostri? Jack
è un cretino patentato e se ti tocca di
nuovo perderà un paio di dita.
— Come fai a sapere che mi ha
toccata? — Allungò una mano verso
di me, ma feci un passo all’indietro e
mi si drizzarono i peli sulla nuca. Gli
occhi saettarono verso la sua guancia
arrossata.
— Non lo so. Credo solo che
potresti trovare persone migliori con
cui passare il tempo.
— Persone? — chiese, inarcando
le sopracciglia. — Persone come te?
— Certamente, persone come me.
Perché no?
Lily posò lo zaino sul bancone di
marmo, abbassò la cerniera e mise in
mostra un libro con diverse
striscioline di carta che marcavano le
sue pagine preferite. Conoscevo
questo libro. Era lo stesso che avevo
visto a Minneapolis, quando mi ero
nascosto nell’armadio della sua
camera. Il ricordo era imbarazzante,
ma mi era rimasto impresso nella
mente: il libro, la borsa verde di
velluto, la gonna nera, lei che si
piegava per allacciare gli anfibi, il
tatuaggio. Fu il momento in cui decisi
che era l’obiettivo sbagliato e il
momento
in cui
seppi
–
inconsciamente, credo – che era
giusta per me. Se fossimo stati della
stessa specie e se non avessi
pianificato di ucciderle il padre entro
la settimana.
— Ho trovato un paio di poesie
che potrebbero interessarti. Sono tra
le mie preferite. Vuoi sentirle?
— No.
Mi lanciò uno sguardo strano, poi
si schiarì la voce, chinandosi sul
libro. I capelli le ricadevano in una
cortina fitta ai lati del viso. — Una
sirena trovò un ragazzo che nuotava,
e lo prese per sé — lesse. —
Premette il corpo al suo corpo.
— Non amo Yeats — dissi
bruscamente.
— Va bene. — Un sorriso
nascosto tornò ad affacciarsi ai suoi
occhi. — Che ne dici di Tennyson?
Scossi la testa, ma lei iniziò a
leggere lo stesso.
Sarei un tritone ardito
Starei a cantare il giorno intero
Riempirei gli antri del mare con
voce possente
Ma di notte viaggerei lontano e
giocherei
Con le sirene tra gli scogli…
Fece una pausa, poi nervosamente
saltò avanti: — Le bacerei spesso
sotto il mare e le bacerei ancora,
finché non mi baciassero.
— Che stai facendo?
— Niente. — Mi guardò con due
occhioni innocenti. Come in uno di
quei vecchi cartoni animati di Betty
Boop. — Non ti piace nemmeno
questa, vero?
La fulminai con lo sguardo. Cosa
voleva che facessi? Che accettassi le
sue ridicole supposizioni? Che
ammettessi quel che ero veramente?
Cosa avrebbe pensato, quando le
avessi detto che ero più simile al
mostro in fondo al lago che a uno dei
sirenetti nauseanti e narcisisti di
Tennyson?
Ebbe un brivido, ma non si arrese.
— Va bene. Niente Tennyson. Vuoi
sentire una cosa che ho scritto io,
invece?
— Sarebbe meglio. — Le parole
mi uscirono come un ringhio.
— Non ti metterai a ridere, vero?
— Si morse il labbro inferiore, come
se desiderasse rimangiarsi l’offerta.
Adesso mi era venuta la curiosità.
— Non credo che mi metterò a ridere
— la rassicurai. Ero abbastanza
sicuro di poter mantenere la
promessa. In questo momento non
c’era niente che mi apparisse così
divertente.
Lily tirò fuori un grosso quaderno
con la spirale; sulla copertina, a
lettere maiuscole, c’era la scritta I
MIEI SCARABOCCHI. Lo aprì e si
schiarì la voce. — L’ho scritta ieri
sera.
— Va’ avanti.
Mi lanciò un altro sguardo
ansioso. — Prometti di non ridere?
Mi tracciai una croce sul cuore e
lei iniziò a leggere le parole
lentamente. Con cautela.
Padre, quando mi sarò allontanata
da te
Madre, quando sarò morta
Non sedetevi alla mia piccola
tomba
Ma cercate nelle cime degli alberi.
Si fermò e mi guardò in viso, per
capire se dovesse andare avanti.
Annuii, incoraggiandola. Finora tutto
bene. Forse la sua piccola lettura di
poesie vittoriane era stata solo una
sfortunata coincidenza. Si schiarì di
nuovo la voce.
Non nei fiori là piantati
Mi troverete immobile
Ma nel volo verso il cielo
Dell’umile caprimulgo.
Uccelli. Bene. Così andava
meglio. Lily mi guardò come se si
aspettasse di vedermi spaventato.
Spostò il peso da un piede all’altro,
prima di leggere l’ultima strofa.
O giù andrò nel nascondiglio
Dello storione striato
Dove mi ritroverò invischiata
Nella setosa chioma di un tritone.
— Basta.
— Qualcosa non va, Calder? —
Mi guardò di nuovo con la massima,
assoluta innocenza.
— Cosa sono tutte queste poesie
sulle sirene? Non penserai ancora a
quel delfino? — Cercai di assumere
un tono sprezzante, ma non riuscii a
mascherare il panico nella voce.
— Non ci sono delfini in questo
lago, Calder. Lo sai. Probabilmente
lo sai meglio di chiunque altro.
— Cosa vorresti dire?
— Lo sai, cosa voglio dire. —
Chiuse piano il quaderno e lo fece
scivolare nello zaino. Con lo stesso
movimento fluido, le sue dita si
intrecciarono alle mie. Il flusso di
elettricità, dalla mia mano alla sua,
le fece venire la pelle d’oca, mentre
guardavo inorridito l’aria intorno
alle nostre mani trasformarsi in
sciroppo di lampone. La dolcezza
penetrò negli spazi tra le mie dita e
mi colorò il dorso della mano e poi
mi attraversò il polso. Lily si
avvicinò e io soffocai nel calore
dolciastro in mezzo a noi. Mi bruciò
le labbra e mi tirai indietro con
un’esclamazione. Mi si era chiusa la
gola e avevo la fronte imperlata di
sudore.
— Senti odore d’incenso? — mi
domandò.
— Non mi sento bene. Devo
andare. — Prima di precipitarmi alla
porta, mi sembrò di vedere un
sorriso soddisfatto affiorarle sulle
labbra.
24
AGGUATI E TRAPPOLE
Corsi alla macchina, bofonchiando
una sfilza di oscenità. Era meglio
mettere una bella distanza fra me e il
caffè. I battiti del mio cuore
rallentavano a ogni passo, ma più mi
allontanavo da Lily, più diventavo
irrequieto. Non riuscivo a capire
cosa fosse. Potevo solo paragonarlo
a quando si resta imprigionati in un
mulinello. Ma non in un brutto modo.
Mi ritrovavo a testa in giù, ma non
mi bastava. Insomma, volevo che
finisse. Era una forza irresistibile
come l’impulso di migrare.
Saltai a bordo dell’Impala e
chiusi con violenza lo sportello.
Nessuno poteva vedermi qui dentro.
Le querce gettavano ombre sul
parcheggio, e Maris era stata
abbastanza scaltra da rubare una
macchina con i vetri oscurati. Questo
grado di copertura mi concedeva il
lusso
del
tempo.
Dovevo
ricompormi. Chiusi gli occhi e
picchiai la fronte sul volante. Non
vedevo altro che Lily: il suo volto
d’avorio e i seri occhi grigi, i lunghi
capelli che si arricciavano sulle
guance e le cadevano sulle spalle. Il
tatuaggio sulla schiena, il sorriso
confuso, la sua mano nella mia… il
fuoco rosa lampone lungo tutto il mio
braccio.
— Stupido. Stupido. Stupido —
gridai forte. Scossi la testa e cercai
di mettere a fuoco l’immagine, cercai
di riconquistare il buonsenso. Non
era questo il piano. Maledetta
Pavati! Era stata tutta colpa sua
perché, tanto per cominciare, mi
aveva messo in testa quest’idea
ridicola. Io e Lily come una vera
coppia… A me non sarebbe mai
venuto in mente. Nemmeno tra
cent’anni. Ma non c’erano altre
spiegazioni. Mi piaceva troppo.
Troppo, troppo. Mi rifiutavo di
pensare all’altra parola, la parola
importante; quelli della mia razza ne
erano capaci? Era un’eventualità
intollerabile.
A quanto pare, mi ero innamorato
di un’umana, e non un’umana
qualunque, la peggiore umana
possibile fra sette miliardi di
possibilità. In preda a una crisi
isterica, mi distesi sul sedile
anteriore, mentre il corpo intero
fremeva. Una cosa del tutto ridicola.
Le lacrime mi scendevano sulle
guance mentre mi scappava un’altra
scarica di risate a denti stretti. Cosa
avrei detto a Maris? Niente, punto e
basta. Niente di niente. Quindi, la
giovane Hancock amava le poesie
sulle sirene. Bell’affare!
Mi chinai sul poggiatesta e contai
i respiri, scacciando Lily dalla
mente, immaginando invece la
metamorfosi.
Dal mio arrivo a Bayfield, avevo
ridotto i miei tempi di sei secondi,
ma ero sempre con sette secondi di
ritardo rispetto alle ragazze. Tanto
valeva che fosse un’ora. Pavati si
trasformava prima che le sue mani
toccassero l’acqua. Maris e Tallulah
lo facevano in un paio di secondi. Il
mio tempo migliore della stagione
era stato di nove, ma continuava a
oscillare.
Era a questo punto che entrava in
ballo l’esercizio di visualizzazione.
Se lo evitavo, a volte dovevo
riemergere per prendere aria prima
di trasformarmi. Quando accadeva,
di solito tornavo a galla urlando,
cosa che faceva ridere le mie sorelle.
Non c’era nulla di più sinistro delle
crisi isteriche sottomarine. Per
giunta, detestavo attirare inutilmente
l’attenzione su di me. Tempo fa un
barcaiolo aveva pensato che stessi
annegando. Quando mi raggiunse, io
ero già sparito. Mi segnalarono come
l’ennesimo caso di annegamento.
Nessuno trovò strano che il corpo
non fosse mai stato rinvenuto. Dicono
che il Lago Superiore non restituisce
mai i suoi morti.
Mi tolsi i vestiti, senza darmi
pena di piegarli, e li infilai sotto il
sedile del conducente. Aspettai che
passasse la nave della Guardia
Costiera; aveva al rimorchio una
barca più piccola con uno stendardo
dell’università che sventolava a
poppa.
Una volta passata, attivai il timer
del mio orologio e spalancai la
portiera. Corsi verso la battigia e mi
tuffai, volando in aria come un
giavellotto prima di fendere l’acqua.
Per i primi due secondi nulla mi
distinse dagli altri nuotatori umani,
incantato dalla fredda pressione che
mi avvolgeva la pelle. Poi l’acqua
penetrò nei polmoni, riempiendo di
ossigeno le mie cellule affamate.
Adesso sì che potevo respirare.
Eppure, nonostante la sensazione
di sollievo, mi preparai con fatica
alla metamorfosi. Lo sconvolgimento
delle cellule procurava un senso di
panico, sembrava di stare sulle
montagne russe o di precipitare nella
tromba dell’ascensore. Il flusso di
energia mi scorreva rapido nelle
cosce, uscendo fuori dalle dita dei
piedi, esplodendo in una grande coda
d’argento tanto fantastica quanto
terrificante.
Consultai l’orologio, strizzando
gli occhi nel limo rosso. Dodici
secondi. Due secondi in più rispetto
all’ultima volta. Maledissi la mia
mancanza di concentrazione.
Tallulah doveva aver capito che
mi ero tuffato, perché vidi che mi
veniva incontro. I suoi capelli d’oro
ondeggiavano
nella
corrente,
sfiorandole le spalle. I suoi pensieri
mi portarono sott’acqua.
— Pensavo che non saresti
venuto all’isola.
— Senti, Lu. Non voglio sapere
cosa dicono le altre, ma per me è
tutto a posto. Siamo sulla rotta
giusta. Non devi preoccuparti. —
Era spossante tutta questa ginnastica
mentale per riuscire a mentire.
Quando mi raggiunse, alzò le
mani, palmi in avanti, e io appoggiai
le mie alle sue, in segno di saluto.
Riemergemmo insieme.
Tallulah sorrise. Dopo la morte di
mia madre, lei era stata una delle
poche consolazioni nella mia vita.
Era ciò che mi mancava di più
quando ero lontano. Mi abbracciò e
mi diede un bacio sulla guancia.
I miei pensieri volarono a Lily.
Mi chiesi che cosa avrei provato se
avessi avuto lei fra le mie braccia, le
sue labbra sulla mia guancia, le mie
labbra…
— Corri all’isola — dissi. Le
parole mi uscirono di getto; e
scacciai dalla mente ogni pensiero
riguardo a Lily.
Il volto di Tallulah si illuminò e
poi scomparve dalla vista. Avevo
inscenato una bella commedia, ma in
realtà non volevo correre. Volevo
solo restare per conto mio. A
Tallulah non sarebbe sembrato
affatto strano battermi un’altra volta.
Se Maris aveva intenzione di
permettermi di portare avanti il piano
iniziale, non potevo lasciare che i
miei pensieri contraddittori mi
tradissero. Concessi alla mia mente
di riempirsi delle immagini di nostra
madre intrappolata nella rete di un
pescatore. Mi riempii le orecchie
della sua richiesta soffocata di aiuto.
Mi riempii il cuore del nostro dolore
collettivo. Mi riempii le viscere di
un odio che solo l’uccisione di Jason
Hancock avrebbe appagato, finché i
miei sentimenti sconvenienti per Lily
furono salvaguardati nel mio animo.
Quando riemergemmo all’isola di
Basswood, Tallulah si allontanò
saltellando e andò a sedersi sulla
sabbia accanto a Maris e Pavati, che
mi sorrisero con felice stupore. Con
un grugnito, mi guardai intorno per
cercare di capire come mai. C’erano
tre cadaveri sulla battigia, nel punto
in cui la marea si era ritratta.
— Dio, Maris, pensavo volessimo
darci una calmata. — Mi
inginocchiai accanto a uno degli
studenti universitari e guardai in
direzione dell’acqua. L’espressione
vacua del giovane era rivolta al
cielo.
— Infatti — ribatté Maris. La
parola le esplose dalle labbra
insieme a una ributtante risata. —
Questa è solo la nostra prima
uccisione dell’estate. — Il suo umore
era migliorato e questo mi dava i
brividi; guardai Pavati, che inarcò un
sopracciglio sfidandomi a tradirla.
— Ti sei saziata — dissi. — Non
dovevamo risparmiare l’appetito per
Hancock?
— I ragazzi di quell’età — disse
Maris in tono malinconico guardando
i cadaveri — si credono immortali.
Fra trent’anni si sarebbero accorti
dell’errore, e questo li avrebbe resi
così cupi. — Sospirò con finta
compassione. — Gli abbiamo solo
fatto un favore, privandoli della vita
adesso. Mentre erano ancora giovani
e deliziosamente felici.
Un angolo della mia bocca si
contrasse e annusai per sentire se ci
fosse ancora una traccia di vita in
loro, ma erano solo gusci vuoti.
Maris equivocò la mia espressione,
scambiando la pietà per una critica.
— Senti, fratellino, non so
davvero come fai. Ma quanti mesi
sono passati ormai, sei? Vedi di non
far ricadere il tuo perverso senso di
abnegazione su di noi. Anche se, lo
ammetto, sono felice di sapere che ti
sei concentrato su Hancock. Pavati
aveva l’impressione che cominciassi
a distrarti.
— Pavati dovrebbe pensare per
sé. — Chiusi gli occhi di uno dei
ragazzi, trascinando le dita sulle sue
palpebre, e sperai che Hancock
potesse contare su una morte
altrettanto facile e rapida.
Tallulah mi offrì il posto sulla
sabbia accanto a sé, e così restammo
seduti, tutti vicini, sulla spiaggia –
Maris, Pav, Lulah e io – con i nostri
corpi così ravvicinati che, nonostante
sedessi all’estremità, avvertivo
ugualmente il calore irradiato da
Maris dopo l’omicidio.
Il fatto più strano era che non
provavo nessuna tentazione. Persino
la nuotata da Bayfield a Basswood
non aveva raffreddato la sensazione
della mano di Lily nella mia. Il
problema più spinoso era Hancock.
Nonostante i miei sentimenti per Lily,
restava ancora in piedi la questione
di vendicare mia madre e la
promessa fatta da Maris di ridarmi la
libertà.
25
LA CATTURA
Quando mi svegliai il mattino
seguente, mi alzai a sedere di scatto,
con il cuore che martellava contro lo
sterno, la testa carica di sogni di
braccia pallide e di bolle che
salivano da una creatura marina bella
ma pericolosa, che non riuscivo a
identificare. Le ragazze dormivano
ancora, accoccolate sotto un
baldacchino improvvisato di felci e
rampicanti, con i volti tesi anche nel
sonno, i corpi che si contraevano e
sobbalzavano.
Entrai in acqua, prima fino alle
caviglie, poi fino alle ginocchia e
quindi alla vita. I muscoli si
irrigidirono mentre si abituavano al
freddo. Tirai un respiro profondo e
presi il largo. Se mi avessero chiesto
dove ero diretto, avrei forse
risposto: “Da nessuna parte.” Ma il
mio inconscio avrebbe potuto
rispondere ancor prima che la
domanda fosse stata formulata. Ero
diretto all’abitazione degli Hancock,
o alle acque davanti alla loro casa.
Dovevo assolutamente sapere se Lily
parlava di me. Se magari stava
confessando le sue ipotesi al padre.
Quando avvistai il loro pontile,
capii che era troppo presto e che
forse nessuno si era ancora alzato.
Troppo, troppo presto. C’erano solo
poche luci accese davanti agli edifici
di Bayfield, e la casa degli Hancock,
a circa quattro chilometri a nord
della città, era completamente al
buio, a eccezione della finestra sopra
il portico. La luce brillava attraverso
i vetri, generando sul prato quattro
blocchi gialli e distorti, ma
all’interno non si vedevano
movimenti. Lily doveva essersi
addormentata con la luce accesa.
Forse stava sognando un sirenetto.
Forse stava facendo un incubo.
Il pontile era appena visibile
sull’acqua scura. Qualcuno aveva
spento i riflettori. Mi lasciai portare
dalle onde vicino alla riva.
— Ti vedo, sai.
La voce di Lily trafisse il silenzio
e una scarica di adrenalina mi arrivò
al cuore. Sfrecciai verso il familiare
ramo di salice e uscii dall’acqua
solo fino agli occhi. Lei parlava, ma
senza guardare nella mia direzione.
Seduta in fondo al pontile, fissava il
punto in cui ero appena passato.
— Senti, non ho una passione per
i delfini, ma non credere che sia
delusa.
Quindi stava facendo una battuta.
La credeva divertente? Era matta?
— Calder, non mi importa se ti
muovi di soppiatto nell’acqua,
seguendomi per la città. Non mi
importa nemmeno che Jack Pettit non
tornerà mai più a nuotare. Ma vuoi
venire fuori e spiegarmi cosa sta
succedendo?
— Non credo che sia una buona
idea. — Le parole mi uscirono senza
avere prima consultato il cervello.
Rimasi sorpreso dal suono della mia
stessa voce. Anche Lily trasalì
quando capì che non ero nel punto in
cui credeva lei. Si alzò in piedi e
appoggiò le mani sui fianchi. Si girò
in quella che pensava fosse la mia
direzione, sbagliando di circa venti
gradi.
— Perché non vieni a parlare con
me?
— Ripeto. Forse è una cattiva
idea.
Lily riuscì a mettermi a fuoco e i
nostri occhi si incontrarono, anche se
non ero ancora sicuro che riuscisse a
vedermi nel buio.
— Stavo solo facendo una nuotata
mattutina — spiegai — e poi… sono
nudo, sai, e… insomma, sono timido.
Lei sgranò gli occhi e scacciò una
zanzara che le si era posata sul
ginocchio. — Calder, finiscila. Sono
io. Lily Hancock. Non sono
completamente all’oscuro di ciò che
succede in questo lago.
— Se mi avvicino, tu rimarrai sul
pontile?
— Vuoi che rimanga sul pontile?
Mi piaceva la delusione nella sua
voce. — Assolutamente.
— Allora, va bene. — Si rimise
seduta.
— Togli i piedi dall’acqua, però.
— Fatto. — Incrociò le gambe
sotto di sé.
Maledissi la cattiva sorte. Per
adesso, però, non avevo nulla da
perdere. Inoltre, l’idea di essere
scoperto mi eccitava. Il pericolo era
stranamente inebriante.
Mi fermai a circa cinque metri
dall’estremità del pontile ed emersi
fino alle spalle. Lily spalancò gli
occhi. Aveva un nastro rosso fra i
capelli, che le cadeva sulla spalla.
— L’acqua è molto profonda in
quel punto — disse.
Annuii. Vidi che il suo sguardo si
posava sul mio collo. Non capivo se
vedesse l’anello d’argento. Ormai la
luna brillava a stento e gli alberi
gettavano ombre sull’acqua.
— Allora, me lo dici cosa stai
facendo?
— Ti sorveglio.
— Non pensavo di essere in
pericolo.
—
Mi
guardò
assottigliando gli occhi con sospetto,
era chiaro che i suoi pregiudizi su
sirene e sirenetti erano ancora legati
al mondo romantico delle fiabe. Un
malinteso che di solito costituiva il
nostro strumento più efficace, ma mi
disgustava dovervi fare ricorso con
lei.
— Puoi venire più vicino? — mi
domandò.
Mi spinsi in avanti, valutando
l’opacità dell’acqua e tenendo il
torace dritto come una boa, le
braccia lungo i fianchi. Lily annuì;
ogni dubbio che le fosse rimasto
sembrava dissolto dal modo in cui mi
muovevo. Ricordai l’ultima volta in
cui ero stato vicino a una ragazza nel
momento della trasformazione. Per la
ragazza non era andata tanto bene. I
giornali scrissero che si era trattato
dell’attacco di uno squalo. Qui non
avrei potuto sfruttare la stessa scusa.
— Credo di essermi avvicinato
abbastanza — dissi. Dal mio corpo
partì una scarica elettrica, e un
cerchio di insetti morti del diametro
di un metro si propagò intorno a me.
Lei si schiarì la gola e iniziò a
parlare lentamente: — Sei il mostro
di mio nonno?
Mi affrettai a fare di no con la
testa,
felice
di
rispondere
negativamente alla sua domanda.
Per la mia mente stava
succedendo tutto troppo in fretta.
L’aria mi offuscava i pensieri. Ma ne
restava uno nitido: l’immagine di
Lily che scopriva il nostro segreto
sarebbe stata troppo forte per tenerla
nascosta a Maris. Non avevo modo
di rimediare a questa figuraccia.
Quando l’avesse saputo, Maris
sarebbe andata su tutte le furie.
Avrebbe impedito a Lily di avvisare
suo padre. Non avrebbe esitato a
ucciderla, se questo gesto fosse stato
necessario per salvare i suoi piani di
vendetta contro Hancock.
Mi si fermò il fiato in gola. Anzi,
peggio, i metodi di Maris mi erano
fin troppo familiari. Mi venne la
pelle d’oca solo all’idea che
toccasse Lily, figuriamoci pensare a
lei che la trascinava sott’acqua.
Facendola soffrire. Godendo dei suoi
spasmi frenetici per tornare in
superficie. Crogiolandosi nella
tortura.
La bile mi salì alla gola appena
compresi cosa dovevo fare. Dovevo
uccidere Lily con le mie mani. Era il
minimo che potessi fare per lei.
Potevo così risparmiarle la
sofferenza. Potevo farlo rapidamente.
Non doveva sapere che la morte era
in agguato. Non doveva avere paura.
Non doveva sentire dolore.
Un’uccisione
misericordiosa?
Sarebbe stata la prima.
— Non sei il mostro — disse.
Sollevata.
Chiusi gli occhi. Non potevo fare
una cosa del genere guardandola
negli occhi. — Senti, Lily. Non
vorrei parlare di questo, adesso. La
tua famiglia si sveglierà tra poco,
perciò devo andarmene. Dopo
colazione, prendi uno dei vostri
kayak e va’ verso nord. Non dovrai
arrivare lontano. C’è una grotta a
nord di Red Cliff.
— Non credevo ci fossero delle
grotte finché non sei arrivato a
Cornucopia.
