Il libro Dal giorno in cui Calder e Lily si incontrano sulle sponde del Lago Superiore, niente è più come prima. Abituato ad ammaliare le ragazze con il suo sorriso, Calder crede che conquistare Lily sarà un’impresa facile. Ma si sbaglia. Lily non è come le altre, adora nuotare e scrivere poesie, e fin dal primo istante capisce che le leggende del lago, che parlano di feroci sirene e crudeli tritoni affamati delle emozioni degli esseri umani, potrebbero avere un fondamento. Lo legge negli occhi di Calder, che dicono più di mille parole e celano un segreto inconfessabile: lui e le sue sorelle sono emersi dagli abissi per vendicare la morte della loro madre. Ma vicino a Lily, poco a poco, Calder rischia di dimenticare la sua missione… L’autore Anne Greenwood Brown è cresciuta negli Stati Uniti, nell’arcipelago delle Isole Apostle del Lago Superiore. Sporgendosi dal ciglio delle navi, si è sempre chiesta quali meraviglie si nascondessero tra le acque di questo lago antico, così profondo e vasto, e ora lo sa. Un bacio dagli abissi è il suo primo romanzo. ANNE GREENWOOD BROWN traduzione di Maurizio Bartocci In memoria di mio nonno, Norman Edward Biorn, che adorava il lago Mamma, posso fare una nuotata? Sì, figlia mia adorata. Ricorda i tuoi vestiti di piegare, ma all’acqua non ti avvicinare. Anonimo 1 LA CHIAMATA Non avevo ucciso nessuno per tutto l’inverno, e devo ammettere che non mi dispiaceva. Certo, lo avrei voluto tanto, ma troppe morti per annegamento sarebbero sembrate sospette e avrebbero alimentato parecchie chiacchiere. Gli abitanti spaventati di una città erano l’ultimo fastidio di cui avevo bisogno. Inoltre, negare al mio corpo ciò che più desiderava cominciava a darmi un piacere perverso. L’autocontrollo era la mia più recente ossessione. Dubito che le mie sorelle avrebbero potuto dire altrettanto. Sorgendo dalle acque del Mar dei Caraibi, le mie dita scivolarono lungo il banco di coralli morti fino a trovare il reticolo che cercavo. Seguendolo verso la superficie giunsi al punto in cui avevo abbandonato i miei vestiti umani. Il cellulare squillava da qualche parte tra gli abiti ammucchiati. “Maris” pensai digrignando i denti. Nel corso della giornata mi aveva già chiamato così tante volte che avevo smesso di contarle. A ogni tentativo avevo lasciato partire la segreteria telefonica. Il rumore di un tuffo in acqua distolse la mia attenzione dalla suoneria, e mi voltai di scatto verso l’oceano. A un centinaio di metri c’era una ragazza su un canotto gonfiabile, il corpo delineato da una luce gialla. Non era ancora matura. Magari, se avessi aspettato, la luce gialla si sarebbe tramutata in qualcosa di più brillante – di più soddisfacente – qualcosa per cui sarebbe valso la pena annientare il mio tanto sudato autocontrollo. Contro ogni sforzo di volontà, il ricordo dell’ultimo omicidio tormentava ogni centimetro del mio cervello. Mi tentava, mi derideva per aver pensato di riuscire davvero a risollevarmi dalla mia vera natura. Le mie dita si contrassero al ricordo vecchio di mesi: la cattura, l’immersione, la forma delle gambe umane che lasciava il posto a coda e pinna, il formicolio al centro del petto mentre inchiodavo la preda sul fondo dell’oceano, assorbivo la luce inebriante, estraendo la brillante emozione dal suo corpo fino a sentire quasi… “Oh, ma che diamine.” Ma prima di tuffarmi per raggiungere l’ignara ragazza, il cellulare riprese a squillare. Per un istante provai l’impulso di buttarlo in mare; in fin dei conti era uno di quelli usa e getta. Ma sarebbe stato un gesto un po’ estremo. Perfino per me. Meglio lasciar scattare la segreteria. Insomma, non è che non sapessi perché Maris mi stava telefonando. Il vecchio, familiare richiamo era tornato. Quel richiamo – da un punto in fondo alla gabbia toracica, fra il cuore e i polmoni – mi diceva che era quasi giunto il momento di lasciare il caldo delle Bahamas e tornare dalla mia famiglia nelle nere e fredde acque del Lago Superiore. Era tempo di migrare. Un brivido mi increspò la pelle delle braccia. “Controllati, Calder” mi dissi. “Fa’ finta di niente. Non devi partire proprio adesso.” Sentivo il ricordo della voce di mia madre che pronunciava le stesse parole, quando stavo per compiere la mia prima migrazione. “Concentrazione, figliolo” mi aveva detto, scarmigliandomi i ricci. “Il tempismo è tutto.” Nonostante fossero passati quarant’anni, la scomparsa di mia madre mi stringeva ancora il cuore. Rievocarla era una sofferenza. E il Grande Lago rendeva i ricordi ancora più dolorosi. No, non c’era nessuna valida ragione per tornare negli Stati Uniti. Però non avevo altra scelta. L’impellenza di migrare era irrefrenabile. Molto più potente di quella di uccidere. A ogni fase della luna, a ogni cambio di marea, diventava sempre più impossibile ignorarla. In base all’esperienza sapevo che mancavano solo poche settimane al momento in cui mi sarei ricongiunto alle mie sorelle. Prima della fine di maggio, sarei sfrecciato nell’acqua come un razzo. Guai a chi fosse capitato sulla mia strada. Il cellulare ricominciò a squillare. Imprecai rassegnato, mi tirai per metà fuori dall’acqua, rovistai fra i vestiti e schiacciai il tasto di risposta. — Gentile a prendere la chiamata — disse Maris. — Cosa vuoi? — È ora. Torna a casa. Subito. — La sua voce, sarcastica al principio, risuonava adesso del solito fanatismo. Sullo sfondo sentivo le voci delle altre mie sorelle, Pavati e Tallulah, un’eco del suo entusiasmo. — Perché proprio adesso? — chiesi in tono inespressivo. — È ancora aprile. — Perché fai tanto il difficile? — Così. — All’altro capo vi fu una lunga pausa. Chiusi gli occhi e aspettai che lo capisse. Non impiegò più di una manciata di secondi. — Quanto tempo? — Cinque mesi. — Accidenti. Calder, perché ti comporti sempre da masochista? Dio, sarai a pezzi. — So quello che faccio. Tu non ti impicciare, Maris. — Era inutile cercare di darle spiegazioni sulla mia astinenza. Riuscivo a malapena a darle a me stesso. Restai a guardare con malinconia la ragazza del canotto che sguazzava tranquilla verso la riva, continuando a splendere di giallo. — La tua salute mentale, invece, è affare mio, eccome. Pensi di sapertela cavare da solo? Un omicidio, Calder. Uno solo. Ti farebbe sentire molto meglio. — Sto bene — dissi sprezzante, a denti stretti. — Sei un somaro, ma non è questo il punto. Ho una cosa che ti tirerà su il morale. Alzai gli occhi al cielo e attesi che partisse in quarta. “Buona fortuna” pensai. — Abbiamo trovato Jason Hancock. Al suono di questo nome il mio cuore sobbalzò, ma restai calmo per non darle soddisfazione. Niente di nuovo. Il mio silenzio generò qualcosa all’altro capo del filo. Panico? Ora la voce di Tallulah risuonava attraverso il ricevitore, un flusso liquido di parole fin troppo rapide per riuscire ad afferrarle. Lasciai che lo sguardo vagasse fino alla sottile trina di nuvole sopra di me. Le mie sorelle sembravano convinte. Magari questa volta ci avevano azzeccato. — Bene. Mi metto in viaggio domani. — No — disse Maris. — Non c’è tempo per venire a nuoto. Prendi l’aereo. Riagganciò prima che potessi protestare. Rovesciai la testa indietro, fin dove il collo me lo permetteva, assorbendo gli ultimi raggi ultravioletti. I polpastrelli affondarono nel corallo mentre li immaginavo attorno al collo di Jason Hancock, per trascinarlo sott’acqua e osservare le ultime bolle uscirgli dalla bocca. Un trillo di voci femminili mi strappò alle mie fantasie. Guardai oltre il muro di cespugli di ibisco e, come mi aspettavo, vidi il bagliore dell’emozione pura emanata dalle loro forme. Distolsi gli occhi dalle aure color sorbetto all’arancio e ignorai ancora una volta la tentazione di uccidere. Le parole di Maris mi risuonarono in testa: “Uno solo. Ti farebbe sentire molto meglio.” Gli antichi miti su sirenette e sirenetti avevano ribaltato i fatti. Non eravamo soliti attirare le navi contro gli scogli. Gli esseri umani erano le uniche esche lucenti e felici che catturavano la nostra attenzione. Possedevano ciò che noi desideravamo più di ogni altra cosa: ottimismo, entusiasmo, felicità. Ogni emozione positiva bastava a infonderci la furia, costringendoci a partire alla carica, a catturare, ad assorbire la gioia dei loro cuori e portarla nei nostri. Anche un solo grammo di buoni sentimenti bastava a concederci una breve tregua dalla naturale cupezza delle nostre menti. E le ragazze che si stavano avvicinando ne promettevano ben più di un grammo. Del resto, fin dove volevo spingermi con questo tentativo di austerità? Avevo sentito storie di miei simili quasi morti per l’astinenza dalle luminose emozioni umane, denutriti e infelici, e infine impazziti. Cominciarono a tremarmi le mani mentre immaginavo di rapire non una ragazza sola, ma tutte quante, il tuffo, l’annegamento, e poi assorbire sotto pelle le loro aure vibranti – il calore, la frizzante euforia. Era ciò che volevo. E sarebbe stato facile ottenerlo. Poteva essere tutto mio. E ne era passato di tempo, tanto, così tanto… Scossi il capo e attesi che le ragazze passassero. Non era colpa loro se mi ero spinto così in basso. Non meritavano di essere strizzate, gli involucri vuoti ammucchiati sotto gli scogli, solo perché avevano incrociato la mia strada. Le loro risate svanirono man mano che si addentravano nell’entroterra. Appena sicuro di avere qualche minuto di solitudine, mi tirai completamente fuori dall’acqua turchese e mi adagiai sulla roccia. La trasformazione iniziò prima che riuscissi a riprendere fiato. Per prima cosa, la contrazione; poi la lacerazione, mentre il corpo si tirava e si tendeva contro se stesso. Le ossa si spaccarono e si allungarono, incastrandosi in articolazioni che fino a poco prima non esistevano nemmeno. Restai a dibattermi in silenzio sul corallo, ferendomi le spalle e digrignando i denti per il dolore, finché alla fine non mi rovesciai sul dorso, boccheggiante e sanguinante sulla roccia. Mi rimisi in piedi barcollando e mi vestii alla svelta. Dio, speravo proprio che Maris non mi richiamasse a casa così presto per nulla. Se questo Jason Hancock era q u e l Jason Hancock, non sarebbe stata certo una delle nostre classiche uccisioni. Non avrei voluto assorbire nulla di ciò che il suo corpo aveva da offrire. Non avrebbe contato neppure come esperimento di autocontrollo. Questa volta si sarebbe trattato di pura e semplice vendetta. Con quella parola che mi gravava sulla lingua, calai i Ray-Ban sugli occhi e distolsi lo sguardo dall’oceano. Era una trappola inevitabile: giungeva l’ora di tornare a nord. 2 IL FRATELLO RILUTTANTE Minneapolis brulicava sotto di noi mentre stavamo sorvolando l’aeroporto a bordo di un DC-9. Avevo i quadricipiti paralizzati dalla disidratazione, e senza volerlo mi sfuggì un lamento. Meno male che non cercavo compassione. Tanto nessuno mi avrebbe sentito con il rombo dei motori. Un uomo d’affari barcollò lungo l’angusto corridoio, urtando con il grasso ventre le spalle degli altri passeggeri. — Chiedo scusa, chiedo scusa — disse. Un bambino gettò a terra il suo giornaletto di giochi di parole e la matita rotolò dalla mia parte. Slacciai la cintura di sicurezza e mi sporsi oltre il bracciolo per raccogliergliela. — Giochi di parole! Forte — commentai, appoggiando la matita sul suo tavolinetto. Il ragazzino annuì. — Mi serve un aggettivo. “Infelice. Ansioso. Superincavolato.” — Prova con riluttante — gli dissi con un sorriso ironico. Raddrizzai le gambe e spazzolai via le briciole dei salatini dai pantaloni. — E come si scrive? Lo scrissi io per lui, poi respirai a fondo con il naso. L’aria secca e stantia, intrisa dell’alito e della puzza di sudore delle persone, mi filtrò nei polmoni. Dallo zaino presi una bottiglietta di plastica e strizzai le ultime gocce d’acqua nella bocca arsa. Secondo il mio orologio, ero asciutto da diciannove ore. In passato avevo raggiunto il limite di ventiquattro. Maris mi aveva sempre avvisato che oltre non si poteva andare, e io non avevo mai sentito la necessità di sfidarla. Almeno, non su questo punto. L’assistente di volo era ferma a poche file da me, intenta a controllare che fossero tutti pronti per l’atterraggio. Alzai la bottiglia vuota e la agitai per farle cenno di avvicinarsi. Quando mi guardò, inarcai sarcastico le sopracciglia. “Ehi, dolcezza. Sì, tu. Un po’ più svelta, per favore.” — Posso esserle d’aiuto, signore? — Una bottiglietta d’acqua. — Mi dispiace, ma il servizio bevande è terminato. Abbiamo iniziato la discesa. — Indicò il finestrino per convincermi. Fuori, tracce di neve sporca e tardiva incrostavano i campi di grano e i fossati lungo le strade del Minnesota. Serrai i denti. “Speriamo che Maris abbia ragione sennò aiuto…” Già in passato c’era stato un falso allarme. Mi passai le dita fra i capelli neri, tirandone le punte ingarbugliate, e mi aggrappai ai braccioli mentre l’aereo toccava terra, con il senso di perdita di controllo che precede il lento calo di velocità. Tutti si alzarono ancora prima che il segnale delle cinture di sicurezza si spegnesse. Recuperai dalla tasca del sedile il berretto da baseball con il simbolo del villaggio turistico in cui avevo trascorso l’inverno. Passai le dita sul bordo consunto, quindi me lo calcai sugli occhi. Accesi il cellulare e schiacciai il tasto di chiamata. Maris rispose al primo squillo. — Siamo atterrati — dissi. — Vieni a prendermi. E accidenti, Maris, al suolo c’è ancora la neve. — No, non c’è. Adesso rilassati, fratellino. Non ti abbiamo mica fatto tornare dal paradiso dei bikini per nulla. Ne varrà la pena. — Sicura che questa volta non ti sbagli? — Assolutamente sicura. E non ti avremmo chiamato se avessimo creduto di farcela da sole. Per quanto detesti ammetterlo, tu sei superiore a noi per molti versi. Feci una smorfia. Non era vero. Ma non era neppure una falsa lusinga. Maris sceglieva le parole come un chirurgo sceglie il bisturi; nonostante avessimo passato tutto quel tempo distanti, lei sapeva sempre come fare colpo su di me. Alla sola menzione della parola superiore, l’impulso di migrare mi squarciava disperatamente il cuore, sempre più, come un gancio infilzato nella carne. “Sì, sì. Arrivo” pensai, rispondendo tanto all’impulso quanto a mia sorella. Mi alzai, abbassando la testa sotto la cappelliera. Feci cenno al ragazzino di precedermi. Lui trascinava e sbatteva lo zaino mentre attraversava il corridoio. Gli assistenti di volo sfoggiarono una sfilza di sorrisi sfavillanti al mio passaggio. Avrei distolto lo sguardo per evitare ogni possibile attrazione, ma non irradiavano nessun colore. Dietro i loro sorrisi non si celava nessuna vera emozione. Entrai nella passerella di sbarco, un vento pungente passava attraverso le sottili pareti pieghevoli. Avrebbe potuto benissimo essere gennaio. Maledissi Maris mentre attraversavo l’aeroporto per raggiungere il marciapiede davanti al terminal Lindbergh. Non c’era ragione di fermarsi al ritiro bagagli. Tutte le mie cose le avevo addosso o nello zaino: pantaloni, bermuda, sandali consumati, felpa, due T-shirt logore, un orologio da immersione, cellulare e berretto da baseball. Le mie sorelle possedevano qualcosa in più, ma non molto. Viaggiavamo tutti con poco bagaglio. Tesi le braccia lungo i fianchi e cominciai a saltellare, spostando il peso da un piede all’altro per riscaldarmi. Ogni trenta secondi guardavo l’orologio. Non sapevo se sarebbero venute a prendermi in auto, ma le riconobbi all’istante, appena scorsi una vecchia Chevy Impala sgusciare attraverso i veicoli in fila, praticamente fermi. Mi domandai, mestamente, dove l’avessero sgraffignata. Sembrava in buone condizioni, di gran lunga migliori di quelle della Dodge Omni dell’estate precedente. Probabile che il proprietario fosse da qualche parte a scervellarsi, vittima dei poteri ipnotici di mia sorella. Sapeva di aver perso qualcosa. Ma cosa? Tallulah e Pavati avevano abbassato il finestrino, tenevano la testa fuori e mi sorridevano. I lunghi capelli neri di Pavati le svolazzavano intorno al viso come onde ribelli; i capelli più corti di Tallulah erano lisci come spesse tende dorate. Scossi il capo fingendo disgusto per la loro passione per gli oggetti rubati e salii dietro con Tallulah, che mi diede un energico bacio sulla guancia. — Non ce l’avrei fatta ad aspettare un minuto di più — disse. — Mi sei mancato davvero, davvero tanto. — Anche tu, Lullah — dissi. Era quasi la verità. Maris si buttò indietro i capelli biondissimi. — Sì, sì. Bacio, bacio. Adesso datti una calmata. Dobbiamo parlare di questioni serie, e mi serve un caffè. 3 LE SORELLE WHITE Tallulah voltò le spalle al barista del Daily Grind e con passo lieve venne al nostro tavolo. Fra le lunghe dita teneva in bilico quattro bicchieri di plastica colmi di caffè. Li posò e ne prendemmo uno per ciascuno. Maris si sporse verso di me, poggiando i delicati avambracci sul tavolo, le mani intrecciate, le nocche bianche. Mi scrutò il volto. I muscoli della mia mandibola si contrassero in risposta. — Devi mangiare di più, Calder. Sei pelle e ossa. — Sto bene. — Hai lavorato molto durante l’inverno? — Abbastanza. Ma il biglietto dell’aereo mi ha steso. — Possiamo coprirti le spese — disse Tallulah. — Quest’inverno Pav ha fatto la cameriera a New Orleans. Ha messo da parte tutte le mance. Annuii. Non ci serviva molto, ma ogni tanto i soldi facevano comodo. Probabilmente Pavati aveva un piccolo tesoro nascosto nel bagagliaio dell’Impala rubata. Gli umani le davano mance come se lei servisse i segreti dell’universo su un piatto d’argento. Mi fece l’occhiolino, tolse il coperchio di plastica dal suo bicchiere e raccolse la schiuma con un dito. Un uomo, seduto a un tavolo accanto, le fissava la bocca. Come biasimarlo? Nel bene e nel male, la natura ci aveva creato per attirare l’occhio umano, ma Pavati era un esemplare particolarmente splendido, per essere un mostro. A differenza della carnagione pallida di Maris e Tallulah, quella di Pavati era color caramello e sciroppo di cioccolato. Come una diva di Bollywood, aveva spalle quadrate, vita stretta, ciglia lunghe e due occhi che brillavano di lavanda. Come la chiamava Maris, l’Esca Perfetta. Persino io, suo fratello, potevo cadere nella sua trappola ipnotica e ritrovarmi a fantasticare su di lei in modo morboso. Era un’esperienza umiliante e disgustosa, anche quando sapevo che lei lo faceva apposta. — Tanto per ridere — diceva. “Pavati” brontolai mentalmente. Forse non ero del tutto innocente quando si trattava di giocherellare con le mie vittime prima di ammazzarle, ma almeno lo facevo per alleviare le loro paure. Pavati sapeva essere assolutamente devastante con il suo fascino. Se questo Jason Hancock era la persona giusta, non avrebbe avuto scampo. Pavati studiò il mio umore tetro e rise fra sé e sé. Maris era meno divertita dalla depressione in cui mi ero lasciato sprofondare. Socchiuse gli occhi. — Questa volta, abbiamo ragione noi — disse. — Non voglio pronunciarmi. — Porta la famiglia a Bayfield, nella vecchia casa. Che possibilità ci sono? È questa la famiglia giusta, Calder. È lui. Adesso aveva tutta la mia attenzione, ma cercai di celare l’euforia solo per farle girare le scatole. — Diciamo, tanto per parlare, che tu abbia ragione e che l’abbiate trovato — dissi. — Come pensi di concretizzare il piano? Un sorriso si allargò poco a poco sul volto di Maris. Pavati sollevò rapida lo sguardo. Tallulah spinse la sua sedia più vicino alla mia e mi prese sottobraccio. — Non è bello riaverlo qui? — domandò alle altre due. Mi diede un bacio sulla guancia e mi strinse forte la mano; in risposta, strinsi due volte la sua, prima di lasciarla andare. Questa immagine esteriore di una famiglia felice era una manna per Tallulah. Fossimo stati noi due da soli, forse questa famiglia avrebbe funzionato per davvero. Ma era inutile stare qui a fare congetture. Non ci saremmo mai liberati di Maris. Tallulah si girò verso di lei. — Diglielo — mormorò. Maris annuì una volta, felice di prendere la parola. — Abbiamo tenuto d’occhio la famiglia per un po’ — disse. Aveva un luccichio d’argento negli occhi. — Lo davo per scontato. — Feci dondolare la sedia indietro. — Ha due figlie. — Molto affezionate al padre — aggiunse Pavati. — E quindi? — domandai. — Sono loro — Maris si interruppe per creare un effetto drammatico — il nostro lasciapassare. Dondolai in avanti, facendo sbattere le gambe della sedia sul pavimento. — Cavolo, Maris, non ti pare un tantino… perverso? Sorrise e si appoggiò allo schienale. — Grazie. — Sul serio? — Guardai speranzoso Tallulah. Lei era d’accordo? — Dobbiamo rendere la faccenda più complicata del necessario? Perché coinvolgere i figli? Se pensi che lui sia la persona che credi, perché non lasciare che se ne occupi Pavati? — Mi sembra una buona idea — disse Pavati, rincuorandosi. Maris alzò gli occhi al soffitto. — È sposato. — Allora? — Molto sposato. Dubito che sia il tipo che si invaghisce della bella ragazza acquatica. Scossi il capo. — È evidente che non conosci gli uomini. Maris si protese verso di me. — Ha ucciso nostra madre, Calder. — No. Non è stato lui. Il debitore era Tom Hancock. Suo figlio è solo secondario. — Tu sai cosa intendo. — Cosa ti fa pensare che Jason Hancock sappia qualcosa della promessa di suo padre? O le conseguenze che ha avuto la scelta di infrangere quella promessa su nostra madre? E su di noi? — Ma che dici? — domandò Maris in tono agitato e incredulo. — Non vuoi riscuotere il debito? Mi avvicinai a lei, incoraggiandola ad abbassare la voce. — Lo voglio sì. Voglio Jason Hancock tanto quanto te. Sto solo dicendo che… se questo Jason Hancock è veramente il figlio di Tom Hancock… non c’è motivo di rendere la cosa più drammatica del dovuto. Lasciamo che Pavati lo seduca. Una volta che l’avrà attirato in acqua, potremo tutti intervenire per trascinarlo sotto. Così giustizia sarà fatta. Dolce e rapida. Fatta. Poi, ognuno di noi potrà riprendere la sua strada. — Perché non vuoi restare con noi, Calder? — domandò Pavati. Il suo labbro inferiore si piegò in una posa seducente. L’uomo al tavolo accanto si leccò le labbra di riflesso. — Vi siete guardate allo specchio di recente, voi tre? — In realtà, guardavo solo Maris. Le estati erano già abbastanza terribili. L’idea di passare l’inverno a New Orleans con le mie sorelle superava ogni limite dell’immaginazione. — Una congrega di sirene vendicative? Magnifico. Gli occhi di Maris guizzarono elettrici, tanto da far sibilare e tremolare le luci sopra di noi. Un ragazzetto foruncoloso, seduto lì vicino, girò sui tacchi e corse via. Gli altri clienti alzarono gli occhi al soffitto. — Stammi bene a sentire, Calder White. — Pronunciò il mio nome a denti stretti. — Non fare scherzi. Fa’ come dico io. E quando sarà finita, giuro che te ne potrai andare e che non ti romperemo più le scatole. — Maris! — la implorò Tallulah. Maris la liquidò con un gesto della mano. — Che ne dici, Calder? La tentazione era forte. Ero stato con le mie sorelle da quando avevo tre anni. Da allora in poi, ero rimasto legato a loro, le nostre menti erano collegate da un filo invisibile che non potevo recidere. Alla morte di nostra madre, Maris divenne il capo della nostra piccola famiglia; soltanto lei aveva il potere di rendere liberi gli altri. Se Maris diceva che mi avrebbe lasciato andare… No, era impossibile immaginarlo. Ma se diceva sul serio… Be’, se avessi mai sentito la mancanza delle mie sorelle, avrei sempre potuto cercarle. Ma le condizioni le avrei stabilite io. Niente più convocazioni di emergenza. Niente più viaggi basati sul senso di colpa. Niente più impellenze fisiche di riunirsi a ogni primavera. L’indipendenza non era qualcosa di naturale per la nostra specie, ma io non ho mai sostenuto di essere venuto alla vita in modo naturale. E questo Maris non mi permette di dimenticarlo. Le dita di Tallulah si serrarono sul mio bicipite, mentre Pavati continuava a spostare lo sguardo da me a Maris. — Affare fatto. — Queste parole passarono amare sulla lingua. Tallulah emise un piccolo suono soffocato, ma io non la guardai. — E adesso che facciamo? Sempre che non abbiate preso una cantonata. — Tu cercherai di conquistarti una delle due sorelle — disse Pavati. — E come? — Sono certa che troverai il modo. — Maris si sporse sul tavolo e mi passò le dita fra i folti ricci. — Non sei così brutto. Tallulah si agitò vedendo Maris che mi toccava. Pavati rise e scosse la chioma, e la collana le tintinnò. Alcune gocce di sudore imperlarono il labbro superiore dell’uomo alla sua sinistra. I miei occhi sfrecciarono da quella parte, ma lui si affrettò a distogliere lo sguardo. Pavati si avvicinò, mettendomi un braccio intorno alle spalle. — Fatti invitare a casa loro, Cal. — Nel suo respiro c’era ancora il caldo del Delta del Mississippi, e le sue labbra piene mi sfiorarono l’orecchio quando disse: — Conosci i suoi genitori. Diventa il suo fidanzato. Feci di sì con la testa. La seduzione proposta continuava a svolgersi come un film nella mia mente – i finti sorrisi, il bacio ingannevole… — Conquista la fiducia di Jason Hancock — continuò Pavati. — Digli che non sei mai andato a pesca. Fatti invitare al lago. Chiusi gli occhi. — A quel punto, arriviamo noi — disse briosa. Mi immaginai loro tre trasformate che come squali giravano intorno alla barca, con i piccoli corpi che fendevano l’acqua, e scavalcavano furtive la battagliola. — E poi? — Implorerà misericordia. Ci chiederà perché — disse Tallulah con la sua voce squillante. — Noi ce la prenderemo comoda — sussurrò Pavati. — Diremo a Jason Hancock dell’incidente in barca di suo padre — disse Maris. — Gli racconteremo come nostra madre riuscì a salvarlo. — Pagando un caro prezzo — intervenne Tallulah. — Gli diremo che suo padre era debole. E che promise di darle suo figlio, in cambio della sua miserabile vita. Gli diremo che nostra madre acconsentì. Gli diremo che — continuò Maris parlando a denti stretti — Tom Hancock può non aver mantenuto la promessa, ma che lui, Jason Hancock, appartiene ancora a noi. — E lo trascineremo giù. — Tallulah mi appoggiò la testa sulla spalla. — Lentamente — aggiunse Maris. — Lasceremo che torni su a prendere aria, ma poi lo ritrascineremo giù. Scossi il capo. — E poi, ancora una volta — disse Pavati. La sua risata leggera mi fece venire la pelle d’oca sulle braccia. — Urlerà — dissi. — Attirerà attenzione indesiderata. — Fidati, fratellino — disse Maris. — Quando arriverà qualcuno, lui se ne sarà già andato da un bel pezzo. 4 LILY HANCOCK Maris imboccò una strada tranquilla di South Minneapolis, fece inversione e parcheggiò sul ciglio della strada, a pochi edifici di distanza da una casa a due piani in stile Tudor con il cartello VENDESI in giardino, e un furgone per i traslochi davanti all’ingresso. I miei occhi si concentrarono sul nome stampigliato sulla cassetta delle lettere: HANCOCK. — Coraggio — disse Maris. — Vediamo cosa ne pensi. Esitai. Non era proprio nel mio stile fare irruzione nelle altrui dimore. — Ascolta, fratellino. Se non lo scoprirai da te, mi toccherà starti a sentire mente ti lamenti finché non arriviamo a nord. Entra in quella casa. Controllali. Se non sei convinto che sia l’uomo giusto, allora… ce ne occuperemo quando sarà il momento opportuno. Le rivolsi un secco cenno del capo e scesi dall’auto. La strada era costeggiata da filari di aceri in fiore. A parte la frenetica attività del furgone dei traslochi, non si sentiva volare una mosca. Mi mossi di soppiatto lungo lo steccato dei vicini e lo scavalcai, atterrando silenzioso nel cortile degli Hancock. L’erba gialla mi scricchiolava sotto i piedi mentre mi avvicinavo lentamente alla porta di servizio. Aprii uno spiraglio e sgattaiolai dentro. Non ricordavo l’ultima volta in cui ero stato in una vera casa, ma la cucina – spoglia dei suoi arredi – era stranamente familiare, con le pareti gialle e il lavello argenteo. Ma mentre cercavo a fatica di recuperare dal buio qualche ricordo, fui travolto dall’odore della candeggina, che mi fece arricciare il naso. Mi intrufolai nelle stanze vuote, alla ricerca di indizi che confermassero che Maris aveva trovato i veri Hancock, ma dentro non c’era rimasto molto. Vicino alla porta d’ingresso c’erano alcuni scatoloni accatastati con scritto STAMPE E COSE DI MAMMA . Un altro scatolone, con l’etichetta ALBUM FOTOGRAFICI, mi fece fermare. Lo aprii con cura e sfogliai l’album in cima alla pila. Dopo tre pagine, trovai una foto di famiglia. Il padre mi fissava da quella felice composizione. Che fosse il figlio di Tom Hancock? Richiusi lo scatolone e andai alle finestre del salotto, mentre uno dei traslocatori spingeva una sedia a rotelle sullo scivolo del furgone. Un altro uomo dava istruzioni su dove metterla. Prima che potessi prendere in considerazione il secondo uomo, le assi di legno mi scricchiolarono sopra la testa. Sapevo che stavo tirando un po’ troppo la corda, ma la curiosità era forte. Avanzai furtivo lungo la parete, salendo con cautela, controllando ogni passo, evitando cigolii, finché non giunsi alla prima camera, sulla cui porta c’era ancora un cartello scritto a mano. LILY, diceva. All’interno si muoveva qualcuno, producendo tintinnii e lasciando cadere oggetti su una superficie dura. Sgattaiolai dentro e mi nascosi nell’armadio, in modo da non urtare le grucce di metallo e regolando le asticelle dell’anta con il dito. Mentre guardavo dalla fessura, i miei occhi guizzavano per la stanza. Segni profondi indicavano il punto in cui prima si trovava il letto. I muri erano rovinati da rettangoli più scuri e frammenti di nastro adesivo. La porta del bagno era socchiusa, e un’adolescente era china sul ripiano bianco, protesa verso lo specchio. “Deve essere Lily” pensai mentre la studiavo: altezza media, ricci biondo rame che le ricadevano morbidi sulla schiena. La ragazza avvicinò la punta di una matita nera all’angolo dell’occhio e tirò una grossa linea lungo le ciglia. Rise a un pensiero tutto suo e ripassò la matita per ingrossare il tratto. I miei occhi erano fissi sul suo fondoschiena, rotondo e attraente sotto una minigonna nera, e le budella mi si attorcigliarono come un serpente in un barattolo. La ragazza tornò nella stanza da letto, a pochissimi centimetri dal mio nascondiglio. Posò a terra una borsa di velluto verde e si sedette per allacciarsi gli anfibi malridotti, calzati sopra un paio di collant color prugna. I suoi colori vivaci e i capelli biondo rame mi ricordavano un dipinto a olio dell’epoca classica. Memorizzai ogni dettaglio, chiedendomi se dovesse essere lei il mio obiettivo, desiderando che fosse lei il mio bersaglio. Un cerchio della sua pelle sbucava sul ginocchio da uno strappo delle calze. Mi ipnotizzò. Grande quanto una monetina, come un petalo rosa brillante che galleggia sull’acqua invernale… Il flusso di elettricità schizzò dalle mie dita alle grucce di metallo, con uno lieve schiocco. Ci fu un lampo, e mi voltai di scatto. Ero ancora teso come una corda di violino. Dio, ma che ci facevo qui dentro? Regolai nuovamente le asticelle dell’anta per vedere meglio. Una ragazzina più bassa – sua sorella? – era ferma sulla soglia. Era più giovane di quanto mi aspettassi. Piccola, con riccioli biondi. Lo zaino rosa, parzialmente aperto, traboccava di libri e bambole. Storse la bocca e guardò la sorella. — Che ti sei messa? Sei proprio strana. La ragazza più grande arretrò ma non rispose. La più piccola si appoggiò allo stipite. — Mi hai sentito? — disse. — Che strana. Perché ti devi conciare in quel modo? Mi parve di vedere la sorella grande soffocare un sorriso. — Sai che ti dico? “Strana” è esattamente il modo in cui volevo apparire. Grazie, Sophie. — Se mi rovini la possibilità di farmi nuovi amici, io ti ammazzo. La ragazza più grande finì di allacciarsi lo stivale destro e questa volta sorrise per davvero. Sorrisi anch’io. C’era qualcosa nelle minacce di morte della più piccola che solleticava il mio lato più oscuro. — Allora cercherò di non farti diventare la reietta sociale di North Woods — disse. La più piccola emise uno sbuffo esasperato mentre l’altra si chinava per raccogliere un libro da terra. La camicetta si sollevò, mettendo a nudo la parte bassa della sua schiena. — Oh, mio Dio, Lily! Ma quello è un tatuaggio? Adesso lo dico a mamma e papà. La ragazza di nome Lily si abbassò la camicetta e si raddrizzò. Voltandosi verso la sorella, disse: — No, non glielo dirai. — Perché no? Mise le mani sulle spalle della sorella. — Perché non mi faresti mai una cosa simile, e io non la farei mai a te. Sophie Hancock abbassò il mento e guardò a terra. Attesi che scoppiasse a ridere e che corresse dai genitori. Invece, rimase ferma dov’era. Non capivo. Le mie sorelle avrebbero colto al volo l’occasione per rendermi la vita difficile. Persino Tallulah, in una delle sue giornate nere. — D’accordo. Non dirò niente. Ma tanto lo scopriranno lo stesso. Lily Hancock annuì. — Per allora, avrò trovato un modo per farglielo digerire. Sophie si voltò e la guardai andar via, analizzandola da un punto di vista strategico. Era più piccola, forse più facile da manipolare. Dovevo ripensare una nuova tattica. Adesso, a parte Lily Hancock, e me chiuso nell’armadio, la stanza era vuota. Si chinò di nuovo per prendere il libro da terra. Era enorme, con la rilegatura allentata e la copertina piena di crepe. Si aprì a una pagina bianca eccetto che per una scritta sbavata, in una calligrafia vistosa e svolazzante. Un sacrificio insignificante Per una persona amata quanto te. Dubitai che la destinataria di quel messaggio fosse lei. Forse era stato scritto prima della sua nascita. E non doveva avere più di diciassette anni. La ragazza accarezzò la scritta prima di richiudere delicatamente la copertina e di sfiorare il dorso. Riuscii a vedere il titolo prima che lo mettesse nella borsa: Antologia dei poeti vittoriani. Caspita, era un libro antico. Cosa le piaceva di quella roba vecchia? Le mie riflessioni furono interrotte da una donna che chiamava dalla tromba delle scale, così trasalii di nuovo, rischiando di svelare la mia presenza. — Lily, tesoro? — chiamò. — Sei ancora lassù? È ora. Ti stiamo aspettando. — Arrivo, mamma. — Lily Hancock si sistemò la coda di cavallo. Abbottonò il gilè di broccato nero che accentuava la sua forma a clessidra, poi si mise la borsa di velluto a tracolla. Dopo aver gettato un ultimo sguardo alla stanza, si diresse alla porta. Un clacson suonò proprio mentre i suoi piedi varcavano la soglia. — Insomma, ho detto che arrivo. E che diavolo! Quando gli anfibi di Lily toccarono le scale, mi mossi per uscire dall’armadio. Ma dovetti nascondermi di nuovo quando la ragazza tornò all’improvviso per staccare il cartello LILY dal chiodo sulla porta. Rimase a guardare la maniglia chiusa per troppi secondi prima di scendere con passi pesanti le scale. A questo punto, non so cosa fosse più assordante: la porta di casa che sbatteva o il cuore che mi martellava in petto. Andai alla finestra e appoggiai la fronte sul vetro. Di sotto, gli Hancock caricavano le ultime piccole scatole nel SUV. Il padre aiutò la madre a sedersi, assicurandosi che stesse comoda, e le passò un bastone da passeggio. Non erano esattamente felici di andarsene. Si vedeva benissimo. Le loro aure erano del tutto sfasate. Ansia, forse. Questo potevo immaginare, a giudicare dalla luce verde smorto che avvolgeva l’auto. Mi chiesi se fossero coscienti di ciò a cui andavano incontro. Conoscevano la vera storia della famiglia Hancock? Se Maris aveva ragione, le ragazze sapevano che il loro padre era in pericolo? Me la svignai giù per le scale, uscendo dalla porta sul retro. Il cane di un vicino mi inseguì, con un ringhio che gli gorgogliava nel petto. Lo guardai negli occhi e pensai: “Vattene subito!” Il cane abbaiò e corse via, lasciandomi alla ricerca di un posto da cui spiare. — Si parte — disse l’uomo al volante, ma senza ingranare la marcia. — Non riesco a crederci. Finalmente me ne vado. — Sobbalzai al suono della sua voce, attutita dai vetri chiusi della macchina, ma ugualmente nitida per poterla udire. Da dietro un albero, ascoltai la loro conversazione. Quante volte mi ero immaginato Jason Hancock – la sua figura che mutava di anno in anno, mentre da neonato diventava ragazzo e poi uomo? Il suo volto, i suoi capelli… la sua voce. Non me l’ero mai immaginata tanto delicata. — Sarà un bene per tutti noi — disse. Non ero sicuro di chi cercasse di convincere. — Soltanto un cielo azzurro, aria pulita, acqua cristallina… — A questo punto, si interruppe e la famiglia attese in silenzio che riprendesse a parlare. Invece, tacque; così Lily Hancock si sporse in avanti e appoggiò il mento sullo schienale del sedile. — L’acqua ce l’abbiamo anche qui, papà. Minneapolis, la città dei laghi. Ti dice niente? — Non essere impertinente! — le disse sua madre. — Ma non è la stessa cosa — ribatté Jason Hancock, scuotendo la testa. — Il Lago Superiore sembra più un oceano. Vedrete. — Lo so — disse Lily, forzando un sorriso. — Mi dispiace. — Mise la mano sul sedile del padre. — Sarà fantastico, ragazzi. La signora Hancock le accarezzò la mano, per rassicurarla. Lily si girò verso il finestrino e i suoi occhi grigi si trovarono in linea con i miei. Per un istante, pensai che mi avesse visto. Mi rintanai dietro l’albero e contai fino a cinque prima di sporgermi un’altra volta. Quando lo feci, lei aveva smesso di guardare dalla mia parte; stava scorrendo le canzoni sul suo lettore MP3 e stava infilando gli auricolari nelle orecchie, con un’espressione di paziente resa sulla faccia. Jason Hancock fece retromarcia. Quando tornò a guardare dritto davanti a sé, ne studiai i lineamenti. Aveva sicuramente un’aria familiare. Il vecchio Hancock non l’avevo mai conosciuto, ma avevo visto il suo volto nei pensieri di mia madre in punto di morte: Tom Hancock che scappava con la sua famiglia, privandola della giovane vita che le aveva promesso; lei in corsa sulla riva, all’inseguimento della sua auto sul lungolago. I pezzi del mosaico si incastravano alla perfezione. Quest’uomo, a differenza degli altri che mi avevano mostrato le mie sorelle, era effettivamente il figlio di Tom Hancock. Non avevo dubbi. Le mie dita si piegarono, quindi si chiusero in un pugno. Il SUV passò davanti alle cassette delle lettere, puntando verso la strada. Allo stop, Hancock inserì la freccia e svoltò a destra. Maris diede due colpi di clacson. Le feci un gesto sconcio e tornai di corsa alla macchina. Tallulah aprì lo sportello e le scivolai accanto. — Allora? — chiese Pavati. Si attorcigliò un ricciolo nero intorno al dito indice, con gli occhi lavanda, appassionati e nervosi, puntati nello specchietto retrovisore. — Allora? — ripeté Tallulah. Guardai le labbra di Maris tendersi in una lunga linea retta. Gli occhi erano d’argento, entità senza anima. Per quanto fossi anch’io ansioso di mettere fine a questa ossessione per gli Hancock, lei era la più maniaca di tutti. Presi in considerazione la possibilità di giocare con i suoi nervi, ma ebbi un inaspettato moto di compassione. — D’accordo. Sono convinto. Le ragazze proruppero in uno scroscio di risa che mi fece trasalire. Quando si trattava del risultato che tanto volevamo ero dalla loro parte, ma non riuscivo ancora a condividere i loro metodi. Certo, avevo immaginato molte volte di uccidere Hancock, ma non era mia intenzione prolungare la tortura. Soprattutto se non sapeva nulla della promessa fatta dal padre. Comunque, nonostante ignorasse tutto, noi dovevamo pur sempre ammazzarlo. Ma senza farlo soffrire. E più ci pensavo, più mi convincevo che Hancock non sapesse nulla. Perché altrimenti si sarebbe trasferito di nuovo sul lago con la famiglia? — Lui non sa niente — sghignazzò Maris. Io annuii. Il fatto che non sapesse nulla rendeva le cose più facili. Anzi, sembrava tutto un po’ troppo facile. Forse era questo che mi metteva addosso un certo nervosismo. Se ci fossimo rilassati troppo, se avessimo dato troppo per scontato, avremmo commesso degli errori stupidi. Maris ingranò la marcia e mandò su di giri il motore; le gomme scricchiolarono, lasciando lunghi segni neri sulla strada altrimenti tranquilla. 