Riaprii gli occhi e a nuoto mi
avvicinai al punto in cui era seduta.
— Ce n’è una, nascosta dietro una
cortina di rampicanti. Mi troverai lì.
Mi allungai e le tolsi il nastro
rosso dai capelli. — Te la indicherò
con questo.
— Ci sarai veramente?
— Sì. — Sospirai. Come se non
avessi altra scelta, ormai. La mia
imprudenza mi aveva fatto finire in
questo pasticcio; toccava dunque a
me risolverlo. — Ci sarò.
26
LA GROTTA
La terra sporgeva sull’acqua e i rovi
crescevano sopra l’argine. Scansai il
velo di edera, rivelando alla vista la
piccola grotta, e annodai il nastro di
Lily sui rampicanti. Un millennio di
sedimenti rossi e neri tappezzava le
pareti di roccia. Nel corso del
tempo, l’acqua e il ghiaccio avevano
scavato una piccola rientranza. Mi
sollevai per sedermi su una
sporgenza vicino all’acqua e lasciai
cadere la coda sotto la cresta delle
onde. Sarei rimasto qui ad aspettarla.
Sentii le budella attorcigliarsi in
così tanti nodi che avrei potuto
vincere una gara di boy scout. Provai
a distrarmi pensando a qualcosa che
non fosse ciò che stavo per fare. Ma
per quanto mi sforzassi, la mente non
faceva che tornare all’inevitabile. Il
sole stava per sorgere all’orizzonte.
Lily si sarebbe seduta a fare
colazione con la sua famiglia.
Immaginai la sua eccitazione all’idea
di venire a cercarmi. Avrei voluto
che avesse più paura. Forse i genitori
le avrebbero chiesto di aiutarli con
la casa. Forse invece avrebbe capito
da sé che era pericoloso. Avrebbe
parlato di me a suo padre? No, ne
dubitavo. Non avrebbe voluto fargli
pensare che stava diventando matta
come suo nonno. Ma se glielo avesse
detto, lui avrebbe preso la sua
famiglia e avrebbe lasciato di corsa
la città? La storia si sarebbe
ripetuta?
Me lo auguravo. Se gli Hancock
se ne fossero andati, io mi sarei
tirato fuori dai guai. Per il momento.
Se Jason Hancock avesse portato via
Lily… Neppure questa sembrava una
prospettiva allettante. Ma era una
preoccupazione ridicola, considerato
quello che stavo per fare.
Due uccellini si inseguivano in
aria,
bisticciando.
Avevano
ingaggiato uno scontro di ali per
stabilire se fossero bene assortiti.
Non avevo mai prestato molta
attenzione a questi riti primaverili.
Lily aveva cominciato a farmi vedere
il mondo sotto una luce diversa.
Mi soffermai a guardare gli
uccelli. Alla fine la femmina si
arrese alle lusinghe del maschio e
insieme andarono a nascondersi in
una crepa nell’arenaria.
Scacciando dalla testa questi
pensieri
sul
romanticismo
primaverile, provai a immaginare
che cosa sarebbe successo se Lily si
fosse avvicinata. Meglio asciugarmi
o restare in acqua?
I miei vestiti erano ancora in
macchina, perciò avrei dovuto
nascondermi dietro i cespugli. Cosa
era peggio? Difficile stabilirlo ma,
per quanto fossi stufo delle ombre,
scelsi l’acqua e mi addentrai ancora
di più negli oscuri recessi della
grotta. Il sole irruppe fra gli interstizi
dei rampicanti, gettando sull’acqua
cerchi di luce grossi come palle da
golf. Cominciai a nuotare avanti e
indietro, dalla luce al buio, dalle
zone di acqua gelida alle sacche in
cui era solo fredda.
Passò un’altra ora prima di
scorgere la piccola sagoma di un
kayak sbucare da dietro l’angolo.
L’acqua era uno specchio piatto, a
parte le increspature lasciate
dall’imbarcazione di Lily. Sembrava
che procedesse a pieno ritmo, eppure
avanzava con lentezza.
Si era messa un vestito di lino
bianco con la scollatura profonda. Le
maniche
svolazzavano
mentre
remava. I capelli rossi le cadevano
sciolti sulla schiena. Passò attraverso
i rami spioventi dei salici,
abbassando la testa ogni volta. La
brezza soffiava tra i pioppi, e ogni
nuova foglia tremava in sintonia con
il mio cuore. Incredulo, scossi la
testa. La solita attitudine teatrale;
stava interpretando una scena di una
delle poesie di Tennyson.
— La dama di Shalott —
sussurrai. Soffocai la cupa ironia del
momento: io non ero Lancillotto, ma
lei sarebbe comunque morta.
Sospirai e le andai incontro a
nuoto, emergendo sotto il kayak e
portandolo sulle spalle. All’inizio
non ero certo che avesse capito che
ero io a farla andare più veloce.
Poteva essere il vento. Ma poi colsi
il suono di un respiro soffocato, ora
sapevo che mi aveva visto.
La trasportai fino all’ingresso
della grotta e ripresi il mio posto fra
le ombre. Gettò la cima del kayak
intorno a una betulla coperta di
muschio sulla sponda e si volse a
guardare. I suoi occhi erano ardenti e
bruciavano nei miei.
— Quindi sei una sirena? — Lo
disse come se fosse una domanda,
perché si rifiutava di guardare sotto
l’acqua e avere conferma di ciò che
già sapeva.
— Sirenetto — la corressi, anche
se era un termine che avevo sempre
odiato. Faceva tanto Hans Christian
Andersen.
Restammo seduti in silenzio,
chiedendoci chi avrebbe preso la
parola per primo. Lily mi batté sul
tempo. Cominciò a giocherellare con
i
ciondoli
portafortuna
del
braccialetto d’argento, facendoli
andare su e giù. — Ovviamente, ho
un sacco di domande.
Mi concessi un momento per
andare sotto e schiarirmi le idee.
Riemersi e scossi i capelli. — Mi
stupirebbe il contrario.
Fece un largo sorriso, come se
avesse appena vinto un premio
importante. — Quindi, per te va
bene? Risponderai?
— Be’, dipende dal tipo di
domande, ma in questo momento mi
sento molto generoso.
“Non che tutto questo abbia
importanza visto che tra poco sarai
morta” pensai mestamente. Sentivo
un groppo in gola mentre cercavo di
parlare: — Comincia pure.
— D’accordo. — Si girò
dall’altra parte, arrossendo. — Se
posso chiedertelo… come mai nella
gran parte dei giorni hai due gambe?
— Evoluzione — risposi
semplicemente. — Sopravvivenza
dei più adatti. Posso andare sulla
terraferma in caso di bisogno.
— Sei un sirenetto evoluto?
— Molto. — Mossi i pollici
opponibili. — Sono rimasti molti
tratti primitivi.
— Tipo?
“Seduzione. Assassinio. Caos.”
— Be’, se volessi, potrei darti una
bella scossa elettrica.
Considerai questa eventualità.
Avevo programmato di affogarla, ma
una bella scossa sarebbe stata più
rapida, più misericordiosa… — E
sono telepatico con gli animali e con
le mie sorelle, quando siamo
sott’acqua.
— Da qui riesci a sentirle?
— Potrei, ma oggi non sono nel
lago.
— Dove sono?
— Al cinema.
Sbuffò e soffocò una risata. — Sì,
come no! — sghignazzò, ma poi si
ricompose.
— Le ho conosciute, le tue
sorelle. Tua madre come si chiama?
Sobbalzai e sussurrai: — Nadia.
— Lily non parve accorgersi del mio
cambiamento.
— E tuo padre?
Mi schiarii la gola mentre cercavo
di raccogliere i ricordi. — Non lo
so. Il padre di Pavati era un
musicista. Si chiamava Deepak o
qualcosa del genere. Il padre di
Maris e Tallulah era John Bishop. Un
biologo.
Inarcò le sopracciglia. — Bishop
sembra un nome banale per un…
un… sirenetto.
— Ma non era un sirenetto. Ai
sirenetti non è consentita la paternità.
— Non è consentita?
— Non è che il lago pulluli di
sirene e sirenetti. Diventerebbe
incestuoso, non trovi? I padri delle
mie sorelle erano umani. Così
diversifichiamo
il
patrimonio
genetico. Le sirene si accoppiano con
gli umani, e in questo modo ci
riproduciamo. Be’, è uno dei modi.
— Le tue sorelle conoscevano il
loro padre?
— Non esattamente. I neonati
vivono con i loro padri umani per il
primo anno di vita, o dovrei dire
finché non cominciano a camminare.
Devono imparare quest’abilità sulla
terraferma, finché sono ancora
piccoli. Insomma, te lo immagini un
adulto che barcolla di qua e di là?
Poi, dopo il primo anno, tornano alle
loro madri. Quindi, immagino che a
un certo punto le mie sorelle abbiano
conosciuto i loro padri, ma adesso
non se lo ricordano più.
Ci stavo impiegando troppo
tempo. Avrei dovuto tirarla giù dal
kayak e fermarle il cuore. Perché
prolungare l’attesa? Era un’agonia. Il
suo viso, così fiducioso, mi spingeva
a odiarmi più del solito. Ma volevo
che continuasse a parlare. Volevo
che mi conoscesse. Volevo che
qualcuno mi conoscesse. Anche se
poi avrei dovuto ucciderlo non
appena gli avessi detto la verità.
— Quindi, hai detto che quello è
uno dei modi per fare una sirena. E
gli altri quali sono?
Continuava a parlare, e io sorrisi
al tono forzatamente casuale della
sua voce.
— L’altro modo è molto più
pericoloso… e molto meno
divertente.
Arrossì. — Vale a dire…
— Una persona deve morire. Il
suo cuore deve fermarsi. E una sirena
dovrà essere lì per rinvigorirlo.
— Rinvigorirlo? — Si sporse in
avanti dal suo sedile nel kayak, con
le mani fra le ginocchia.
— È così che diciamo quando
riportiamo in vita qualcuno. È il tipo
di sirenetto che sono io. Rinvigorito.
— Eri morto?
— Avevo tre anni. Non ricordo
molto. Ero in barca con i miei
genitori. La mamma che mi ha dato
alla luce mi diede una scatola di
uvetta. È strano. Mi è rimasta più
impressa quella scatoletta rossa che
non il suo viso.
«Rivedo le sue mani che mi
offrono uno spuntino. Ricordo solo
un grido, e io che cadevo in acqua.
Non so neppure chi fosse stato a
gridare… Allora, ecco mia madre.
«Ricordo di essere rimasto a
guardare l’ombra della barca dei
miei genitori. Poi è arrivata la
Guardia Costiera, ma a questo punto
ci stavamo già allontanando a nuoto.
Alzai lo sguardo su di lei e mi
interrogai sui suoi occhi lucidi.
— Sono venuti a cercarti? —
domandò Lily.
Con un’alzata di spalle risposi: —
Immagino. Per un po’.
— E tu hai cercato loro?
— Dopo essere stato rinvigorito,
ho praticamente smesso di pensarci.
— Non capisco — disse con gli
occhi colmi di preoccupazione.
— Chi è stato rinvigorito sviluppa
un legame con la famiglia che l’ha
trasformato; non si tratta solo di
prendere un nome nuovo. C’è un filo
mentale che li unisce.
Indicai il suo polso. — Come i
ciondoli del tuo braccialetto.
Scivolano e si separano, ma sono
ancora uniti dalla catenina. —
Lasciai scorrere uno dei ciondoli
verso una delle estremità. —
D’inverno posso svignarmela. Le mie
sorelle preferiscono restare unite, ma
io scelgo di prendermi una tregua.
Quando arriva la primavera, però…
— Spinsi il ciondolo verso gli altri.
— Dobbiamo migrare di nuovo in
questo lago. È qui che ci
ricongiungiamo. È per questo che
riusciamo a sentirci, è un legame
famigliare. Come un branco di pesci.
Nel lago Michigan sono pochi quelli
come noi. Se uno di loro venisse qui,
non riuscirebbe a cogliere i nostri
pensieri. Famiglia diversa. Capisci?
— Quindi vuoi dire che, se tu
rompessi il braccialetto, la tua mente
sarebbe libera?
— Esatto.
Lily annuì impercettibilmente. —
Ed è una cosa possibile?
Alzai le braccia sopra la testa e
mi immersi per schiarirmi le idee.
Questa
conversazione
stava
prendendo una piega pericolosa.
Quando riemersi, i pensieri avevano
corrugato la fronte di Lily.
— Hai detto che è pericoloso —
disse. — Rinvigorire.
— Perdi due battiti di cuore ed è
tardi. E lo facciamo con delle
scariche al cuore. A volte
l’elettricità è troppa. Di solito questa
parte non funziona molto bene.
— Tu l’hai mai fatto? — La sua
voce era acuta adesso, ma non
scorgevo nessuna emozione.
— Mai. Il rinvigorimento è roba
da femmine. Il miracolo del dare la
vita e tutto il resto. — Risi. — Non
ho mai sentito di un sirenetto che
l’abbia fatto. In nessuna storia.
— Tu mi hai salvato il giorno in
cui sono caduta dallo scoglio. Per
quanto ne so, adesso potrei essere
una sirena.
Feci segno di no con la testa. —
Prima cosa, non eri morta. Seconda
cosa, non ho dato nessuna scarica
elettrica al tuo cuore.
Il sangue le salì alle guance.
Sentivo l’energia che emanava. Ne
vedevo il colore, un bagliore rosa
bordato di giallo. Era un’euforia
felice e inebriante. Distolsi lo
sguardo.
“Continua a parlare” mi dissi.
“Non guardare.”
— Terza cosa, quel che ho fatto è
stata una semplice rianimazione
cardiopolmonare. Chiunque al mio
posto lo avrebbe fatto.
— Può darsi. Però, non è stato
chiunque a farlo. Sei stato tu.
Il calore della sua voce mi inondò
il cuore, rivoltandolo. Forse fu
l’egoismo a mutare il corso degli
eventi. Concentrai lo sguardo sul suo
collo. Volevo far scorrere le dita
fino alla sua clavicola, sulle spalle.
Volevo farle venire la pelle d’oca.
Non potevo uccidere Lily. Dovevo
far funzionare il piano senza
sacrificare la sua vita. Potevo
nasconderla e lasciare Jason
Hancock alle mie sorelle.
— Quindi, le sirene se ne stanno
ad aspettare che qualcuno cada dalla
barca e anneghi?
La domanda mi mise in
imbarazzo.
— Sai… per fare altre sirene?
Aspettano che il cuore di qualcuno si
fermi, così da essere presenti per
cogliere quello spiraglio di
opportunità?
Lily davvero non capiva. Nella
testa aveva evidentemente una
versione fiabesca del nostro mondo.
Chissà come avrebbe reagito, una
volta che le avessi detto la verità…
Che eravamo assassini, mostri,
nemici. Che l’avevo attirata qui per
ucciderla. Che stavo attingendo a
ogni risorsa in mio potere per
contrastare la mia natura. Cercai di
trovare le parole per rispondere.
— No. Non abbiamo tutta questa
pazienza. E in fondo, siamo solo
predatori.
Sgranò gli occhi. La paura mitigò
la sfumatura rosa e gialla della sua
aura, ora ero in grado di guardarla a
viso aperto.
— La mia storia è l’eccezione
alla regola. È stato un caso che una
sirena si trovasse lì quando sono
caduto in acqua. In genere, quando
una sirena è lì per rinvigorire, non è
per pura fortuna. Sono lì perché sono
loro ad aver compiuto l’assassinio.
A volte uccidono per puro gusto.
Come il coccodrillo che se ne sta in
agguato nell’acqua bassa. —
Ricordai la prima sera in cui l’avevo
vista sul pontile. — La zebra va a
bere e zac! Il coccodrillo la trascina
in acqua, la volta e la rivolta, e dopo
pochi secondi è tutto finito.
— Perché uccidere, se poi non
hanno intenzione di rinvigorire la
vittima? — Deglutì a fatica. — Le
sirene si nutrono di umani?
— Non dire sciocchezze.
— E allora perché uccidere solo
per il gusto di farlo? È un tale… un
tale… spreco.
— Invidia. Come gruppo, siamo
alquanto invidiosi.
— Di cosa?
— Normalmente, della felicità.
Dell’amore. Della gioia. Di
qualunque
emozione
positiva
irradiata dalla gente. La vediamo, la
avvertiamo, la assaporiamo…
— Io che aspetto ho?
Sorrisi, ricordando la nostra
giornata all’isola Madeline. —
Ovviamente, cambia a seconda
dell’umore. Oggi sembri un sorbetto
all’arancia che si sta sciogliendo.
Delizioso. — L’amarezza mi
attraversò il volto e guardai gli occhi
di Lily assottigliarsi. — È
quest’emozione
positiva
che
desideriamo tanto. Noi non ce
l’abbiamo e la vogliamo, ne abbiamo
bisogno, di fatto, per sopravvivere.
Così ce la prendiamo.
Mi guardò, confusa. Alzai gli
occhi verso il soffitto della grotta,
mentre la mia mente vagava alla
ricerca di una spiegazione che Lily
potesse comprendere. — È come per
gli animali a sangue freddo.
Immagina una lucertola. Non è in
grado di regolare la sua temperatura
corporea. Morirebbe se non trovasse
una maniera per scaldarsi, e allora la
cerca, e si arrampica sulle rocce
arroventate dal sole e ne assorbe il
calore. Lo stesso vale per me. Per le
mie sorelle. Per tutti quelli della
nostra specie. Siamo attratti
dall’emozione
positiva.
La
cerchiamo e quando la troviamo… la
assorbiamo dalla sua fonte.
— E quando dici “assorbiamo”, tu
intendi…
— Lo sai cosa intendo.
Era questo che aveva attirato
Pavati al vecchio dell’altro giorno, e
le mie sorelle agli studenti
universitari. Questo aveva attirato
mia madre al nonno di Lily.
Volevo quasi raccontarle la
storia.
Era un uomo così felice da essere
come una calamita per lei. Gli aveva
rovesciato la barca e lo aveva
trascinato giù, ma lui si era ribellato.
Aveva riguadagnato la superficie e
l’aveva implorata.
Lei gli aveva offerto una vita da
sirenetto, ma lui l’aveva respinta,
così lei aveva chiesto un’altra vita in
cambio. Lui le aveva offerto il figlio,
che all’epoca aveva appena
compiuto un anno. Lei era tornata a
riva ed era rimasta ferma, sul pontile,
ad aspettare che glielo portasse.
Poco dopo, l’intera famiglia si
precipitava in macchina e lasciava di
corsa la città. Lei aveva seguito la
strada lungo la costa. E alla fine era
rimasta strangolata dalla rete di un
pescatore.
Cosa avrebbe pensato Lily se
gliel’avessi raccontata così? Sarebbe
corsa via gridando, capendo che
eravamo qui per riscuotere il pegno
di quella promessa? Lei non mi
sembrava tanto ottusa da non capire
che c’era qualcosa che mi assillava.
Si sporse fuori dal kayak e mi
cinse le spalle con un braccio,
appoggiando la guancia sulla mia,
consolandomi senza davvero sapere
cosa avessi. Mi allontanai di scatto,
non avevo capito quanto le fossi
andato vicino, permettendole di
toccarmi. Una scintilla si sprigionò
nell’aria fra il suo braccio e la mia
schiena.
Potevo scegliere di non uccidere
Lily Hancock. Era una scelta ancora
tutta mia. Potevo proteggerla dalle
mie sorelle. Ma c’era una cosa che
sfuggiva al mio controllo. Alla fine,
avrei comunque continuato a
ingannarla. Jason Hancock era
destinato a morire.
27
LEZIONI DI RESPIRAZIONE
Ero talmente concentrato sulla mia
tristezza da non accorgermi che Lily
aveva sciolto la cima del kayak e si
stava avvicinando. Fu solo quando
colpì la roccia che alzai lo sguardo.
— La felicità non potrai mai
trovarla fuori da te, Calder.
Scossi la testa. — Sembri un
biscotto della fortuna.
— Ma è vero. Sai, è quello che
cercano di fare tutti. Cercano di
frequentare le persone giuste, di
mettersi con il ragazzo giusto, di
entrare a far parte del giro giusto;
senza però mai chiedersi cosa sia
giusto.
— E questo cosa c’entra con me?
Io non sono uno studentello
dall’identità confusa, Lily. Forse non
mi hai ascoltato bene, ma io mi
trasformo in un ladro e in un
assassino.
Lei fece un sorrisetto furbo. —
Ma non sei un assassino. Quanto
meno… non vuoi esserlo. Dico solo
che non saresti invidioso della
felicità. Se avessi qualcuno tutto per
te, non dovresti più rubarla agli altri.
— Come se fosse facile. Non
pensi che, in tutti questi secoli,
qualcuno della mia specie avrebbe
trovato il modo di farlo?
— Penso solo che forse nessuno
ci ha mai pensato. O se ne è mai
interessato.
A questo non potevo rispondere.
E comunque, ero troppo distratto dal
tentativo di trovare una spiegazione.
Adesso era ancora più vicino.
— E vorrei che tu ci provassi —
disse. — Se pensi, cioè, che io possa
renderti felice.
Una luce rosa baluginò intorno
alla sagoma di Lily, la sua energia
che conoscevo bene, come un
maglione sulle spalle. — Andiamo
— dissi, tirando impulsivamente il
kayak nell’arco buio della grotta. La
sollevai dalla barca e la misi a
sedere su una sporgenza di arenaria.
— Costei ha un viso grazioso —
recitai. — Dio nella sua misericordia
le conceda la grazia. — Chinai il
capo e mi misi la mano sul cuore. —
La dama di Shalott.
— Sono così scontata? —
scoppiò a ridere e nel mio corpo si
diffuse un gradevole tepore. Assorbii
il calore e mi meravigliai di essere
capace di farlo mentre lei sedeva
ancora qui, asciutta e al sicuro, sul
suo trono.
— Quindi, se io sono la Dama, tu
sei Lancillotto.
— No, io sono meglio. Sono qui
per eseguire i tuoi ordini, che è molto
di più di quanto Lancillotto abbia
mai fatto per la Dama.
— Verissimo. Allora, il tuo primo
dovere sarà di portarmi a nuotare
insieme a te.
Alla faccia del tepore. Il mio
corpo si gelò come il lago. — Vacci
piano, Lily. Non mi sembra una
buona idea.
— Perché?
— Non l’ho mai fatto. — Intorno
a me, l’acqua cominciò ad agitarsi e
la grotta amplificava il suono,
quando lambiva la roccia.
— Sei già stato in acqua con me.
— Era diverso.
— In che senso? — Si sporse, con
le mani sulle ginocchia.
— Non saprei. È stato veloce.
Non ho avuto il tempo di pensare che
eri con me. Non voglio farti del
male.
Fece per toccarmi. — E non me lo
farai.
— Come fai a saperlo?
— Perché non sei come le tue
sorelle, Calder.
— Sono tale e quale a loro.
— Devi smetterla di vederti come
un mostro.
— Parli tu che non hai mai
guardato sott’acqua. Nemmeno una
volta da quando sei arrivata qui.
Credi che non me ne sia accorto?
Lily contrasse le labbra e guardò
di proposito sotto la superficie
dell’acqua. Nonostante le ombre, il
sole filtrava attraverso il velo verde
dell’ingresso. Le squame argentee
della mia coda riflettevano dardi di
luce mentre la mia pinna smuoveva la
sabbia. Vidi le sue spalle rilassarsi,
dopodiché tornò a guardarmi in
faccia con un sorriso trionfale.
Scossi la testa, scoraggiato.
— Bene. Diciamo pure che non ti
farò del male. Però sentirai troppo
freddo. Sopravviveresti solo per
pochi minuti.
— Riscaldami tu, allora. — Dal
suo trono scivolò in acqua, così
silenziosa da farmi pensare che forse
adesso era lei a braccare me. Il
vestito bianco le galleggiava intorno
alla vita mentre si spingeva più
vicino. Le maniche si erano incollate
alle braccia e alle spalle.
Allungai il braccio per tenerla a
distanza. — Va bene. Ti sei
avvicinata a sufficienza.
— Che c’è? Sono troppo felice?
— Mi stuzzicava con gli occhi, e il
bagliore rosa si gonfiò verso di me
come un paracadute. Non riuscivo a
capirla. Voleva morire?
— Ma non lo vedi, Calder? Hai
ragione. Sono felice. Ma questa
felicità non devi rubarmela. Posso
donartela. — Si illuminò in volto. —
Ne ho a sufficienza per condividerla.
In questo preciso momento, sulla
terra non c’è persona più felice di
me.
Allungò il braccio e mi appoggiò
una mano sulla spalla. Sotto di me la
coda
oscillava
dolcemente,
permettendomi di restare a galla. A
questo punto, era talmente vicina da
avere il petto schiacciato sul mio.
Con le dita seguì il cerchio argenteo
che avevo intorno alla gola e i
muscoli della spalla e del braccio,
che erano tesi e cominciavano a
bruciare. Chiuse gli occhi. Una
goccia di acqua cristallina si fermò
sulle sue ciglia.
— Calder, io ti piaccio?
E allora scoppiai a ridere,
spezzando l’incantesimo.
Spalancò gli occhi e il sangue le
inondò le guance. Si allontanò con
una spinta, ma io la afferrai e la
spinsi di nuovo verso di me. I pochi
istanti di separazione fisica furono un
vuoto troppo doloroso.
— A volte fai delle domande
stupidissime, Lily.
Un senso di sollievo le attraversò
gli occhi.
— Vedi qualcun altro da queste
parti? Pensi che sia mia abitudine
rivelarmi in questo modo alla gente?
Credi che avresti resistito in acqua
tutto questo tempo se non mi fossi…
piaciuta?
Non era necessario dirle il resto,
che lei stava diventando la mia
ossessione, che rischiavo la salute
mentale (e forse anche la vita, se
Maris l’avesse scoperto), che il mio
stomaco stava pensando di unirsi a
un circo ed esibirsi in numeri
acrobatici. Che, proprio come aveva
previsto Pavati, avrei potuto persino
amarla.
— Non mi hai ancora risposto. —
Mi passò le dita fra i capelli e io
chiusi gli occhi.
— Sì, Lily Hancock, mi piaci.
— Quindi mi porterai a nuotare.
— Senti, fa troppo freddo.
— Se non te ne fossi ancora
accorto, il freddo non mi disturba
affatto. Forse sei tu che fai qualcosa
per riscaldarmi.
Io non ne sapevo niente. Se
accadeva, era del tutto involontario.
— Va bene, allora. Lasciamo stare il
freddo. Ma sai trattenere il fiato così
a lungo?
— Respira tu per me.
Una palpitazione mi attraversò il
cuore e si aprì un varco fino alle
budella. Afferrai Lily, prima di
riuscire a riflettere sul pericolo.
Volevo prenderla. Volevo mostrarle
ogni angolo del lago. Era il desiderio
di farle conoscere il mio mondo a
rendermi impulsivo. Mi tuffai prima
che lei riuscisse a riempire i polmoni
di aria, cogliendola alla sprovvista.
Si contorse, e io la spinsi verso la
superficie. Riemerse tossendo.
— Scusa — disse. — Non sono
stata molto brava.
— No, è tutta colpa mia.
Inspirò ed espirò due volte. Ci
immergemmo, faccia a faccia. Le sue
guance gonfie e gli occhi stretti mi
fecero sorridere. Aprii i palmi delle
mani come avrei fatto con Tallulah e
intrecciai le mie dita alle sue.
Controllavo i nostri corpi mentre ci
libravamo negli abissi del lago,
quasi come fossimo in orbita, mentre
costellazioni di bolle le uscivano dal
naso e salivano in superficie. Indicò
verso l’alto. Aveva bisogno di aria.
La trassi ancora più vicino a me, e
lei si dibatté in preda al panico. Mi
addolorava che potesse credere che
le avrei fatto del male adesso.
Sorrisi, ma dubitai che mi avesse
visto, e rovesciai di lato la testa. Mi
avvicinai alla sua bocca e sigillai
per bene le mie labbra sulle sue.
Soffiavo, riempiendole i polmoni.
Sorpresa, Lily sgranò gli occhi. Non
sapevo quanto sarebbe durata
quest’aria. Mi auguravo non molto.
Volevo un’altra scusa per potermi
stringere a lei.
La guardai in faccia. Gli occhi
erano mere fessure, ma cercai di
scorgere una traccia di panico.
Consultai l’orologio, contando i
secondi.
Ventotto,
ventinove,
trenta… “Oh, accipicchia, ma quanto
resiste questa ragazza?” Poi le sue
dita mi affondarono nei bicipiti e la
riportai in superficie.
La
mia
mente
correva,
chiedendosi da dove cominciare.
Non potevo offrirle una visita
completa
in
stile National
Geographic. Il grande lago aveva
ventimila anni, e c’erano circa
cinquantamila chilometri quadrati di
antichi manufatti, relitti e meraviglie
geologiche.
Ma in quel momento passò la Sun
Sport dei Pettit. Trascinai Lily in
mezzo ai rampicanti e guardai Jack
che scrutava la costa con un
binocolo.
— Sta cercando la sua sirena —
sussurrò Lily.
Ignorai questa supposizione e la
riportai giù. L’acqua era profonda
solo due metri e mezzo, e intorno a
noi la barca di Jack faceva pulsare
delicatamente le alghe, che ci
accarezzavano il corpo come mille
piume di pavone. Ripetei il verso che
aveva scritto per me: — Là dove mi
troverò imprigionato nei capelli
d’oro di una sirena. — Lei non
poteva capirmi, né sentirmi. Ma mi
trasse più vicino a sé, e io appoggiai
le mie labbra alle sue, un’altra volta.
28
LEZIONI DI NUOTO
Lily avrebbe dovuto essere gelata.
Non capivo cosa la tenesse al caldo.
Disse che era la mia vicinanza, ma
essendo una creatura a sangue
freddo, non ero in grado di
riscaldarla. Mi domandai se per lei
la respirazione riuscisse a bloccare
il freddo, ma erano solo pensieri in
secondo piano. Il resto del cervello
era occupato dall’emozione di
nuotare insieme a Lily, con il braccio
intorno alla sua morbida vita,
tenendole il viso vicino al mio per
farla respirare meglio.
La portai sopra il relitto
dell’Ottawa, devastata dal fuoco nel
1881, e di nuovo a nord verso l’isola
di Stockton. I resti vecchi di un
secolo della Noquebay giacevano a
trenta metri di profondità. Nuotammo
lungo il timone e la caldaia
ausiliaria. Lily fece scorrere la mano
sul ponte distrutto. Le alghe le
fluttuavano intorno come i coriandoli
di Time Square a Capodanno.
La sua bellezza mi lasciava senza
fiato. Rivaleggiava con quella di una
qualsiasi tra le mie sorelle, compresa
Pavati. Tranne che per i pallidi arti
inferiori, Lily sembrava una vera e
propria sirena.
Alla fine la portai all’isola di
Manitou. Mentre l’acqua diventava
sempre più bassa, lei mi lasciò e
mise i piedi a terra per raggiungere
da sola la riva. Si voltò a guardarmi
con occhi perplessi. Indugiavo in
acqua, la osservavo, la desideravo.
— Che fai, non esci, Calder?
— Forse no.
— Perché?
— Non ho vestiti nascosti su
quest’isola.
Le sopracciglia le schizzarono
fino all’attaccatura dei capelli. —
Oh, a questo non ci avevo pensato.
Potrei restare in acqua con te.
— No, va bene così. Va’ a
prendere un po’ di ramoscelli e poi
siediti su quel pezzo di ramo. Io vado
a mettermi poco più in là. Poi, se non
ti dispiace, ti passo alle spalle e mi
siedo dall’altra parte di quel
cespuglio. E poi parleremo, giuro.
Lily risalì la spiaggia, senza
perdermi di vista, sospettando forse
che avrei ripreso il largo lasciandola
qui. Considerai quest’idea per un
istante. Non era così terribile.
Sarebbe rimasta lontano. Maris non
sarebbe mai venuta qui a cercarla.
Tempo un paio di mesi, ci sarebbero
state molte more selvatiche con cui
nutrirsi… Ma a questo punto l’idea
svanì.
Nuotai verso la riva e, una volta
sicuro che non potesse più vedermi,
cominciai a galleggiare nell’acqua
bassa, dedicando tutta la mia mente
alla trasformazione. Feci un respiro
profondo e tesi i muscoli, e serrai i
denti mentre avevano inizio le
contrazioni. Uno spasmo si propagò
in tutto il corpo, poi la lacerazione.
Mi piegai su me stesso stringendomi
nelle braccia. Strozzai il grido che
avevo in gola e restai seduto tra le
secche, mentre la coda lasciava il
posto a due gambe ancora in preda
agli spasmi. Il lago intorno a me si
placò poco a poco mentre mi alzavo.
Poi, barcollando e scalciando la
sabbia, raggiunsi i rovi.
Quando le arrivai alle spalle, Lily
era seduta sul ceppo come le avevo
ordinato, gli occhi rivolti al lago, con
una piccola catasta di stecchi davanti
a sé. La scia di un Boston Whaler
fece alzare le onde sulla spiaggia,
con un palpito delicato. Il suo corpo
tremò mentre il vento le risucchiava
l’acqua dalla pelle.
Non parlai. Camminai lentamente.
Sapevo che Lily avrebbe sobbalzato,
che avessi parlato o no. Era rigida.
Forse credeva di sognare. Un’altra
allucinazione; ed eccola lì, seduta su
un’isola deserta, a chiedersi come
diamine ci fosse arrivata.
— Lily — la chiamai piano.
Aveva le braccia intorno alle
ginocchia, e le spalle si mossero in
modo quasi impercettibile al suono
del suo nome. La pelle rosa
traspariva dal lino bagnato.
— Ho pensato che forse mi avessi
mentito, che te ne fossi andato —
disse.
— No. Non ti lascerei. — Le
parole, ormai uscite e sospese
nell’aria fra noi, erano più sincere di
quanto pensassi. — E poi, te l’ho
giurato. Quelli della mia specie
saranno pure dei gran bugiardi, ma
non veniamo mai meno alle nostre
promesse.
Sussultò, come avevo previsto, e
bisbigliò: — Dove sei?
— Proprio dietro di te. — Mi
strofinai i palmi per creare un po’ di
attrito, poi accesi un pezzo di legno
con la scintilla sprigionata dalla mia
mano. Glielo passai da sopra la
spalla, e lei accese un falò. — Va
bene se parliamo così? Tu tieni lo
sguardo davanti a te.
— Va bene. — Il bagliore rosa
del suo corpo sfumava verso il color
lavanda. Riconobbi il segnale:
l’eccitazione dell’avventura. Lo
stesso colore della mia preda in
kayak, lo stesso colore dei marinai
prima di schiantarsi con le loro navi
sugli scogli. Prue Purpuree, dicevano
gli antichi.
Aveva raccolto i capelli in una
coda di cavallo, che si arricciava in
un’unica spirale. La nuca era quasi
trasparente. Allungai la mano e le
toccai le vertebre sporgenti. Lei
rabbrividì e girò la testa.
— Guarda dritto davanti a te, per
favore. — Questa situazione iniziava
a piacermi. Lei non si era comporta
così con me, nell’ultima settimana?
Inconsciamente,
forse,
volevo
contraccambiare.
Mi avvolsi la sua coda di cavallo
intorno alle dita e allentai la presa,
lasciandola serpeggiare sul palmo
della mia mano.
— Mi stai stuzzicando — disse.
Ora aveva le pelle d’oca.
— Può darsi.
— È una crudeltà — aggiunse,
con un sospiro.
— Sono un mostro, ricordi? —
Passai le dita sulle sue braccia,
peggiorando la situazione, senz’altro,
ma assaporavo ogni istante.
— Calder, come mai nessuno sa
che sei qui?
— E chi lo dice?
— I Pettit non hanno mai sentito
parlare di te, e loro vivono qui da
sempre.
Le strofinai le mani lungo le
braccia, cercando di riscaldarla
come meglio potevo. — Prima di
tutto, sono qui solo d’estate. E poi,
prima di incontrare te non avevo tanti
motivi per stare sulla terraferma.
— Vuoi dire che tu e le tue sorelle
passate il resto dell’anno nel Maine?
Feci segno di no con la testa
anche se lei non poteva vedermi. —
So che sei rimasta molto colpita
dalla leggenda dei Passamaquoddy
che ti ha raccontato Jack, ma io non
c’entro niente. È successo molto,
molto tempo fa. Forse c’è qualche
legame ancestrale, ma niente di più.
— Stai dicendo che non sei
immortale?
— No — dissi con una risata. —
Cosa te lo fa pensare?
— Sei una creatura mitica.
— Niente affatto. Sono seduto
accanto a te. E a parte il fatto che mi
trasformo in un grosso pesce, non ho
niente di speciale.
— Non ci credo.
— Il mio corpo è fragile quanto il
tuo. Mi esce il sangue. E morirò.
Forse non presto come voi. Invecchio
più lentamente, di un anno ogni tre
degli umani.
— Quanti anni hai?
— Diciotto.
— Insomma, quando sei nato?
Chiusi gli occhi per non dover
affrontare la domanda. — So dove
vuoi arrivare, Lily. Ma l’anno della
mia nascita non è che una data sul
calendario. Ragiona come si fa con
gli anni dei cani, ma al contrario.
Quando si tratta degli anni che
passano, io ne ho diciotto. Quante
volte ho visto la sfera di cristallo
calare a Times Square… non è un
dettaglio rilevante. Invecchio…
proprio come te…
— Non come me.
— Be’, sì. Tutti invecchiamo e
moriamo. Alla fine.
— Tua madre è morta, giusto? Per
questo non l’ho conosciuta.
Mi si chiuse la gola. — Sì, è
morta.
— Era bella come le tue sorelle?
— Di una bellezza straordinaria.
Assomigliava a Tallulah, e forse un
po’ anche a te.
— Era Ariel.
— No, non lo era. Era una vera
sirena.
— Bene — disse Lily; e capii che
stava sorridendo. — Mostro. Quindi,
se non sei uno di quelli delle
leggende, quali sono le origini della
tua famiglia?
— Sono nati qui, ed è per questo
che la mia famiglia torna ogni anno a
primavera. Sono legato a loro,
attraverso nostra madre. Devo
tornare, che io lo voglia o no.
Scommetto che se mi legassero a una
sedia e mi rinchiudessero in una
stanza al Polo Sud, riuscirei
comunque a ritornare. — Ricordai il
mio ultimo giorno alle Bahamas, le
fastidiose telefonate di Maris. Se
avessi saputo che sotto a tutto c’era
Lily, sarei tornato anche prima.
— D’inverno vado ai Caraibi.
C’è una spiaggia, alle isole Abaco,
dove mi piace passare il tempo.
— E ci saranno un sacco di
ragazze, scommetto.
Attesi prima di rispondere. Non
potevo leggere il suo volto, stava
guardando dall’altra parte. Nel suo
tono c’era qualcosa, però, che attirò
la mia attenzione. Una nota tagliente.
Amara. La gelosia delle sirene la
conoscevo; ci ero cresciuto. Se
questo era il sentimento che
avvertivo nella sua voce, la versione
umana era diversa. Ne sentivo il
sapore nell’aria, come vino diventato
aceto. Mentre mi concedevo un
momento per assaporarlo, non mi
accorsi che in lei cresceva l’ansia.
— Quante ragazze? — Cominciò
a voltarsi, ma le diedi una bottarella
sulla schiena.
— Cosa?
— Ne hai mai baciata una?
Non sapevo che dire. Ero rimasto
a bocca aperta come un idiota.
— Perché ho notato che non mi
hai mai baciata — disse.
— Ma di che parli? Cosa
abbiamo fatto nell’ultima ora?
— Non è la stessa cosa. Era una
questione di sopravvivenza.
Quando capii cosa voleva, il
cuore cominciò a battermi più forte.
Vedevo già l’eccitazione sulla sua
pelle. Per esperienza, sapevo quali
effetti poteva suscitare un bacio.
L’emozione sarebbe cresciuta, la
luce ci avrebbe inondato come una
pozza di marea. Non ero mai stato
capace di resistere, ma ormai mi ero
spinto lontano; tanto valeva rischiare.
Girandomi, mi avvicinai. Ora
eravamo spalla a spalla, con gli
occhi rivolti in direzioni opposte. Mi
sporsi e lasciai scivolare le labbra
sulla sua spalla. Lei mi sollevò il
mento con l’indice e mi baciò a sua
volta, con le labbra calde e morbide.
Chiusi gli occhi, assaporando la sua
eccitazione
sulla
lingua
ma
resistendo all’impulso di prendere
più di quanto mi offrisse.
Si staccò, toccandomi la bocca
con un dito. — Ti brillano le labbra.
— Sei tu. Sono le tracce della tua
emozione.
— E Jack aveva ragione. Sai
davvero di incenso — mormorò. —
Patchouli, credo.
Ridacchiai piano. — Lo scopo
sarebbe quello di ammaliare la preda
quando le siamo vicini. Dubito che
puzzare di pesce sarebbe di grande
aiuto. Come ho detto, l’evoluzione è
stata buona con noi.
— Ed è quello che hai fatto a me?
Ammaliarmi? — Mi passò il dito
sulle labbra un’altra volta.
Risi di nuovo, questa volta più
forte. — Credimi, con te sono
ricorso all’ipnosi. Ce l’ho messa
tutta, sul serio. Ma tu eri
incredibilmente resistente.
— No — disse. — Recitavo.
— La sopravvivenza dei più
adatti — mormorai.
Mi si appoggiò alla spalla e recitò
ancora Tennyson:
Vorrei essere una sirena leggiadra
Per cantare per l’intera giornata
Per pettinarmi con un pettine di
perle…
Scossi il capo. — Rifletti su quello
che ti ho detto, Lily. Non è tutto rose
e fiori. Dimentichi questo:
Finché il grande serpente marino
nell’abisso
Avvolto nel sonno nel profondo
scranno
Per sette volte lento si avvolgerà
Intorno al palazzo in cui mi sazio.
Non dimenticare questa parte. È
l’unica vera. Viscidi predatori. Ecco
cosa siamo.
Lily curvò la schiena e si strinse
nelle braccia. Il vento aveva fatto
evaporare le ultime tracce di acqua
sulla sua pelle, e cominciava a
tremare.
Il piccolo falò serviva ben poco a
tenerla calda, così tornai al posto di
prima e le strofinai la schiena,
cercando di generare un po’ di
tepore. Comunque, non sarei riuscito
a guardarla in faccia, sapendo ciò
che avrei dovuto fare. Per quanto ci
tenessi a lei, ero ancora legato alle
mie sorelle. Per quanto lei insistesse
nel dirmi che non ero un assassino,
sapevo che era vero solo in parte. Io
non le avrei mai fatto del male, ma ci
avrebbe pensato Maris a riscuotere il
debito. Questo non potevo spiegarlo,
a Lily. Non potevo neppure provarci.
Ero incatenato alle mie sorelle e al
loro piano, poco importava quanto
mi disgustasse. Lily si appoggiò a me
e il suo respiro mi avvolse.
— Ricordi quello che mi hai
chiesto sulla mia famiglia umana? Se
penso mai a loro?
Annuì.
— Ciò che avrei dovuto
rispondere è che non penso alle
persone in sé, che divennero degli
sconosciuti immediatamente dopo la
mia trasformazione. Ma mi manca
l’idea di loro. L’idea di una famiglia
normale. Sì, è questa parte che mi
manca. Che ancora mi manca.
Poi chiusi gli occhi e dissi ciò che
dovevo dire. — Tuo padre ha
invitato me e la mia famiglia a cena
da voi uno di questi giorni. — Ogni
parola era filo spinato che mi
lacerava la gola e la lingua.
— Mmmm-mmm. Sarà un vero
spasso. — Allungò il braccio dietro
di sé, mettendomi la mano a coppa
sulla nuca.
— Ovviamente, sai che non ho
nessun genitore da portarmi
appresso.
— Lo so, va bene. — Si appoggiò
a me con tutto il peso del corpo. Mi
chiesi se si stesse addormentando.
— Quindi, che faccio? Ci vengo?
— A Sophie farebbe piacere.
Sorrisi mio malgrado. — E a te?
— Anche a me.
Sentivo il bruciore che mi
pizzicava gli occhi. Nella mia testa
potevo razionalizzare tutto. Potevo
essere felice. Potevo persino amarla.
Ma questo non significava che non
avrei ucciso suo padre. Scacciai il
pensiero. Non avrei fallito.
Soddisfare le condizioni di Maris,
assicurare la vendetta contro Jason
Hancock, era il mio unico mezzo per
ottenere la libertà. Qualunque fosse
stato il prezzo da pagare, non avrei
rinunciato a quel sogno.
— Allora, cosa ne pensi? —
domandai.
— Dirò che ti ho invitato per
domani sera.
Annuii e rimasi paralizzato.
Qualcos’altro aveva attirato la mia
attenzione. Erano soltanto minuscoli
puntini
all’orizzonte, invisibili
all’occhio umano. Forse qualcuno li
avrebbe scambiati per strolaghe, o
per l’estremità di tronchi affondati,
ma erano tre, e io lo sapevo.
— Non ti muovere!
Mi alzai, gettai due manciate di
sabbia sul minuscolo falò e corsi nel
bosco, ripercorrendo il sentiero fino
al lago, a una cinquantina di metri
dalla sponda dove sedeva Lily. Rami
appuntiti e piante spinose mi
tagliavano le caviglie e mi
infilzavano la pianta dei piedi. Corsi
nell’acqua a ginocchia alte,
sollevando tanti spruzzi prima di
tuffarmi. Fu la mia trasformazione
più rapida di tutti i tempi. Quando
riemersi, direttamente davanti a Lily,
ero nel panico, carico di elettricità.
Lei camminava su e giù
nell’acqua bassa. — Calder, che
succede? Stai bene?
Feci un respiro profondo e cercai
di alleviare la carica elettrica il più
possibile prima di farle cenno di
venirmi vicino. — Vieni in acqua.
Avvicinati.
— Che succede?
— Mi stanno cercando, e non
possono trovarti in mia compagnia.
Non così, comunque. Non sarà un
bene se lo scoprono.
— Perché? Non farò niente di
male a nessuna di loro.
— Per l’amor di Dio, Lily. Non
sto dicendo che sarai tu a far del
male a loro. Te lo vuoi mettere in
testa che questo non è un film?
Dimentica tutto quello che credi di
sapere sulle sirene. Dimentica quella
cavolo di Ariel; pensa al Silenzio
degli innocenti, pensa a Venerdì 13 .
Possibile che tu non abbia ascoltato
una sola parola di quello che ti ho
detto oggi? Loro. Ti. Uccideranno.
— L’ironia non l’avevo certo persa,
visto che fino a poco prima stavo
pensando di ucciderla con le mie
mani.
Lily impallidì. — Come fanno a
sapere dove ti trovi? Mi pareva
avessi detto che dovevate essere in
acqua per potervi sentire?
— Loro non lo sanno. Stanno solo
cercando. Ma non ci metteranno
molto. Ti prego, sbrigati.
Corse nell’acqua e si tuffò. Fece
tre bracciate e mi raggiunse, e me la
misi sulle spalle come se fosse un
borsone.
— Dovrò tenere la testa
sott’acqua il più possibile. — La
voce mi uscì acuta e squillante. Dal
modo in cui mi stringeva, era chiaro
che finalmente stava cominciando a
capire. — Così non potranno
sentirmi e tu potrai respirare. Non
riuscirò ad andare veloce come
prima, ma non c’è altro modo. —
Lily affondò la testa sul mio collo e
partimmo.
Solcai l’acqua verso Bayfield,
con bracciate violente nei punti in cui
era mossa, le spalle protese come se
il lago fosse di melma. Non mi voltai
a vedere se mi stessero seguendo.
Tanto non sarebbe servito a farmi
andare più veloce. Ero a metà strada
quando vidi una via d’uscita da quel
pasticcio.
Non
era
certo
un’alternativa
allettante,
ma
sicuramente il male minore. La barca
di Jack Pettit stava incrociando la
nostra rotta.
— Lily, è Jack.
— Tuffati! Non puoi mica farti
vedere.
— Posso farti salire a bordo della
sua barca.
— No!
Calcolando le nostre rotte e il
loro punto di intersezione, dominai le
onde e raggiunsi il fianco della
barca, facendo sbattere la coda a
babordo. Jack sobbalzò al timone e
spense il motore.
— Ma che…
— Prendila — dissi.
Lily frignò: — No. — E strinse la
presa intorno al mio collo.
— Tu — disse Jack, prendendo
Lily dalla mia schiena e la issò sul
ponte. — Lo sapevo.
— Portala a casa sana e salva.