5 IL VIAGGIO La luce e l’ombra guizzavano come fiamme sotto le mie palpebre mentre sonnecchiavo sul sedile posteriore dell’Impala. Non ero molto curioso di sapere dove ci stesse portando Maris. Eravamo creature abitudinarie. Tempo pochi minuti e saremmo stati al fiume Gorge, sotto il vecchio mulino di Pillsbury. Avremmo lasciato l’auto e seguito il Mississippi verso sud, fino al punto in cui confluisce il fiume Saint Croix, poi verso nord fin dove possibile. Avremmo macinato a piedi l’ultima trentina di chilometri fino al Lago Superiore. Feci un respiro assonnato e lasciai che Tallulah mi sprofondasse accanto; qualche minuto dopo, però, Maris interruppe quell’attimo di piacere fermandosi di colpo in un parcheggio. Andai a sbattere contro il suo poggiatesta. Tallulah si tirò su a sedere e, per un istante, restammo tutti a guardare fuori dal finestrino. Dall’altra parte del fiume, la città di Minneapolis brillava di freddo vetro e acciaio, gli edifici stretti fra loro quasi fossero alla ricerca di un po’ di tepore. Mi trascinai giù dalla macchina e seguii le mie sorelle lungo il sentiero tortuoso che passava sopra i ponticelli traballanti. Maris portava la nostra borsa ed era in testa al gruppo. Arrivati in fondo, i miei piedi sprofondarono nel suolo saturo. Un airone blu tentava di guadare le secche sotto il ponte di Stone Arch. Dopo le piogge invernali, il fiume era così gonfio da ricoprire i tronchi degli alberi sulla sponda. A parte gli uccelli, in giro non si vedeva nessuno. Ottimo. Era impossibile denudarsi in pubblico; per non parlare del processo di metamorfosi. Maris si passò la borsa sopra la testa e la posò a terra accanto a sé. Entrò nel fiume. L’acqua le lambiva le caviglie. Spinse in avanti le spalle e si incurvò. La lunga gonna di Pavati si trascinava nell’acqua. Al centro del fiume c’era un’anatra che allungava il collo e si scuoteva il freddo di dosso. Catturò la mia attenzione. Se le anatre potessero lamentarsi… — Sapete che vi dico? Lasciamo stare — dissi. — Non lo faccio. Non così presto. Non esiste. Tallulah rimase sbigottita, mentre Maris e Pavati si voltarono lentamente a guardarmi. — Se solo non avessi fretta… Credi che aspettare ancora qualche settimana ti ucciderà? — Odiavo comportarmi in modo infantile, ma odiavo anche il freddo. Insomma, il freddo lo odiavo sul serio. Maris alzò le sopracciglia come a dire che i ragazzi grandi non dovrebbero comportarsi in questo modo. — Fa sempre freddo — disse. — Davvero? Hai mai nuotato in questo fiume, in questo periodo dell’anno? — Indicai concitato il corso d’acqua gonfio. Maris mi guardò come se fossi un bambino petulante. — Quando si tratterà di Hancock farò tutto quello che dici, ma in questo fiume io non ci metto piede, Maris. Puoi riportare le mie chiappe a nord. Tallulah si sporse verso di me, appoggiandomi la mano sui reni. — Oh, dai — disse a Maris. — Credo che in questo momento ci serva un compromesso. E tenere l’auto potrebbe tornare utile. Pavati guardò Maris per avere indicazioni, e Maris soppesò l’espressione implorante di Tallulah. Capitolò con un cenno del capo, e Pavati fece spallucce. Si strizzò l’acqua dalla lunga gonna e raccolse la nostra borsa. Tornammo alla macchina e quando Maris la fece partire con uno scatto, Tallulah appoggiò la testa al finestrino e disse: — Vacci piano — anche se non era chiaro a chi fosse destinato il suo rimprovero. Un flusso di oscenità sgorgava sottovoce, costante, dalla bocca di Maris. Non avrei mai vinto questa battaglia senza Tallulah, cosa che aveva messo Maris di pessimo umore. Per fortuna, aveva deciso di riservarmi il suo silenzio. Ottimo. Mi dava il tempo per riflettere. Pavati mi passò una scatola di cracker e una bottiglia d’acqua, e a fior di labbra le dissi: — Grazie. — Erano ormai passate ventitré ore dal momento in cui mi ero immerso l’ultima volta, e avevo bisogno di trattenere più umidità possibile. La pelle si stava già tirando intorno agli zigomi. Misi la scatola di cracker fra le ginocchia, affondai la mano distratto e iniziai a bere avidamente. La prima decisione: a quale sorella Hancock sarebbe stato più facile arrivare? Quale di loro era più legata al padre? La minore era piccola di corporatura, forse debole. Mi tornò alla memoria ciò che aveva detto alla sorella, che voleva farsi dei nuovi amici. Io potevo essere uno di loro. Ma forse sembravo troppo maturo. Lo scopo era avvicinarla, non respingerla. Secondo i criteri degli umani avevo circa diciotto anni, quindi sembravo più vicino all’altra sorella, per l’età. “Lily” pensai, immaginandomi il cartello sulla porta. Sarebbe stato più sensato, e lei era sicuramente la più affascinante tra le due. Inoltre, era abbastanza grande perché potessi impiegare con lei i miei metodi più evoluti. Immaginai le mie dita scorrerle sul collo, sulla spalla, sul braccio, mentre le cingevo la morbida vita. Ingoiai il groppo che mi stava salendo in gola. Ma lei era davvero così legata al padre da portarmi da lui? Le preferenze personali passavano in secondo piano rispetto agli aspetti pratici. Decisi, dunque, di dedicarmi alla sorella minore. Ci avrei scommesso qualunque cosa: era lei la cocca di papà. E sarebbe stato anche più facile manipolarla. Sorrisi compiaciuto. Non sapevo nulla su Pavati e i suoi metodi con gli umani, ma avevo anch’io i miei trucchetti. Avrei fatto il fratello maggiore. Trovato un interesse comune. Le bambole? Sbuffai e Tallulah si tirò su a sedere velocemente per vedere cosa non andasse. — Va tutto bene — le dissi. Un istante dopo, il cellulare cominciò a vibrarmi in tasca. Lo presi e vidi un messaggio di Tallulah. Mi guardò inarcando le sopracciglia e io le scoccai uno sguardo perplesso. LU: Vuoi parlare? La guardai di nuovo e lei rovesciò maliziosa la testa in direzione di Maris. Oh. Ecco, dunque, di cosa si trattava. Davvero non avevo voglia di parlare di me e Maris. Tallulah avrebbe cercato di distogliermi dall’argomento. CALDER: Nn mi farai cambiare idea. LU: Nn posso nemmeno provarci? CALDER: Tu nn sai com’è. LU: Scommettiamo? CALDER: x te è un’altra cosa – Io SONO diverso. LU: Nn ti ho mai visto come 1 diverso. Solo Maris. Devi smetterla di pensarla così. CALDER: Troppo tardi, nn importa +. Mi offre una via d’uscita. Accetto. Tallulah si voltò di nuovo verso il finestrino e appoggiò la testa al vetro. La strada procedeva dissestata verso nord attraverso le sonnolente cittadine del Wisconsin – alcune poco più grandi del loro nome scritto sui cartelli – e superando campi di grano arati, negozi di articoli per la caccia e caseifici. Il cellulare vibrò di nuovo. Nn xmettere a Maris di avere tanta influenza su di te. Nn puoi farcela da solo. CALDER: Aspetta e vedrai. LU: Quindi, cosa…???? Dopo l’estate resterai alle Bahamas x tutto l’anno? CALDER: Hai 1 idea migliore? LU: Sì. Una. Resta con noi. : ) LU: CALDER: Lascia perdere. >: ( Tallulah si chinò e si mise il telefono fra le ginocchia. I pollici volavano sulla tastiera. LU: Non tornerai più? CALDER: L’idea è questa. LU: A ME NON PENSI? CALDER: ????????? LU: Fanculo, Calder. CALDER: Puoi venirmi a trovare. Tallulah si sedette dritta, accigliata, e mi diede un pizzico sul petto. Forte. Sapevo di essere stato ingiusto. Si sarebbe sempre sentita costretta a seguire Maris nella migrazione a nord, proprio come me (per adesso). Forse era la mentalità del gruppo così comune nei pesci. Forse, si poteva chiamare in molti altri modi. Per me, poco importava. La verità è che era tutta una schifezza. Cinque ore dopo aver lasciato Minneapolis, intravedemmo il primo scorcio del Lago Superiore, quello che gli antichi chiamavano il Grande Gitche Gumee. Dovevo ammettere che era un sollievo essere arrivati a destinazione; un senso di ritorno a casa e di completamento che nessun altro corso d’acqua avrebbe mai potuto procurarmi. I volti delle mie sorelle esprimevano lo stesso entusiasmo e la stessa speranza. Pavati tremava con il palmo schiacciato sul vetro; le nocche di Maris sbiancarono sul volante. Tallulah abbassò il finestrino e piegò la testa al vento. Restavano ancora poche ore di luce quando arrivammo a Bayfield. Quasi tutti i giardini erano una macchia gialla di narcisi, e molti negozi erano ancora chiusi per la stagione. Maris parcheggiò vicino ai giardinetti in fondo a Dock Road. Il sole era sospeso sugli alberi come un’arancia matura. Inspirai e assorbii gli odori familiari del mio nuovo ambiente: pesce marcio, griglie al carbone, e linfa di pino. Dall’odore si intuiva che il canale non si era congelato del tutto durante l’inverno, ma la temperatura era sicuramente glaciale; addirittura più bassa di quella del Mississippi. Il vento che soffiava me lo garantiva. Non dovevo guardare Maris per capire che il mio senso di disagio le procurava un godimento immenso. Ormai ero a corto di scuse. Il traghetto delle cinque e mezzo per l’isola di Madeline era a metà del canale. La stagione era appena agli inizi, così poche persone stavano facendo la traversata, con le auto sormontate da portabagagli e kayak. I passeggeri erano in piedi, lungo il parapetto del ponte superiore, stretti nelle loro giacche a vento. Restammo a guardare dalla macchina, resistendo al fascino onnipresente dell’espressione felice degli umani e al bagliore color lampone che delineava la sagoma del traghetto. — Pazienza — disse Maris. — Restiamo concentrati su Hancock. Quest’estate dovremmo darci una regolata. Non voglio che accada nulla che lo metta in allarme. Annuimmo. Era impegnativo. Mantenere la concentrazione sull’obiettivo era il Compito Numero Uno. Mi pentii di non avere ucciso nessuno quando ero ancora alle Bahamas. Era uno stupido esperimento – vedere per quanto tempo avrei resistito – e cosa avevo ottenuto? Alla fine, niente. I fili troppo familiari della depressione cominciavano già a tirarsi nelle vene. Avrei potuto ricorrere alla dose emotiva garantita da una vita umana; in particolare adesso che ero bloccato con Maris ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. Chiusi gli occhi, escludendo i passeggeri del traghetto dalla mia vista, mentre ripetevo il mantra: “concentrati, concentrati, concentrati.” 6 TRASFORMAZIONI Restammo seduti per più di due ore nell’auto parcheggiata, a guardare fuori dai finestrini, quasi senza parlare. Ogni tanto uno di noi lanciava un’occhiata a Maris, per sapere se fosse il momento più sicuro per uscire. Avevo i muscoli tesi in previsione del trauma, ma a questo punto il mio corpo desiderava l’acqua, a prescindere dalla temperatura. Erano passate trenta ore dalla mia ultima immersione. Era una situazione nuova per me, e Maris mi studiava incuriosita dallo specchietto retrovisore. Ai miei piedi c’erano una decina di bottiglie d’acqua vuote. Ne avevo bevuto solo metà; il resto l’avevo versato direttamente sulla pelle. Fuori dal mio finestrino, alcune barche a vela coperte stavano all’asciutto. Fissavo il nome su una delle prue scoperte. KISMET. Era quella? Da quando, piccolissimo, ero caduto dalla barca dei miei genitori, mi ero sforzato di ricordarne il nome. All’epoca non sapevo leggere e questo rendeva ancora più difficile ricordare. Il mio unico ricordo era la forma vaga delle lettere. Forse una K? Oppure una R? Al contrario di me, le mie sorelle erano nate così. Invidiavo le loro menti tranquille, che non si opponevano mai alla loro natura, che non avevano mai l’assillo di un dubbio. Quando il cielo si oscurò, infine, Maris fece un cenno e ci precipitammo tutti fuori dall’auto. Era la sera di un giorno feriale e il parco era finalmente deserto. Tuttavia, non potei fare a meno di guardarmi alle spalle per assicurarmi che fossimo soli. Le ragazze non se ne preoccuparono. Si stavano spogliando, infilando i loro vestiti e i cellulari sotto il sedile della macchina. Maris afferrò la sacca di tela e se la mise a tracolla sul petto nudo. — Ti abituerai, Cal — disse Tallulah; nel suo tono freddo si sentivano ancora gli scampoli dei nostri ultimi messaggi. — Ti abitui sempre. Pavati mi fece l’occhiolino. — Nuota veloce. Ti scalderai. Eravamo tutti nudi, ora. Il vento mi fece drizzare i peli sulle braccia. — Provate a prendermi — dissi. Corsi sull’erba fino al molo, saltai sulla balaustra e mi tuffai, staccando le mie sorelle di appena mezzo secondo. Mentre fendevo con le mani il superficie del lago, la temperatura gelida mi tagliò la pelle, come migliaia di lame. Il cuore si contrasse e feci una smorfia di dolore. Fiori bianchi di luce brillante sbocciarono nel mio campo visivo. L’acqua mi riempì le orecchie con un fischio metallico. Freddissima, mi invase i polmoni e feci il mio primo respiro profondo dopo quelli che mi erano parsi secoli, gustandone la pienezza. Nonostante il cielo notturno, sotto la superficie la luce rimbalzava e giocava tra le dita e intorno alle braccia. Mi accorsi appena della mia temperatura corporea: si era abbassata per corrispondere a quella del lago. Arrendendomi all’inevitabile, rilassai i muscoli e mi spinsi a gambe unite, con un movimento fluido, godendomi la sensazione di scioglimento che vibrava e pulsava, mentre il fremito del cambiamento mi invadeva il corpo. Le cosce prima mi pizzicarono, poi mi bruciarono, con la metamorfosi che avanzava, annodandomi le ossa, lacerandomi la pelle con le squame e la pinna. Come sempre, Pavati si trasformò prima di tutti e schizzò in avanti con una velocità notevole. La sua coda blu cobalto mi balenò in faccia. — Esibizionista! — scherzai, e sentii una risata sottile in risposta. Tallulah mi nuotava accanto, aspettando che finissi la trasformazione. Un anello metallico argentato le comparve intorno al collo, così come sapevo sarebbe comparso sul mio. La sua metà inferiore era già coperta di squame, simili a lustrini d’argento. Maris ci sfrecciò vicino senza degnarci di uno sguardo; la sua coda snella color onice non era più di un’ombra. Le ragazze si trasformavano sempre prima di me. Erano nate così; in più, non si spingevano mai tanto a sud come me. I loro corpi non impiegavano mai molto ad acclimatarsi. Il mio corpo si gonfiò e con un forte colpo delle gambe la mia coda si era formata del tutto. Assaporai la libertà – ero più che mai vicino a essere felice – e schizzai come un missile nell’acqua sempre più profonda. Tallulah e io avanzammo sul fondale sabbioso, alla ricerca di eventuali pericoli. Era ancora troppo presto perché ci fosse abbastanza vegetazione, così ci tenemmo lontani dalla rotta del traghetto. Sarebbe bastata una sola persona affacciata sul ponte per far scoppiare uno scandalo. Di solito, questo voleva dire più scocciature per il testimone che per noi. La gente non vedeva di buon occhio gli avvistamenti di sirene. Ma non c’era bisogno che alle orecchie di Hancock arrivassero queste voci; soprattutto nella remota eventualità in cui conoscesse la storia di suo padre. Mentre fendevo l’acqua buia, costellazioni di minuscole particelle mi scorrevano intorno. Alle mie orecchie piacevano gli schiocchi delle trote di lago e le intense vibrazioni delle barche in lontananza. Schizzai oltre alcuni tronchi sommersi per rincorrere uno storione. La sua pelle ruvida mi ricordava gli squali tigre con cui avevo giocato solo il giorno prima. Gli passai le dita sulla testa piatta e sulla schiera di bitorzoli spinosi del dorso. Era giovane, grande appena la metà di me. Tallulah mi tirò per un braccio, trascinandomi in un’altra direzione. Distolsi gli occhi dal mio pesce e capii per quale motivo: una fila di reti lungo la costa. Con un colpo di coda, smuovendo la sabbia e spaventando lo storione, avanzai in senso perpendicolare rispetto alla rotta originaria. Tallulah non si staccò mai dal mio fianco. Seguimmo la linea distante dell’Isola di Madeline, superandone la punta settentrionale. Tallulah mi guardò scherzosa, sfidandomi a una gara. Girammo intorno a Madeline per due volte prima di dirigerci verso il punto in cui eravamo soliti campeggiare sull’Isola di Basswood. Avrei voluto nuotare ancora un’ora – diamine, per quanto si era inaridito il mio corpo avrei potuto nuotare tutta la notte – ma seguii la scia di Tallulah, perché se il giorno seguente avessimo lanciato l’Operazione Hancock, avrei avuto bisogno di dormire. Dopo pochi minuti, il familiare terreno roccioso di Basswood ci venne incontro, dandoci il benvenuto a casa. Quando l’acqua fu troppo bassa per nuotare, cercammo un’insenatura tra le rocce e un punto sabbioso dove poterci trasformare. Per la prima volta, Tallulah si allontanò da me, concedendo a entrambi lo spazio di cui avevamo bisogno. Costringere i nostri corpi a tornare in forma umana era una cosa schifosa, e tanto. Da bambini, lasciavamo di rado l’acqua; di solito, il cambiamento ci faceva vomitare sulla sabbia. In questi giorni, il peggio che mi capitava erano i conati secchi. Quando le ossa iniziarono a dividersi, inarcai la schiena e mi preparai al dolore. Contorcendomi nella sabbia, mi morsi il labbro fino a sentire il sapore del sangue e iniziai ad ansimare; i respiri irregolari mi bruciavano i polmoni. Un minuto dopo, l’ultimo tremore mi percorse fino alle dita dei piedi, mentre sputavo e tossivo. Tallulah guardò in basso, verso di me, mentre mi passava accanto. Strizzò l’occhio alla mia vulnerabilità, un risultato inevitabile ora che mi trovavo nudo, incapace di correre. Alzai gli occhi per guardare l’acqua che le scorreva lungo le braccia in piccoli rivoli, cadendo dalle dita. Le sue gambe nude erano arrossate per il trauma recente. Dopo un altro minuto, il mio respiro si regolarizzò e mi trascinai sulla sabbia asciutta; ritrovai le gambe e mi diedi una spinta per alzarmi. Le mie sorelle sedevano sulla spiaggia, indossando gli stracci di cotone ingiallito che avevano tirato fuori dalla sacca di Maris. Gli anelli argentati stavano già scomparendo dai loro colli. Pavati mi lanciò un paio di calzoncini logori, mentre alimentava il piccolo falò con la legna trasportata dalla corrente. Su uno spiedo, Maris aveva infilzato il mio amico storione. 