— Jack, ti prego, non dire niente
— lo supplicò Lily.
— Come se dirlo alla gente
potesse servirmi a qualcosa. — Poi
il suo viso si contrasse in una
smorfia di dolore. — Senti. Manterrò
il tuo segreto, ma di’ a Pavati che la
sto cercando. Dille che devo vederla.
— Prometto di farlo, ma dubito
che ci guadagnerai granché.
— Mi serve solo la tua promessa,
e tu potrai tenerti le tue opinioni per
te; a quanto pare, hai due pesi e due
misure riguardo a questa cosa.
Lily fece per afferrarmi,
guardandomi con gli occhi sgranati.
Non voleva lasciarmi.
— Te la caverai? — mi domandò.
Temeva sempre il peggio.
— Torna a casa. Non stare in
pena per me.
— Non hai cambiato idea
riguardo a domani sera, vero?
— Adesso va’.
Jack girò la chiave e l’elica frullò
l’acqua a pochissimi centimetri dalla
mia coda. Feci un balzo indietro e
lanciai
un’occhiataccia
all’improbabile salvatore. Jack
spinse il motore a tutto gas e invertì
bruscamente la rotta, facendo
emergere lo scafo, spargendo
raffiche di acqua lungo la scia.
A me non restava che domandarmi
se lui fosse bravo quanto me a
mantenere le promesse.
29
AFFRONTARE LA MUSICA
Sull’isola di Basswood regnava la
pace. Nulla disturbava l’acqua, nulla
faceva frusciare il folto sottobosco.
Non c’erano scoiattoli che litigavano
sui rami degli alberi. Rimasi ad
aspettare, da solo, per molto tempo.
Le luci della casa degli Hancock si
riflettevano sul lago e, mentre il sole
tramontava e il cielo si scuriva, si
spensero una a una. La luce della
stanza di Lily si spense per ultima.
Ma prima di lasciare la casa
completamente al buio, la accese e la
spense, a intermittenza. Lo presi
come un augurio di “buona notte,
buona fortuna” per me. Cos’altro
poteva essere?
Le nuvole del giorno si dissolsero
lasciando posto alle stelle. Disteso
sulla schiena, rintracciai Orione nel
cielo. Il Cacciatore. Ed era ciò che
eravamo noi, ma in qualche modo la
nobiltà di Orione aveva disertato la
nostra razza. Temevo che le mie
sorelle fossero a caccia. Di loro non
c’era traccia nelle vicinanze della
casa degli Hancock. Questo lo
sapevo per certo. Ma non le trovai
neppure in acqua. Entrai a mollo
qualche volta, immergendomi per
cogliere le loro voci. Ma c’era il
silenzio.
Dovevano
essersi
allontanate parecchio.
A mezzanotte, tre punti neri si
ingrossarono fino a diventare figure
lunghe e sottili che emergevano dal
lago. Nessuna di loro mi salutò.
Pavati e Tallulah mi passarono
davanti in cerca di legna da ardere.
Maris raccolse il vestito che aveva
lasciato sulla battigia e se lo passò
sopra la testa, lasciandolo cadere sul
corpo spigoloso. Si fermò dritta in
piedi davanti a me. Senza sedersi; fui
costretto ad alzare gli occhi per
guardarla.
— C’è un nuovo odore
nell’acqua, Calder.
— Ah, sì? E di cosa?
— Non fare l’ingenuo.
— Era in barca.
Maris maledisse il mio nome. —
Sei tornato in acqua insieme a lei?
— No, certo che no.
Maris scrollò le braccia per la
disperazione. Il vento agitava il lago,
generando onde violente alle sue
spalle. — Calder, stai rovinando
tutto. Chi ti dice che non avviserà suo
padre? Se starà sul chi vive, il nostro
piano è fregato. Non avrei mai
dovuto fidarmi di te per una cosa
così importante. Non cresci mai.
Quando si tratta di essere
responsabili, tu sei un disastro. Hai
idea di quanto ci tengo a questo
piano? Vuoi ancora farne parte?
— Ma certo. La ragazza non sa
chi siamo. Stai reagendo in maniera
esagerata.
— Non dirmi che sono esagerata.
Ti ho cresciuto io. Pensi che sia stato
facile? Pensi che mi servisse un altro
fratello a cui badare? — Adesso si
era messa a urlare. — Potevamo
abbandonarti e basta. Mamma non
doveva mica salvarti per forza. Però,
l’ha fatto. Perciò, come pensi ci
sentiamo ora che ci tradisci?
— Non vi ho…
Pavati e Tallulah tornarono con le
braccia cariche di legna, che
lasciarono cadere rumorosa in una
pila. Io e Maris ci voltammo.
Tallulah evitava di guardarmi negli
occhi.
— Qualcuno ha fame? —
domandò Pavati.
— Ma che problema hai, Maris?
— dissi infuriato. — Pensavo che
fosse quello che volevi. Che la
avvicinassi. Non è quello che avevi
detto?
— Sì, ma quanto ti stai
avvicinando?
— Il tuo odore si è mescolato al
suo, Cal — disse Tallulah. Aveva
una voce sottile e sconosciuta. — È
tutto sull’isola, a Manitou.
— Ha preso una barca per
arrivarci. — Mi stavo inventando
tutto. Pregai che non pensassero a
quanto fosse improbabile che
qualcuno prendesse una barca
malridotta come quella degli
Hancock per andare al largo. — L’ho
incontrata sulla spiaggia. Le ho detto
che avevo fatto la stessa cosa.
— Non credi che fosse poco
credibile, visto che tu non avevi una
barca? E che mi dici dei vestiti?
— Li avevo. Le ho detto che
avevo lasciato la barca alla spiaggia,
nascosta fra i cespugli. Non mi ha
fatto molte domande. Era felice di
vedermi. Ed è un bene, no?
Maris assottigliò gli occhi. Io
volsi lo sguardo dalla parte di
Tallulah, ma lei si rifiutò di
guardarmi.
Pavati sogghignò e dispose i rami
sopra una montagnola di foglie
secche. Si strofinò i palmi delle mani
finché sprigionarono alcune scintille
che infiammarono le foglie.
— Ho un invito a cena per
domani. — Ero contento di avere
quanto meno quest’informazione da
offrire. Speravo che giovasse al loro
umore. Non volevo far scoppiare una
lite. L’idea mi colse di sorpresa. A
questo saremmo arrivati? Avrei
dovuto litigare con le mie sorelle per
la nipote di Tom Hancock?
Avvertivo la frenesia di Maris. Era
come un piranha che fiuta il sangue
nell’acqua.
E come ne sarei uscito da un
litigio con loro? Uno contro uno, me
la sarei cavata bene. Ma tre contro
uno, non mi lasciava nessuna
possibilità di farcela. Eravamo tutti
veloci, assassini per natura. O per
appetito? Non avevo mai conosciuto
una sirena che vivesse in un altro
modo, ma le parole di Lily mi
assillavano. Ero fatto così a causa di
Maris? Era lei che mi aveva
insegnato a essere in questo modo?
Potevo ancora trovare la mia
felicità?
Se ci fosse stata una lite, mi chiesi
da che parte si sarebbe schierata
Tallulah. Non riuscivo a immaginare
che avrebbe permesso a Maris di
distruggermi. Eppure…
— Cena — disse Maris. — Credo
che la notizia mi faccia piacere.
La mia determinazione si rafforzò.
Con o senza Tallulah, mi sarei
battuto per Lily. Era una brava
ragazza. Ed era innocente. E non
aveva colpa per i peccati del nonno.
Ma non potevo confidare nel fatto
che Maris non se ne sarebbe
occupata. Avrei dovuto restare
vicino a Lily per assicurarmi che non
corresse rischi. Non potevo lasciarla
senza protezione visto che, se era in
pericolo, la colpa era tutta mia.
Questo voleva dire smetterla di
dormire a Basswood con le mie
sorelle. Avrei detto che avevo
bisogno di stare per conto mio, che
mi serviva tempo per riflettere, per
mantenere la mente concentrata sul
piano. Perché, nonostante i sentimenti
che nutrivo per Lily, nonostante il
bisogno di proteggerla, il piano
doveva andare avanti. Era una
questione di puro egoismo: solo
allora sarei stato libero di lasciare le
mie sorelle, senza più nessun obbligo
di eseguire i loro ordini.
Il nostro patto era questo. Mi
avrebbero dato la libertà. Avrei
saputo se era possibile essere felice,
come aveva promesso Lily. E avrei
potuto portarla con me, e avremmo
potuto vivere come la gente normale.
O forse… mi frenai prima che le
fantasie prendessero il sopravvento.
Sapevo che non avrei mai potuto
azzardare un rinvigorimento con lei,
ma non potevo fare a meno di
pensarci. Le possibilità che riuscisse
erano pressoché nulle. Magari avrei
potuto esercitarmi con qualcun altro,
tanto per vedere… ma dovevo
frenare anche quest’idea. Come
potevo giocare alla roulette russa con
una come Lily?
Non riuscivo a scrollarmi di
dosso questa fantasia. L’idea di noi
due che vivevamo insieme, senza
pretesti, senza provocazioni. Dovevo
allontanarla il più possibile, prima
che si radicasse nel mio cervello.
Essere avventati non avrebbe giovato
a nessuno. Stavo già camminando su
una fune, in precario equilibrio fra la
voglia di appagare i bisogni di Lily e
la necessità di soddisfare i desideri
delle mie sorelle.
Dovevo essere rimasto con lo
sguardo fisso mentre questi pensieri
mi viaggiavano in testa. Pavati mi
schioccò le dita davanti agli occhi.
— Ehi, Calder — disse Maris. —
Terra chiama Stronzo. Come pensi di
organizzare la gita in barca con
Hancock? — Maris era piegata in
due e mi urlava in faccia.
— Hancock terrà un corso
universitario sulla natura, o qualcosa
del genere — dissi. — Gli chiederò
di portarmi sul lago. Lui non pesca,
ma potrebbe essere solo un giro in
barca. Una piccola lezione sulla
natura o roba del genere.
Le ragazze si sedettero in
soddisfatto silenzio. Pavati mi tirò
una gomitata e disse: — Allora, cosa
indosserai per la cena?
30
SPESE PAZZE
Pavati lasciò la nostra auto in fondo
al parcheggio riservato ai clienti dei
grandi magazzini. Tallulah e io
scendemmo dal sedile posteriore e
Pavati mi lanciò le chiavi da sopra il
tetto della macchina. Le afferrai al
volo e le infilai in una delle tasche
dei miei pantaloni, che – ora che li
guardavo bene – avevano certo
conosciuto giorni migliori. La punta
di una delle chiavi sbucava dal buco
di una tasca.
— Mi sa che sui vestiti hai
ragione tu, Pav. Sarebbe ora di
bruciarli.
Girò intorno all’auto e finse di
studiare i miei abiti come se non vi
avesse mai prestato molta attenzione.
— Non ti preoccupare. Quando
avremo finito di
sistemarti,
sembrerai il fidanzato perfetto.
Tallulah fece una smorfia. —
Andiamo. Vediamo di sbrigarci. Ci
sono troppe persone qui, mi dà la
nausea.
La capivo. Il tono emotivo di ogni
persona si fondeva con gli altri.
Nella folla c’era una tale cacofonia
di sentimenti e passioni da creare un
ronzio costante e una distorsione di
colori. Se fossimo rimasti troppo a
lungo, ci saremmo ritrovati con un
gran mal di testa.
Pavati ci precedeva. Calai i RayBan sugli occhi per attenuare il
bagliore. Un gruppo di ragazzi dai
capelli spettinati, con pantaloni fuori
misura
e
canottiere
larghe,
indietreggiarono per farci passare.
— Forse dovresti chiedere chi è il
loro stilista — bisbigliò Pavati.
— Uff — disse Tallulah,
buttandosi la borsa sulla spalla. —
La smettete di scherzare, per favore?
Il reparto uomo dov’è?
— Di là — rispose Pavati,
indicando il fondo del negozio. —
Pensavo a qualcosa di classico.
Magari una camicia semplice, e
senz’altro un paio di pantaloni nuovi.
Questi puzzano di alghe e hanno
l’orlo consumato.
— Oh, Pavati, non credevo che ci
avessi fatto caso.
Passammo davanti a file di
espositori carichi di tutine per
bambini, vestiti per ragazzi e abiti
per signore. Presi una scatola di
mocassini da uno scaffale. Non
avevo pensato a un paio di scarpe
nuove. Nemmeno le ragazze, a quanto
pare. Ero felice di averle trovate. Un
vero fidanzato non si presenta certo a
piedi nudi.
Tallulah si diresse verso uno
scaffale di camicie, piegate in
confezioni compatte, e ordinate per
taglia e colore. Non perse tempo a
scegliere. Ne prese una verde, di
taglia media, e mi piantò la
confezione sul petto. — Ecco. Si
intona ai tuoi occhi.
Presi la camicia prima ancora che
la mollasse. — Qualcosa ti
preoccupa, Lu?
La bocca le si contrasse. Stava
per dire qualcosa, quando si
avvicinò una commessa.
— Posso esservi di aiuto? —
domandò la donna. Portava una
targhetta con scritto il suo nome: Jo-
Ellen. Quando Pavati le si avvicinò
con aria minacciosa, lei si toccò i
capelli schiariti in un gesto nervoso.
— A dire il vero, sì… Jo-Ellen.
Speravo di trovare un abito per un
aperitivo a cui dovrò andare il
prossimo fine settimana. Rosa,
magari.
Pavati sostenne lo sguardo della
donna finché lei, arrossendo, disse:
— Certamente, certamente. Da questa
parte. — Prima di seguire Jo-Ellen,
Pavati ci guardò muovendo le
sopracciglia.
Con l’agilità di un illusionista,
Tallulah si infilò nella borsa la mia
nuova camicia, poi mi tirò per il
gomito. — I pantaloni sono di qua.
La afferrai per una spalla e la
costrinsi a voltarsi. La sua
espressione, solitamente calma,
vacillò e le luci fluorescenti si
specchiarono nei suoi occhi umidi.
— Che sta succedendo? —
domandai.
— Niente. — Finse un sorriso. —
Mi sta venendo il mal di testa. Tutto
qui. Sbrighiamoci, d’accordo?
Lasciai la presa e la guardai
allontanarsi. Si fermò vicino al
reparto dei pantaloni da uomo e li
passò in rassegna uno a uno, con un
rumore stridulo ogni volta che
scansava con forza una delle
stampelle sull’asta di ferro. —
Troppo scuri, troppe pieghe, troppo
antiquati… — Durante la sua
selezione, le voltai le spalle e restai
lì a fare il palo. Tanto, non avevo
occhio per la moda. Ero più utile
come sentinella.
Mi spinse in un camerino con un
paio di pantaloni neri. Pochi secondi
dopo, le passai i miei vecchi calzoni
e la scatola di scarpe da sopra la
porta. Quando riemersi, aveva già
nascosto i miei scarti dove, più tardi,
li avrebbe trovati un ignaro
commesso.
Alzai le braccia, in attesa del suo
giudizio. Con un dito mi fece cenno
di voltarmi, così girai su me stesso
per mostrarle i pantaloni.
— Belle gambe — disse,
staccando le etichette.
— Zitta, Lulah. — Completai
l’ultima piroetta e la vidi di sfuggita
passarsi una mano agli angoli degli
occhi.
Pavati ci raggiunse a passo
veloce. — Pronti?
— Pronti.
Jo-Ellen era rimasta indietro. —
Sono davvero dispiaciuta che non
abbiamo un Versace, signorina
Vanderbilt.
— Vanderbilt? — chiesi.
Pavati mi fece l’occhiolino e ci
avviamo in fretta verso l’uscita. Le
ragazze si sfregarono le mani con un
movimento circolare, mentre ci
avvicinavamo alle porte. Afferrai un
paio di pantaloncini da uno scaffale e
li buttai nella borsa di Tallulah.
Diversi commessi ci osservarono
incuriositi, ma quando attraversammo
le barriere antifurto le ragazze
premettero i loro palmi elettrificati
sui sensori, mandando in tilt il
sistema. Non ci fermò nessuno.
31
LA CENA
Quando bussai alla porta degli
Hancock, alle sei in punto, venne ad
aprire Lily, con un sorriso che le
arrivava quasi alle orecchie. Si era
legata i capelli in un morbido nodo e
si era coperta con una camicetta di
pizzo a collo alto e una gonna nera,
di velluto a coste. Mi mancavano la
sua pelle e il bagliore rosa del
giorno prima. Stasera era tesa.
Dietro di lei, la casa brillava di
cera e lucidante. Un pavimento di
pino dalla tonalità lieve aveva
rimpiazzato la vecchia moquette e il
linoleum. I quadri della signora
Hancock erano appesi alle pareti. Le
finestre riflettevano la luce di una
decina di candele. Lily notò il mio
nuovo stile e sollevò divertita le
sopracciglia.
— Taci — le sussurrai. — Si
chiama “cena con i genitori”.
— No. Stai bene. Sei molto…
normale.
— Perfetto. — Le strizzai
l’occhio e la presi per mano. — È
esattamente quello che voglio
sembrare. — Ritirò la mano, e a
questo punto toccò a me
sorprendermi.
— Cerca di non esagerare con
loro — disse. — Non ho mai portato
un ragazzo a cena.
— Non è la prima volta che vengo
qui.
— È diverso. Non c’è bisogno di
spaventarli subito.
— Capito. — La abbracciai e le
diedi un rapido bacio. — Non li
spaventerò.
Rise e mi condusse in soggiorno.
Hancock e signora si trovavano in
piedi, insieme a Sophie, come se
avessero i posti assegnati.
— Buonasera, Calder — disse la
signora Hancock. — È stato gentile
da parte tua unirti a noi per la cena.
Mi dispiace che i tuoi non siano
potuti venire.
— Anche loro sono molto
dispiaciuti. — Strinsi i denti e mi
costrinsi a sorridere.
— Spero che il pollo ti piaccia.
— Il pollo — ripetei. Non
l’avevo
mai
assaggiato.
—
Splendido.
— Possiamo offrirti qualcosa da
bere? — mi domandò Hancock.
— Una Coca?
— Arriva subito. Sophie?
— È in arrivo, papà.
Ci addentrammo ancora di più
nella stanza e ci accomodammo su
due divanetti. Non riuscivo a
rilassarmi. Avevo i muscoli contratti
e sedevo con la schiena rigida,
immobile, pronto a saltare. Lily mi
scrutava ansiosa in volto. Sophie
tornò e mi porse il bicchiere, che
trasudava umidità. Passai l’indice sul
bordo, calmandomi grazie alla
condensa.
— Giochi a golf, Calder? —
Hancock si chinò in avanti e prese
una manciata di noccioline da una
ciotola. Se le lanciava in bocca una
alla volta.
— No, signore.
— Giocavi a football alle
superiori?
— Non esattamente.
— È un peccato. È il football che
ti fa capire di che pasta sei fatto. Ai
miei tempi ero un running back.
Numero sedici.
— Calder era nella squadra di
nuoto, papà — disse Lily, mettendo
un piattino sotto il mio bicchiere.
— Ah-ah. Darai filo da torcere a
Michael Phelps?
Sorrisi, immaginando la sfida. —
Oh, penso di potermela cavare.
— Così mi piaci. L’attitudine è
tutto.
Lily si sedette accanto al padre e
gli schioccò un bacio sulla guancia.
Trasalii e distolsi lo sguardo. Sophie
sedeva sulla poltrona di fronte a me.
Non l’avevo degnata di molta
attenzione, ma lei mi stava
osservando. Sorrisi e la guardai
inarcando le sopracciglia. La sua
espressione rimase immutata.
Hancock si chinò per prendere
un’altra manciata di noccioline. Lily
giocherellava con un filo della sua
manica. L’unico suono era quello
delle
noccioline
masticate.
Continuavo ad agitare il ghiaccio nel
mio bicchiere.
Lily mi guardò e incrociò gli
occhi in un’espressione buffa. La
salvezza giunse quando la signora
Hancock ci chiamò per la cena. — Ci
siamo — annunciò Hancock,
battendosi le mani sulle ginocchia
per alzarsi dal divano. — Era ora.
Lily gli diede uno schiaffetto
quando le passò davanti.
Mi sedetti al posto che mi aveva
indicato Hancock, e Lily si
accomodò tra me e suo padre.
— Quello è il mio posto — disse
Sophie, guardando storto Lily. La
signora Hancock indirizzò Sophie
dall’altra parte del tavolo, mentre
raggiungeva il suo posto sulla sedia a
rotelle.
Fu Lily a servirci.
Il piatto che avevo davanti era
pieno di qualcosa che non avevo mai
visto. Un grande pezzo di carne
bianca che – immaginai – doveva
essere pollo. Ma era coperto da una
specie di salsa gelatinosa che usciva
dai bordi e colava nel piatto. Sorrisi
fiaccamente alla signora Hancock e
cercai di non dare nell’occhio mentre
toglievo la salsa dalla carne. Ne
mangiai un pezzo. Il pollo era caldo e
gommoso. Lo inghiottii a fatica e
prosciugai il mio bicchiere d’acqua.
Lily mi mise nel piatto una
porzione di spinaci e mi passò il
sale. Lo versai in abbondanza su
tutto, mentre la guardavo grato. Le
portate erano in costante movimento,
passavano dal padre, alla madre, alla
figlia, e poi il giro ricominciava.
Hancock porse un bicchiere di latte a
Sophie. La signora Hancock le versò
nel piatto un mestolo di noodle. Era
tutto così… normale. Esattamente
come mi ero sempre immaginato una
vera famiglia. Mancava solo un cane
sdraiato sotto il tavolo.
Per un momento, pensai che avrei
potuto farne parte. Ero nato per quel
tipo di vita: i genitori, la casa, i
pasti. Forse anche i miei genitori
umani mangiavano pollo. Erano da
qualche parte. Magari mi avevano
anche voluto bene. Mi stavano
ancora cercando, dopo tutti questi
anni? Non riuscivo a immaginarlo.
Di punto in bianco Hancock mi
domandò: — Ti piace passare
l’estate qui?
Passai il cestino del pane a Lily.
— Molto.
— Per tutta la mia vita — disse
— da quando ho memoria, ho sempre
desiderato tornare qui. Era un
assillo. Ho visitato molti laghi…
Erie, Michigan, Huron, Ontario. —
Snocciolò i nomi dei Grandi Laghi
agitando la forchetta in aria. — Ma
fino a questa primavera, non avevo
mai visitato il Lago Superiore. È
incredibile, vero?
— Molto. Ma Lily me l’ha detto,
signore. Della promessa fatta a suo
padre.
Hancock masticò e inghiottì. Si
sporse sul tavolo, verso di me. —
Sono sempre stato convinto di una
cosa: se fai una promessa, Calder,
dovrai mantenerla. Non importa
quanto potrà essere doloroso.
— Sono assolutamente d’accordo
— dissi. Meglio mettere fine alla
faccenda. — Va spesso in barca sul
lago, signor Hancock?
Mi guardò, gli occhi colmi di
sorpresa. Poi abbassò le palpebre
per squadrarmi un’altra volta. —
Abbiamo un paio di kayak. E c’è una
piccola barca da pesca. Ma non ho
mai imparato a nuotare e non sono
tipo da andare in barca. — Fece una
pausa. — Sembri sorpreso.
— Oh, no, signore, è solo che…
— I Grandi Laghi possono essere
pericolosi; affascinanti, anche, ma
pericolosi, soprattutto se non hai
esperienza. Immagino avrai sentito di
quei tre ragazzi del college, hanno
ritrovato la loro barca, ma senza di
loro. — Scosse la testa e grattò la
forchetta sul piatto di porcellana. —
Mi stupirei di vederli riaffiorare. —
Puntò la forchetta verso Lily e
pugnalò l’aria a ogni parola. — Il
Lago Superiore non restituisce i suoi
morti.
Hancock fece una smorfia e si
schiarì la gola. — A ogni modo,
preferirei studiare la storia del lago
anziché galleggiarci sopra tutto il
giorno. Lo sapete che hanno scoperto
una strada sommersa? Ho visto le
foto. Somiglia a una via lastricata
romana. Ora, questa sì che è una
scoperta affascinante. Una specie di
Atlantide.
La conoscevo. Non sapevo che gli
umani l’avessero scoperta. — Una
strada costruita dagli uomini?
Sott’acqua? Mi piacerebbe vederla.
Hancock annuì, masticando. — La
teoria è che facesse parte di
un’antica miniera di rame.
— Il lago serba molti misteri —
dissi. Lily mi strinse il ginocchio
sotto il tavolo.
— Ci sono anche centinaia di navi
affondate — aggiunse la signora
Hancock.
Annuii. — Un autentico cimitero
di navi. Ne ho viste un paio. Alcune
si possono vedere perché si trovano
in punti in cui l’acqua non è alta.
Magari potrei mostrargliele, uno di
questi giorni, signor Hancock.
— Mi piacerebbe… — cominciò
a dire Sophie, ma la signora Hancock
la interruppe.
— Oh, scommetto che ti
piacerebbe, Jason, vero? Vai a
vederle, almeno una volta. —
Allungò una mano e toccò
l’avambraccio del marito.
Sophie allontanò bruscamente la
sedia dal tavolo e si alzò per portare
via il piatto.
La signora Hancock gettò uno
sguardo verso la figlia minore. —
Hai già finito, tesoro?
— Non ho fame. — C’era una
strana espressione sul volto di
Sophie. Mi ricordò Pavati quando
non otteneva ciò che voleva. Sophie
rimase imbronciata in cucina e la
signora
Hancock riprese
la
conversazione.
— Lily mi diceva che la tua
famiglia passa l’estate sulla vostra
barca a vela.
— Esatto. Ci piace la semplicità.
È un po’ come un lungo campeggio.
— Masticai lentamente un altro
pezzetto di pollo. Più masticavo, più
sembrava diventare grande. Forchette
e coltelli stridevano sui piatti, mentre
io mi godevo la civiltà di questo
pasto. Posate d’argento, veri
tovaglioli di stoffa… Niente sabbia
nel cibo. Avrei potuto abituarmi.
— Sophie? — La signora
Hancock chiamò in direzione della
cucina. — Pensi di unirti di nuovo a
noi? — Poi si voltò verso di me. —
In sei su una barca. Non riesco a
immaginare di vivere così per più di
un fine settimana, ma capisco perché
tua madre voglia farlo. È difficile
separarsi dalla famiglia anche per un
breve periodo. Non so come
faremmo, se non stessimo insieme.
— Non che tu debba preoccuparti
per questo, con una casa così piccola
— disse Lily.
— Sai bene cosa intendo — disse
la signora Hancock. — Calder, sono
sicura che tu mi puoi capire. La tua
famiglia deve essere molto unita, se
riuscite a vivere in così poco spazio.
Togli anche una sola persona… Non
riesco nemmeno a immaginare il
dolore per una famiglia.
Lasciai cadere rumorosamente la
forchetta nel piatto. Afferrai il bordo
del tavolo. La voce gentile della
signora Hancock, il ricordo di mia
madre, il modo in cui Lily guardava
il padre, “il dolore per una famiglia”,
l’avvertimento di Pavati… Pavati
aveva ragione ancora prima che ci
fosse qualcosa per cui avere ragione.
Non potevo amare Lily e uccidere
Hancock, perché non potevo uccidere
Hancock senza distruggere Lily.
Dovevo andarmene di lì. Dovevo
andarmene in fretta. Il mio mondo
stava precipitando, come massi in
una diga.
— Scusatemi — dissi senza
aggiungere altro. Il calore mi salì in
volto e mi precipitai verso la porta.
32
CONFESSIONI
— Calder, tutto a posto? — chiese
Lily, seguendomi mentre mi
allontanavo dal tavolo.
— Scusa, non mi sento bene.
La signora Hancock esclamò: —
Oh cielo, spero non sia stato il pollo.
Lily mi corse dietro, camminando
a piedi nudi sulle assi del pavimento.
— Che cos’hai? — mi chiese, mentre
la zanzariera della porta le sbatteva
alle spalle. Avevo già sceso i gradini
della veranda, a metà strada verso
l’auto. Lily mi afferrò per la spalla,
quando mi raggiunse, e io avvertii la
scossa elettrica che da me si scaricò
nel suo palmo. Doveva essere stato
doloroso, eppure Lily non mollò la
presa.
— Devo andarmene da qui —
dichiarai.
— Cosa?
— Le mie sorelle, Lily. Non
posso restare qui. Non posso farlo.
Si è incasinato tutto.
— Ma di che parli? Che c’entrano
le tue sorelle? — Si mise una mano
sulla bocca. — Lo sanno? Sanno che
io so?
— No, no. Non è questo.
— E allora?
— Se fosse solo questo, ti
porterei via con me. Scapperemmo
insieme alle Isole Abaco. Potremmo
prendere una casetta in spiaggia su
uno degli isolotti. Tu scriveresti
poesie… e io ti proteggerei.
— Servirebbe ad aggiustare le
cose? Perché se è così, dobbiamo
andare.
— No! Tu non capisci. Anche se
ti portassi via da qui, non
cambierebbe nulla. Lo uccideranno
in ogni caso.
— Uccidere? Chi?
Camminavo nervoso, avanti e
indietro, con le dita intrecciate ai
capelli. I denti serrati, combattuto tra
due fuochi. — Credi che sia tutto un
caso? — le domandai. — Un gruppo
di sirene bussa alla porta di una
famiglia che ha sentito parlare di un
mostro del lago. Non solo ne ha
sentito parlare, ma ne è rimasta
invischiata.
— Non ci sono mostri nel lago —
rispose Lily con voce atona.
— Apprezzo questa fiducia, ma
sei completamente fuori strada.
— Calder, quello che è successo
a mio nonno non è colpa tua.
— Certo che no. Ma non capisci?
Il mio unico rimpianto riguardo a tuo
nonno — quest’ultima parola sputata
con sdegno dalle mie labbra — è che
sia morto prima che potessimo
ucciderlo noi.
Lily aggrottò la fronte. — Ma che
dici?
Le raccontai tutta la storia, fino al
respiro soffocato di mia madre. A
ogni parola, il suo volto impallidiva
sempre più.
— Lui le aveva promesso che
avrebbe sacrificato tuo padre.
— Ma mio padre era un bambino!
— L’età non ha importanza. E per
una sirena, ogni promessa è sacra.
— Avevate intenzione di uccidere
un bambino?
— Tecnicamente, mia madre
aveva intenzione di farlo, ma non è
questo il punto. Lui aveva promesso
suo figlio in cambio della propria
vita. Promesso. Tuo nonno e mia
madre avevano un contratto. Le
sirene non rompono mai una
promessa. Ci aspettiamo che la
controparte faccia lo stesso. E la
promessa infranta di tuo nonno ha
ucciso mia madre.
— Lui non lo sapeva.
— Lui ne è stato la causa.
— E quindi? Cosa posso fare per
salvare mio padre?
— Tu? Niente. Voglio che resti
alla larga da questa situazione quanto
più possibile.
Cercai di abbracciarla, ma Lily
mi mollò uno schiaffo e indietreggiò.
— E quale sarebbe, esattamente,
questa situazione?— disse. Gli occhi
ormai le bruciavano di rabbia.
— Lily, le mie sorelle vogliono
uccidere tuo padre. Mi hanno chiesto
di fare amicizia con te per arrivare a
lui. Vogliono che lo porti al lago, per
reclamare ciò che è loro di diritto.
— Ti sei avvicinato a me su
ordine delle tue sorelle?
— Cosa? Sì. All’inizio. Ma ti stai
concentrando sui dettagli sbagliati.
Il mento di Lily cominciò a
tremare. Aveva gli occhi colmi di
lacrime.
— Ma non è più così adesso.—
Le posai le mani sulle spalle e lei se
le scrollò di dosso subito. Tra noi
scese il gelo.
— Te ne stavi lì dentro a
chiacchierare di un giro in barca con
mio padre.
— Lo so, lo so. Ma non posso
farlo. Non capisci?
— Vai via di qui, Calder. Sta’
lontano da me, sta’ lontano dalla mia
famiglia. E tieni alla larga anche le
tue sorelle. — Si voltò per correre di
nuovo a casa, ma la costrinsi a
girarsi verso di me.
— Non è così semplice, Lily. Lo
prenderanno. Ora che lo hanno
trovato, lo perseguiteranno in eterno.
— Io posso proteggerlo. — Con
uno strattone si liberò dalla mia
presa. — Sparisci di qui. E non
tornare.
Prima che potessi aprire la bocca
per protestare, il grido di una
bambina riverberò dal lago e
riecheggiò in tutto il bosco.
33
LO SCONTRO
La porta a zanzariera si spalancò.
Hancock era sulla veranda, con
un’espressione che esprimeva il suo
panico più di quanto potessero fare
le parole. — Lily, Sophie è lì con te?
— No.
— Aiuto, papà!
Ci voltammo tutti verso il lago,
tentando di individuare l’origine del
suono. La signora Hancock comparve
alle spalle del marito, il volto smorto
e impotente, confinata nella sua
sedia. Anziché correre verso il lago,
Hancock restò immobile, le gambe
bloccate e le mani tremanti.
— Jason — gridò la signora
Hancock, dandogli una spinta alle
spalle. — Non farti bloccare dalle
tue paure proprio adesso!
Con
trepidazione,
Hancock
barcollò fino alla riva e spinse la
barca sull’acqua.
— Oddio, no — sussurrò Lily.
Teneva gli occhi fissi nei miei,
l’espressione fiera. — Stai lontano
dall’acqua. Stagli lontano.
Hancock tirò la corda del motore
più volte, prima di riuscire ad
avviarlo; poi si lanciò nel lago, come
se volasse.
Mi precipitai verso il vialetto,
tagliando per il bosco, lacerando i
vestiti nella corsa. I rami degli alberi
mi schiaffeggiavano il viso, il petto e
le cosce. Giunto al limitare
dell’acqua, feci uno scatto senza mai
spostare lo sguardo. Mi trasformai a
mezz’aria. Ben più veloce di quanto
Pavati avesse mai fatto.
Forse perché Pavati era nei miei
pensieri, quando toccai l’acqua,
sentii la sua voce. Gorgheggiava per
l’eccitazione. Doveva essere ad
almeno un chilometro da me, Maris e
Tallulah ancora più lontane, ma si
stavano avvicinando rapidamente e
ascoltavano assorte il racconto di
Pavati.
La ragazzina era uscita di casa.
Aveva il broncio perché nessuno le
aveva prestato attenzione. Voleva
sedersi accanto a me, a cena. Pavati
aveva osservato la scena dall’acqua.
L’aveva chiamata, le aveva chiesto
di avvicinarsi al lago.
Ora potevo rivedere la scena con
i suoi occhi, nella sua mente: Sophie
che trascinava un kayak sull’erba.
Pavati che le prometteva tanto
divertimento.
Poi giunse l’eco della memoria di
Pavati, il suono del kayak che si
rovesciava. Sophie si era aggrappata
all’imbarcazione capovolta e ora –
finalmente! – Jason Hancock si
trovava in acqua. La sua barca era
lenta. Il motore sbuffava, il
carburante era quasi finito.
Lui estrasse i remi e cominciò a
vogare. — Presto! — gridò Pavati.
— È il nostro momento.
Nel lago riuscivo a sentire le urla
di Sophie aggrappata al kayak.
Maris fendeva l’acqua, Tallulah
era una scia argentea dietro di lei.
Cercavo di calcolare la distanza e
la loro velocità, eppure c’era
qualcosa che mi tormentava il cuore,
ora che Hancock era così vicino.
Scossi la testa per cancellare
quell’impulso profondo di fare
giustizia. Avevo desideri più grandi.
Dovevo fermare le mie sorelle.
L’adrenalina mi spingeva a
nuotare più veloce del normale. Ma
anche Maris era una scheggia. E poi
giunse qualcos’altro. Un nuovo
odore. Lily in un altro kayak. Il mio
cuore fece un balzo, mentre il suo
volto mi appariva nella mente.
— N o ! — strillò Tallulah.
Contrasse la coda e cambiò
direzione.
— Perché? — le urlai a gran
voce. — Tallulah, lascia stare Lily.
Hancock raggiunse Sophie in
pochi secondi, a nemmeno cinquanta
metri dalla riva. La tirò nella sua
imbarcazione e legò il kayak al
motore difettoso. Maris era in arrivo,
ma giunsi prima di lei davanti a
Hancock. Poggiai una mano sulla
parte posteriore della barca e spinsi
con più forza di quanto mi sarei
aspettato. Questo impeto inatteso
fece crollare Hancock e Sophie sul
fondo dell’imbarcazione.
Qualche secondo dopo la barca
raschiò la sabbia toccando la riva.
Le maledizioni di Maris e la furia di
Pavati ne attutirono il rumore.
Tallulah taceva. Quando capii di
non riuscire a sentire dove fosse, mi
lasciai prendere dal panico.
Mi sforzai di risalire in
superficie, incurante di chi potesse
vedermi. Il sole non era ancora
tramontato, ma non avevo bisogno di
guardare per sapere che Hancock era
ancora qui. Se voleva sapere
qualcosa del mostro del lago, stava
per assistere al migliore spettacolo
possibile.
Lily si trovava a una ventina di
metri da me, a sud. Dopo avere
capito che suo padre e sua sorella
erano in salvo, aveva smesso di
vogare. Ora appariva disorientata,
come se si fosse cacciata in una
situazione in cui non avrebbe mai
pensato di trovarsi. Girava la testa,
in cerca di qualcuno o di qualcosa.
Sarei stato meglio, se lei non avesse
saputo che cosa doveva cercare. La
immaginai a studiare il lago in cerca
di increspature, schiene che si
inarcavano e code che sguazzavano
nell’acqua.
— Glielo hai detto!— mi strillò
Tallulah. — Lo sa. Ne sono certa.
— Lasciala stare, Tallulah. Lei è
mia.
— Ci siamo giocati l’elemento
sorpresa, Calder. Hai rovinato
tutto. E adesso tu, tu…— la voce si
ruppe in un singhiozzo — te ne sei
innamorato. Come hai potuto farmi
una cosa del genere?
— A te? Cosa c’entri tu? Fatti da
parte, Lu. Subito!
— No. Non posso permettertelo.
Ci scontrammo a tre metri dal
kayak di Lily. La forza dell’impatto
ci
sbalzò
fuori
dall’acqua,
aggrovigliati come una vite selvatica,
prima di schiantarci di nuovo nel
lago. L’acqua turbinò e il kayak fu
scosso con violenza. Tenendo il
braccio intorno al collo di Tallulah,
la trascinai in profondità. Le coprivo
la bocca con una mano, e lei affondò
i denti nelle mie dita. Non avrei
avuto neanche una possibilità, se
fosse arrivata Maris. Sarebbe stato
impossibile battere anche Pavati.
Trascinai Tallulah sul fondale,
scorticandole la pancia fino a vedere
il sangue. Mi morse più forte il
braccio. Le appoggiai la coda sulla
schiena e spinsi. Le conseguenze
della mia forza furono due: lei che
scendeva più a fondo nel lago e io
che venivo lanciato più vicino a Lily.
Quando emersi in superficie, Lily
urlò e tentò di remare con le mani
nell’acqua, senza muoversi. Mi
meritavo il suo terrore. Immaginavo
a stento ciò che lei si aspettava che
potessi fare.
— Lily, sono io.
Continuava a colpire l’acqua.
— Sei al sicuro. La tua famiglia è
al sicuro. Non vi farò del male. —
Spinsi il kayak tra le alghe finché la
prua non affondò nella sabbia e la
mia coda strisciò sulle rocce. —
Entra in casa, Lily, te ne prego. Non
ti toccheranno. Non stasera.
— E mio padre? — chiese
affannata. Aveva il volto pallido
come la luna.
— Neanche lui. Non glielo
permetterò.
— E tu? — domandò.
Fissai nervosamente l’acqua
ormai placata. — Lily, se domattina
non mi vedi arrivare, porta subito via
la tua famiglia.
34
LA CACCIATA
Per quanto lo volessi, non potevo
restare al largo, in acqua, per tutta la
notte. Dovevo tornare a Basswood e
affrontare le mie sorelle. Il nostro
incontro era diventato per me un
esercizio di ripetizione: avevo
provato tutta la scena nella mia testa,
più e più volte prima di raggiungere
l’isola. D’altronde, sapevo cosa
avrebbero detto. Non ci sarebbe stato
modo di ragionare con loro. Con un
po’ di fortuna, ne sarei uscito senza
ferite gravi. Tallulah era l’unica
incognita in questa situazione.
In qualsiasi altra circostanza,
avrei potuto contare sul fatto che lei
mi avrebbe difeso. Ma non
comprendevo la sua reazione nei
confronti di Lily. Certo, nessuno di
noi le aveva mai voluto rivelare la
nostra vera identità, ma per quanto ne
sapeva Tallulah, la missione non era
affatto
completata.
Perché
abbandonare l’inseguimento di Jason
Hancock per seguire Lily…
Niente, non riuscivo proprio a
capire. Possibile che non le
interessasse più la vendetta? In tal
caso, avrebbe appoggiato la mia
decisione.
Giunsi sull’isola da una direzione
diversa. Vedevo il loro falò acceso e
notai che qualcuno gettava pietre nel
lago. Un approccio troppo diretto
non sarebbe stato sinonimo di scuse.
Raggiunsi l’isola dal punto più
settentrionale, seguii la riva e mi
fermai a una trentina di metri dal
punto in cui erano sedute. Mi misi in
piedi con le braccia protese verso di
loro e i palmi rivolti verso l’alto.
Non proferivo parola, aspettavo che
fossero loro a notarmi.
Fu Tallulah a voltarsi per prima, e
mi accorsi che stava piangendo.
Diede un colpetto a Maris. Lei e
Pavati si girarono e mi guardarono.
Nessuna parlò. Non capivo se
stessero ancora deliberando o
avessero già emesso un verdetto.
Maris posò un braccio attorno a
Tallulah, che le appoggiò la testa su
una spalla. Si voltarono di nuovo
tutte a fissare il fuoco. Le loro
espressioni erano enigmatiche. Il
silenzio, peggio di quanto avessi
immaginato.
Mi avvicinai a nuoto, le braccia
ancora tese in avanti lungo lo
specchio dell’acqua. Maris mi sputò
addosso la sua ira sibilando tra i
denti. Mi bloccai.
— Maris — cominciai a dire. —
Lasciami spiegare.
— Per stasera hai già fatto
abbastanza. Non abbiamo nient’altro
da dirti.
Farfugliai: — Mi… mi state
cacciando? Finisce così? Non mi
state nemmeno a sentire?
— Non riesco a immaginare che
cosa avresti da dire, Calder. Non
puoi capire quanto io sia delusa,
quanto lo siamo tutte. Un conto è
abbandonarci per un lungo periodo
tutti gli anni, sbatterci in faccia
quanto poco tu tenga a noi. Ma
tradirci, tradire nostra madre, questa
è tutta un’altra storia. Credi che mi
piaccia essere una tale arpia? Pensi
che sia nata così? La mia unica
speranza è che la morte di Hancock
mi salvi da questo inferno. Ma tu, di
noi due, hai scelto lui. E hai scelto
sua figlia, anziché tua sorella.
Stavo per chiederle cosa
intendesse dire, quando Tallulah alzò
lo sguardo su di me sgranando gli
occhi, colmi di lacrime, il volto
segnato
dallo
struggimento.
Conoscevo quello sguardo. L’orrore
mi attanagliò serpeggiandomi nella
mente. L’avversione di Tallulah nei
confronti di Lily, il suo attacco
ingiustificato e improvviso…
— Ma tu sei mia sorella —
sbottai, ancora incredulo. — È
immorale!
Pavati fece un ghigno e ravvivò il
fuoco. Un altro singhiozzo scosse la
gola di Tallulah, e Maris balzò in
piedi. Quanto più lei si avvicinava
alla riva, tanto più io indietreggiavo.
Si arrestò solo quando l’acqua
cominciò a lambirle le dita. — Sta’
alla larga da noi, Calder. — Mi
mostrò i denti e gridò: — Non
credere che non ti ucciderò, se si
dovesse arrivare a tanto.
Mi tuffai all’indietro, la schiena
inarcata, scomparendo nel buio del
lago.
Un’ora più tardi stavo ancora
nuotando. Se avessi fatto caso alle
pietre, alla sabbia e ai tronchi
affondati, avrei capito che mi
trovavo a quasi dieci chilometri a
nord di Cornucopia. Riuscivo a
orientarmi in questo lago senza mai
dare uno sguardo ai punti di
riferimento terreni. Ma per la verità,
non mi importava dove fossi.
Un banco di salmoni argentei
cacciava aringhe intorno alla roccia
su cui ero seduto sott’acqua. Mi
coprii il volto con le mani e mi tuffai
in profondità, dove loro non si
sarebbero spinte. Ma il silenzio a
venti metri sott’acqua cela i suoi
tranelli; ero rimasto solo con i miei
pensieri.
Lo stomaco mi si contorceva in
modo insopportabile, ora che
conoscevo i sentimenti di Tallulah
nei miei confronti. Non era vero
amore. Per una sirena l’ossessione
rappresenta l’emozione più prossima
all’amore.
A essere onesto, avevo sempre
saputo che Tallulah provava per me
più di quanto avrebbe dovuto. Ma le
sue attenzioni erano l’unico affetto
che avessi conosciuto dalla morte di
mia madre. Cosa avrei dovuto farci
ora, con questa informazione? Di
certo, questa notte non avrei chiuso
occhio. Avevo bisogno di parlare
con qualcuno. Qualcuno che mi
sapesse ben consigliare…
Continuai a seguire la costa
dell’isola di Madeline verso sud e
captai le vibrazioni acute della
fabbrica di carta di Ashland. La loro
durata mi indicò quando tagliare per
il passaggio tra Long Island e
Chequamegon Point. Mi diressi verso
Little Girl’s Point, quindi a nord,
lungo il confine tra Wisconsin e
Michigan, fino al relitto della J. P.
Brodie.
L’ultima volta che ero passato da
queste parti era ancora presidente
Reagan, ma tutto era rimasto
pressoché immutato. Avvertii l’odore
del vecchio legno di quercia e
aggirai l’albero spezzato fin giù nello
scafo. Era tale e quale a come lo
ricordavo. Percorsi la murata di
dritta fino al terzo oblò. Un sorriso, e
vidi il volto emaciato di Joe che
fluttuava dall’altra parte del vetro
appannato.
Forse non era il suo vero nome,
ma io lo chiamavo così. Non era
cambiato molto, dal nostro primo
incontro. Joe e il suo equipaggio
erano morti già da molti anni, ma
l’acqua gelida li aveva preservati. La
manica della sua giacca si era
impigliata in qualcosa e la testa gli
dondolava perennemente contro il
vetro.
Era bello vederlo di nuovo. Mi
ascoltava sempre di buon grado, e
nel corso degli anni gliene avevo
raccontate di tutti i colori. Dopo la
morte di mia madre, gli facevo
spesso visita e fingevo che mi desse
consigli paterni. Era d’aiuto, talvolta,
quando mi sentivo molto giù.
— Ehi,
Joe — lo salutai,
poggiando la spalla sulla parte
esterna della nave. — Ti trovo bene,
amico.— Per educazione attesi che
mi rispondesse, poi immaginai il
resto.
— Dove sei stato, giovanotto? —
mi chiese.
— In giro.
— Lontano dai guai, spero. Non
vorrei ricevere brutte notizie.
— Mmm — risposi ridendo alla
sua battuta.
— Cos’è che ti preoccupa?
Mi passai le dita tra i capelli. —
Si vede così tanto che sono
preoccupato?
— Le tue sorelle ti creano
ancora problemi?
Annuii e premetti le mani sul
vetro dell’oblò.
— Va così male?
— Va così male.
— Fammi indovinare: non hai
fatto vincere Tallulah in una gara di
velocità? Hai infilato di nuovo un
millefoglio palustra tra i capelli di
Pavati?
— No.
— Serpentaria?
— Non sono più un bambino,
Joe.
— Va bene, va bene. Senti, tu e le
tue sorelle farete sempre a
capocciate. Immagino sia una cosa
naturale. — Non replicai in alcun
modo, così Joe finì per chiedere a
bruciapelo: — Cos’hai combinato
questa volta?
— Mi sono messo fra loro e
Jason Hancock.
Joe rise di gusto. — Cavoli,
ragazzo. Non avevo capito che
Maris l’avesse trovato. Cos’è, un
istinto suicida, il tuo?
— Qualcosa del genere.
Un lungo silenzio innaturale si
frappose tra noi, mentre lui aspettava
che io aggiungessi altro e io
attendevo da lui un saggio consiglio.
Joe parlò per primo.