7 IL TRASLOCO Il mattino dopo, mi svegliai prima delle ragazze. Per alcuni minuti restai sdraiato sulla sabbia, in silenzio e senza muovermi, la schiena contro un masso, la pelle fresca all’ombra delle querce, mentre il cervello cercava di ricordare dove mi trovassi. I discorsi del giorno precedente iniziarono a farsi strada nella mia coscienza. Maris si rigirò nel sonno e mormorò qualcosa di incomprensibile. Mi alzai e lei rotolò nel posto che avevo appena liberato. Bisbigliò di nuovo: — Avrebbe dovuto tornare. Con un calcio sollevai la sabbia, che le sporcò le gambe. — Sono tornato. Smettila, Maris. — In risposta, gemette e si raggomitolò. Il sole stava sorgendo e lanciava raggi di luce rosata sulle guglie e sui dettagli di pan di zenzero degli edifici più antichi di Bayfield. Strinsi i denti in vista del lavoro che mi aspettava. Sapevo cosa dovevo fare. Ma per quanto fossi ansioso di affrancarmi da Maris e dalla mia famiglia, la priorità principale sarebbe stata il cibo, una montagna di cibo. Anche a questa distanza riuscivo a sentire l’odore del lievito e della pancetta che si spandeva in aria dai vari caffè della città. Buttai i calzoncini tra i cespugli e lasciai un biglietto per le mie sorelle nella sabbia: sto lavorando per voi. Tre passi lunghi e mi tuffai nel lago, nuotando nella scia di sole fino a raggiungere l’acqua alta. Contai i secondi in silenzio, mentre avveniva la trasformazione. Fu più rapida della sera prima, ma diamine, dovevo lavorare ancora molto sui tempi. Una barca da pesca mi passò sulla testa e approfittai dello scafo per nascondermi. La sua ombra era larga e profonda, e riuscii a seguirla fin dentro Bayfield. Quando virò a sud lungo la costa, sgusciai sotto il molo, per arrampicarmi sulle rocce appuntite. Il mio respiro usciva in sbuffi grigi e ghiacciati, e chiusi gli occhi di fronte ai fili delle vecchie ragnatele che orlavano il fondo del molo. Contorcendomi, il recente taglio sulla spalla, che aveva appena iniziato a rimarginarsi, si riaprì. L’odore dei panini alla cannella era l’unica distrazione dal dolore. Quando passò tutto, mi trascinai sulla riva, cercando di cogliere le voci, sentire se c’era qualcuno nei paraggi, quindi spalancai la portiera dell’Impala e scivolai all’interno. I pantaloni e la maglietta erano piegati sotto il sedile, dove li avevo lasciati la sera prima. Me li infilai a fatica sul corpo umido e aggiustai i capelli, fino a ottenere uno stile volutamente spettinato. Incontrare gli Hancock significava avere un’aria presentabile o, in altre parole, stare in piedi su due gambe, essere in ordine e, soprattutto, affabile. Girai la chiave e l’auto tossì e sbuffò prima di accettare di muoversi. Andai dritto al Blue Moon Cafe, con il suo profumo intenso di burro fuso e caffè che filtrava dalla porta a zanzariera color blu vivo. Davanti alla vetrina dell’ingresso apparve una donna dall’aria materna; attaccò al vetro il cartello CERCASI PERSONALE. Quando si ritrasse, entrai e mi riempii le braccia dei muffin del giorno prima da un cestino sul bancone di marmo. Quando stavo per girarmi, la donna tornò indietro. Beccato. — Oh-oh. Chi abbiamo qui? — Appoggiò sul banco due scatole bianche di cartone e mi studiò con un sorriso divertito. Il nome Hancock era scritto a pennarello nero sulla scatola in cima al mucchio. Lasciai cadere la refurtiva nel cestino e dissi: — Mi scusi. Rise e consultò una lavagna attaccata alla parete. Sembrava una lista di cose da fare, con poche voci già spuntate. — Lieta di conoscerti, Mister Mi Scusi. Sono la signora Boyd. — A dire il vero, mi chiamo Calder White, signora, e mi dispiace tanto. — Abbassai la voce e la guardai, fissandola negli occhi; cercai di trasferire la mia volontà nella sua mente, rendendo i miei pensieri suoi. Provai a richiamare immagini che mi facessero sembrare affidabile: c’ero io, strizzato in uno dei suoi grembiuli azzurri, intento a lavorare alla cassa. — Sono al verde — dissi — ma qui c’è un profumo incredibile, non ho saputo resistere. Le sue pupille si dilatarono e ridacchiò amichevolmente. — Ho appena sfornato una teglia di muffin. — Posò una mano sulle scatole. — Devo consegnarli alla vecchia casa degli Hancock. — Capisco. — In questo momento, mio marito Bill è da loro per spostare un po’ di roba pesante. Stavo appunto per raggiungerlo con i dolci. Sai cosa ti dico? Portaglieli tu; ne aggiungo un paio per te. — Affare fatto. — Aspetta, ti scrivo l’indirizzo. — Prese una penna e strappò un foglio dal libretto delle ricevute. — So dov’è. Alzò lo sguardo, con gli occhi ancora spalancati. — Sai dove devi andare? — Esatto. — Sollevai le scatole e mi voltai in direzione della porta. Peccato che Maris non mi avesse visto in azione. Mi sarei conquistato una notte senza i suoi rimproveri. Avevo mandato giù i due muffin prima ancora di raggiungere il limite nord della città, correndo il più veloce possibile. Dopo circa un chilometro, rallentai fino ad andare quasi a passo d’uomo e contai i boschetti di betulle… Tre, quattro, cinque… Finché non comparve il vialetto a me noto. Era come lo ricordavo, uguale a quarant’anni prima, con una vegetazione più fitta, però. Erbacce gialle calpestate e rimasugli di neve si aggrappavano ai bordi della strada. Nei solchi delle ruote si aprivano piccole buche. Passai lentamente sui dossi naturali fino ad arrivare alla casa degli Hancock: due piani di assi scrostate, con un tetto a punta e un piccolo portico buio che sprofondava al centro. Sotto la punta del tetto, appena sopra il portico, c’era una finestra quadrata. Un abbaino sul lato destro della casa si affacciava sul lago. Le finestre del primo piano erano chiuse con il compensato. Le tegole giacevano in cortile, anziché sul tetto. Il tempo non era stato clemente. Lì vicino, Hancock stava ridendo e dispensava pacche sulle spalle agli uomini che lo aiutavano, lanciando sguardi di scuse alla moglie, appoggiata a un bastone. Per l’omicidio di Jason Hancock sua moglie sembrava la miglior candidata a battermi sul tempo. Parcheggiai sul margine più distante, graffiando la portiera del passeggero con i rami degli alberi. Un corteo di uomini, donne e pochi bambini portava scatoloni in casa, tornava a mani vuote, solo per prendere un altro carico e ripetere il viaggio. Diverse persone indossavano le felpe del Northland College, anche se l’età del college l’avevano superata da un bel pezzo. Colleghi? Hancock era un professore? Non lo avevo mai considerato nient’altro che una preda. Qualcuno aveva già faticato abbastanza da togliersi la felpa e lasciarla sul retro di un furgone. La presi e, anche se mi andava un po’ stretta, riuscii a infilarmela lo stesso. La figlia più piccola degli Hancock scese con attenzione i gradini del portico, schivando un pericolo che io non riuscivo a vedere. Forse una tavola rotta? Sembrava ancora più giovane di quanto ricordassi. Che ruolo avrei potuto avere per lei? Insegnante? Eroe? Eroe, forse, sarebbe andato bene. Avrei potuto attirarla nel bosco, dove si sarebbe persa al momento giusto. Dopo una ricerca infruttuosa, sarei comparso con lei tra le braccia. In questo modo mi sarei guadagnato almeno una dimostrazione di gratitudine. Per esempio una gita a pesca sul lago. Come avrebbe potuto rifiutarsi, Jason Hancock? Lily Hancock uscì poco dopo, indossava la stessa minigonna di velluto del giorno prima, un cardigan rosa e un basco giallo. Sorrisi al ricordo della reazione della sorellina a questo abbinamento. Lily si fermò sul portico e posò una mano sulla balaustra. Ne saggiò la resistenza, ma la balaustra oscillò. I suoi occhi scrutarono il soffitto del portico. Percorsi il vialetto che conduceva alla casa, con le scatole di muffin in mano. Dal lago soffiava una brezza fresca. Lily si pulì le mani sulla gonna e si abbassò il cardigan. “Non ha ancora mostrato il tatuaggio” pensai. Sophie mi notò subito e sorrise. Mi corse incontro per salutarmi ma Lily restò sui gradini, pietrificata. Per un istante pensai che mi avesse riconosciuto. — Sei qui per aiutarci? — chiese Sophie, la voce acuta e speranzosa. Con la coda dell’occhio vidi che Lily assisteva sbalordita al mio scambio di battute con sua sorella. Un’altra ragazza raggiunse Lily sui gradini. Tesi le orecchie nello sforzo di ascoltare in lontananza la loro conversazione, mentre parlavo con Sophie. — Sono qui per consegnare i muffin — dissi — ma sarò lieto di darvi una mano. — E quello chi è, Gabrielle? — chiese Lily. — Bene, li porto dentro. Tu puoi cominciare a prendere qualcosa dal furgone — disse Sophie. Prese i dolci e si diresse verso casa. La ragazza vicino a Lily bisbigliò: — Non l’ho mai visto prima, ma se al college mi aspettano ragazzi come lui, non vedo l’ora di andarci. Guarda i capelli. E poi, mio Dio, hai visto che braccia?! Anche se è ha la felpa, si vede che va in palestra. — Va bene, mi metto al lavoro — dissi a Sophie. — Lo trovi bello? Forse. Ma quell’abbronzatura non se l’è certo fatta da queste parti — disse Lily. — Chissà da dove viene… Jason Hancock comparve sull’altro lato del furgone. Guardò in direzione di Lily e seguì i suoi occhi fino a me. I nostri sguardi si incrociarono e io strinsi i denti. Per parlare, fui costretto a rilassare la mascella. — Salve — dissi con finto entusiasmo. — La signora Boyd mi ha mandato a consegnare la colazione per i ragazzi. Pensava anche che avrei potuto darvi una mano. — La voce mi tremò e mi schiarii la gola per riacquistare il controllo. Un attimo dopo la signora Hancock girò intorno al veicolo, camminando cautamente sul terreno irregolare con l’aiuto di un bastone. — Grazie mille — disse Hancock. — Mi chiamo Jason Hancock. Lei è mia moglie, Carolyn. Hancock si sporse per stringermi la mano ma, per fortuna, avevo appena afferrato uno scatolone. Non ero sicuro di poter sopportare alcun contatto fisico. Ero già al mio limite massimo. — Calder White — dissi. — Piacere di conoscerti, Calder White — disse la signora Hancock. — È molto gentile da parte tua volerci aiutare. Sa il cielo quanto ne abbiamo bisogno. — A questo punto rise, la voce lieve e tintinnante. Mi sarebbe piaciuto stringerla a lei, la mano. — Conosci le nostre figlie? — mi chiese Hancock. — Lily è la maggiore. — Fece un cenno verso il portico e Lily sollevò incerta una mano. — Sophie è appena corsa dentro. Questa era la casa dei miei genitori. Annuii e mi sforzai di sorridere. — Immagino di non essermi reso conto delle condizioni in cui versava. — Posò una mano sulla spalla della moglie e la strinse, come per scusarsi. — Carolyn ha ragione. Ci aspetta molto lavoro. Le sue parole mi arrivavano a stento. La mente correva veloce, cercando di ignorare la simpatia che mi ispirava la signora Hancock e studiando le alternative per attirare il marito sul molo. Se avessi eliminato Hancock da solo, però, senza coinvolgere le mie sorelle, l’avrei pagata. Eppure, ci sarebbe voluto solo un attimo per afferrarlo… Dovevo concentrarmi su qualcos’altro. Maris voleva una morte lenta. — Lei pesca? — chiesi. “Ma che combini?” Mi rimproverai mentalmente; stavo già fallendo. Non mi faceva bene stargli così vicino. Non riuscivo a rimanere lucido. L’aria era ridotta a un rivolo di ossigeno. Avevo sempre avuto la lingua così spessa? Jason Hancock ridacchiò. — No, per niente. Mi incamminai veloce verso la casa e Hancock mi seguì. Quando sul portico passammo vicino a Lily, la guardai di sfuggita. La ragazza di nome Gabrielle si dondolava avanti e indietro sui talloni, chiaramente divertita per qualcosa. — Ma comunque in casa abbiamo l’attrezzatura per andare a pesca e a caccia — proseguì Hancock. Attraversammo l’ingresso e lui indicò un’impressionante teca piena di fucili, sopra il caminetto. — Erano tutte di mio padre. Io sono più un tipo da libri. Insegnerò a Northland dal prossimo semestre. Posai lo scatolone sul tavolo da pranzo e mi guardai intorno: sulla sinistra, un piccolo soggiorno con la moquette verde rovinata, pannelli di pino nodoso e un caminetto di pietra; a destra, una minuscola cucina con il pavimento scheggiato e la carta da parati strappata con immagini di spighe di grano. Sembrava che, dietro il soggiorno, ci fosse una camera da letto. Una stretta scala di legno, aperta su un lato, sorgeva al centro della casa. Ai piedi della scala, alcune foto in bianco e nero pendevano storte dalla parete. Mi avvicinai, fissando un volto. Staccai la foto dal chiodo e tolsi uno spesso strato di polvere. — I miei genitori — disse Jason Hancock, schiarendosi la voce. — Sono sempre vissuti qui da quando si sono sposati. Io ero ancora piccolo. — Tom Hancock. — Giusto — mi disse, sorpreso. — I tuoi nonni lo conoscevano? Prima di avere il tempo di rispondere, le assi del pavimento scricchiolarono e ci girammo entrambi verso la porta. Lily era là, insieme all’altra ragazza che giocherellava nervosa con i suoi pantaloncini. Lily si portò una ciocca di capelli ramati dietro l’orecchio. I miei occhi seguirono la linea pallida e lunga del suo collo, ora scoperto. — Ciao — disse, poi si morse il labbro inferiore. — Mi chiamo Lily Hancock. — L’altra ragazza le diede una gomitata, forte. — Giusto. Lei è Gabrielle Pettit. — Il padre di Gabrielle è un falegname tuttofare. Mi aiuterà ad aggiustare il tetto — spiegò Hancock, mentre si passava il burro di cacao sulle labbra screpolate, poi tornò al furgone. — La signora Boyd mi ha chiesto di portarvi i muffin — dissi. — Pensavo di restare, se per caso vi serve una mano. — Mio fratello è sul retro — disse la giovane Pettit. — Anche lui sta aiutando. — Allora. Vivi da queste parti? — mi chiese Lily. — Sì, certo, laggiù. — Feci un gesto vago e sperai che le bastasse. Sophie Hancock si affacciò da dietro Lily e mi sorrise timidamente. — Bene… Mi sa che andrò a prendere un paio di scatoloni, allora. — Nessuno obiettò nulla, così uscii veloce dalla porta. — Che Dio sia lodato — bisbigliò sghignazzando la giovane Pettit. Travestii una risata da colpo di tosse e mi fermai ad aiutare un gruppo di uomini in difficoltà con un materasso. Le ragazze tornarono sul portico; mi sentivo i loro occhi sulla schiena. — Pensi che dovrei andargli a parlare? — chiese Gabrielle. — Faremmo doppia coppia. — Quale doppia coppia? — chiese Lily. — Tu e mio fratello, io e lui. — No, non penso. E poi dovremmo aiutare mio padre, non combinare incontri. — Tuo padre ha già chi lo aiuta. Quando raggiunsi finalmente il furgone, un tipo emerse dal retro, tenendo in equilibrio una pila impressionante di scatoloni. A giudicare dalla sua somiglianza con Gabrielle, immaginai che fosse il fratello. I muscoli erano gonfi sotto il peso che portava. — Piantala di fare lo spaccone, Jack — gridò Gabrielle. — E vedi di non rompere niente. — Tranquilla, ho tutto sotto controllo — rispose lui. Presi anch’io alcuni scatoloni e seguii Jack Pettit in casa. Nel varcare la soglia, mi sembrò che avesse fatto l’occhiolino a Lily, ma forse me l’ero immaginato. Posò gli scatoloni sul bancone della cucina, facendo cadere a terra un enorme barattolo. Depositai il mio carico sul tavolo e rimisi il barattolo al suo posto. — Ah, grazie — disse Jack. — Non l’avevo visto. — Non c’è problema — dissi. — Sei un Hancock pure tu? — mi domandò. — Figurati. — Quasi scoppiai a ridere. — Io lavorerò con mio padre — disse Jack. — Trasformeremo questo posto infernale nella topaia che era prima. — Alzò gli occhi al cielo. — Sarà un’estate davvero entusiasmante. Guardai oltre la sua spalla, in direzione di Lily e Gabrielle, impegnate ad aiutare la signora Hancock a riempire una credenza di tovaglie. Gabrielle colse il mio sguardo e trascinò Lily verso me e Jack. — Già — dissi. — Magari ci vediamo in giro. — Jack e io tornammo a prendere altri scatoloni, raggiungendo la porta nello stesso momento, con Lily e Gabrielle appena dietro di noi. Mentre io e Jack eseguivamo il balletto del “dopo di te; no, dopo di te”, ci scontrammo frontalmente. Jack inspirò stupito a pieni polmoni. Voltò la testa di scatto per guardare prima Lily, poi me, e di nuovo Lily. La tristezza si affacciò agli angoli dei suoi occhi, prima che anche il suo viso si rabbuiasse del tutto. Inspirò di nuovo, trattenendo il fiato. — Tutto bene, amico? — domandai, mentre pensavo “Lo sa. Com’è possibile?” Ma fui costretto a ridere di me. La paranoia era un effetto collaterale della mia astinenza. Avevo spinto quest’esperimento così al limite che adesso mi trovavo in acque inesplorate. Mi domandai cos’altro sarebbe successo. 8 IPOCRITA Tutti gli scatoloni erano stati portati nelle rispettive stanze. Posai le ultime cose di Sophie nella sua camera al primo piano, dalla parte del lago. A giudicare dalle pareti celesti, questa doveva essere stata la cameretta di Jason Hancock. I muri conservavano una fragranza persistente, a me stranamente familiare. Mi sforzai di individuarla, ma dovetti abbandonare il tentativo. Aprii uno scatolone e iniziai a riporre sugli scaffali i libri di Sophie. Al piano di sotto, diversi uomini stavano spostando i mobili più ingombranti nel soggiorno. Al piano superiore, dalla camera accanto venivano le voci dei fratelli Pettit che discutevano con Lily. Era difficile escludere tutti quanti e concentrarsi solo su Sophie, soprattutto perché i Pettit parlavano di me. — Sei sicura di poter lasciare quel tizio nella camera della tua sorellina? — chiese Jack. Nella sua voce si mischiavano preoccupazione e sfiducia. — Andiamo, non essere disgustoso. Non è qui per divertirsi. Ci sta aiutando con il trasloco, come tutti gli altri. — Comunque, non lo vorrei certo vicino a mia sorella. Gabrielle scoppiò a ridere. — Mi si può avvicinare quando vuole. Amo il pericolo. Sorrisi tra me e me, e posai sullo scaffale l’ultimo libro della serie Il club delle babysitter. — Calder, mi puoi aiutare con questo? — chiese Sophie. — C’è troppo nastro adesivo. Non riesco a romperlo. — Mi alzai e presi le chiavi della macchina dalla tasca. Tagliai il nastro e indicai il contenuto – perlopiù animali di peluche – che sembrava appartenere all’assistente di un mago. — Dubito seriamente che sia pericoloso — disse Lily. Il rumore del nastro che veniva tirato e tagliato seguì le sue parole. — Non importa — disse Jack. — Gliela farei vedere io. — Nessuna di noi ha bisogno della tua protezione, Jack — disse Gabrielle. — Cosa vuoi attaccare alle pareti? — chiese Jack. Colsi un lieve spostamento d’aria, come quando si toglie di mano qualcosa a qualcuno. — Cosa ti piace di più? I panda o le rane? — chiese Sophie. — Hmm, cosa? Oh, le rane, credo. Mi porse un animale verde di peluche. — Puoi prendere questo, allora. — Sono ritratti di poeti famosi — disse Lily. — Sembra un mucchio di gente morta — ribatté Jack. — Senti, non fare l’ignorante — gli disse Gabrielle. Mi giunse il suono di qualcuno, probabilmente Jack, che si batteva i pugni sul petto come un gorilla. — E poi — proseguì Gabrielle — come può sembrarti più strano dello schifo appeso in camera tua? — Quella è arte — disse Jack. — E i miei quadri non fanno schifo. — Come no — disse Gabrielle. — Sono capolavori. Sentii passi leggeri in corridoio e quando alzai lo sguardo, vidi Lily davanti alla porta di Sophie. Aveva perso il basco e i capelli erano spettinati. Mi lanciò un’occhiata nervosa. — Va tutto bene, qui? — chiese. Mi domandai se Jack Pettit non avesse ragione. Forse mi stavo comportando con troppa familiarità, e troppo presto? Avevo sempre difficoltà a valutare il normale comportamento umano. “Vacci piano” mi dissi. “È il momento di fare un passo indietro.” Dalle scale, Hancock chiamò i Pettit. — Gabrielle, Jack, vostro padre sta per andare via. Jack fu subito accanto a Lily, i suoi occhi non mascheravano certo la sua disapprovazione nei miei confronti, né la delusione di doversene andare. Gonfiò il petto con un respiro e gli tornò l’espressione confusa di prima. Stavolta ero sicuro di non essermelo immaginato. Mi alzai, lasciando cadere la rana di Sophie sul letto. — Bene, abbiamo finito — dissi a voce un po’ più alta del necessario. — Spero di rivedervi presto. — “Alcuni più di altri” aggiunsi mentalmente, facendo a Sophie un cenno di saluto. Lily aggrottò la fronte. — Te ne vai? — chiese Sophie, stringendosi al petto un orsacchiotto arruffato. — Di già? — Allargò gli occhi e sporse il labbro inferiore. — La rana non la vuoi? — Mi ricordava una versione più piccola e umana di Pavati. — Oh, scusa — dissi recuperando il regalo. — Certo che la voglio. Il furgone dei Pettit mi superò mentre ero diretto alla macchina. Gli altri traslocatori fecero lo stesso, con l’aria stanca. Uno di loro si massaggiò la spalla prima di salire sul suo veicolo. Un altro cercava sotto l’auto la felpa scomparsa. Guidai per circa mezzo chilometro e parcheggiai nei pressi di un attracco; dopodiché, tornai indietro a piedi. Avevo ricevuto da Maris istruzioni precise: dovevo imparare il più possibile e il prima possibile, così mi preparai a studiare gli Hancock per il resto del pomeriggio, per vedere cosa facevano quando non sapevano di essere osservati. Seduto tra i rami di pino, spiavo le finestre da poco riaperte. Speravo di scoprire qualcosa di importante, per tenere Maris alla larga per il resto della notte. Forse mi avrebbe addirittura lasciato dormire. Il sole del tardo pomeriggio disegnava lunghe ombre sul giardino davanti alla casa degli Hancock. Faceva freddo in mezzo agli alberi. E non si sentiva volare una mosca. Gli Hancock si erano sistemati. La signora Hancock era in cucina ad aprire scatoloni. Da un’altra finestra intravedevo Hancock che montava una libreria. Lily era sdraiata sul pavimento del soggiorno, con le ginocchia piegate e i piedi incrociati in aria. Leggeva un libro, ma non voltava le pagine. Sembrava che leggesse sempre le stesse righe, muovendo la bocca. Le stava imparando a memoria? Sophie giocava poco più in là. Ken e Barbie erano in costume da bagno e nuotavano nella moquette verde, come se attraversassero un canale. Quando raggiunsero la base della teca con i fucili, Ken e Barbie si trasformarono in scalatori e cominciarono ad arrampicarsi sugli sportelli in mogano. Al di là dei vetri, gli Hancock vivevano la loro vita, ignari del pericolo che rappresentavo. Da qualche parte nel passato, in un angolo lontano della memoria, potevo ricordare cosa significasse avere una famiglia. O qualcosa di simile, almeno. Mi preoccupava il pensiero di dover distruggere quest’immagine di pace. Il dubbio mi torceva le budella. Forse non ci sarei riuscito. Forse non ne avrei avuto il coraggio. Ma se non avessi portato a termine l’opera, Maris non mi avrebbe mai lasciato libero. Ero un vero ipocrita. Perché mi stava bene distruggere una famiglia, quando sapevo cosa significava essere distrutto? “Perché questa è giustizia” ricordai a me stesso. “Se lo meritano.” Mi agitai nel mio nascondiglio. “Fate qualcosa” pensai “dite qualcosa.” Il silenzio si trascinava. Immaginai il mio primo rapporto a Maris: — Abbiamo sottovalutato i nemici. Sono letali. C’è il serio pericolo che gli Hancock ci annoino a morte. Ripiegare, ripiegare, ripiegare. — Stavo per ridere delle mie stesse battute, quando un rumore di piatti infranse il silenzio. Feci un salto e mi nascosi meglio tra i rami. — Carolyn! Stai bene? — Jason Hancock era scattato in piedi. Le ragazze si guardarono per un attimo, prima di corrergli dietro. Mi arrampicai più in alto per avere una visuale migliore. Carolyn Hancock sedeva sul pavimento della cucina, raggomitolata tra i cocci. Ai suoi piedi c’era uno scatolone vuoto con la scritta PIATTI DI TUTTI I GIORNI. — Pensavo fosse uno dei miei giorni buoni — mugolò tra le ginocchia. Lily si chinò vicino alla madre e aiutò Hancock a farla rialzare. — Va tutto bene, Carolyn. — Come fa ad andare tutto bene ? — chiese lei. — Sono solo piatti, mamma. — Stupidi piatti. — Ne raccolse uno che era riuscito a sopravvivere e lo schiantò a terra. — Stupida casa. Stupido corpo. — Carolyn. Tesoro… Shhh, amore, è tutto a posto. Sophie singhiozzò e scappò per le scale. Lily la seguì, chiamandola. La signora Hancock piangeva sulla spalla del marito. — Non mi lasciare mai — disse, posandogli la testa sul petto. Lui la sorresse fino al divano. Passando per la porta della cucina, prese il bastone. — Come potrei? — Jason, cosa ci facciamo qui? — Lo sai cosa ci facciamo qui. Farà bene, a tutti, Carolyn. Vedrai. — Clima salubre — disse lei con disgusto. — Avremmo potuto andare ovunque. Perché proprio qui? Perché proprio adesso? Com’è possibile che le cose possano andare bene? Lo sguardo di Hancock si posò sul soffitto. Dalla camera al piano di sopra, il pianto straziante di Sophie mi riempì le orecchie di vergogna. 9 INDECISIONE Io e le mie sorelle riaffiorammo uno alla volta, a una cinquantina di metri dalla battigia degli Hancock. Dietro la villa, le sagome delle cime degli alberi perforavano il cielo rosa e viola. Avevamo ripetuto questa scena ogni estate, per oltre quarant’anni: nuotavamo avanti e indietro di fronte alla casa, osservando la facciata e sperando di cogliere i segni del ritorno della famiglia. Sembrava quasi irreale vedere la luce alle finestre rimaste buie tanto a lungo. I nostri corpi galleggiavano nell’acqua nera, nient’altro che ombre. Non avevamo alcun timore di essere scoperti. Tallulah ruppe il silenzio. — Cosa hai deciso, Cal? — La più giovane. Tallulah sembrava contenta della mia scelta. Sollevata, forse. Pavati non altrettanto. Maris annuì. — È più piccola. Più debole. Come pensi di agire? Feci una smorfia. — Le piacciono le cose belle. Pavati? Lei si voltò al suono del suo nome, ma tenni gli occhi fissi davanti a me. — Ti seguirà — dissi. — Certo che lo farà. — Voglio che giochi con lei. Sii gentile. Sorprendila. Falla divertire. Tienila fuori oltre l’ora di cena. — Posso farlo senza problemi. — Tallulah, sai essere delicata? Un’espressione preoccupata le attraversò il volto. — Quanto delicata? — Dovrai farla svenire, ma senza ucciderla. Pensi di riuscirci? — Tra le mie sorelle, era lei ad avere maggiori possibilità di farcela. La fissai negli occhi, mentre la sua mente elaborava la mia richiesta. Immaginai le sue mani intorno al collo di Sophie, mentre le toglieva lentamente l’ossigeno e Pavati le sorrideva, dicendole che aveva l’aria stanca, e che forse aveva voglia di dormire un po’. — Penso di sì. Se farò attenzione. — E io cosa faccio? — domandò Maris. — Tu non devi fare niente. Si finse offesa, ma poi aggiunse: — Forse hai ragione tu. — Dopo che avrà perso i sensi, portatela sugli scogli. La cercheranno. Mi unirò alle ricerche. Le ragazze annuirono. — Quando si sveglierà — continuai — potrete dire che è svenuta. Io la riporterò a casa. — Sarai il loro eroe — disse Pavati. — È quello che penso — dissi. — Sarà anche un motivo per tornare da loro, per vedere come sta. Mi auguro che vorranno ringraziarmi. È qui che la tua piccola battuta di pesca entra in scena, Maris. Un sorriso lento e sottile le affiorò sulle labbra. I suoi capelli galleggiavano sulla superficie dell’acqua come inchiostro rovesciato. — Dopodiché, me ne occuperò io — disse. Scrollai le spalle. — Come vuoi. La luce nell’abbaino illuminò un sentiero attraverso il giardino laterale fino all’acqua. Si poteva vedere il viso di Sophie. Si stava spazzolando i capelli. — È lei? — chiese Pavati; uno sguardo di adorazione le riempì gli occhi. — Sì. — Una ragazzina così carina. — Già. — La mia voce si appiattì. — Se avessi una figlia — disse Pavati — vorrei che fosse esattamente come lei. — Mi mise una mano sulla spalla. — Non ti preoccupare, so cosa fare. Domani andrò a cercarla. — Si appoggiò a me per spingersi verso l’alto e si sollevò dall’acqua. Chinò la testa e si tuffò nel lago. Maris e Tallulah la seguirono senza nemmeno uno zampillo. Rimasi indietro, a guardare Sophie alla finestra. A un tratto si alzò e uscì dal mio campo visivo; quindi, spense la luce. Stavo per seguire le mie sorelle quando la porta di casa si spalancò e dal portico emerse una figura che si incamminò verso il lago. Ero pietrificato. Jason Hancock si stava forse avvicinando alla sponda? Sarebbe stato così facile? Mi sentivo un coccodrillo in agguato, che osserva una zebra mentre si avvicina all’acqua per bere. Quasi senza volerlo, fluttuai più vicino alla riva. Ma non era Jason Hancock. Era Lily che si avvicinava al molo. Scalciò via i sandali e sollevò la gonna, prima di sedersi sul bordo, lasciando dondolare le gambe fuori dal pontile e dentro il lago gelido. Era normale? Scesi sott’acqua come una lenza di piombo e cercai il suo odore. Era dolce, con un tono speziato, come di arancia o di aghi di pino. Riemersi tenendo solo gli occhi e il naso sopra il pelo dell’acqua. Non mi ero reso conto di essermi avvicinato tanto alla riva e la mia prima reazione fu di panico. Mi abbassai di un centimetro. — Non c’è bisogno che ti nascondi. So che ci sei — disse. “Merda.” Il cuore mi arrivò allo stomaco, come un pugno. Swuuushh! Ero sparito. Nuotai verso nord di una ventina di metri, fino a un ramo di salice che pendeva basso sull’acqua, come una lunga panca. Jason Hancock stava percorrendo il pontile verso la figlia. Sulle braccia si stava strofinando una pomata e la sua pelle luccicava, persino in questa luce morente. — Scusa, tesoro — disse. — Sembravi così tranquilla, seduta qui fuori. Non volevo disturbarti. Si sedette accanto a lei e le cinse le spalle mentre io, nascosto nell’ombra, cercavo di ridurre i battiti del cuore. Sbirciai oltre il ramo di salice. — Tu lo sai che mamma è arrabbiata per la casa — disse Lily. — Le passerà. — È un disastro, papà. Qui cade tutto a pezzi e tu non sei esattamente un carpentiere. Sorrise. — Ho chi mi aiuta, ricordi? Ti preoccupi sempre troppo. Tua madre starà bene, vedrai. — Ho sentito cosa ti ha chiesto — disse Lily. — In che modo questo trasloco dovrebbe rendere le cose più facili per lei? — Che vuoi dire? — Insomma, lo ammetto, Bayfield è più tranquilla di Minneapolis, ma la sua salute può davvero migliorare qui? Mi chiedo semplicemente se questo cambiamento sia dovuto più alla tua curiosità che ad altro. — Lily Anne Hancock, tua madre è sempre stata la mia priorità numero uno. L’unica cosa che ho sempre voluto fare è prendermi cura di lei. — Va bene. Solo che stavo pensando ai racconti del nonno. Però magari volevi… — La tua stanza ti piace? — le domandò Hancock. — Non cambiare discorso, papà. — Questo è un discorso. È una domanda. — Bene — disse Lily. Annuì lentamente, soppesando le parole. — È carina, credo. Accogliente. Hancock toccò l’acqua con la punta delle dita e sbuffò. — Forse non hai tutti i torti. Questo trasloco è per tua madre, ma non posso negare che questo posto mi piace. Non so cosa sia, Lily, ma è come se il lago mi chiamasse. Davvero, a volte mi pento di non aver mai imparato a nuotare. — Se fossimo ancora a Minneapolis, potresti prendere lezioni in piscina, sai, uno di quei corsi per principianti. Hancock sorrise e baciò la figlia sulla guancia. — Sei stata brava. Lo so che ti manca la città e ti sono grato per aver dato a questo posto una possibilità. Lascia le preoccupazioni a me, Lily. Mi prenderò cura di tua madre. Tu cerca di divertirti. — Mi divertirò, certo — disse Lily. — Lo sapevi che Bayfield è tipo la capitale delle mele del Midwest settentrionale? Hancock ridacchiò e le tolse il braccio dalle spalle. — Forse tu e Sophie dovreste andare in esplorazione domani. Fare un giro in centro, oppure nel bosco. Mi rianimai a questo suggerimento e mi avventurai fuori dal mio nascondiglio. — Sì, mi sembra fantastico. Sono sicura che Sophie impazzirà per una passeggiata nel bosco. Ah, sarcasmo. Era lei il mio tipo. Jason Hancock buttò indietro la testa e rise. — Già, forse no — disse. — Non è mai stata un’amante della natura. Lily si appoggiò alla spalla del padre. — Ti voglio bene, papà. Nuotai sul fondo e presi una rotta per Basswood. Qualcuno potrebbe sostenere che fosse destino che assistessi a questo dialogo tra padre e figlia, che fosse il segno che Hancock e Lily avevano un legame più forte di quanto inizialmente pensassi. Però, anche se la sorella maggiore era l’obiettivo più adatto ai miei gusti, non potevo abbandonare il piano per una questione di preferenze personali. Sophie era la sorella giusta. E poi, ai segni non ci credevo proprio. 10 IL PIANO PERFETTO Per tutta la notte lavorai ai dettagli del mio piano. Il tempismo sarebbe stato importante. La nostra capacità di persuasione doveva essere perfetta. Non avevo calcolato il fattore clima, ma era l’unico aspetto che non potevo controllare. Insomma, uno dei tanti. Il nuovo giorno portò nell’atmosfera un cambiamento che mi faceva pizzicare la pelle e mi premeva sulle tempie. Tra i rami degli alberi serpeggiava una carica elettrica e tutti gli animali del bosco si erano ammutoliti. Quanto avrebbe tardato la pioggia? Erano le tre quando le sorelle Hancock si avviarono per la loro marcia nel bosco. Avevano appena messo piede fuori dalla porta quando nel vialetto entrò il furgone con la scritta PETTIT: EBANISTA E TUTTOFARE . Jason Hancock seguì le figlie per dare il benvenuto al signor Pettit. Gabrielle e Jack uscirono dallo sportello del passeggero e superarono rapidi la macchina, per andare a salutare Lily. Le mie sorelle e io, invece, eravamo sulla terraferma da appena pochi minuti. Loro si trovavano da qualche parte a nord della casa degli Hancock, io mi ero appostato tra gli alberi, appena fuori dalla porta principale. Mi tremavano i muscoli delle gambe, perché si erano trasformati da poco. Appoggiato a un albero, mi sforzai di ascoltare la conversazione tra gli Hancock e i Pettit. Le onde si infrangevano sulla riva, rendendo difficile distinguere le parole. Frasi sul tetto da riparare, ovviamente. Pettit padre indicò i figli. Fece un cenno a Sophie. Gabrielle Pettit non sembrava molto loquace. Gli uomini parlavano e indicavano la casa. Dal lago giunse un momento di silenzio inatteso e Lily disse: — Noi andiamo a fare un giro nel bosco. Raddrizzai la schiena e mi sporsi in avanti. Jack Pettit scosse la testa. Si portò le mani alla cintura degli attrezzi intorno ai fianchi e indicò il cielo. Per tutta la mattina era stato coperto, però ora le nuvole non somigliavano più a una tela grigia, ma a un turbine di ceneri. Guardai con ansia le giovani Hancock per capire cosa avrebbero deciso di fare. Lily scrollò le spalle e io mi ripresi. Certo, non le piaceva sentirsi dire cosa fare. Se mi somigliava almeno un po’, si sarebbe precipitata subito nel bosco. La sua testardaggine avrebbe potuto presentare un problema anche per me, se si fosse rifiutata di accettare il mio invito e di separarsi dalla sorella. Proprio in quel momento Lily baciò il padre sulla guancia e se ne andò, trascinandosi appresso Sophie. Spinsi il tasto INVIO del cellulare. — Sono partite… Sì, tutte e due… Verso ovest… Non lo so. Dovrai inventarti qualcosa… Aspetta, fammi sentire. Chiusi gli occhi e inspirai. L’odore familiare di arance mi riempì le narici, più diluito nell’aria di quanto non fosse stato in acqua. — Arance — dissi; poi annusai ancora in cerca dell’odore di Sophie. L’aria, all’improvviso asciutta, mi andò di traverso. — Talco in polvere… Sì, le seguirò per un po’, ma non voglio avvicinarmi troppo. Dove siete? Se cambiano direzione vi chiamo, ma tra un quarto d’ora dovreste sentire il loro odore. Lily teneva ancora per mano la sorella. Sophie non sembrava condividere l’entusiasmo di Lily per l’avventura. Si stava lamentando per qualcosa, indicando i suoi sandali. Seguirono un sentiero battuto dai cervi fino a incrociarne uno che invece era opera dell’uomo. Il nuovo viottolo era costeggiato da tronchi senza corteccia. Schegge di legno ricoprivano i cigli. Sophie si storse le caviglie sul suolo morbido e si fermò battendo i piedi. Incrociò le braccia. La pazienza di Lily mi meravigliava. — Ecco, prendi questo — disse Lily. Si tolse il cardigan e lo porse alla sorella, rimanendo solo con una canottiera di pizzo. — Meglio? Sophie annuì e la bocca di Lily scivolò in un sorriso che non riconoscevo. Era di scherno? No, non sembrava, perché mise un braccio intorno alle spalle della sorella e la strinse a sé. Era qualcosa di più morbido. Mi soffermai a cercare nel catalogo delle espressioni umane che conservavo nella mente. Ma non ne trovai. L’espressione apparteneva alla mia madre sirena. Mi sembrava quasi di sentirla: “Ecco, Calder, così va meglio, vero? Lo sai, sentiresti più caldo se passassi più tempo a nuotare e meno tempo a esplorare i relitti delle navi.” Scrollai la testa per liberarmi di quell’immagine e fissai l’espressione di Lily. Elaborai. Memorizzai. I suoi capelli biondo rame catturavano i pochi frammenti di luce tra gli alberi. Ogni ciocca era di un colore leggermente diverso, rifletteva la luce come piccoli arcobaleni. Le scendevano a cascata sulla schiena in morbidi riccioli. Le braccia e le gambe erano lunghe e agili. Camminava sicura. La sua voce… Mi riscossi dalle mie fantasticherie quando mi accorsi che si erano allontanate e che non riuscivo più a sentirle. Arrancarono fino alla fine del sentiero e del sottobosco. La foresta decidua cedeva il posto ai pini, ora più diradati lungo il terreno melmoso. Estrassi dalla tasca il cellulare e attesi che Pavati rispondesse. — Senti. Piccolo cambio di piano. La voce di Pavati uscì acuta dal telefono. — Lascia che sia io ad avvicinarmi per primo — dissi. Il nuovo piano prendeva forma man mano che parlavo. — Non voglio che la più grande si agiti troppo quando le separerai. Dammi cinque minuti e poi fatti vedere. E comunque, la più piccola vuole tornare indietro. Sfrutta quest’opportunità. Distrarrò la sorella maggiore. Offriti di accompagnare la piccola a casa. Tallulah la farà svenire non appena l’avrai allontanata dalla vista della sorella. Spensi il telefono e lo infilai in tasca. Le sorelle Hancock si fermarono ad ammirare il lago dal punto più alto; o almeno, una delle due. Con aria annoiata, Sophie si era messa a staccare la corteccia di un pino. Feci rumore, per non spaventarle comparendo all’improvviso. Lily si voltò, sorpresa. Alzai le mani, a palmo aperto, per rassicurarla. — Ehi. Scusa. Non era mia intenzione spaventarti — dissi. “Quello succederà dopo.” Un sorriso enorme si aprì sul volto di Sophie, ma Lily sembrava meno sicura. — Ciao, Calder — disse Sophie. — Cosa ci fai qui? — Quello che fate voi — dissi. — Una passeggiata. Che ne dite del panorama? È eccezionale, vero? Lily concordò e si voltò di nuovo a guardare il lago. — Ho sentito che, a volte, fanno regate di vela intorno all’Isola di Madeline. — Non prima dell’estate. — Pensai a come aveva reagito all’avvertimento di Jack Pettit a casa e dissi: — Ehi, fa un po’ freddo. — Speravo di ottenere la stessa reazione di sfida. Così non avrebbe pensato a tornare indietro con Sophie, appena fosse comparsa Pavati. — Per una ragazza — aggiunsi. Lily sollevò il mento e strinse la bocca. “Bingo.” Una risata familiare emerse dagli alberi, e Pavati e Tallulah apparvero sul sentiero nella nostra direzione, provenivano dalla stessa parte da cui erano arrivate le Hancock. Vedendoci, Tallulah si finse sorpresa. — Oh — esclamò Pavati. — Ciao, tesoro. — Fissò gli occhi ipnotici su Sophie e colsi l’elettricità nell’aria. Lanciai uno sguardo alla bambina che, come immaginavo, stava assumendo l’espressione vitrea tipica delle nostre prede pochi secondi prima di finire sott’acqua. Avendo sperimentato sulla mia pelle l’effetto di Pavati, sapevo cosa stava accadendo a Sophie. L’incantesimo era un sedativo: non provava quasi nulla. Gli umani raramente si ribellavano. Tom Hancock era stato uno dei pochi a farlo. Speravo che la resistenza non fosse una caratteristica di famiglia. — Oh, non mi aspettavo di vedervi qui. Ti presento le mie sorelle — spiegai a Lily, che non avrebbe mai lasciato Sophie con degli sconosciuti. Non che io fossi molto più di un estraneo, ma speravo che le presentazioni avrebbero placato ogni timore. Tallulah mi guardò, sorpresa. Non avevamo parlato di un approccio tanto personale. Pavati non sembrò farci caso. Stava ancora sorridendo intensamente a Sophie. — Hai freddo — suggerì, e Sophie annuì istintivamente, stringendosi nel cardigan. — Senti, Lily — dissi, facendo ricorso a tutto il mio fascino. — Se vuoi continuare la tua esplorazione, posso mostrarti io qualcosa. È poco più avanti, lungo il sentiero. — Certo — rispose. Aveva le pupille dilatate e feci un rapido cenno a Tallulah, che lo colse all’istante e disse: — Bene, che ne pensi se accompagniamo noi tua sorella a casa, allora? — Mi sembra fantastico — risposi al posto di Lily e, benché guardassi solo lei, sentii la sorellina ripetere la parola fantastico. E così, semplicemente, se ne erano andate, e io ero rimasto solo con Lily. Un attacco di nausea mi rigirò lo stomaco. In lei c’era qualcosa che mi terrorizzava, così interruppi il contatto visivo; Lily scosse la testa e tornò a guardare il lago. — Allora, cosa volevi mostrarmi? — mi domandò. — Ehm. Uno scoglio, qua vicino. Seguimi. — La superai e la mia mano sfiorò la sua. L’elettricità mi vibrò sulle dita ed ero sicuro che l’avesse sentita anche lei. Si portò la mano al viso per esaminarla. — Qualcosa non va? — chiesi. — No — rispose. — A meno che non stia per venirmi una sincope. — Non stai per avere nessuna sincope — dissi ridendo. Ritrassi ogni emozione, per mitigare gli impulsi elettrici che, per natura, mi scorrevano nel corpo. Paura, rabbia, qualunque emozione intensa – in questo caso, una fortissima tensione dei nervi – andava sempre tenuta sotto controllo. Se permettevo alle emozioni di prendere il sopravvento, rischiavo di incenerire un albero solo appoggiandoci la mano. Era l’aspetto che meno preferivo di me stesso. Ogni somiglianza con le murene mi disgustava. Preferivo pensare che l’unica viscida tra di noi fosse Maris. Camminammo fra gli alberi e fino al limitare della scogliera. L’Isola di Basswood era vicinissima e riuscivo ancora a scorgere i resti del nostro falò della sera precedente. Soffiando, il vento catturò una manciata di cenere e la sollevò dal terreno. L’acqua e il cielo erano adesso dello stesso grigio carbone, trasformando Basswood in una nave spaziale buia e alberata che galleggiava in aria. Speravo che Lily non si accorgesse delle nuvole che stavano diventando minacciose, così da prolungare ancora un po’ questo momento. Betulle bianche e pioppi tremuli ornavano il margine della scogliera; la loro corteccia era una pelle sottile in confronto a quella stratificata dei pini. I pioppi crescevano alla rinfusa, aggrappati alla parete, spesso con angolazioni azzardate sopra l’acqua. Mi