— Be’, sono certo che avessi le
tue ragioni.
Rotolai sulla spalla, distendendo
la schiena sullo scafo. — M-mmm.
— E questa ragione… dev’essere
stata molto bella.
— Molto.
— Un’amabile conversatrice?
Sorrisi e annuii.
— E allora perché diavolo te ne
stai qui a parlare con me, figliolo?
Mi voltai di nuovo per guardarlo
in faccia e con la mano diedi un
colpo sul lato dello scafo, come a
dire: — Grazie, papà. — Il mio
posto era accanto a Lily. Le avevo
promesso di proteggerla. E avrei
mantenuto questa promessa, che lei
lo volesse o meno.
Il mio corpo scattò guizzando
verso la superficie, con una scia di
bollicine bianche che mi seguiva.
Tirai dritto a ovest e circumnavigai
la grande isola, diretto al salice che
mi era ormai così famigliare. Da lì
avrei vegliato e aspettato.
35
L’AMACA
Quando giunsi al pontile degli
Hancock, indugiai appena fuori dal
raggio dei riflettori. La porta
principale si aprì, lasciando
trapelare un piccolo squarcio di luce
sul giardino anteriore. Trattenni il
fiato.
Era Lily. Certo che era Lily.
Sicuramente mi stava cercando.
Indossava una camicia da notte. La
luce dalla casa illuminava il tessuto,
attraversandolo fino a rivelare le
curve delle sue gambe.
Percorse il portico in punta di
piedi e scese i gradini con una torcia
in una mano, premendo qualcosa
contro il petto con l’altra. La batteria
della torcia era quasi scarica e il
fascio di luce non copriva più di un
metro.
Mi incamminai verso il pontile.
Lentamente. Se si stava avvicinando
all’acqua era un buon segno, ma non
ero ancora sicuro di cosa avrebbe
detto. Aver fatto ammenda dei miei
peccati salvando Hancock non
importava, ero certo che la sua
collera superasse qualsiasi cosa.
— Calder — sussurrò, la voce
trasportata
sulla
superficie
dell’acqua.
— Sono qui — bisbigliai in
risposta, preparandomi a ciò che
stava per accadere.
Sospirò e si stese sul pontile,
allungando la mano nell’acqua verso
di me. Nuotai in avanti, a tentoni, e
lei mi afferrò le mani. Mi trasse a sé.
Quando con il petto toccai il bordo
del pontile, vidi ciò che si era
portata appresso. I miei vestiti nuovi
erano piegati e ordinati accanto a lei.
Quanto tempo ci aveva messo per
trovarli nel buio?
— Sei ferito?
— No — risposi. — Non ancora,
comunque.
— Avevo una paura matta che ti
avessero fatto del male. In che guaio
ti sei andato a cacciare?
— Guaio non è che un eufemismo.
Mi baciò e intrecciò le dita ai
miei capelli. — Mi dispiace. Non
avrei mai dovuto dubitare di te.
Le sue scuse. Facevano più male
del suo perdono, e non meritavo né
l’uno né le altre. Per cosa doveva
scusarsi poi? Era una punizione
peggiore della sua rabbia. Scossi la
testa e mi allontanai. — Ti ho
raccontato di aver pianificato di
uccidere tuo padre, Lily. Hai reagito
com’era giusto che fosse.
Mi afferrò per la vita, traendomi
più vicino a sé, stringendomi le
braccia al collo. — Mi dispiace lo
stesso.
— Ti prego, non dire così.
Mi
baciò
un’altra
volta,
posandomi una mano sulla guancia,
accarezzandomi il labbro inferiore
con il pollice. — Cosa ti succederà
adesso?
— Non lo so. — Già immaginavo
Maris che complottava ai miei danni,
camminando su e giù per la spiaggia.
— Mi hanno cacciato, messo al
bando.
— Lo dici come se fosse una cosa
brutta — sussurrò con gli occhi fissi
sulle mie labbra. — Pensavo che
volessi liberarti di loro.
Mi scappò quasi da ridere. —
Libero, non direi. Sarò anche stato
espulso, ma continuo a essere legato
a loro mentalmente, e Maris non mi
renderà mai la mia libertà, adesso.
Anzi, è persino peggio, perché non
avrò più il vantaggio di conoscere la
loro
prossima
mossa.
Se
attaccheranno di nuovo, non sarò in
grado di bloccarle.
Lily scosse la testa. — Tu sei
forte.
— Anche loro. E sono in tre.
— Nemmeno Tallulah sta dalla
tua parte?
Il nome di Tallulah sulle labbra di
Lily era come l’imprecazione di un
angelo. Feci un verso di disgusto che
lei non capì. Non avevo la minima
intenzione di spiegarle gli ultimi
sviluppi. — Dobbiamo tenere tuo
padre lontano dall’acqua, Lily.
— Non si avvicina mai al lago.
Be’, a parte oggi. Ma non credo che
dobbiamo preoccuparci. Sta davanti
al computer adesso, a pubblicare
l’annuncio “Vendesi barca”.
Mi immersi nell’acqua, per poi
risalire. — Non sottovalutare le mie
sorelle, Lily. Nessuno pianifica mai
di andare da loro, eppure sono in
tanti a farlo.
— Non credi mica che si
presenteranno a casa nostra, vero?
— Non devi preoccuparti di
questo. Un omicidio è onorevole solo
in acqua.
— Onorevole?
Mi scappò una breve risata. —
Già, un tempo questa cosa aveva
senso per me. Immagino che tu non
voglia raccontare tutta la verità a tuo
padre?
— E dirgli che il nonno aveva
intenzione di sacrificarlo? Non penso
proprio.
— Lo immaginavo. Perciò, ecco
cosa possiamo fare. Io porterò al
largo le vostre barche e le affonderò.
È il modo più facile per tenere tuo
padre lontano dall’acqua. Ma devi
convincerlo che stare così vicino al
lago, rischiare di perdere Sophie, è
uno stress insostenibile per tua
madre. Le nuoce alla salute. Devi
convincerlo. Dovete andarvene, Lily.
Sembrava spaventata. — E se
accetta? — disse stringendomi più
forte le mani.
— Io starò un passo dietro di voi.
Fece una pausa, valutando le mie
richieste. Poi si alzò in piedi. —
Esci fuori. Vestiti. Incontriamoci
vicino all’amaca. Qui si gela. —
Tornò di corsa verso casa, i capelli
fluenti sulla schiena.
Qualche minuto dopo, Lily
strisciò sull’amaca accanto a me e
coprì entrambi con una coperta di
lana. L’amaca dondolò e noi
ondeggiavamo sotto gli alberi. Alzai
lo sguardo al cielo. Con il dito, Lily
mi disegnava piccoli cerchi
concentrici sul petto.
— Perché lo hai fatto, Calder?
Perché lo hai salvato?
— Che altro potevo fare? —
Tenevo la voce bassa.
— Avevi programmato di
ucciderlo, prima.
— Già.
Smise di disegnare cerchi e stese
la mano. Il calore delle sue dita mi
riempì la pelle.
— Ho capito che ucciderlo
avrebbe significato uccidere te. E
questo avrebbe di conseguenza
ucciso anche me.
— In senso metaforico —
commentò Lily.
— Non ne sono così certo.
— Quindi, questo è tutto? —
domandò.
Non replicai immediatamente,
cercando di capire quale risposta si
aspettasse. — Cos’altro dovrebbe
esserci?
Non rispose.
— Adesso sei tu che devi dire
qualcosa
a m e — esordii,
sollevandole il mento con un dito.
— Cosa vuoi sapere?
— Com’è possibile che tu stia qui
con me? Senza pensare a quello che
ho fatto la scorsa notte. Come puoi
perdonarmi?
— Mi piace vederla dal punto di
vista opposto.
Attesi una spiegazione.
— Cosa sarebbe accaduto se non
ti avessi perdonato? — mi chiese.
— Magari la tua famiglia sarebbe
andata a nascondersi. Io avrei fatto
l’impossibile per sabotare i tentativi
delle mie sorelle di venirvi a cercare
ancora.
— Ve ne sareste andati?
— Certamente — risposi con
leggerezza, senza pensare agli aspetti
pratici, e mi arrotolai una ciocca dei
suoi capelli attorno al dito.
— È impossibile crederlo, ma non
è proprio quello che intendevo io.
— Ti ascolto.
— Pensa alle tue sorelle, Calder.
Sono creature spietate e infelici, che
ora se la prendono con te. Hanno
trascorso mezzo secolo con
l’ossessione di uccidere. Voglio
davvero condannarmi a quel tipo di
carcere?
La capivo. Non mi ero forse
sempre sentito incatenato a loro? —
Ma come posso riuscirci, Lily? Da
dove dovrei partire?
— Dal perdono? Io non ho altra
scelta. O almeno, nessuna valida
alternativa.
— Non sono sicuro di poterle
perdonare per quello che hanno
cercato di fare ieri notte, a tuo padre,
a Sophie, ma soprattutto a te.
— Il perdono non è solo per loro,
Calder. È per te. Il perdono è libertà.
Qualcosa che fai per te stesso, per
mantenere integro ciò che sei. Ora
che ci penso, in un certo senso, è una
forma di egoismo.
Serrai la stretta delle mie dita
attorno alle sue spalle e le tirai la
coperta fin sotto il mento. Il cielo
doveva essere terso perché le stelle
brillavano di una luce insolita.
Immaginai che, dalla loro posizione
privilegiata, potessero vedere l’alba
che si stava avvicinando. Questo mi
spinse a riflettere.
Era meglio vedere la propria
morte avvicinarsi o essere colti di
sorpresa?
— Guarda le stelle, Lily.
— Preferisco guardare te — mi
sussurrò in risposta.
— Puoi farlo anche dopo.
Sollevò il capo di un paio di
centimetri appena e il suo sguardo
arse nel mio. I capelli le caddero in
morbidi riccioli sulla mia spalla. —
Posso davvero, Calder? Credevo che
stessi cercando di liberarti di me.
Aggrottai le sopracciglia in
un’espressione corrucciata. —
Perché dici questo?
— Dovete andarvene, Lily. —
Ripeté quello che avevo detto prima,
vicino al pontile, imitando la mia
voce.
Rilassai i muscoli del volto. —
Ho aggiunto che sarei stato un passo
dietro di voi.
— Parole, parole — borbottò,
posandomi nuovamente la testa sulla
spalla.
Allungai la mano destra e le girai
delicatamente il mento perché
potesse osservare il cielo. — Vedi le
stelle, Lily?
Sospirò, arrendendosi. — Certo.
— Secondo te possono vedere il
sole che arriva?
— Non lo so. Può darsi.
— Pensi che lo temano?
— Sono masse di gas
incandescente, Calder.
— Ma dai, dov’è finita la
poetessa che era in te?
Fece un sospiro, e io avvertii il
suo sorriso. — Capisco. Be’, in tal
caso, sì. Sono finalmente giunte a
casa. Trionfanti nel loro regno di
mezzanotte. Ma il nemico si
avvicina. Loro sono tante, ma
l’avversario è più grande, più forte e
si porta alle spalle una storia di
vittorie fin dall’alba dei tempi. Sì,
sono decisamente terrorizzate.
Annuii. Lily aveva capito la mia
analogia.
— Ma loro non scappano, Calder.
Mi si bloccò il respiro in gola.
— Io resterei su quest’amaca con
te, circondati da nient’altro se non la
felicità, rischiando di cadere in
un’imboscata, anziché scappare.
Scossi la testa. — Se resto sul
lago, sarò come le stelle che vedono
arrivare il sole. Potrei sentirle,
potrei avvisarvi e voi potreste
scappare. — Avevo omesso di dire
che, se non avessi assunto le mie
sembianze umane, adesso non sarei
stato qui con lei. E non volevo
trovarmi in nessun altro posto. Lily si
stese sul fianco, il braccio sinistro
appoggiato sul mio petto, il
ginocchio sinistro piegato sopra di
me, come se fosse lei a proteggermi
da ciò che stava per succedere. Il
mio braccio le faceva da cuscino, e
lei mi premeva il naso contro il
collo.
— Come ti senti, Calder?
— Felice.
Il suo respiro mi scaldò la pelle.
Disse: — Anch’io. Lo sai cosa vuol
dire, vero?
Sì. Lo sapevo. Lo sapevo già da
tempo. Sin da quando avevo visto
quei ragazzi del college morti sulla
spiaggia e non avevo avvertito
l’impulso di andare a caccia.
— Non sei più come loro.
— Ma non sono neanche come te
— la corressi.
Mi strinse più forte. — Vero. Sei
migliore.
La guardai, sorpreso. — Va bene,
sono un tesoro. Mi chiedo cosa ne
penserebbe tuo padre se ti vedesse
accoccolata a un mostro marino. —
Mi meravigliai di come riuscissi a
pensare a Jason Hancock, anche solo
a pronunciare il suo nome, senza il
minimo rancore.
— Mi fai venire in mente — disse
— un’altra cosa che ho letto e che
potrebbe interessarti.
— Non un’altra poesia, spero!
— Non esattamente. Un brano
della Bibbia.
Mi girai a guardarla in faccia. —
Ora sì che sono interessato. Non
sapevo che fossi credente.
— Oh. Hai solo cominciato a
grattare la superficie.— Si schiarì la
voce. — L’ho imparato a memoria.
Sei pronto?
— Attacca pure — risposi. —
Stupiscimi.
— Poi disse Iddio: “Brulichino le
acque di una moltitudine di esseri
viventi.” Così Iddio creò i grandi
animali acquatici e tutti gli esseri
viventi che si muovono e di cui
brulicano le acque, secondo la loro
specie. Ed egli vide che ciò era
buono.
— Be’, chi sono io per mettermi a
discutere con Dio?
— Esatto. — Le sue labbra
trovarono le mie. Sollevò il mento, e
con la bocca le scivolai lungo la
gola, fino alla clavicola e sulle
spalle. Il suo profumo si mescolava a
quello dello shampoo e ai vestiti
freschi di bucato. Nulla poteva
essere più giusto di così.
Il calore, per la prima volta da
settimane, mi avvolse. Tanto calore.
L’acqua non poteva intaccarlo.
Nessuno poteva cambiarlo. O forse
una persona poteva.
Se Lily avesse seguito il mio
consiglio e se ne fosse andata, il
freddo mi avrebbe pervaso di nuovo
come il mare che si infiltra in una
nave che affonda. Prima magari non
ero felice della vita che avevo, ma
almeno la accettavo così com’era. A
questo punto, non potevo più tornare
indietro.
Indugiavo
sui
particolari,
desideravo riavvolgere il tempo e
ripetere tutto dall’inizio, oppure
correre fino alla prossima occasione
in cui sarei stato con lei. Lily si era
rannicchiata sul mio petto. La testa le
ricadde pesante sulla mia spalla. Gli
occhi chiusi.
— Ti amo — sussurrai,
baciandole la fronte. Non mi rispose.
— Lily?
Dormiva in una pace assoluta, che
non avevo mai visto su nessuno. Un
contrasto stridente con il sonno
inquieto delle mie sorelle. Mi
chiedevo se questa pace derivasse
dal perdono.
Dietro di noi, la casa degli
Hancock si stagliava silenziosa e
invisibile tra gli alberi scuri. Sotto di
noi, l’amaca ci cullava. Il peso del
braccio di Lily sul mio petto era
rassicurante. Mi sentivo al contempo
esausto ed euforico. Avrei fatto di
tutto
per
preservare
questa
sensazione, ma osai chiudere gli
occhi e fui sopraffatto dal sonno.
36
PROMESSA MANTENUTA
Non saprei dire quanto avessi
dormito. Forse un’ora. Forse solo un
minuto. Quando riaprii gli occhi era
ancora buio, ma gli uccelli avevano
smesso di cantare. Un pesce spuntò
dall’acqua con un piccolo plif. Il
vento increspava le fronde degli
alberi. Qualcosa di più grande salì in
superficie, non lontano dalla riva.
Ero sorpreso e allo stesso tempo
disgustato per essermi concesso di
sperare.
Qualcuno scattò verso la sponda,
con le braccia allungate sull’acqua e
i palmi verso l’alto, in un gesto di
pace. Forse Tallulah era venuta a
darmi qualche spiegazione, sebbene
non riuscissi a immaginare cosa
avesse da dire. Ma scorsi gli occhi
grandi ed esotici di Pavati luccicare
nell’oscurità.
Mi districai dal gioioso intreccio
di braccia e gambe che eravamo
diventati io e Lily. L’amaca si
inclinò quando rotolai giù, ma
riavvolsi la coperta prima che lei si
accorgesse della mia assenza.
Mormorò teneramente mentre io
avanzavo verso il lago, i sensi tesi,
pronti a riconoscere qualunque
segnale di agguato.
— Pavati — la salutai quando
infine si arrestò a qualche metro da
me.
— Pace, Calder. — Lo disse con
una voce che però suonava
stranamente ansiosa.
— Vieni a nome di Maris o di
Tallulah?
Era a disagio e rispose
rapidamente: — Tallulah aveva una
confessione da fare. Non sta a me
parlare al suo posto. Né prima, né
ora.
Feci una pausa per analizzare la
sua espressione ansiosa. — Come
farò a guardarla ancora in faccia?
— Ascolta — cominciò a dire,
guardandosi alle spalle. — Non sono
qui per parlare di lei.
— Dimmi quello che hai da dire,
allora.
— Maris ha preso in mano la
storia di Hancock.
D’istinto, gettai uno sguardo alla
casa.
— Ha preso la ragazzina. Ha
deciso di accettare una figlia al posto
del padre.
— Stai mentendo — ribattei. Ma
nonostante l’accusa, non riuscivo a
smettere di sentire il suono di Sophie
che si voltava nel letto, un piccolo
sbuffo, un mormorio. Non coglievo
null’altro, voleva forse dire che
Pavati stava dicendo la verità? La
casa non era più silenziosa di prima.
Di certo non avrei permesso che
Maris rapisse Sophie proprio sotto il
mio naso. Ma era possibile? Oh,
Dio… — Perché dovrebbe farlo? —
chiesi.
Il sole spuntò all’orizzonte alle
spalle di Pavati, mettendole il viso in
ombra. — Ti prego — ribatté. —
Non c’è tempo per le spiegazioni.
— Non sono mica stupido. Questo
è solo un trucco per allontanarmi da
Hancock. Immagino tu non abbia
niente in contrario se vado dentro a
controllare…
— Guardami, Cal.
Si avvicinò ancora, potevo vedere
di nuovo il suo volto. Il mio cuore si
riempì di compassione. Per lei. Per
me. Non saprei dirlo. Non saprei
dire nemmeno se l’idea partisse da
me. Sentivo la testa leggera, distante.
Le gambe mi tremavano per
l’indecisione. Pavati allungò le
braccia davanti a me, e nei suoi
occhi lessi solo verità e panico.
— L’ha rapita veramente? —
chiesi.
Pavati
indicò
a
nord,
implorandomi di seguirla.
— Come faccio a sapere che non
attaccherete Hancock? — le
domandai.
— Io e Maris abbiamo litigato. —
Si sollevò abbastanza perché potessi
notare le lunghe escoriazioni rosse
sul collo e sulle spalle. — Sapeva
che avevo una specie di debole per
quella ragazzina. Questo è il modo in
cui Maris mi ha punita per averle
dato torto. Ti prego. Ti prometto che
nessuno toccherà il padre — mi
assicurò con voce più serena e calma
di prima. — E poi, io verrò con te.
L’ha portata a Basswood, e lì fa
troppo freddo per la bambina. Per
quanto ne so, potrebbe essere già
morta.
Un grido dall’accampamento delle
mie sorelle squarciò le acque fino al
mio orecchio. Gli occhi di Pavati
dardeggiarono; il terrore dipinto sul
suo volto era autentico. — Siamo in
ritardo? — chiese.
Mi strappai i vestiti di dosso e
scattai nel lago, lasciando Lily sola
sull’amaca.
Dopo
essermi
trasformato,
perlustrai la mente di Pavati in cerca
di segnali di inganno. Malgrado i
suoi pensieri fossero sparpagliati e
smozzicati, non riuscivo a trovare
nessuna contraddizione. Non avevo
altra scelta se non aggrapparmi alla
promessa che non poteva essere
infranta: Nessuno toccherà il padre.
E sperare che non fosse troppo tardi.
Saettai nell’acqua. Pavati mi
seguiva a distanza, con il corpo che
si piegava e si inarcava lottando
contro le onde, mentre le urla di
Sophie fendevano l’acqua.
Nella mente tentavo di stipulare i
termini per una tregua, o persino per
uno scambio. A quale compromesso
potevamo giungere? Cosa avevo da
offrirle? Come avrei potuto
convincere Maris a risparmiare la
piccola? Sarebbe stato contro natura
per lei lasciar andare ciò che
reclamava dalla famiglia Hancock.
D’altronde, io mi ero ribellato alla
nostra natura. Potevano trovare anche
loro la stessa pace? E quale ruolo
aveva Tallulah in tutto questo? Come
sarebbe
riuscita
Maris
a
giustificarla?
Avvicinandomi alla spiaggia, ero
felice di non sentire i pensieri di
Maris, evidentemente lei era ancora
sulla terraferma. Forse con Sophie.
Viva. Mi voltai a consultarmi con
Pavati, ma lei era già sbucata in
superficie. La seguii e appena tirai la
testa fuori dall’acqua la sentii dire:
— Eccolo, Maris. Ora dammi la
bambina.
Dietro di me, Maris disse: — Con
piacere. Questa non vale i problemi
che crea. — E aggiunse: — Tallulah,
tocca a te.
Mi girai appena in tempo per
vedere Maris che sollevava una
pietra sopra la sua testa, prima di
farla ricadere su di me.
37
REPLAY
Quando ripresi conoscenza, mi
ritrovai intrappolato in una rete da
pesca, sott’acqua, con i polsi legati e
il viso affondato nella sabbia. Pavati
e Tallulah se n’erano andate, ma
riuscivo a sentire Maris che,
galleggiando nelle vicinanze, mi
teneva d’occhio. Girai la testa per
quanto la vecchia rete me lo
consentisse.
— Fermo, fermo! — esclamò
Maris con finta preoccupazione. —
Come va, fratellino?
Mi pulsava l’occhio e, da quanto
mi sembrava di ricordare, il naso non
era mai stato piegato a destra. Mi
contorsi per riuscire a vedere
meglio. — Che diamine di problema
hai, Maris? Dov’è Sophie?
La mia domanda la lasciò di
stucco. I capelli le fluttuavano come
un’aureola bianca intorno alla testa.
— Fai sul serio? È questo che vuoi
sapere? Pavati l’ha riportata a casa.
Non si è fatto male nessuno.
Mi dimenai, urlando con una furia
incontrollata in cerca di un varco
nella rete. — Tutto qui? — chiesi a
denti stretti. E poi ricordai le parole
di Pavati, ore prima, la promessa che
nessuno avrebbe toccato Hancock,
mentre mi raccontava che Maris
aveva accettato di prendersi una
figlia al posto suo. La verità mi
piombò addosso, e mi calmai.
Nessuno avrebbe toccato Jason
Hancock e Sophie era salva. Ma
Maris aveva accettato una figlia al
posto del padre, e io mi ero fatto
ingannare.
Peggio, non avevo idea di quanto
tempo fossi rimasto incosciente, né
sapevo se avessi ancora tempo per
rimediare al mio errore. Mi impegnai
per recuperare le immagini perdute
attraverso la mente di Maris. I miei
sforzi erano vani: lei era troppo
tenace. Si infiltrò nella mia mente
come un verme parassita, fino a
mostrarmi con chiarezza il viso di
Lily.
Avrei
percepito
ogni
particolare. Era questa la punizione
che Maris aveva architettato per me:
guardare da lontano, testimone muto
della distruzione di Lily e, di
conseguenza, della mia stessa fine.
— Guarda cosa ti sei perso —
disse Maris. — Guarda.
Con questa parola Maris riempì la
mia testa di tutto ciò che mi ero perso
mentre ero privo di sensi. Aveva
trasformato la mia mente in uno
schermo dove proiettava immagini
terrificanti e voci familiari, che non
avrei voluto sentire.
Tallulah nuotava avanti e
indietro lungo la riva. Un tuono in
lontananza svegliò Lily dal suo
sonno. Si mise a sedere e si guardò
intorno. Disorientata.
— Calder — bisbigliò Lily.
Rotolò giù dall’amaca e in punta di
piedi si avvicinò all’acqua.