avvicinai al bordo e iniziai a scendere lungo la roccia, usando uno dei pioppi per reggermi. — Ma che fai? — mi domandò Lily. Sentivo preoccupazione nella sua voce. Feci il respiro più profondo che i polmoni mi consentirono di fare ed esalai tutta l’emozione dal corpo. — Prendimi la mano — dissi. — Ti aiuto a scendere. Lily la guardò incerta, quindi fece scivolare lentamente la sua mano nella mia. Era sorprendentemente calda. Avvolsi le dita intorno alle sue, e una strana elettricità mi percorse il braccio. Non mi sembrava che lei l’avesse percepita. — Attenta a dove metti i piedi — dissi. Trovò un appiglio e scendemmo per circa due metri, fino a raggiungere uno scoglio color ferro proteso sul lago, a circa tre metri sull’acqua. La roccia era costellata di incavi naturali, pieni di vecchia acqua piovana ormai calda dopo giorni di sole. Insetti microscopici pattinavano sulla superficie delle pozze. — Oh, che meraviglia — disse. — Quanto è selvaggio… E primitivo. — Molto selvaggio — dissi — ma adesso diventa anche meglio. Sdraiati e guarda oltre il ciglio. Ci sono delle rondini che hanno nidificato nei buchi nell’arenaria. Non stavo cercando affatto di ipnotizzarla, eppure lei seguì le mie indicazioni. Stava reagendo a me o al panorama? Con i polpastrelli si aggrappò al ciglio della roccia e si sporse oltre. — Non vedo niente — disse. — Davvero? — Mi sdraiai vicino a lei, con le spalle nel vuoto e mi piegai per vedere. — Forse devi sporgerti di più. — Lily si spinse in fuori e piegò la testa. Strisciò in avanti ancora un po’, poi prese fiato bruscamente e tese i muscoli della schiena. Prima che potessi capire cosa stava succedendo, cadeva dalla roccia dentro l’acqua ghiacciata. Alzai gli occhi e vidi Maris incombere su di me, osservando i cerchi concentrici che, più in basso, segnalavano il punto in cui era scomparsa Lily. 11 CAMBIO DI PIANI — Ma che diamine? — Scattai in piedi. — L’hai spinta? — Mi guardai intorno alla disperata ricerca di qualcosa per raggiungere Lily. Ma niente era abbastanza lungo. Il panico mi bloccò le gambe. — Cosa faccio? — Cosa fai? — Maris mi guardò incredula. — Di che parli? Volevi fare un salvataggio… Allora salvala. — Insomma, Maris. In questa cavolo di acqua? Sei matta? Avevamo un piano. È Sophie la sorella giusta, ricordi? Il lago era di onice, con macchie grigie nei punti in cui il sole lo illuminava. Ci affacciammo oltre il bordo della scogliera, guardando in basso, verso le onde. Proprio sotto di noi l’acqua si agitava in una spuma color burro che si schiantava sulla roccia. Lily emerse con un rantolo che arrivò fino a noi. Sentivo il freddo penetrarle nella pelle. Con una mano tremante si toccò dietro la testa e quando la tolse c’era una macchia di sangue. Per non farci vedere, io e Maris arretrammo dal bordo con un lungo passo. — A-Aiuto! Qu-qualcuno! Calder! — chiamò Lily. Tesi i muscoli d’istinto. — Non posso entrare in acqua con lei. — Maris lo sapeva. Ringhiai per la frustrazione. — Non sono ancora riuscito a sviluppare una tolleranza al lago. Non sarei capace di frenare la trasformazione. — Va bene. Aspetteremo. — Maris guardò le nuvole. — Tra pochi minuti morirà comunque. — Maris si sedette sulla roccia. — Forse è anche meglio così. Potrai portare entrambe le figlie a casa: una morta, l’altra in fin di vita. — Sembrava che stesse visualizzando l’immagine ed era evidente che le piaceva. Un peschereccio passò vicino alla riva, ma non vide la ragazza in acqua. Sollevò una raffica di onde che investirono Lily mandandola a sbattere sul bordo frastagliato della costa. All’inizio rimase bloccata, poi fu risucchiata indietro, solo per essere di nuovo schiantata sulla roccia. Un’altra onda la sollevò e le schiacciò la faccia su uno scoglio. Non aveva appigli. Nulla a cui appoggiarsi. In alto vorticavano le nuvole. Mezzo secondo dopo, avevo il telefono all’orecchio. — Pavati, Tallulah ha già fatto qualcosa? — Buttai fuori l’aria. — Bene, non farlo… Mi hai sentito. Abbiamo un grosso problema. I o ho un grosso problema — mi corressi. — Porta la ragazzina dritta a casa. Ti spiegherò dopo… Pavati? Mi stai a sentire? Arrivò un — Sì — dall’altra parte proprio quando il mio telefono emise un fischio. Credito esaurito. Lo buttai tra gli alberi. Dal lago non arrivavano più grida. Guardai oltre il bordo. Lily sporgeva dall’acqua, con le braccia in alto, la testa inclinata indietro. La faccia le andò sotto, poi riemerse e tornò di nuovo giù. Espirava e inspirava rapidamente ogni volta che tornava in superficie. — Oh, cavolo, quello che sto per fare è assurdo — dissi togliendomi i vestiti. — Ci vai, allora? — mi chiese Maris con voce annoiata. — Ho alternative? Entrambi sentivamo i singulti di Lily che respirava con affanno. Non riusciva a incamerare abbastanza ossigeno per chiedere aiuto. Non le restava molto tempo. Speravo con tutto me stesso che non ci fosse nessun altro sul sentiero, con un temporale così vicino. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era uno spettatore. Rimasi nudo sul bordo della scogliera e chiusi gli occhi, le labbra serrate. Non sapevo con certezza cosa aspettassi… Forse qualcosa che mi convincesse che stavo per fare la cosa più stupida del mondo. Non mi ero mai trasformato vicino a un essere umano, non vicino a uno che avevo intenzione di risparmiare. Per quel che ne sapevo, nessuno di noi l’aveva mai fatto. Se avesse funzionato, lei non sarebbe riuscita a vedermi, e il Lago Superiore era famoso per la sua limpidezza. Pregustavo il momento. Un formicolio si fece strada nel mio corpo, partendo dalle dita dei piedi e risalendo verso l’alto. Calpestò il mio autocontrollo coltivato con tanta cura, finché i miei organi interni non iniziarono a muoversi frenetici come le macchine di un autoscontro. La corrente elettrica era così forte che mi si drizzarono i capelli. — Datti una calmata, Calder — disse Maris mentre si esaminava le unghie. — Se entri in acqua con questo voltaggio, rischi di friggere tutti i pesci nel raggio di cinquanta metri. Verranno a galla e questo probabilmente non servirà neppure ad aiutare la ragazza. Lanciai un ultimo sguardo verso il precipizio. Lily era sparita. Espirai, soffiando via tutta l’elettricità, fuori da me e nell’aria. Crepitò nell’umidità. Quando sentii solo un lieve torpore, mi tuffai. Una strana sensazione di calma mi investì mentre mi libravo in aria. Entrai nell’acqua con una tale precisione che mi sembrò di passare per la cruna di un ago. Giù, giù, per almeno sei metri, finché non toccai la sabbia con le mani. Aprii gli occhi e nuotai indietro verso la roccia. Mi agitavo mentre avveniva la trasformazione, poi dibattei la coda ancora di più per smuovere il fondo sabbioso. Se non potevo oppormi al cambiamento, dovevo impedire a Lily di vedermi, ma l’acqua torbida rendeva più difficile a me vedere lei. Seguii il suo odore, girando in tondo, toccando la coda con la testa. Agitavo le braccia in avanti, alla ricerca di un’anomalia. Quando toccai qualcosa di lungo e morbido – non un ramo, bensì un braccio – voltai la ragazza per guardarla. Aveva gli occhi chiusi, la bocca rilassata. Pallide particelle gialle galleggiavano nell’acqua che le riempiva la bocca. Era già andata. Schizzai verso la superficie, saltando tre metri fuori dall’acqua e atterrando sulla roccia meglio di qualunque attrazione di SeaWorld. Maris mi guardava con faccia inespressiva. Sul viso e sulle spalle nude di Lily erano attaccati frammenti di roccia. Premetti le labbra sulle sue e iniziai a soffiare. Non successe nulla. Soffiai ancora. E poi ancora. Boccheggiò e tossì, poi sputò una fontana d’acqua. La mia coda argentata si dimenava sulla pietra. Maris mi scavalcò e buttò la sua giacca sul viso di Lily. Non c’era bisogno che vedesse il mostro che le si contorceva accanto. Mi rotolai sulla schiena, mentre il cuore mi batteva a singhiozzo, con un ritmo sincopato. Stringendo i denti mentre la pelle si contraeva e lacerava, gemetti di dolore, tremando come un epilettico e succhiandomi il sangue dal labbro, mentre la coda si divideva, trasformandosi un paio di gambe umane. Maris non guardò mentre mi alzavo e mi infilavo i pantaloni. Era ferma e tranquilla vicino a Lily, ancora immobile sulla roccia. — Lily. — Le tolsi la giacca dalla faccia e la scossi. — Stai bene? Oh, andiamo. Lily. Aveva la pelle pallida e traslucida come la sua canottiera color avorio. Un rivolo rosso le scendeva da un taglio sullo zigomo e le labbra, leggermente schiuse, erano del colore dei lillà. Sulle ciglia aveva dei granelli di sabbia. Avrebbe potuto essere una bambola di pezza, inerte tra le mie braccia tremanti. — Lily — la chiamai di nuovo. La voltai su un fianco. La canottiera si sollevò, mostrando il tatuaggio sulla schiena. Sei parole in una grafia elegante con l’inchiostro nero: Non è vile la mia anima. Ansimò, facendo un altro respiro irregolare. — S-Sto be-bene — disse. Aveva il corpo scosso dagli spasmi. — No, non stai bene. — Appallottolai la mia maglietta e gliela passai sulle braccia nel tentativo di farle tornare il colore sulla pelle. Non volevo toccarla direttamente. Non ancora. — S-scusa — disse. Per cosa si stava scusando? Stava delirando? Avevo aspettato troppo? Aveva perso qualche neurone? Continuavo a strofinare per scaldarla. Quasi non mi accorsi di Maris che si allontanava. — C-c-come? — La sua mascella si contraeva con violenza e i denti le battevano così forte che temevo finissero per rompersi. Rotolò su un fianco. — Non alzarti — dissi, ignorando la sensazione soffocante che avevo ancora dentro. Si sedette e vomitò oltre il bordo della roccia. Era proprio quello che mi serviva per calmarmi. Risi così forte da farla trasalire. — Non ti preoccupare, ti tengo io — dissi, mentre sollevavo Lily dalla pietra e risalivo l’argine. Cullata tra le mie braccia, mi posò la testa sulla spalla. Quasi la stessa scena che mi ero immaginato per la sorella minore. Il cielo scuro, come l’inchiostro che ti macchia le tasche, mentre le prime gocce di pioggia mi cadevano sulle spalle nude. Il viso di Lily pareva tranquillo e rilassato. Mi curvai sopra di lei per proteggerla dalla pioggia e le accarezzai la guancia con il pollice. Mi preoccupava la sfumatura blu che le tingeva ancora le labbra. Feci un respiro e mi resi conto di avere trattenuto il fiato fino a quel momento. Poco a poco la casa diventò visibile. Jason Hancock era in cortile ad aiutare Pettit che lanciava attrezzi nel furgone. Quando Hancock mi vide, scansò Pettit e mi venne incontro di corsa. Lanciai un altro sguardo al volto di Lily. Se Maris avesse avuto la più pallida idea di cosa provavo, mi sarebbe stata addosso come uno squalo su una foca. 12 LA RENDO NERVOSA Due giorni dopo seguii Lily al Blue Moon Cafe e restai seduto ad aspettarla sulla panchina del parco, dall’altra parte della strada, ficcandomi in bocca patatine fritte una dietro l’altra come se fossero legate. Consultai l’orologio. Era lì dentro da venti minuti. Il ginocchio mi ballava su e giù. “Andiamo, andiamo, andiamo. Che stai facendo?” Non si era seduta a un tavolo – questo mi era chiaro – però ci stava mettendo troppo per ordinare un caffè. Guardai di nuovo l’orologio. Una ragazza scivolò accanto a me sulla panchina e mi sorrise. Le mie labbra si mossero di riflesso. Indossava la metà superiore di un bikini e pantaloncini da calcio, e dondolava un infradito che le pendeva dal piede. Vedendomi muto, mi porse la mano. — Katie — disse. A volte avrei davvero desiderato non avere questo effetto sugli umani. Era più irritante che lusinghiero e, in questo momento, di un pessimo tempismo. — Calder — dissi, pulendomi il sale caduto sulla maglietta e stringendole la mano. Leggera e molle. — Non ricordo di averti mai visto da queste parti, Calder — disse. Faceva quasi le fusa e mi voltai a guardarla con più attenzione. Non aveva ancora ritratto la mano, così toccò a me lasciare la presa per primo. — La mia famiglia ha una barca a vela giù al porto — disse. — Si chiama Ragtime. Dovresti venire a vederla, qualche volta. Magari per una gita in mare? — Non lo so — dissi, reprimendo un sorriso. — Non sono molto amante dell’acqua. — Allora un cinema, magari? La faccenda si faceva ridicola; non avevo nemmeno attivato il mio fascino. Lily uscì dal Blue Moon e si fermò sul marciapiede, di fronte a noi. Mi guardò, con gli occhi grigi spalancati, poi scorse la ragazza al mio fianco. La bocca le si aprì formando una piccola “o”. — Scusa — dissi, senza guardare quella ragazza fastidiosa in faccia. — Devo andare. Mi alzai, buttai il pacchetto vuoto delle patatine nel secchio e attraversai in fretta la strada. Lily si guardò intorno nervosamente e si mise a tirare quelli che sembravano due calzini a strisce infilati sulle braccia. Mentre mi avvicinavo, notai che aveva fatto i buchi per le mani; nella destra stringeva un foglio di carta. — Bene, vedo che ti sei ripresa — dissi, tenendo la voce bassa, con una cadenza lenta, nel modo rassicurante che – sapevo – faceva sentire gli umani a proprio agio. La guardai negli occhi, preparandomi a piegare la sua volontà alla mia, ma riuscii a sostenere il suo sguardo per un secondo soltanto. — Ehm. Sì. Mi sono fatta una decina di docce bollenti, sai? E mia madre mi ha quasi annegata nella camomilla. Sorrisi e cercai di pensare a qualcosa di intelligente da dire, ma avevo il cervello in pappa. — Non sono sicura di averti ringraziato come si deve l’altro giorno — disse, guardandosi le scarpe. “Lo fa apposta a non guardarmi negli occhi?” — Oh, certo che l’hai fatto. In ogni caso, hai detto qualcosa del genere. Hai farfugliato per tutto il tempo, mentre stavamo tornando. A quel punto mi guardò. — Mi hai portato davvero a casa? Sbattei le palpebre. — Non ho fatto niente di speciale. Scosse la testa e guardò oltre la mia spalla. — È stata la cosa più strana del mondo. Un attimo prima ero sulla roccia e l’attimo dopo pensavo che sarei annegata e poi è stato come se stessi volando. — Non mi sorprende — dissi. L’elettricità mi ustionò le vene e d’istinto feci un passo indietro, mentre i peli mi si rizzavano sulla nuca. — Hai sbattuto la testa molto forte sulla roccia. Ti hanno dovuto mettere dei punti? Non sembrava che mi stesse ascoltando. — È stato davvero strano. — La sua voce era poco più di un sussurro. Come se avesse ripetuto questa frase a lungo. Anche ora non ero sicuro che stesse parlando con me. — Era proprio come… Non fa niente. — Scosse nuovamente la testa. — No, dimmelo. Mi hai incuriosito. — Terrorizzato era più esatto. Sapeva di essere stata spinta? — Ecco, sembrerà strano, ma… nel Lago Superiore non ci sono i delfini, vero? Mi sforzai di dominare la mia espressione. — Delfini? Non dire assurdità. È un lago di acqua dolce. Probabilmente il freddo ti ha dato alla testa. Mi guardò accigliata. — Lo so, è solo che… — Allora, cos’è quel foglio che hai in mano? — chiesi, indicando il diversivo più facile che potessi trovare. Si guardò la mano come se avesse dimenticato cosa stava stringendo. Tirò il calzino sopra il gomito. — Oh. Questo. Mi serve un lavoro. — Lunedì non inizi la nuova scuola? — No. È troppo tardi per quest’anno, mia madre si è organizzata per darci lezioni private, per questi ultimi due mesi. Così posso diplomarmi con la mia vecchia classe. — E come va? — Abbiamo appena cominciato, ma penso bene. Devo scrivere un saggio comparativo sull’Ode su un’urna greca di Keats e Navigando verso Bisanzio di Yeats, ma la mamma mi ha concesso un po’ di tempo in più perché sono quasi annegata e tutto il resto. — Il vantaggio di avere un genitore come insegnante. — Hai studiato anche tu a casa? — mi chiese. Scrollai le spalle. — Immagino si possa dire così. Ho avuto una formazione… molto pratica. — Esatto. Ecco cosa voglio dire. Basta solo sapere come sopravvivere. Amo la poesia. Almeno è utile. Ma dove mi farà arrivare il calcolo avanzato? — Non saprei — risposi. Avrei voluto chiederle un’infinità di cose. Centinaia di domande, in realtà, ma per ora potevo sceglierne una sola. Il resto avrebbe dovuto aspettare. — Come mai non eri mai venuta a Bayfield prima? Insomma è così, vero? — Esatto. — Fece una pausa. — Immagino che prima mio padre non fosse pronto. — Guardò il foglio che teneva in mano e lo arrotolò formando un tubo. Se lo portò agli occhi come se fosse un cannocchiale e mi guardò. — Cioè? Lasciò cadere il cannocchiale e si mise una mano sul fianco. — Lo sai che fai un sacco di domande personali? — Be’, immagino che averti salvato la vita mi dia il diritto di sapere qualcosa di te. — Una ciocca di capelli le era finita sul viso e gliela sistemai dietro un orecchio. Mi tirò uno schiaffo sulla mano. — Va bene — disse. — Vediamo se questo ti basta. A settembre andrò all’Università del Minnesota e, prima di allora, devo guadagnare un bel po’ di soldi. — Si voltò a guardare dubbiosa il Blue Moon. — E mi piace il caffè. Con un cenno di approvazione, le augurai buona fortuna per il lavoro e poi rimasi impalato e stupido, senza nient’altro da aggiungere. Fu un momento strano; probabilmente si stava chiedendo perché non me ne andassi, e io mi chiedevo cosa aspettasse lei. — Mi devo vedere con un po’ di gente qui — disse alla fine. — Ti sei già fatta dei nuovi amici? — Le parole mi uscirono incredibilmente rabbiose, e Lily trasalì. — Solo Gabrielle e Jack Pettit — disse con una vocina. — Li hai conosciuti l’altro giorno a casa nostra. Hanno detto che mi avrebbero mostrato la città. — Potrei farlo io. — Ancora troppo arrabbiato. Rilassai le spalle per sopprimere la cupezza che mi stava invadendo la mente. — Scaricali. Vieni con me. Sarà più divertente, te lo assicuro. E poi, me lo devi. — Insomma… Grazie, ma non posso. Ho già detto che mi sarei vista con loro e sembrerà brutto, ma ti sono davvero grata per avermi tirata fuori dal lago, ma davvero, Calder, tu mi rendi un po’ nervosa. Non stava funzionando. Avrebbe dovuto avvicinarsi a me, non allontanarsi. Forse aveva un buon intuito, ma mi sembrava di essere in avaria o qualcosa del genere. L’altra ragazza sulla panchina non aveva provato nessun disgusto. Tutto il contrario. “Cos’ha questa Hancock?” mi chiesi. “Perché Maris non mi ha lasciato seguire il mio istinto? Sophie non avrebbe creato tutti questi problemi.” — Scusami — dissi. Feci un passo indietro. Forse mi ero avvicinato troppo. — Non volevo innervosirti. Volevo solo vedere come stavi. Assicurarmi che stessi bene e che ti sentissi meglio. Tutto qua. In ogni caso, adesso me ne vado. Posti da vedere, gente da incontrare. “Penoso.” Alzai la mano per salutarla, ma se ne era già andata. Non capivo. Non che volessi che le ragazze umane mi sbavassero dietro – certo che no – ma potevano almeno avere la decenza di farlo quando lo desideravo. Mi allontanai a testa bassa, le mani infilate in tasca. Era un mistero. E probabilmente non valeva il disturbo. Non era comunque troppo tardi per ripristinare il piano con Sophie. Mi voltai a guardare e vidi che Lily mi stava osservando. Il sangue le salì al volto e si girò dall’altra parte. “Bene. Non tutto è perduto ancora. Dovrai solo essere paziente con lei…” Jack e Gabrielle Pettit accostarono in una Pinto verde pisello. Il motore si spense con uno scoppio e loro due balzarono giù. Gabrielle prese sottobraccio Lily, rise delle sue maniche a calzino e iniziò a camminare con lei. Le seguii con gli occhi finché non sentii che Pavati mi stava osservando dall’altro lato della strada. Il suo volto e i suoi capelli si confondevano con la vernice color cioccolato della facciata del negozio di panini, non l’avevo notata. Attraversò l’incrocio saltellando e mi prese per mano. — Calder — Strascicava le parole. — Che fai? — Lo sai cosa faccio — scattai. — Mi avvicino alla ragazza. Come pianificato. — Davvero? Allora perché si sta allontanando da te? — Ah, ah. Davvero spiritosa, Pavati. — Cos’è che ti disturba? Sei tremendamente distratto e non sei venuto all’isola, ieri sera. — E allora? — Allora ti conosco, Calder. Vuoi sempre restare da solo quando hai qualcosa per la testa. — Cavolo, forse perché mi piace restare da solo. — Ehi, ti capisco se non vuoi stare sempre con Maris. È un po’… La guardai con l’aria di chi la sa lunga, sfidandola a completare la frase. — Fastidiosa — disse. — Può diventare stancante assorbire quel tipo di energia tutto il giorno. Ma non penso che sia questo. — La preoccupazione lampeggiò nei suoi occhi color lavanda. — Non è che prevedi che il piano non funzionerà, vero? Pensi che dovremmo fare solo un attacco rapido? — No! Rimase a bocca aperta. — No. Insomma, non penso ci sia niente di sbagliato, nel nostro piano. Ci vorrà solo un po’ più tempo del previsto. — Una piccola parte di me si illuminò all’idea di passare più tempo con Lily. — Allora, com’è che si chiama? — mi domandò Pavati alla fine, con un sospiro. Sapeva di pesce affumicato e… tabacco da pipa. — Dove sei stata, Pav? — Non importa. Mi chinai e le diedi una bella annusata. — Accidenti, hai preso un vecchio? Hai sentito cosa ha detto Maris. Dobbiamo andarci piano. È un’estate lunga, Pavati. Siamo qui solo da pochi giorni. — Rilassati, Calder. Era uno e uno soltanto. — E abbiamo un obiettivo prioritario. — I resti della felicità dell’uomo le illuminavano ancora gli angoli della bocca. Irritato da quella mancanza di autocontrollo, ma invidioso della sua conquista, allungai un dito verso le sue labbra. Forse potevo raccogliere un po’ di luce, per me. Sorrise e mi abbassò la mano con gentilezza. — Allora, come si chiama la ragazza, Cal? Distolsi lo sguardo dalla sua bocca e la fissai negli occhi. Questa volta era il mio turno di sentirmi imbarazzato. — Lily. — Può rappresentare un problema? Aggrottai la fronte. — Cosa vorresti dire? — Ascolta, Calder. Come regola, è un errore innamorarti della tua preda. Feci un largo sorriso. Di tutti noi, Pavati era l’unica ad avere esperienza in questo campo. Non sapevo niente sull’amore; sapevo solo che nessuno degli amanti di Pavati sopravviveva fino al secondo appuntamento. — Davvero, Pav? È la regola? — Sì, esatto. Incrociai le braccia al petto e mi sporsi all’indietro per guardarla bene. — E pensi che mi stia innamorando? Di lei? Ti sembra possibile? Mise un braccio intorno al mio. — Non ne sono sicura, ancora. Ma dovrai stare attento. Fidati di me su questo. — Non dovresti proiettare la tua propensione al romanticismo su di me. — Sfilai il braccio e aggiunsi: — È solo una ragazza. — Ah-ah. Non è solo una ragazza — ribatté Pavati, scuotendo la testa. — Rovinerai tutto, se ti innamori di lei. — Non ti seguo. Lasciamo stare, in ogni caso. È una conversazione ridicola. Ho tutto sotto controllo. — Fa’ come vuoi, ma io ti terrò d’occhio. Scrollai le spalle. — Tienimi d’occhio quanto ti pare. Ci soffermammo a guardare Lily Hancock, che ormai era quasi fuori dal nostro campo visivo. — È solo un mezzo per un fine. — Come dici tu. Sospirai. Pavati sarebbe rimasta ferma nella sua posizione. Niente avrebbe potuto farle cambiare idea. — Non pensi che dovresti seguirla e iniziare a raccogliere informazioni? Più tardi Maris ti farà il terzo grado. Mi allontanò con una spinta sulla schiena. Mi infilai di nuovo le mani in tasca e mi incamminai nella direzione che avevano preso Lily e i suoi nuovi amici. — Ci vediamo dopo sull’isola, allora? — Non vedo l’ora — disse Pavati con un cenno della mano, mentre i suoi braccialetti d’oro tintinnavano. 13 LEGGENDA Seguii l’odore dei fiori d’arancio lungo la strada, fino all’incrocio, poi lo ritrovai nello stesso parco dove avevamo lasciato la nostra macchina. Lily e i fratelli Pettit erano saliti sulle altalene. Non si dondolavano, ma erano semplicemente seduti sui sedili di plastica e trascinavano i piedi a terra, sollevando nuvolette di polvere intorno alle caviglie. Mi buttai dietro una barca in secca, poi seguii la linea delle rastrelliere per biciclette, fino a un grosso bidone verde dell’immondizia. Mi accovacciai a terra e sollevai le ginocchia fino al mento. Una coppia di anziani mi passò accanto e mi guardò incuriosita. Non c’era motivo per starsene seduto in terra, vicino al cassonetto. Feci loro un cenno e la donna alzò incerta una mano per rispondere al saluto. L’uomo mi guardò accigliato e prese la moglie per mano. Si allontanarono dondolando allegramente le braccia, tranquillizzati, a quanto pare, dal fatto che non ero un giovane delinquente. La loro soddisfazione reciproca era palpabile. Disegnava un’aura gialla intorno ai loro corpi, che sapeva di caramelle al limone. Ringraziai il cielo di non averli incontrati in acqua. Le mie sorelle erano già abbastanza feroci nella loro brama di emozioni. L’impulsività odierna di Pavati ne era solo un esempio. Guardai la coppia di anziani. Se avessi incrociato quel tipo di amore in acqua… non avrebbero avuto scampo, per come ero ridotto. La voce di Lily si levò dall’altra parte del bidone, ricordandomi perché ero là. Gabrielle Pettit rideva fragorosamente. Mi irritai all’idea che stesse prendendo in giro Lily. — Devi aver sbattuto la testa parecchio forte — le disse con un’altra risata. — Non fare la stupida — disse Jack. — Tu non sai cosa ha visto. — Sono certa che non ha visto un delfino. Anzi, ci scommetto la pelle. Ammesso che un delfino abbia trovato il modo di arrivare fin qui. Allora stava ancora pensando a quello stupido delfino. — Secondo voi cos’era, ragazzi? — chiese Lily. — Era davvero grande. — Alcuni storioni diventano enormi — disse Gabrielle. — A volte superano persino i due metri. — Girò e girò ancora, finché non ebbe attorcigliato le catene alla cima dell’altalena. Jack annuì. — In questo periodo, sono più sul metro, metro e mezzo al massimo. — No, era più grande — disse Lily. — Più grande di me. Chiusi gli occhi per rivedere l’intera scena nella mia testa. Credevo che Lily non fosse cosciente. Cosa avevo fatto? Cosa aveva visto? — Mi ha afferrata, facendomi volare fuori dall’acqua. Voglio dire, ero caduta da un’altezza notevole, poi sono schizzata fuori dall’acqua e sono atterrata sulla roccia. È stato come essere sparata dalla bocca di un cannone. — Tesoro — disse Gabrielle — a me sembra decisamente un’allucinazione. — Poi Calder mi ha portata a casa. — Parli di quel tipo sexy del trasloco? — Gabrielle sollevò i piedi da terra e iniziò a turbinare in un vortice di lunghi capelli neri. — Non ci avevi detto che eri andata a spasso con lui. — Non ero andata esattamente a s p a s s o con lui. Ero uscita con Sophie. Lui è comparso dopo. — Vedi, questa storia non mi piace — commentò Jack. — Ho sempre vissuto qui e non ho mai sentito parlare di quel tipo. Inoltre, se era con te, perché non ti ha salvata? — Lo ha fatto. Mi ha tirata fuori — disse Lily. — Insomma, dice di averlo fatto. — Scosse la testa. — Potrei giurare di aver visto anche qualcos’altro. Qualcosa di grande… con un anello d’argento intorno al collo. — Oh, no — disse Jack. Le parole gli uscirono in un lungo sospiro. Gabrielle lo guardò e aggrottò la fronte. — Senti, sta’ zitto. Non rifilarle le tue scemenze. — Un anello d’argento? — domandò Jack, ignorando sua sorella. — Esatto — rispose Lily. — Non riesco a smettere di pensarci. — Andiamo, voglio farti vedere una cosa. — No, Jack. Non farlo — disse Gabrielle. — La ragazza è già abbastanza confusa di suo. Jack afferrò la mano di Lily e attaccarono a correre. Gabrielle si accodò, del tutto contrariata. Mi alzai e li seguii, nascondendomi dietro le barche in secca, una fila di gommoni e alcune automobili parcheggiate. Tornarono alla Pinto e immaginai di averli persi, ormai. Una volta saliti in macchina, sarebbero stati fuori dalla mia portata. Invece, non salirono a bordo. Jack aprì il bagagliaio. Tirò fuori un oggetto piatto e quadrato e lo rigirò per mostrarlo a Lily. Era un quadro dipinto a olio. Grezzo. Di scarse qualità artistiche. Ma abbastanza nitido. Era Pavati. O qualcosa che le somigliava. Capelli scuri ondeggianti che le avvolgevano le spalle. Occhi a mandorla color lavanda, incorniciati da folte ciglia. Pelle scura, illuminata da una fonte di luce nascosta. Le braccia, la coda blu cobalto… L’anello d’argento intorno al collo. Non era un prodotto della sua immaginazione, ma come faceva Jack a essere ancora vivo se aveva conosciuto Pavati? Lily guardò prima il quadro, poi Jack. — Vorrai scherzare! — Hai detto che aveva un anello d’argento intorno al collo. — Sì — disse Lily, concentrandosi di nuovo sul dipinto. La sua voce si sentiva appena. — Una sirena? — La sua immaginazione non si era spinta a tanto. — L’ho dipinto per il corso di arte — disse Jack. — Dovevamo dare forma a una leggenda americana. — Pensate che il Lago Superiore sia abitato dalle sirene? — No — rispose Gabrielle, mentre Jack faceva una smorfia. — No, non lo pensiamo. Il disegno di Jack si basa su una leggenda del Maine. Diglielo, Jack. — Subito — disse Jack con riluttanza. — È una leggenda dei Passamaquoddy. La storia parla di un indiano, di sua moglie e delle sue due figlie che vivevano nei pressi di un grande lago. — No, non un lago — lo corresse Gabrielle. — Era l’Oceano Atlantico. — Sì, giusto. L’oceano. La madre diceva sempre alle figlie di non entrare in acqua perché, se lo avessero fatto, sarebbe successo qualcosa di terribile. Le ragazze, però, uscirono di nascosto. Volevano raggiungere a nuoto un’isola che si vedeva dalla loro tenda. — E poi? — chiese Lily. — Non fecero più ritorno. — Uffa, Jack. — Gabrielle mise un braccio intorno alle spalle di Lily. Jack proseguì. — Si misero tutti a cercare le ragazze, ma non riuscivano a trovarle. Il padre uscì in canoa nel lago e le vide nuotare, ma non somigliavano più alle sue figlie. Sembravano serpenti neri ed erano come intrappolate nelle alghe. «Il padre provò ad avvicinarsi, ma più si avvicinava, più loro sembravano affondare nella vegetazione. Più affondavano, più diventavano belle. Ma senti questa: avevano anelli d’argento intorno al collo. «Da allora, ogni volta che gli indiani uscivano in canoa, le ragazze cantavano e li trasportavano sull’acqua. Gli indiani non avevano bisogno di remare. Le sirene erano come gli angeli custodi della tribù. Un giorno, però, qualcuno provò a catturarne una. — E le tagliò i capelli. Bla, bla, bla — disse Gabrielle. La storia di Jack doveva averla giù sentita un’infinità di volte. Alzò gli occhi al cielo e sperai che questo convincesse Lily a lasciar perdere l’intera faccenda. Jack Pettit era fin troppo convincente. — Le tagliò i capelli? — ripeté Lily, gli occhi spalancati. — Esatto — disse Jack. — Provò a prenderla, ma era troppo scivolosa. Riuscì solo ad afferrarla per i capelli e, quando li tagliò, lei rovesciò la canoa e lo fece annegare. — Spaventoso — disse Lily. — Sì, ma ricorda — disse Gabrielle — non ci sono leggende sulle sirene da queste parti. — Non esattamente — disse Jack. — Gli Anishinabe hanno leggende sulle divinità dell’acqua. Li chiamano manitù. Non dovresti escludere niente. — C’è una corso d’acqua navigabile che va dal Maine a qui — disse Lily. Infilato nel mio nascondiglio, mi battei la fronte con un pugno. Perché cercava in tutti i modi di farlo diventare realtà? — Avrebbero potuto seguire la Via Marittima di San Lorenzo fino al Lago Superiore. Avrebbe senso. — Ma ti ascolti, Lily? Non ha senso per niente. — Gabrielle aveva chiaramente raggiunto il limite. — Sbrighiamoci, ho fame. Andiamo al supermercato. Ho un buono sconto. — La mia sirena non era scivolosa — disse Lily. — Non somigliava nemmeno a un serpente… — Passò un dito sul disegno, tracciando la coda. — Tu non hai una sirena — disse Gabrielle. Prese il quadro dalle mani di Jack, lo buttò nel portabagagli e chiuse lo sportello. Poi trascinò Lily lontano dalla macchina e sul marciapiede. Jack le seguiva. — Che mi dici di Calder? — le chiese Gabrielle. — Gli hai chiesto se ha visto qualcosa di strano? — Mi ha detto che sono stupida a pensare di aver visto un delfino. Immagino abbia ragione lui. — Senti — disse Jack. — L’ho già detto una volta e lo dirò ancora: non penso che dovresti continuare a frequentare quel tipo. Camminavo dietro di loro e lanciavo occhiate assassine a Jack. Non aveva bisogno di allontanare Lily da me ancora di più. Ci stavo già riuscendo io, più che bene. — Insomma, a che pensava quando ti ha detto di sporgerti dalla roccia? È come se avesse voluto farti cadere di proposito. A me sembra un imbecille. — In effetti è strano che non abbiamo mai sentito parlare di lui, fino a oggi — ammise Gabrielle. — Come hai detto che fa di cognome? — Ehm, White? Mi pare sia questo il cognome che ha detto a mio padre. — Bene, ecco un modo per fare chiarezza — disse Jack. Erano quasi alle porte del supermercato. Un vecchio telefono a gettoni, fissato con dei bulloni arrugginiti, si trovava sul muro esterno fra il negozio di alimentari e la Pizzeria di Big Mo, con un elenco telefonico legato alla mensola. Jack cominciò a girare le pagine deformate dall’acqua partendo dall’ultima. — Ah. C’è un White. Solo il numero di telefono, però. Niente indirizzo. — Forza, chiamalo! — disse Gabrielle. — Non voglio sprecare il mio credito per quel tizio. Lily non stava ad ascoltare. Era ancora presa dalla conversazione precedente. — Qualunque cosa fosse, è stato incredibile. La cosa più fantastica che abbia mai visto. Jack annuì. — Ti credo. — Davvero? Gabrielle alzò gli occhi al cielo. — Quello che hai visto? Erano solo le endorfine. Ti hanno fatto sentire felice perché non eri morta, quindi tutto ti sembrava bello. Non dimenticare, sai chi ti ha tirata fuori e sono pronta a scommettere che quel Calder White non porta un anello d’argento intorno al collo. E non ha nemmeno una coda, se è per questo. Lily sembrava a disagio. Non poteva negare che l’avessi riportata a casa con le mie gambe. E per quanto ne sapeva, non portavo anelli intorno al collo. Aggrottò le sopracciglia e piegò in basso gli angoli della bocca. Sapevo che avrei dovuto conoscerla meglio per capire cosa pensava. Se aveva già cominciato ad avere sospetti sul mio conto, avrei dovuto cambiare tattica un’altra volta. Lily e i due Pettit entrarono nel negozio di alimentari e io emersi da dietro il cassonetto, scorgendo il mio riflesso nella vetrina del Blue Moon Cafe. Gli occhi si posarono sul cartello CERCASI PERSONALE. 14 PROMESSA Il giorno dopo mi ritrovai a camminare su e giù nell’ombra di una caverna, scrutando il mondo attraverso una cortina di edera. Ogni cosa era cupa. La depressione mi attanagliava, nutrendosi della mia paura di fallire con Lily, ingozzandosi del timore di non liberarmi mai di Maris. Oppure erano i ricordi dolorosi del Lago Superiore a spingermi così vicino all’oblio? In ogni caso, ero al limite e guardavo avvicinarsi una sfortunata donna in kayak. Con il fiato sospeso aspettai il suo compagno. Chi va in kayak viaggia sempre in coppia. Come le strolaghe. Mentre si avvicinava, però, mi resi conto che era sola. Avrei dovuto saperlo. La sua aura vibrava di onde viola: il colore dell’indipendenza e dell’avventura. Un compagno l’avrebbe rallentata. Mi sentivo stringere le budella mentre la vedevo avvicinarsi e aspettavo il momento giusto. Se le avessi dato troppo preavviso, se mi avesse visto troppo presto, il sapore delizioso delle sue emozioni intense avrebbe fermentato fino a putrefarsi in paura. L’ansia degli umani era già abbastanza amara per la mia lingua, ma la loro paura… La paura mi costringeva a vomitare per ore tra i cespugli. Dal collo le pendeva una macchina fotografica dall’aria costosa. Era così pesante da non oscillare mentre remava. La donna posò la pagaia e prese la macchina fotografica, avvicinandola agli occhi. La puntò su un cumulo di rocce alla mia destra e cominciò a scattare foto mentre esaminava la vegetazione, abbassando l’obiettivo sulle onde che lambivano l’ingresso della grotta. Poi rimase pietrificata. Sapevo cosa aveva inquadrato nell’obiettivo. Balzai e le fui vicino, prima che lasciasse cadere la macchina. Una volta rovesciata la canoa, fu fin troppo facile tirarla fuori. La macchina fotografica si sfilò dal collo e finì sul fondo del lago, cancellando qualunque prova. Intrappolai la donna tra le braccia, trascinandola sempre più giù, e attesi che le sue emozioni filtrassero nella mia pelle. Ci stavano impiegando più tempo del solito e ottenni solo un rivolo di eccitazione, prima che il sapore acido del panico mi colpisse la lingua. Spalancai gli occhi e vidi Maris osservarmi compiaciuta dal fondo del lago. Fu il suo sorriso malevolo a indurmi a liberare la donna, che si affrettò verso l’alto, con una scia di bollicine che le uscivano dal naso. Non mi voltai per vedere se avesse raggiunto la superficie. Non avrebbe mai denunciato alle autorità l’aggressione da parte di un sirenetto. E comunque, anche se lo avesse fatto, chi le avrebbe creduto? Maris scosse la testa disgustata. — Seguimi — disse. Il suo ordine fu come un pugno telepatico allo stomaco. Nuotammo verso l’isola di Manitù, finché lei non si fermò per riemergere. Io uscii dall’acqua cinque secondi dopo. — Guardati intorno, Calder. Cosa vedi? — Qualcuno che si gode la mia sofferenza — dissi. Un sorrisetto le tese gli angoli della bocca. — Touchée. Ma lo riconosci, questo posto? Girai in cerchio, calcolando la distanza tra Manitù e la terraferma, fino all’isola più vicina. Formavano un triangolo con me al centro. Sì, riconoscevo il posto. — È dove sono caduto in acqua. — Bingo. Il ricordo della barca a vela affiorò nuovamente, con le lettere misteriose dipinte sullo scafo, i miei genitori umani che si allontanavano, mentre si affrettavano ad ammainare le vele per tornare indietro, per lanciare un salvagente… I polmoni mi bruciarono al ricordo; sentivo ancora il sole affievolirsi in puntini di luce mentre le acque buie inghiottivano il mio corpicino e il cuore smetteva di battere. — Forse nostra madre avrebbe dovuto lasciarti morire, Calder? La domanda mi riportò al presente. — Me lo sono chiesta spesso — proseguì Maris. — Non sei mai stato del tutto adatto per questa vita. Se ti servono ulteriori prove, quella donna di prima… — Sono solo fuori allenamento. — È questo che intendo. Perché mai saresti fuori allenamento? Non è normale. Non sapevo cosa risponderle. Ma sapevo dove voleva andare a parare e conoscevo la risposta alla domanda successiva. — Era anche mia madre, Maris. E voglio vendicare la sua morte. — Stupido ragazzino — disse con tono di sufficienza. — Lo so che vuoi farlo. La domanda che ti pongo è: ci riuscirai? — Falla finita, Maris. Abbiamo stretto un patto. Posso farlo. E lo farò. E una volta che tutto sarà finito, non dovrai più perdere tempo a chiederti se io sia normale oppure no. Prima che Maris avesse il tempo di rispondere, una 330 Sun Sport superò un’insenatura della costa, con il motore che faceva turbinare l’acqua, il conducente concentrato sulla riva, intento a ispezionare le rocce con un binocolo. Dietro di lui, Maris e io non tentammo nemmeno di inabissarci. — Dovrei prendere lui? — chiesi ironicamente. — Servirebbe a dimostrarti qualcosa? — No — rispose calma. — Lui no. Mi concentrai sulla figura a bordo della barca. Cosa aveva di tanto speciale? Quando riconobbi Jack Pettit nel fortunato navigante, rimasi di stucco. — Perché no? — Lui è di Pavati. Soffocai con una risata. — Oh, andiamo, mi vuoi dire che lei ha la precedenza? — Dovrai chiederlo a lei. — Non importa. Può prenderselo pure. Tra l’altro, farei tardi al lavoro. — Hai un lavoro? — mi chiese divertita. — Sono il nuovissimo barista del Blue Moon Cafe. — Hanno assunto te? — chiese Maris. — Forse non sono del tutto privo di talento, Maris. So essere persuasivo. E fa parte del mio piano. Come ho detto, non devi preoccuparti per me. Ho tutto sotto controllo. Inarcò le sopracciglia in un’espressione dubbiosa e nuotò via, lasciandomi a sprofondare nella malinconia in cui mi aveva trovato. Mentre nuotavo verso il molo di Bayfield, sentii che Tallulah mi seguiva a qualche metro di distanza. — Calder, aspetta. Mi voltai a guardare e vidi che aveva un neonato tra le braccia. La gola mi si strinse per il disgusto e mi sollevai immediatamente. — Oh, insomma, Lu. Perché? Quando mi porse il fagotto, però, capii che non si trattava di un bambino. Era solo un pesce bianco gonfio di uova. Scoppiò a ridere, leggendo la mia impressione nei pensieri che sfumavano, e mi cinse il collo con un braccio