Dalla prigionia della rete, strillai:
— Sta’ indietro! — Ma era come
strillare a un attore al cinema. La
scena era già stata girata. Non
sapevo ancora quanto tempo prima.
Non c’era nulla che potessi fare per
cambiare il passato. Il sortilegio
delle proiezioni di Maris continuava,
e non potevo sviare lo sguardo:
Lily non scorse quel volto pallido
e appassionato, i capelli dorati
nascosti dall’ombra degli alberi
sporgenti. Si morse un labbro
mentre faceva qualche passo
prudente.
— Calder — bisbigliò di nuovo,
stavolta più confusa di prima. —
Calder, sei lì?
Ancora nessuna risposta. Si
strinse nella coperta, il volto
contratto per la preoccupazione,
quando mise piede sul pontile.
Giunta all’estremità opposta, scrutò
il lago in direzione di Basswood.
Maris si studiò la punta dei
capelli, poi sollevò lo sguardo
mentre cercavo di districarmi dalla
mia trappola.
— Punizione appropriata, non
trovi? — disse con voce sdolcinata.
— Chi se lo immaginava che
Tallulah diventasse tanto perfida, una
volta respinta?
Rifiutavo di crederlo, ma ero
convinto che Maris ricordasse il
modo in cui Tallulah si comportava
con le sue prede.
Lily sussultò. — Cavoli, Calder,
mi hai spaventato.
— Non sono Calder.
Indietreggiando, Lily inciampò
nell’orlo della coperta.
Tallulah sorrise e tese le braccia
avanti. — Non sono qui per farti del
male.
— È un altro trucco! — urlai.
Le spaventose vibrazioni della
risata di Maris scavarono solchi
profondi nella sabbia. — Aspetta —
disse. — Adesso arriva il meglio.
— Cosa vuoi? — La voce di Lily
era esile e gelida. — Lui dov’è?
— Se n’è andato — rispose
Tallulah, in tono suadente. — Ti
stava solo usando. Devi averlo
notato nei suoi occhi, no? Le tracce
dell’inganno?
Lily scosse la testa.
— Non crederle! — continuai a
urlare. Detestavo che la mia agonia
fosse uno spasso per Maris, ma non
riuscivo a contenere le mie
suppliche.
— In fondo capisco perché l’ha
tirata tanto per le lunghe —
continuò Tallulah. — Sei davvero
bella. Non me n’ero mai accorta. In
effetti, a Calder piacciono le cose
belle. Almeno per un po’.
Guardavo Lily, si aggiustava la
coperta stringendola al corpo. Il
vento le scompigliava i capelli, che
svolazzavano in ciuffi selvaggi,
rendendo l’immagine romantica e
tragica al tempo stesso.
— Oh, che bella mossa, no? —
disse Maris. — Quella che ha fatto
con la coperta. L’hai notata?
— Ma ultimamente la vita non è
così bella, vero? — aggiunse
Tallulah. — Noi non possiamo
dimenticare. È la nostra natura a
impedircelo.
Lily arretrò di un altro passo, e
un filo di speranza si riaccese nel
mio cuore distrutto.
— Ferma — le ordinò Tallulah.
Lily si fermò. Le spalle si
contrassero, come se volesse
scappare ma i piedi fossero
ancorati al terreno.
— Sono qui per metterti in
guardia — proseguì Tallulah. — E
come ti ho già detto, non sono
venuta per farti del male.
— Mettermi in guardia?
— Sono certa che Calder ti ha
raccontato che eravamo in cerca di
tuo padre. Credi davvero che, dopo
tutto questo tempo, ora che lo
abbiamo a portata di mano, ce ne
andremo senza alzare un dito? Mi
sembri una ragazza intelligente.
Una ragazza coraggiosa. Come
pensi che andrà a finire? Di sicuro
te lo puoi immaginare.
— Per favore — implorò Lily. —
Ve ne prego, lasciateci in pace.
Maris mi diede un piccolo calcio
facendomi rotolare su un fianco,
come se fossi un ceppo di legno. —
Sentito come implorava? — Quasi
sbottò a ridere. — Una caratteristica
di famiglia, mi pare di capire.
Lily serrò i denti. — Calder non
mi ha mentito. Mi ha raccontato
tutto.
Il boato di un tuono quasi
soffocò le parole di Tallulah: —
Allora sai cosa ci è stato promesso.
La voce di Lily era un sussurro.
— Mia madre è malata. Abbiamo
bisogno di mio padre. Lui non
c’entra niente.
Maris e Tallulah le risposero
all’unisono. Il “no” di Maris era
arrabbiato, mentre il “no” di Tallulah
aveva il tono di chi stava prendendo
in considerazione il discorso di Lily.
— Hai ragione. Non c’entra
niente. Secondo Calder tuo padre
non è il debitore, ma solo una
garanzia collaterale. Vedi, però…
Si tratta di una distinzione che non
fa differenza. Alla fine dei conti,
dobbiamo prendere lui.
— Garanzia collaterale? — Gli
occhi di Lily scrutarono l’acqua,
come se la soluzione si trovasse da
qualche parte sotto le onde.
— Piantala di cercarlo — urlò
Tallulah, abbandonando la voce
vellutata per lasciare spazio al suo
odio.
— Che ne dici di me? — le
domandò Lily.
— In che senso? — Le labbra di
Tallulah si contrassero.
Maris ridacchiò, poi mormorò
qualcosa tra sé e sé, mentre la paura
si insinuava nel mio stomaco, che si
contorceva e aggrovigliava.
— E se prendessi me? — chiese
Lily. — Al posto di mio padre.
Sul volto di Tallulah sbucò un
sorriso. — Sei una ragazza
perspicace. Vieni in fondo al pontile
e ti prometto che rinunceremo a tuo
padre. Calder deve avertelo detto
che non possiamo infrangere una
promessa. Puoi credermi, su questo.
— Non qui. Non dove i miei
genitori possono vedermi.
L’espressione di Tallulah tornò
spietata, e l’acqua vorticò mentre
lei muoveva la coda.
— C’è uno scoglio, qui vicino,
verso nord — disse Lily. — Sporge
sul lago di circa tre metri dalla
superficie.
— Lo conosco.
— Sarò lì.
— Non aspetterò molto, Lily
Hancock.
— Non ci metterò molto.
— Be’, sai com’è — disse
Tallulah,
a
questo
punto
apparentemente annoiata. — Da
quanto ne so io, gli Hancock non
hanno la fama di chi sa mantenere
le promesse.— Stavolta è diverso —
dichiarò Lily. Un fulmine attraversò
il cielo, squarciandolo come un
piatto rotto.
— No! — urlai quando la
promessa di Lily riecheggiò nella
memoria di Maris. Ma sapevo che le
mie suppliche erano vane, e un senso
di nausea
stomaco.
mi
gorgogliò
nello
38
IL SACRIFICIO
Meno di un’ora dopo essermi trovato
intrappolato nella rete, le prime
gocce di pioggia cominciarono a
martellare la superficie dell’acqua.
Lo spettacolo di Maris era finito.
Mentre io e lei attendevamo che la
storia continuasse in tempo reale,
Tallulah aspettava Lily sulla
scogliera. Persino a questa distanza,
riuscivo a sentire che la pazienza di
Tallulah si stava esaurendo.
Maris si avvicinò. Girò per due
volte attorno alla rete e avvinghiò il
suo corpo al mio, arricciandomi i
capelli con un dito. Non avevo mai
smesso di provare a liberare le mani
e alla fine ero ricorso ai denti
sull’intreccio di corde annodate.
— Sii paziente — consigliò
Maris, materna e tranquillizzante. —
Non c’è bisogno di sprecare così
tanta energia. Presto sarà tutto finito.
— Posò la mano su uno dei pali che
assicuravano la rete alla sabbia. Per
un istante pensai che volesse
liberarmi, e il mio corpo si
abbandonò esausto. — Perché,
Maris? Dimmi solo perché.
— Due piccioni… — rispose
accerchiandomi di nuovo, fino a
ritrovarci faccia a faccia — con una
fava. Devo chiudere il capitolo
Hancock nella mia vita, e Tallulah
per qualche strana ragione vuole te
nella sua. Facciamo fuori la ragazza
e portiamo a termine entrambe le
missioni. Ora, mi spiace lasciarti
così. — Schioccò la lingua. —
Capisco che devi stare proprio
scomodo. Ma purtroppo devo andare.
Nella remota possibilità che la
ragazza mantenga la promessa, sarà
già in arrivo. Tallulah dovrà uscire
in superficie e voglio assicurarmi
che tu non ti perda neanche un
dettaglio. Resta in ascolto, fratellino.
Che evento mozzafiato. — Rise del
suo stesso gioco perverso e guizzò
via come il serpente che era.
Se mai avessi sperato di
convincere Maris a lasciarmi andare,
questa speranza, insieme alla
possibilità di salvare Lily, era
svanita. Lottando per liberarmi
avevo smosso uno dei pali ma ancora
molti mi tenevano saldo alla sabbia.
Non c’era tempo. Maris era quasi
giunta alla scogliera e, attraverso
l’occhio della sua mente, riuscivo a
distinguere Lily che spuntava tra i
pini. L’odio di Maris ne distorceva il
volto,
rendendola
quasi
irriconoscibile. Ma sapevo che era
lei, perché aveva indossato il vestito
in stile Dama di Shalott. Quella
poetica ironia mi era insopportabile.
— Lily, no! — gridai quando
Maris spostò la scena dalla preda al
predatore. Lo sguardo di Tallulah
ardeva di fervore, l’oggetto del suo
desiderio ormai vicino.
Con mio disgusto, Maris gridò: —
Azione!
Esitando una manciata di secondi
accanto a una betulla, Lily mosse i
primi passi giù per il terrapieno in
erosione,
fino
allo
scoglio.
Apparentemente sapeva che Tallulah
era lì, ma non la cercò con lo
sguardo. Scrutò invece l’immensa
massa d’acqua che la separava da
Basswood. La mia pena aumentò
quando compresi che cercava me. Se
pensava che sarei andato a salvarla,
avrei tradito le sue speranze. Anche
se fossi riuscito a liberarmi, sapevo
che anche Maris avrebbe attaccato.
Lily serrò le labbra e volse lo
sguardo al cielo. La pioggia
scrosciava più forte, inzuppandole il
vestito e incollandole i capelli al
viso. Sul lago non si vedeva neanche
una barca a vela. Sapeva che nessuno
l’avrebbe
notata
mentre
si
immergeva. Procedeva a passi saldi
e controllati sulla roccia. Solo una
volta i suoi piedi nudi si storsero
sulla superficie irregolare del masso.
In pochi secondi raggiunse il bordo e
arricciò le dita dei piedi sulla
scogliera. Tallulah annuì e si
avvicinò.
— Che teatralità — disse
Tallulah. — Appropriato. Pensavo
che ti saresti semplicemente tuffata.
— Ci ho pensato — rispose Lily,
lo sguardo fisso oltre la testa di
Tallulah. — Avevo pensato di
immergermi come le ragazze indiane
Passamaquoddy. Ma…
Completai io il suo pensiero. Quel
salto da una roccia stuzzicava il suo
lato poetico. Ma non solo: sperava
che io sapessi dove andare a
cercarla.
— Calder non verrà a salvarti —
chiarì Tallulah.
— Non lo farà o non può farlo?
— Non fa differenza.
Per la prima volta, Lily abbassò
lo sguardo e fissò Tallulah. Non
avevo mai visto una tale ferocia negli
occhi di Lily e per un momento mi
domandai se Tallulah avesse trovato
pane per i suoi denti. Ma poi
l’equilibrio di Lily venne meno, e lei
vacillò. Riuscì a non cadere e
irrigidì le gambe, per lottare contro
qualsiasi dubbio. Un secondo dopo,
notai che la sua mente si era svuotata.
Non pensava più al salto dalla
roccia, né a ciò che stava per
abbandonare. I muscoli della
mascella si serrarono.
— È finita, Calder — sancì
Maris dal suo punto di osservazione;
la sua voce una combinazione di
incredulità e gioia.
Mi dimenavo contro la rete ma
non riuscivo a liberarmi dai nodi che
mi tranciavano la carne. Agitandomi
e contorcendomi, lottavo contro la
rete, che mi scorticava la pelle,
disperdendo squame nell’acqua come
una poggia di monetine.
— Non farlo! — gridai.
— Non ho scelta — ribatté Lily,
rispondendo però ai suoi stessi
pensieri.
— No, in effetti — replicò
Tallulah — non ne hai.
— Invece sì — sussurrai. —
Esiste sempre un’alternativa.
— Vieni da me — disse Tallulah
con voce seducente.
— Se lo farò, risparmierete mio
padre? — chiese Lily.
— Lo giuro — dichiarò Tallulah.
— E lascerete libero Calder?
— Se lui lo desidera ancora.
Con un rantolo, Lily sporse il
piede dallo scoglio con la stessa
facilità con cui si varca la soglia di
una porta. Mentre precipitava, i
capelli fluivano verso l’alto. Le
braccia si tesero accanto alle
orecchie, le dita dei piedi affusolate.
Trafisse l’acqua come un dardo, e il
lago nero la inghiottì.
Tallulah si tuffò, mentre io
osservavo Lily con gli occhi delle
mie sorelle. Una miriade di
particelle morbide galleggiò come un
sistema solare sottomarino, mentre
Maris incombeva tra le alghe e
Tallulah contava i secondi prima che
Lily restasse senza fiato. La
desolazione della mente di Tallulah
mi invase il cuore. Mai come ora
capivo quanto fosse caduta in basso,
quanto il mio rifiuto l’avesse
prosciugata di ogni emozione. Lei era
vuota e Lily aveva promesso di
riempirla oltre ogni misura.
Nessuno di noi aveva mai
assistito alla morte di un martire.
Lily proiettava colori mai visti.
Magnetici.
Gloriosi.
Sublimi.
Inebriavano
me,
ammaliavano
Tallulah e attiravano Maris fuori dal
suo nascondiglio. Tallulah avvertì
che Maris voleva impadronirsi della
sua preda, e le riservò un ruggito
selvaggio. — Vattene via! — gridò.
— La finisco io, la ragazza.
Un sibilo attraversò il petto di
Maris. Tallulah mostrò i denti e si
scagliò verso Lily, rapida ed
elegante, come i viscidi serpenti
delle leggende. Insieme risalirono in
superficie e Lily prese aria, prima
che Tallulah scattasse e la tirasse di
nuovo in profondità, in una spirale di
morte.
— Stai guardando, Calder? —
disse Maris rabbiosa, sgattaiolando
di nuovo nella flora lacustre, con la
mente che ribolliva per la gelosia,
mentre Tallulah si avvinghiava al
petto della splendente Lily. —
Questo è quello che succede quando
tradisci la tua famiglia.
Trascorse un altro secondo, e Lily
era ormai morta. La mente di Maris
schizzò nel futuro, in quello che lei
immaginava
come
l’affettuoso
ricongiungimento tra me e Tallulah.
Lei non aveva intenzione di restare
nei paraggi e assistere a quel
momento. Portato a termine il
sacrificio di Lily, non aveva più
alcuna ragione per restare. E poi,
osservare Tallulah le aveva
scatenato l’appetito. Partì in cerca di
Pavati.
Le vibrazioni della ritirata di
Maris arrivarono fino alla mia
prigione, ma non potevo farmi una
ragione dei suoi ultimi pensieri.
Concentrai la mente su Tallulah e
sulla preziosa vita che stringeva tra
le mani. Un calore mi pervase il
corpo quando nella sua testa dilagò
un’ossessione folle, che traboccava
del piacere dell’omicidio. Serrò la
stretta sul petto di Lily, pronta ad
assorbire il brillante arcobaleno del
martirio.
— Tu non sei niente — disse
Tallulah, sebbene Lily non potesse
sentire i suoi pensieri. —
Insignificante. Inutile.
L’odio ribolliva scuro e fuso nel
mio cuore. Rosicchiai le corde,
ingoiando la sabbia. I granelli si
infilavano tra i miei denti, creando
scintille incandescenti che mi
schioccavano sulla lingua.
— Non sei mai stata sua —
sentenziò Tallulah. — Mai. Ma
adesso sei MIA.
Su quest’ultima parola, l’ira mi
esplose nella mente. Dagli occhi e
dal cuore saettò un fascio blu di
elettricità. L’energia mi corse sulle
braccia fino alla punta delle dita, che
tranciarono le corde, squarciando la
rete in migliaia di pezzi che
schizzarono in una vampata verso il
cielo.
Non sapevo se stessi nuotando o
volando. L’acqua suonava come i
tasti di un pianoforte, entrandomi
nelle orecchie. I brandelli fumanti
della mia prigione precipitarono sul
fondale. I pesci si sparpagliarono.
E allora vidi il sangue.
In lontananza, si dissolveva il
suono dell’inquietante, sottile risata
di Maris. Tallulah chiuse gli occhi.
Lily non c’era più.
39
L’ANELLO D’ARGENTO
Non avevo mai saputo che Tallulah
fosse in grado di tranciare la pelle,
ma questa non era la Tallulah che
conoscevo. L’immagine del corpo
ferito di Lily alimentò la mia rabbia
e mi spinse a nuotare più veloce.
Avrei ucciso mia sorella. Tallulah
avrebbe conosciuto il mio dolore. Il
sapore metallico del sangue mi
impregnava i sensi, mi preparai per
ciò che avrei visto.
Ma mi ero sbagliato.
In cima alla scogliera, Jack Pettit
si sporgeva dal ciglio roccioso,
l’obiettivo di un fucile da caccia
premuto contro l’occhio. Puntava la
canna verso Tallulah, le cui braccia
senza vita galleggiavano a pochi
centimetri dalla superficie. La sua
coda penzolava verso il basso,
mentre una linea rossa le fluiva dal
corpo in una spirale, per dissolversi
tra le acque. Il sangue di Tallulah fu
trasportato fino alle mie labbra,
sapore di rame sulla lingua: il suo
macabro bacio d’addio.
Le mie spalle si irrigidirono, i
muscoli pulsavano per l’adrenalina.
Non riuscivo più a ricordare se
dovessi odiare Tallulah o piangerla.
Nonostante tutto, provavo solo pietà
e mi chiedevo se Maris avesse
incoraggiato l’interesse malato di
Lulah nei miei confronti, se l’avesse
usato, come tutti gli stratagemmi nel
suo cilindro di manipolazioni. Non
potevo abbandonare il corpo di mia
sorella agli avvoltoi. O peggio, a
Jack Pettit. Ma soprattutto, non
potevo lasciare che il corpo di
Tallulah venisse scoperto da
qualcuno.
Jack abbassò l’arma e mi piantò
gli occhi addosso. — Le sirene sanno
solo fare male alla gente — urlò. —
Ma adesso basta. — Sollevò di
nuovo il fucile e centrò l’obiettivo su
di me. Prima che premesse il
grilletto, una voce strillò: — Fermo!
Jason Hancock andò a sbattere
sulla spalla di Jack. Seguì un
momento di scompiglio, quando il
fucile scivolò dalle mani di Jack,
colpì la roccia e cadde nel lago. Jack
scappò prima che affondasse.
Io e Hancock vedemmo Lily nello
stesso momento. Le onde l’avevano
spinta contro la scogliera, le braccia
spalancate, i palmi premuti verso lo
strapiombo. Il suo cuore batteva
lento, un ritmo che riuscivo a sentire
attraverso l’acqua. Il volto pallido
era inclinato indietro contro la forza
delle onde, come un giglio spezzato.
— N… non farlo — bisbigliò.
Hancock barcollò, le gambe gli
tremavano. Fletté le ginocchia
preparandosi a un salto che la sua
mente non riusciva a ordinare al
corpo di spiccare.
— Jason!— lo chiamai. — È qui
con me.
Non saprò mai perché mi uscirono
queste parole. Forse avevo pensato
di riuscire a rassicurarlo, ma mi
sbagliavo.
Avevo
dimenticato
com’era diverso il mio aspetto: non
ero umano. La mia presenza non
sarebbe stata di alcun conforto.
Quando Hancock scorse la mia
coda torcersi e schiaffeggiare le
onde, strillò: — Stai lontano da mia
figlia! — Poi di riflesso cercò il
punto in cui era caduto il fucile.
Alzai le mani, con i palmi rivolti
all’esterno. — Non le farò del male.
Non potrei mai.
— È sparita! — urlò lui. —
Oddio, è sparita!
Mi tuffai.
E rituffai.
Verso il fondale.
In profondità.
La vita di Lily era sospesa, le
braccia protese dolcemente in avanti.
Il suo naso esalava gli ultimi segnali
di aria, una sottile linea di bollicine
che giungeva in superficie. Il lago era
silenzioso come una tomba.
Non ci separavano altro che una
quindicina di metri. L’avrei raggiunta
in pochi secondi. Mi formicolarono
le dita per una nuova scarica di
elettricità, mentre mi preparavo ad
afferrarla e farla riprendere,
ignorando se avrebbe funzionato.
Un’altra parte di me si domandava se
fosse meglio lasciarla morire.
La morte di una martire era
davvero peggiore della vita di una
sirena? Era egoistico da parte mia
salvarla? Potevo condannarla alla
vita che odiavo, e lei avrebbe potuto
continuare ad amarmi una volta fatto
il danno?
Tutte queste domande si fusero,
fino a creare un mosaico confuso di
speranze e paure. La raggiunsi,
percorrendo gli ultimi, pochi metri. I
polpastrelli si caricarono di una luce
blu brillante.
Poi colsi un tonfo sopra di me:
Jason Hancock, immerso in acqua
per la prima volta nella sua vita,
nuotava con bracciate potenti e
decise per salvare la figlia morente.
Non aveva la coda, sarebbe stata
solo questione di tempo. Avevo
assistito a migliaia di trasformazioni
e ne conoscevo i segni. Un anello
argenteo già gli luccicava intorno
alla gola, e gli occhi brillavano di un
fuoco innaturale. Non sembrava
essere consapevole del suo
cambiamento imminente. Sarei stato
l’unico testimone.
Fui colto da un breve momento di
confusione, niente più che pochi
istanti. Giusto il tempo che impiega
un sasso a rimbalzare sul pelo
dell’acqua e affondare. Quasi un
soffio. Ma nella mia esitazione, due
braccia avvolsero il petto di Lily e la
trassero in salvo.
E non erano le mie.
40
INCUBI
Le labbra di Lily si schiudevano
silenziose, e la testa le scivolava
indietro, sulle braccia di qualcuno.
Con quest’immagine mi risvegliai,
ansimando sotto la volta degli alberi,
mentre invocavo il suo nome.
— Lily!
Provai a fingere che fosse soltanto
un sogno, ma non avevo mai sentito
una rabbia così travolgente. Ero stato
bandito, incolpato, tradito e ora
abbandonato da solo a morire, con il
cuore spezzato. Imploravo chiunque
o qualunque cosa potesse sentirmi di
riavvolgere il tempo, rimettere le
cose a posto, come erano prima.
Avrei fatto di tutto. Ma chi volevo
prendere in giro? Non avevo
risposte, e affondavo sempre più in
profondità.
Erano trascorse dodici ore da
quando Hancock aveva trascinato
Lily fuori dall’acqua. Dodici ore da
quando avevo riconosciuto i suoi
occhi lucenti e l’anello d’argento.
Undici ore da quando avevo scoperto
la verità. Tom Hancock non aveva
promesso di sacrificare suo figlio in
cambio della propria vita. Aveva
giurato di restituire il figlio a mia
madre, il loro figlio, al compimento
del primo anno di età.
Jason Hancock era mio fratello.
Questo spiegava il suo desiderio
fortissimo di tornare al lago in tutti
questi anni. Questo spiegava la sua
incapacità di infrangere la promessa
del padre. Tutto quadrava, tranne la
ragione per cui mia madre ci avesse
lasciati crescere nella menzogna.
Cosa pensava che avremmo fatto?
Non doveva certo aver desiderato
che uccidessimo suo figlio. Maris
però… Maris doveva conoscere la
verità. Queste domande avrebbero
atteso qualche tempo. Avevo la
mente troppo stanca, il cuore
distrutto.
Disteso nella parte più folta del
bosco, rivestito da una coperta di
foglie umide, mi riparavo dal calore
del sole. Respiravo l’odore delle
piante in decomposizione e lasciavo
che gli scarabei si arrampicassero
sul mio corpo.
Questa era la mia penitenza per
essermi comportato da eroe indegno.
Niente aveva più senso. Perché
Tallulah non era venuta a parlarmi,
semplicemente? Perché non aveva
provato a spiegarmi ciò che
provava? Avrei potuto farla
ragionare. Non doveva finire in
questo modo.
Ogni volta che chiudevo gli occhi,
i sogni tornavano. Hancock che si
tuffava in acqua. Hancock che mi
strappava Lily dalle braccia.
Hancock che provava a rianimarla e
le soffiava aria salvifica nei
polmoni.
Mi sentivo supplicare: — Per
favore, Lily. Ti prego. — Contavo
ogni
pesantissimo
secondo
all’unisono con Hancock, che le
spingeva il sangue in corpo, mentre
lei espirava con lui, che le buttava
ossigeno nei polmoni sfiancati.
I colpi di tosse di Lily, che
sputava acqua sulle ginocchia del
padre, erano l’unica tregua da questo
incubo, che però mi faceva
sprofondare in quello successivo: io
che trascinavo Tallulah negli abissi
del lago, in cerca di un posto in cui
nascondere il suo cadavere, e
scavavo una buca sotto un bancale
affondato. Io che la incastravo in
quel baratro e riposizionavo il
bancale sopra di lei, poi chiudevo gli
occhi dinanzi all’ignobile sepoltura.
Io che spingevo nella buca il suo
braccio, che anche nella morte
continuava a cercarmi. Io che le
stringevo la mano prima di lasciare
che le sue dita scivolassero via.
Poi la testa di Lily ripiombò
all’indietro e mi svegliai di nuovo,
boccheggiando… Lily! E tutto
continuò a ripetersi identico per tre
giorni. Sessantuno ore. Un nuovo
record.
Dalle ombre gelide del bosco
osservavo la finestra della sua
stanza. Non si muoveva nulla. Né
brillava alcuna luce. Nessun
movimento di tende. Volevo andare
in città, per scoprire se circolassero
pettegolezzi. Dubitavo che Hancock
avesse raccontato la verità a
qualcuno, ma valeva la pena
conoscere qualsiasi notizia, anche
una bugia.
Però non ce l’avrei mai fatta ad
arrivare in città, neppure se ci avessi
provato. Il mio corpo si indeboliva
ogni minuto trascorso in esilio
volontario dall’acqua. La pelle delle
guance mi tirava da impazzire. I
tendini
cominciavano
ad
assottigliarsi diventando fragili.
Avevo i crampi ai muscoli, dalle
cosce fino alla punta dei piedi.
Sconfitto, tutto ciò che mi riusciva
di fare era guardare tra gli alberi.
Sussurravo Tennyson a labbra
spaccate. Quando la pelle iniziò a
lacerarsi in lunghe e sottili linee
sulle guance e tra le scapole, mi
chiesi quanto ci sarebbe voluto per
giungere
alla
mummificazione
completa. Mentre il corpo si
prosciugava, la mente crollava in
mezzo alle allucinazioni.
All’inizio pensai che gli alberi mi
stessero spiando, o almeno la
pallida, sottile betulla piegata in
avanti, spinta dalla brezza, come se
fosse pronta a parlare o volesse
farlo, ma si domandasse se fosse il
caso. Con un barlume di razionalità,
mi ricordai che le betulle non
parlavano, neanche negli incubi. Mi
forzai di schiarire la mente e mettere
a fuoco, ma sarebbe stato meglio se
mi
fossi
abbandonato
alle
allucinazioni. Non ci volle molto
prima che capissi che non si trattava
di un albero parlante. La figura
pallida e slanciata era Maris. Che si
avvicinava sempre di più.
— Sta’ lontana da me —
gracchiai, ora che la laringe aveva
ceduto.
— Non essere infantile — ribatté
Maris. — Era ovvio che Tallulah non
ti avrebbe lasciato nella rete per
sempre. Dov’è adesso? — Scrutò tra
gli alberi. — Perché sei qui?
Strinsi gli occhi. Non lo sapeva?
Ma certo che no. Tallulah non aveva
notato il pericolo in cima alla
scogliera. Non aveva visto Jack
Pettit che premeva il grilletto. Non
aveva avuto il tempo di avvertire
Maris, né di proiettare la sua paura o
il suo dolore. Quel segreto lo
conoscevo soltanto io. Nel bene e nel
male.
— Tu hai veramente bisogno di
aiuto, Maris. — La mia voce strideva
come gesso sulla lavagna.
Si aggrappò alla corteccia di un
albero, e gli angoli della bocca si
torsero in rassegnazione. — Pensavo
che tu e Lulah aveste già spiccato il
volo nel tramonto, a quest’ora.
— Non volerò in nessun tramonto
con Tallulah. Né con nessun’altro,
per quanto mi riguarda.
Tirò in dentro le labbra e annuì
con l’aria di chi la sa lunga. —
Suppongo di essere qui per questo.
Non c’è nulla che vuoi chiedermi?
— Io? — tossii.
— Proprio tu. Avevamo un
accordo. Il piano è terminato. Vorrai
che io mantenga la promessa,
immagino.
Non sapevo cosa rispondere. — Il
nostro accordo…?
— Allora. Se vuoi che lo dica ad
alta voce… Può bastare per ripagarti
del bernoccolo sulla testa?—
Sembrava quasi dispiaciuta. — Ti
abbiamo chiesto di sedurre la
ragazza. Ammetto che ci sei riuscito,
anche se… — Mi diede un colpetto
di piede sulla spalla e mi squadrò.
— Anche se adesso non sei un bel
vedere. Ma sto divagando. Ti
abbiamo chiesto di portare Hancock
nel lago, per poterlo abbattere.
Aprii la bocca per dire qualcosa,
ma non sapevo bene cosa.
Maris appoggiò una mano a un
albero. — Sì, certo, lo so, alla fine ci
è andata di mezzo una Hancock
diversa, ma non è colpa tua se
Tallulah mi ha fatto cambiare idea.
Come penso che ti abbia spiegato
Pavati, basta un Hancock morto
qualsiasi per saldare il debito.
La fissavo, terrorizzato persino di
battere le ciglia. Era troppo bello per
essere vero. Davvero Maris non
sapeva che Lily era salva? Forse i
miei pensieri erano stati talmente
confusi che lei non ne aveva visto
neanche uno? Oppure – e non osavo
pensarci – lei sapeva qualcosa di cui
io ero all’oscuro? Magari Lily non
era
sopravvissuta.
Lanciai
un’occhiata furtiva alla casa buia,
alla finestra ancora più buia.
Maris non se ne accorse. —
Calder, dannazione! Sai che non
avevo altra scelta. Una promessa è
una promessa. — Sospirò. —
Comunque, non vedo come la tua
indipendenza possa farti bene. Non
ho mai conosciuto uno di noi che sia
riuscito a sopravvivere a lungo,
vivendo in solitudine. Se non esci da
questo melodramma, non ti resterà
molto tempo. A ogni modo, non sta a
me giudicare.
Frantumò un pezzo di corteccia tra
le dita, poi lo lasciò cadere come
coriandoli al suolo. — Hai fatto il
tuo dovere, dopotutto. Io farò il mio.
Da questo momento in poi, il tuo
desiderio si avvera. — Piantò gli
occhi nei miei e dichiarò: — Non
siamo più una famiglia.
A queste parole avvertii uno
scatto nella mente, come un
interruttore, la rottura del legame che
mi vincolava alla famiglia White. Mi
chiedevo come avesse fatto. Niente
più che un sussulto delle spalle. Ma
non era ancora pronta a lasciarmi.
— Era solo una ragazza, Calder.
— Maris abbassò lo sguardo su di
me in un misto di irritazione, pietà e
incomprensione.
— La verità — dissi.
Si morse l’interno della bocca
meditando sulle sue parole. — Cosa
vuoi che ti dica?
— Di me. Di Hancock. Voglio
tutta la storia. Voglio sapere la verità
prima di morire. — Feci del mio
meglio per guardarla in tralice, con
gli occhi che mi scricchiolavano
nelle orbite.
Si rannicchiò accanto a me, con la
pelle ancora lucida di goccioline
d’acqua. Fece serpeggiare la punta di
un dito sul mio braccio, lasciando
una scia di sollievo.
— Perché mentire, Maris?
— Hancock ha confessato?
— Dimmelo tu.
— Tom Hancock aveva promesso
di restituire il bambino alla mamma,
non appena avesse imparato a
camminare. Ha infranto la promessa.
— Come fa a essere colpa di
Jason Hancock?
— È cresciuto, no? — sbottò, con
gli occhi fiammeggianti. — Sono
trascorsi molti anni, Calder. Decenni.
Avrebbe potuto tornare a casa in
qualunque momento. Deve averne
sentito l’impulso. Doveva sapere
qual era il suo posto.
— Lo sapeva.
Maris apparve compiaciuta. —
Ovviamente. Tu non hai idea di cosa
voglia dire guardare la mamma
morire. Lentamente. Scivolava via,
giorno dopo giorno. Io avevo dodici
anni. Tu, Pavati e Tallulah eravate
troppo piccoli per capire. Me ne
sono fatta carico io. Io. Da sola.
— La mamma è morta tra le reti
— le ricordai. — L’ho vista con i
miei occhi.
— È morta di crepacuore. Non
c’è stato nessun incidente.
— Ma io ho visto tutto.
— Tu hai visto il ricordo che ti ho
mostrato io, Calder. A tutti voi. Lei
sperava che con te avrebbe potuto
sostituire il figlio perduto.
— Si sbagliava — aggiunsi, in un
sussurro. Ogni senso d’inadeguatezza
che avevo sempre provato si
moltiplicò in quel preciso istante.
Non avevo salvato Lily. Non avevo
salvato Tallulah. Non ero stato
abbastanza forte per salvare mia
madre. Alzai lo sguardo al cielo,
opaco e monotono, senza stelle. —
Ma perché uccidere Jason Hancock?
— le domandai. — Era tuo fratello.
Persino più di me.
Maris ridacchiò.
Impiegai ogni fibra della mia
energia per spostare gli occhi e
guardarla più intensamente. — E io
che c’entravo con tutto questo,
Maris?
Strisciò un’unghia sul palmo della
mia mano, tagliandomi come con un
bisturi. La fragile pelle si separò in
un rivolo rosso, che si addensò e
riempì ogni fessura.
— Né la verità né le bugia hanno
veramente importanza. Fratello o no,
Hancock è la sola e unica ragione per
cui la mamma è morta. Doveva
pagare.
«Volevo che ti sentissi utile.
Speravo che aiutandoci ti saresti
avvicinato a noi. Poi, quando
abbiamo scoperto che ti eri
innamorato della ragazza, Tallulah ha
suggerito che qualunque membro
della famiglia avrebbe potuto pagare
il debito.
«Il suicidio della ragazza avrebbe
torturato Hancock persino più del
suo omicidio. Fargli provare la
perdita di un figlio, proprio come
nostra madre. Togliendo di mezzo la
ragazza, poi, tu e Tallulah…
Maris si voltò a osservare il lago.
La brezza notturna le asciugò le punte
dei capelli. Quando tornò a
guardarmi, fece schioccare la lingua
mentre il sangue dalla mia mano
colava sulle foglie bagnate e
macchiava le punte dei suoi piedi. —
Per Tallulah è stato più difficile
convincere Pavati che me… Non
capisco. Dov’è? Non riusciamo a
sentirla da nessuna parte. Che cosa le
hai detto?
Chiusi gli occhi. A dispetto degli
inganni e dei tradimenti, la perdita di
Tallulah mi logorava il cuore in ogni
caso. A parte gli ultimi tempi, era
sempre stata la mia confidente più
intima, la mia migliore amica. Il
ricordo del suo corpo senza vita era
troppo struggente per me per mentire
a Maris. Ma non dovevo
preoccuparmi. Quando riaprii gli
occhi, Maris era sparita. Senza un
addio. Senza amor perduto.
41
IL SIRENETTO
Nel profondo degli abissi donerei loro la mia
passione,
Ancora e ancora, li bacerei per ricambiare
l’effusione
Ridenti tra le risa;
E andremo errando lontano, lontano
Fino alla pallida selva marina, vasta e
maestosa,
Rincorrendoci, al culmine della gioia.
Lord Alfred Tennyson
Sgusciai fuori dal bosco. Non per
uno scatto improvviso di coraggio,
ma perché, dopo essermi comportato
da patetico idiota per tutto quel
tempo, cominciavo a farmi schifo. E
Lily meritava di meglio.
I rilevatori di movimento dei
riflettori erano spenti, le luci ormai
restavano costantemente accese, a
illuminare l’acqua. Scivolai fino al
pontile degli Hancock, trascinandomi
quando non riuscivo a camminare
dritto, e giunsi infine bocconi.
Accarezzai le onde con le dita, ma le
ritrassi con uno scatto prima che
diventasse impossibile resistere alla
tentazione. Non ero ancora pronto.
Non dubitavo che i miei pensieri
fossero ormai al sicuro. Non
dubitavo di poter tenere nascosto a
Maris e Pavati il destino di Tallulah.
Le frequenze radio delle nostre menti
non erano più le stesse. Me ne
rendevo
conto,
anche
sulla
terraferma. Oltre a me, non c’era
nessun altro nella mia testa.
Non potevo andarmene, però,
senza sapere che fine avesse fatto
Lily. La casa alle mie spalle era buia
e silenziosa. Con la mente tornai alla
notte precedente, sull’amaca, quando
Lily mi sfiorava il petto con un tocco
delicato, invocando il mio nome.
— Calder — sussurrò.
Sorrisi tra me e me. Il mio corpo
poteva anche deteriorarsi, ma la mia
immaginazione era vivida come al
solito. La voce di Lily era cristallina,
quasi si trovasse proprio dietro di
me.
— Calder, sei lì?
Mi voltai di scatto. Una luce dalla
camera di Lily, e la sua figura
familiare si stagliava alla finestra
aperta.
— Lily. — Vacillai, arrancando
sul pontile, con le gambe rigide che
non rispondevano a dovere. — Sono
qui.
Con un sospiro liberai la tensione
provocata dalla nostra separazione,
senza avvertirne la vera intensità fino
al momento in cui la lasciai andare, a
poco a poco. — Stai bene? — le
chiesi, temendo la risposta.
— Meglio. Eri preoccupato?
Sembri preoccupato.
Cercai sul suo volto le tracce del
trauma. Era pallida come un fantasma
e per un attimo mi domandai se mi
trovassi davanti al suo spettro.
— Calder, lo hai visto? — Si
indicò il collo. — Mio padre. Lo hai
visto?
— Sì, ma mi sorprende che lo
abbia notato tu. Che cosa sa lui? Ti
ha tirato fuori dall’acqua così in
fretta che non ha completato la
trasformazione.
— Sa che, dopotutto, mio nonno
non era pazzo.
— Ma lui non si è ancora reso
conto di quello che è veramente.
Meglio così. Non c’è motivo che lo
scopra. Quello che è successo…
dovrebbe dargli l’ennesima ragione
per restare sulla terraferma.
— No — replicò Lily. — Non ne
ha idea. Pensa che sia stata
un’anomala scarica di adrenalina a
infondergli il coraggio di venire a
nuotare. Ma, Calder, lui sa cosa sei
tu. Mi ha proibito di rivederti. Mi
rispedisce a Minneapolis domani.
“Bene, bene. Non posso rischiare
che Maris scopra che Lily è
sopravvissuta.” — Pensa che ti farei
del male.
— No. Sì. Ma… quello che
voglio sapere… quello che devo
sapere è: se mio padre è come te, io
che cosa sono, allora?
Scossi la testa per placare le sue
paure. — Non sei una sirena, Lily.
Credo che forse tu abbia ereditato
qualcosa, qualche tratto che ti fa
sentire a tuo agio nel lago. Ho
sempre saputo che non era normale.
— Siamo imparentati?
Chiusi gli occhi. — Niente affatto.
Semmai, sei imparentata con le mie
sorelle. — Scoppiai in una gran
risata. — Scusami, scusami! — Ma
lei non sorrise al mio tentativo di
scherzo. — Come sta Sophie? — le
chiesi.
— Bene. Perché?
“Ah. Quindi Pavati ha avuto un
po’ di pietà.” Aveva lasciato che
Maris usasse la bambina come una
marionetta, ma non aveva permesso
che Sophie ricordasse. — Niente.
Non importa. Ora per favore, Lily,
vieni fuori. Non resisto più.
Lily si guardò alle spalle, poi
sparì per un secondo. Tornata alla
finestra, lanciò una gamba oltre il
davanzale. Guardavo nervoso mentre
scavalcava il tetto della veranda e a
brevi passi si avvicinava al bordo.
Saltò, atterrando delicatamente sulle
punte dei piedi.
Mi afferrò la mano e mi tirò a sé,
incespicando attraverso il cortile
fino al limitare dei boschi, poi giù
verso la riva nei pressi del mio
salice. Emisi un gemito quando le
onde mi lambirono le caviglie. Lily
si chinò e con le mani a coppa prese
l’acqua e me la strofinò addosso,
temendo
forse
che
potessi
frantumarmi al suo tocco.
Dopo avermi bagnato gambe e
spalle, si riempì le mani e mi fece
bere. Era d’aiuto, ma niente più che
un sollievo illusorio.
— Perché lo hai fatto, Lily? — le
chiesi, la voce secca e rauca.
Smise di aiutarmi e arrossì.
— Come hai potuto fare questa
cosa a te, a me?
— Era l’unico modo per mettere
fine a tutto quanto — bisbigliò. —
Ha funzionato, no? Hanno promesso
che se mi fossi offerta…
La strinsi tra le braccia e le posai
il mento sulla testa. — Hai fatto
bene. Hai mantenuto la promessa.
Loro lo hanno sentito dalla mente di
Tallulah. Il resto… — Mi sforzai di
terminare la frase, ma non ci
riuscivo.
— Non avrei mai dovuto lasciare
quel biglietto di addio per mamma e
papà — aggiunse. — È stato un gesto
stupido, ma volevo che sapessero
cosa mi era successo. Non sapevo
che Jack stesse lavorando a casa.
L’ha trovato lui per primo. Povero
Jack. Adesso perseguiteranno lui?
— È successo tutto troppo in
fretta perché Tallulah potesse
proiettare la paura nei suoi pensieri.
Maris e Pavati non lo sanno.
Lily alzò lo sguardo, gli occhi
lucidi. — Ho peggiorato le cose?
La trassi più vicino a me. — Cosa
ho mai fatto per meritarti, Lily? Sei
un’eroina. Ci hai salvati tutti. Tuo
padre… me… Ci hai liberati,
entrambi.
— Ma non Tallulah — sussurrò.
— No. Lei no. — La voce mi si
bloccò in gola.
— Mi dispiace.
Mi tirai indietro per guardarla
meglio.
Era
una
ragazza
straordinaria. — Mi hanno tratto in
trappola, Lily. Se avessi saputo cosa
avevano architettato, non ti avrei mai
lasciata. Il tuo cuore ha smesso di
battere.
Avvertivo la sua tensione sotto le
mie dita.
— Io ero lì. Proprio lì. — dissi
— Per un attimo, ho pensato di…
Lei annuì.
— Ma avevo troppa paura di
provarci. E anche se avesse
funzionato, non potevo sopportare il
pensiero di strapparti alla tua
famiglia. — Lasciai cadere la testa,
il mento sul petto. L’acqua si infranse
nuovamente sulle mie caviglie. Tutto
il corpo vibrò per l’impulso di
tuffarmi,
e
barcollai
pericolosamente. Ero giunto al
limite.
— Te ne vai — disse. Non era
una domanda.
— Ma tornerò.
— Per la migrazione?
Le lanciai un’occhiata veloce. —
Veramente, pensavo a te. Non credo
di avere più tante alternative.
Tornerò per te. Ovunque tu sia.
— Questa è una delle promesse
da sirenetto?
— Non ce ne sono di altro tipo.
— Be’, se è così — chiuse gli
occhi e premette la sua fronte sulla
mia — sarà meglio tirarti fuori di qui
prima che tu ti incenerisca. — Lanciò
uno sguardo verso casa. — E prima
che mio padre si svegli. Le
rivelazioni che ha ricevuto gli
basteranno per qualche tempo. —
Rise, nonostante le lacrime le
riempissero gli occhi. Poi aggiunse:
— Aspetta qui.
La seguii con lo sguardo mentre
correva verso casa, poi concentrai
l’attenzione sui miei piedi immersi
nell’acqua, le onde che rotolavano
via dalle caviglie quando piegavo le
dita dei piedi nella sabbia, un nodo
che mi saliva in gola. Lily tornò con
una piccola sacca a cordoncino. —
Immagino che non potrai più mollare
i vestiti in auto — disse.
La strinsi a me e mi immersi nel
profumo di arance e pino. Una luce
rosata si diffuse dalle sue braccia,
permeandomi spalle, petto, gambe…
Mi riscaldò al punto da farmi
dimenticare persino il mio nome. Poi
le sue labbra incontrarono le mie.
Si staccò da me troppo in fretta,
voltandomi le spalle. Mi spogliai,
infilai i vestiti nella sacca, che misi a
tracolla.
— Va’! — mi ordinò, continuando
a fissare la casa.
E mi tuffai.
Immediatamente, un’esplosione di
luce e calore illuminò il cielo
notturno. Ogni cellula del mio corpo
si spalancò, gridando di sollievo,
accogliendo l’acqua che mi
inondava. Sembrava che mi stessi
espandendo, come una spugna
consumata e reidratata. Infiammate
dall’energia repressa, le gambe si
unirono fondendosi, esplodendo nella
coda argentea che si fletteva
nell’acqua e mi lanciava lontano
dalla riva.
Mi inarcai e mi voltai,
infrangendo lo specchio d’acqua,
l’aria di mezzanotte sul viso. Lei mi
guardava dal pontile, la mano in alto.
Il ricordo del suo bacio era ancora
fresco sulle mie labbra, e sapevo che
con Lily ero al contempo libero e
imprigionato per l’eternità.
RINGRAZIAMENTI
Questa è la parte che mi fa più paura:
ringraziare tutte le persone che mi
hanno aiutato a portare al mondo
Calder e Lily (e spero di non aver
tralasciato
nessuno).
Secondo
l’ordine cronologico degli eventi
(perché sono una che pensa in modo
lineare), sono loro:
tutti quelli che mi hanno fatto
conoscere il Lago Superiore quando
nemmeno camminavo, e che mi hanno
salvata quando ci sono ruzzolata
dentro;
mia sorella Elizabeth, che mi ha
detto di darmi una mossa e mettermi
a scrivere qualcosa, cavolo;
i miei primi tre romanzi, che mi
hanno insegnato cosa funziona e cosa
no;
i miei genitori, Steve e Deede
Smith, che hanno letto la prima
stesura del primo capitolo di quello
che un giorno sarebbe diventato Un
bacio dagli abissi, spronandomi ad
andare avanti;
i
talentuosi
scrittori
del
Minneapolis Writers Workshop, che
hanno colto ogni mio passo falso
mentre leggevo la storia di Calder a
voce alta;
i miei lettori beta e tutti i miei
sostenitori, comprese Stephanie
Landsem, Laura Sobiech, Beth
Djalali, Weronika Janczuk, Therese
Walsh, Elissa Hoole, e gli
Apocalypsies, e Nina Badzin, che ha
detto: — Credo che questo sia quello
giusto!
Ian Baker, per essersi dimenticato
il libro a casa e perché ama For
Weasel (che nessuno capirà tranne
lui, ma gliene sono profondamente
grata);
i miei agenti pieni di entusiasmo:
Jacqueline Flynn, Jenny Meyer e
Rich Green.
Inoltre:
Françoise Bui, per la sua fine
intuizione e le domande perfette, e
tutti quelli di Delacorte Press e
Random House Children’s Books.
Grandi abbracci ai miei tre figli,
meravigliosamente strani, Samantha,
Matthew e Sophie, la cui gioia e
creatività illuminano il mio mondo.
Che vi sia da lezione. Non rinunciate
mai ai vostri sogni.
E infine, grazie a mio marito,
Greg: alla fine della giornata, ci sei
sempre tu.
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Un bacio dagli abissi
di Anne Brown
© 2012 Anne Greenwood Brown
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore
S.p.A., Milano, per l’edizione italiana
|
Titolo dell’opera originale Lies
Beneath
Ebook ISBN 9788852028984
COPERTINA || ART DIRECTOR:
FERNANDO AMBROSI |
GRAPHIC DESIGNER: STEFANO
MORO | ILLUSTRAZIONE DI ©
2012 ALINA SLIWINSKA