lungo e cereo, per farmi avvicinare. Ridacchiando, la allontanai ed esaminai il suo bottino. — Dove sei stato? — mi domandò, rivelando con il pensiero la sua vivida immaginazione. Spalancai gli occhi di fronte a quelle immagini. — Insomma, Tallulah, vuoi smetterla? Non sono Pavati. Smetti di immaginare il peggio. — Ma non potevo fare a meno di aggrapparmi all’ultima scena che mi aveva mostrato: Lily su un’amaca, sdraiata sotto di me, le sue dita nei miei capelli, il suo tallone che mi risaliva lento sul polpaccio. Tallulah sorrise e mi prese per mano. Nuotammo insieme, il pesce infilato sotto un braccio, le nostre code argentate e identiche che luccicavano e si muovevano in perfetta sincronia. Di nuovo mi chiesi come sarebbe stato per noi vivere senza Maris. Ci saremmo uniti alle sirene del Lago Michigan? Ripensandoci, forse no. Con la fortuna che ci accompagnava, non sarebbe stato un grande affare. Inoltre, non era già abbastanza brutto essere legato alle mie sorelle? Non riuscivo a immaginare di poter creare lo stesso legame duraturo con degli sconosciuti. Come per ogni branco di pesci, una volta formato, nessun individuo poteva staccarsi dal gruppo. Comunque, non a lungo e non per scelta. Per quanto ne sapevo, ero l’unica eccezione alla regola e potevo godermi la pausa invernale solo per pochi, dolci mesi. La speranza mi esplose nel cervello come crisantemi di luce. La promessa di essere liberato dal controllo del gruppo era troppo meravigliosa da immaginare. Ero certo che Lily mi avrebbe portato Hancock. Alla fine. Non avrei aspettato a lungo per avere la mia ricompensa. Tallulah scese di una decina di metri e trovò da sedere su un ampio masso, sul fondo del lago. Consultai l’orologio, poi le girai intorno per tre volte, osservandola mentre scopriva i denti e li affondava nel pesce, strappandone la carne con una scossa della testa. Quando ebbe finito, mi guardò con tristezza e si limitò a dire: — Non mi piace che passi il tempo con lei. — Il viso di Lily lampeggiò di nuovo nella sua mente. — Non devi mica fartelo piacere — dissi. — Se solo Maris ne fosse rimasta fuori… Il piano originario era migliore. — Mi mostrò i denti e distolse lo sguardo, e la testa le si riempì immediatamente di immagini confuse: un banco di alose, un ristorante a New Orleans, il sedile posteriore dell’Impala. Scoppiai a ridere, riconoscendo il tentativo di tenere segreti i suoi veri pensieri. Confondere le immagini era un trucco che usavo spesso con le mie sorelle e non avrei privato Tallulah di quel po’ di riservatezza che si era creata. Era sempre pronta a ripagare i favori. Le feci l’occhiolino e la salutai, ma prima di andarmene mi afferrò per la mano e mi tirò indietro, finché ci trovammo faccia a faccia. — Ho sentito quello che Maris ti ha detto prima. Ma certo. Maris non era mai discreta. — Non penso che nostra madre abbia sbagliato a rianimarti, Calder. Non l’ho mai pensato. Sei una bellissima creatura, con tutto il tuo strano comportamento. Non mi interessa quello che pensa Maris. — Quindi non pensi che fallirò? — No, non lo penso. Devi farcela, Calder. E poi, quando ti avrà lasciato libero… — Mi strinse più forte la mano. — Voglio che mi porti con te. Tirai via le dita. — Prometti che mi poterai con te. — Le sopracciglia le si sollevarono in una V rovesciata. — Devo andare, Lu. Non voglio fare tardi il primo giorno. — Mi diressi verso la superficie dell’acqua, lasciandola sotto una pioggia di scintille blu, senza averle promesso niente. — Non ti lascerò fallire — mi gridò da lontano, con le parole distorte dalla mia scia. Più tardi, quella sera, molto tempo dopo la fine del mio turno al caffè, tornai fuori dalla casa degli Hancock drogato di caffeina, facendo avanti e indietro nell’acqua placida. Come avrei fatto, esattamente, a far funzionare il piano? Una brezza soffiò tra gli alberi, portando al mio naso un odore frizzante di agrumi e pino. Quando superai una linea invisibile nell’acqua, l’aria si riempì di un ronzio sommesso, seguito da un r umor os o chunk, e il lago fu illuminato da riflettori in un raggio di trenta metri dall’estremità del pontile degli Hancock. Mi immobilizzai, accecato per un attimo. La luce del portico si accese e la voce di Hancock disse forte: — Che succede? Chi va là? Fatti vedere. — Va tutto bene, papà. Non è niente. Sono solo pipistrelli a caccia di zanzare. Devono aver attivato i sensori di movimento. Mi schermai gli occhi con una mano e cercai di localizzare la voce. Seduta sull’estremità del pontile, i piedi in acqua, gli occhi brillanti, Lily mi guardava dritto in faccia. La luce sul portico si spense, Hancock borbottò qualcosa sul fatto che Lily dovesse tornare in casa “prima di subito”. — Che ci fai qui fuori? — bisbigliò Lily. Spense una piccola torcia e chiuse il libro. — Mi crederesti se ti dicessi che ero solo di passaggio? Sbuffò. — Non sai mentire, Calder White. Il mio cuore ebbe un piccolo sussulto al suono del mio nome sulle sue labbra e mi sforzai di impedire alla pinna caudale di sbucare dall’acqua. — Scusa se ti ho spaventata. — Non mi hai spaventata. — Davvero? — No. Ma non mi hai ancora detto cosa ci fai qui fuori. Se ancora non lo sapessi, nessuno fa il bagno nel Lago Superiore, soprattutto ad aprile, a mezzanotte. E poi, è pericoloso. Ci sono… Lasciamo stare. Evitando l’ovvia domanda, mi concentrai sul suo profilo, penetrando l’oscurità. Ero sicuro che di me non potesse vedere nient’altro che la faccia, ma questo non mi aiutava a calmare i nervi. Questa ragazza sapeva troppo. E aveva decisamente molto autocontrollo. Il meglio che potessi fare era girare le accuse contro di lei. — Potrei essere io a chiedere a te cosa ci fai qui fuori, nel cuore della notte. — Sono a casa mia. Vivo qui. Posso fare quello che mi pare. Sospirai sconfitto. — Va bene. Hai vinto. — Allora? Me lo dici o devo immaginarmi il peggio? “Il peggio?” Per un secondo pensai di dirle la verità; non che mi avrebbe creduto. Se le avessi detto che ero un serial killer che si aggirava intorno alla sua famiglia di notte, l’avrebbe etichettato come semplice sarcasmo. — Se proprio vuoi saperlo, quest’estate parteciperò a una gara di triathlon e dovrò nuotare per un chilometro e mezzo all’aperto. Di giorno ci sono troppe barche, per questo mi alleno di notte. Sbuffò. — Le barche sono ancora in secca. Mi affannai per trovare una risposta, ma lei continuò a parlare: — Spero che tu stia indossando una muta. — Ma certo. Lily storse la bocca come se non credesse alle stupidaggini che le stavo rifilando. Si alzò in piedi. — Come vuoi. — Dove vai? — Dentro. È tardi. — Si guardò alle spalle, in direzione della casa. — E devo assicurarmi che tu non abbia fatto venire un infarto a mio padre o qualcos’altro. — Borbottò qualcosa sottovoce che suonava come “folle”, ma non ero certo che parlasse con me o con se stessa. Accese la torcia. Il fascio di luce le dondolava davanti mentre camminava rapida verso casa, con il vecchio libro di poesie stretto al petto. 15 VITTORIANI NEL VERDE La mattina dopo ero appoggiato al muro di mattoni della Libreria Harbor, con il ginocchio sollevato e la visiera del berretto calata sugli occhi. I capelli iniziavano ad asciugarsi e ad arricciarsi sulle punte. La libreria era ancora chiusa. Consultai l’orologio. Avrebbe dovuto essere già aperta. Alcune persone camminavano sul marciapiede e rispondevo con un cenno ai loro saluti. Un uomo, con il giornale sotto braccio, stava portando a passeggio un bassotto che quasi toccava terra con la pancia. Il cane mi guardò con gli occhi arrossati, mentre trotterellava verso l’angolo, e il suo unico pensiero era: quanta strada manca? Dietro di me, la serratura scattò e io sobbalzai per il rumore. — Entra, entra pure — disse una donna. La sua felpa delle isole Apostle era nuova e non era ancora stata lavata. Mentre entravo, si arrotolò le maniche sopra i polsi. — Chiedo scusa per il ritardo — disse. — Ero andata a recuperare la gatta. È scappata dal retro quando sono arrivata. — Una gatta maculata si strofinò sui jeans della donna, all’altezza delle caviglie, facendo le fusa soddisfatta. Mi chinai per accarezzarle la testa e lei sollevò il muso per annusarmi le dita. Soffiò e corse nella stanza sul retro. — Scusala, a volte è proprio suscettibile. Posso aiutarti a trovare qualcosa? — Poesie — dissi mentre mi alzavo. — Ecco, non abbiamo una scelta e n o r m e in merito. Abbiamo soprattutto i titoli di maggior successo e alcuni libri di interesse locale, ma… — Mi passò accanto e tirò fuori una scala da dietro il bancone. — Penso… — disse, appoggiando la scala e arrampicandosi fino al terzo scalino. Guardò in basso, verso di me. — Robert Frost? — A dire il vero, cercavo qualcosa dei vittoriani. — Emise una specie di “uh” fiacco e passò il dito su alcuni volumi sullo scaffale più alto. — Che ne dici di questo? Dovrebbe coprire il periodo Regency e l’epoca vittoriana. — Mi porse il libro e me lo rigirai tra le mani. Sulla copertina c’era scritto Un’epoca di eleganza. Sotto il titolo dorato lessi i nomi di Brontë, Byron, Keats, Kipling, Rossetti, Tennyson, Wordsworth, Yeats. — Perfetto — dissi, sorridendo. — Oh, bene. Sono lieta che faccia al caso tuo. Allora, vediamo… — Scese dalla scala e andò alla cassa. Tirai fuori una banconota da venti dollari stropicciata. Nelle sue pieghe c’era ancora l’odore di New Orleans. — Un appassionato di poesia, eh? — Non esattamente. Non ancora, comunque. — Le porsi i soldi proprio quando la gatta si affacciò da dietro l’angolo per guardarmi. La fissai intensamente e lei mi mostrò i denti. — Signora Murphy, no — la rimbrottò la donna. — Devi essere gentile con i clienti. — Non fa niente — dissi, e me ne andai. Poco dopo, lungo la costa trovai un tratto erboso del parco cittadino, tra la marina di Bayfield e il molo dei traghetti. Una fila di massi enormi riparava la spiaggia dalle onde. Una quercia bianca e nodosa cresceva al centro del parco. Al limitare della sua ombra, trovai il posto giusto per sedermi sull’erba. Aprii il libro e studiai l’indice, quindi iniziai da Emily Brontë, cercando nelle sue poesie qualcosa di utile, seducente, che potesse attirare Lily e porre fine alla ridicola repulsione che provava nei miei confronti. Allora, i miei occhi si posarono sull’arma più ovvia. Avevo già letto il primo verso, non sulla pagina di un libro, ma sul tatuaggio di Lily: Non è vile la mia anima. Feci un’orecchia alla pagina e bisbigliai ogni verso finché non mi rimase scolpito nella memoria; poi passai alla Carica della brigata leggera di Tennyson, con i versi “Mezza lega avanti, nella valle della Morte”. Un altro componimento era interamente dedicato alle “Isole blu”, un altro ancora alla Dama di Shalott. Chi erano queste persone? Tutti loro si ponevano la mia stessa domanda: come sfuggire a una vita in cui ogni cosa buona era effimera? Quando arrivai a Yeats, però, il cuore quasi si fermò. Una sirena trovò un ragazzo che nuotava, Lo prese per sé, Strinse il corpo al suo corpo... Chiusi il libro di scatto e premetti gli occhi sulle ginocchia. Cosa ne poteva sapere Yeats? Nonostante la giornata di sole, un’ombra si posò su di me, rinfrescandomi la pelle, mentre gocce d’acqua mi cadevano sui piedi scalzi. Non avevo notato nessuna nuvola, prima. Cercai di proteggere il mio nuovo libro dalla pioggia e sobbalzai quando scorsi Tallulah che mi osservava dall’alto. Era completamente vestita (grazie al cielo!), ma aveva i capelli ancora gocciolanti. Il suo viso eclissava il sole, creando un alone di luce intorno alla testa. — Cosa ci fai qui, Lu? — Ti cercavo — disse. — Bene, mi hai trovato. Siediti. Si mise a sedere vicino a me e l’umidità mi impregnò il fianco destro, calmandomi, mentre ripercorrevo mentalmente le poesie. Come se riuscisse a leggermi il pensiero anche a terra, Tallulah si sporse per afferrare il volume. — Che roba è? — Compiti per casa. Il libro si aprì alla pagina segnata e Tallulah sfogliò oltre, fermandosi con uno sbuffo. — Cavolo e questa cosa sarebbe? Non dovevo tirare a indovinare per sapere quale stesse leggendo. — Poesia vittoriana. A Lily piace questa roba. Ci credi? — Solo una coincidenza, giusto? — Oh certo, voglio dire, ci sono tante altre poesie là in mezzo che non c’entrano niente con noi, ma è strano, vero? — A dir poco. — Pensi che sia un bene o un male? — Penso che dipenda dall’uso che ne farai, Calder. Usala a tuo vantaggio, senza farci scoprire, ovviamente. — Figuriamoci. — Basta che ti sbrighi, capito? — Si raggomitolò su un fianco e mi posò la testa sulla spalla. — Ecco. Che ne pensi di questa? — disse, mostrandomi una pagina diversa. — Se mi leggessi questa, potresti farmi qualsiasi cosa. — Le sfilai il libro dalle dita e lessi ad alta voce: La prima volta che mi baciò, baciò solo Le dita della mano che scrive; Da allora divenne più pura e bianca, Restia alle lusinghe del mondo, incline a dire: “Senti?”, Quando parlavano gli angeli. Un anello d’ametista Non vorrei qui, più puro alla vista Di quel primo bacio. Più in alto il secondo, In cerca della fronte, che colse per metà, E per metà sopra i capelli. O sublime ricompensa! Crisma d’amore che la corona dell’amore, Con dolcezza salvifica, precedeva. Il terzo, sulle mie labbra, fu deposto In purpurea perfezione; da quel giorno, Con orgoglio, ripeto: “Mio amato, o mio!” — Inutile — disse, sospirando profondamente. — Con questa roba credo che non andrai molto lontano. Questo libro dovrebbe avere un’etichetta di avvertimento. — Attenzione, usare con moderazione? — suggerii. Annuì. — Oppure: tenere lontano dal fuoco. — Ricevuto — dissi, facendo un rapido saluto militare. 16 COME UN LIBRO Due giorni dopo, avevo appena finito di strofinare i tavoli e le sedie variopinte del Blue Moon Cafe e stavo iniziando a lucidare il bancone di marmo. Quando la campanella della porta suonò, alzai lo sguardo e Lily varcò la porta con indosso una giacca di velluto blu e un cappello di feltro. Fece due passi, poi si fermò di colpo quando vide un sorriso allargarsi sul mio volto. — Oh, insomma. Ancora tu? — Allontanò le braccia dal corpo formando una strana angolazione. Sapevo che avrebbe reagito in questo modo. L’avevo previsto. Fu ancora più divertente di quanto avessi immaginato. — Ancora io — dissi, scrollando le spalle e dando un’altra strofinata al bancone. Guardò in giro nervosa, come a chiedersi se dovesse andarsene, ma poi drizzò le spalle e assunse una posa decisa. Calpestò a passi svelti il pavimento a scacchi e si mise le mani sui fianchi. — Che cosa fai qui? — Io qui ci lavoro — risposi in modo molto pratico, piegando lo strofinaccio bagnato. — La domanda più giusta è, che cosa ci fai t u qui? — Trattenni un sorriso. Conoscevo la risposta, ma era comunque divertente chiederlo. Maris mi aveva trovato lavori davvero schifosi, in passato. Almeno questo si stava rivelando uno spasso. Era imbarazzante quanta soddisfazione ottenessi a punzecchiare Lily. — Lavoro qui adesso — disse. — È il mio primo giorno. — Ma non mi dire. Be’, in questo caso prendi un grembiule. Lo trovi qui sotto. — Mi chinai per finire di riempire la vetrina con i dolci di pasta sfoglia. Lei si piegò sul bancone e mi scrutò. — Mi stai tampinando? — chiese. — Qui c’ero prima io. — Sapevi che stavo facendo domanda per un lavoro qui. Mi alzai e affrontai direttamente l’accusa. —Ti è mai venuto in mente che forse lavoravo già qui quando me l’hai detto? Lei rimase in silenzio per un attimo, valutando la possibilità, in bilico tra l’imbarazzo e il dubbio persistente. Poi disse: — È vero? — No. Sospirò e mi lanciò un’occhiata esasperata. La sua smorfia mi strappò un sorriso. Tutta la situazione era irritante. Lei doveva essere malleabile, persuasibile. Facile da abbordare. È questo che doveva succedere. “Non fallire, Calder. Non ti permetterò di farlo.” Lily espirò tutta l’aria dai polmoni e mi rivolse uno sguardo durissimo. — Allora mi stai davvero seguendo. Era inutile mentire. — Sì. Ti sto seguendo. L’espressione del suo volto, attentamente controllata, vacillò. — Perché? Mi sporsi sul bancone, unendo le mani e avvicinando il mio viso al suo. Ci guardammo di nuovo negli occhi, ma stavolta rifiutai di lasciarle allontanare lo sguardo. — Perché mi piaci. Scusami se ti rendo nervosa. Ogni colore svanì dal suo volto. — Pensavo che tu mi credessi pazza. — Mi piace la pazzia. — Sei incredibile — borbottò. — Così mi hanno detto. Sfilò la giacca di velluto dalle spalle e l’appese a un gancio fissato alla parete. La camicetta di pizzo arrivava a stento alla parte alta della gonna, mostrando un ritaglio di pelle pallida. Tirai fuori un grembiule blu e glielo lanciai. Lily girò intorno al bancone mentre se lo legava in vita. La signora Boyd uscì dal retro, intenta a spuntare le voci da una lista infilata in un portablocco a molla. La sua gonna a fiori rosa e blu ondeggiava a ogni passo. Non stava guardando dove andava, e rischiò di sbattere contro Lily. — Oh. Lily Hancock, vero? Bene. Puntuale. Mi piace. Devo prendere altro latte all’emporio. Calder, tra poco dovrebbero fare una consegna, quindi se l’autista ha bisogno della firma, mettila pure tu. — Lily, Calder può spiegarti tutto. Ha iniziato da pochi giorni, ma impara molto in fretta. Sei in ottime mani. — Piegò la lista e la mise in borsa, infilando il portablocco dietro il registratore di cassa. — Torno presto — disse. La campanella della porta tintinnò. Lily si girò per avvicinarsi a me. — Tu mi devi spiegare tutto? Scrollai le spalle. — Non c’è granché da dire. Il registratore di cassa ha ogni voce del menu su un tasto diverso. Premi quello che ordinano, e poi il tasto TOTALE. E dai il resto. Ti insegnerò come usare la macchina del caffè man mano che arrivano gli ordini. — Ci sarà parecchia gente? — Ne dubito. Ce ne sarà di più quest’estate, quando cominceranno ad arrivare i turisti, ma sarà di una noia mortale almeno fino alla fine di maggio. Non avrai molto da fare, tranne parlare con me. — Grandioso. Strascicò la parola, per farmi capire quanto poco l’allettasse l’idea. Per un istante i nostri sguardi si incontrarono. Mi immersi nel grigio chiaro dei suoi occhi, il cielo prima della tempesta, quasi la stessa intensità dell’alone che si agitava intorno alle curve del suo corpo. Mi ricordò il colore che hanno i ragazzini quando si sentono tartassati, ma per Lily la vibrazione era diversa, più argentea, come un martirio rassegnato o la disponibilità al sacrificio. — Cosa fai? — mi chiese. — Ti guardo. Lo trovi tanto odioso? — Odioso? Chi lo dice? — Mmm. Io, credo. — Allungai un braccio verso di lei, e mi tirò uno schiaffo su una mano. — Be’, non fissarmi così. Non mi piace — disse. — Cosa diresti se ti dicessi che non posso farne a meno? — Direi che sei odioso. — Perché non ti piaccio, Lily Hancock? — Non capivo perché la domanda fosse uscita così diretta. Probabilmente perché stavo diventando matto a non saperlo. Se avessi fatto qualcosa di sbagliato, avrei dovuto cambiare strategia. O c’era dell’altro? A prescindere dal piano di Maris, volevo comunque piacere a Lily? Spinsi con forza questo pensiero fuori dalla mia testa. Era ridicolo. Lily incrociò le braccia sul petto. — D’accordo. Ecco qui. Perché hai aspettato tanto per venirmi a salvare? — Tanta ostilità solo per questo? Davvero inutile. Lily, sono arrivato il prima possibile. La ragazza mi fissò il collo e il mio pomo d’Adamo vacillò. Sapevo che l’anello d’argento non si vedeva, ma lei sembrava capace di guardarmi dentro. Si avvicinò e io feci un rapido passo indietro, all’improvviso… nervoso, come se lei rappresentasse un pericolo ignoto. L’accusa di Pavati aleggiava da qualche parte nella mia mente. — Immagino di sì — disse lei. — Ed è evidente che stai bene. — Se lo dici tu. — Gettò un’occhiata al locale. — C’è qualcosa in particolare che dovrei fare? — Vieni con me. — La portai nella stanza sul retro e le mostrai dove la signora Boyd conservava i sacchi di caffè. — Portane un paio di là tutte le mattine. Uno per il contenitore. L’altro va sotto. I tovaglioli e la carta assorbente sono qui, su questo scaffale. — Presi una grossa manciata di tovagliolini di carta. — Assicurati che i contenitori siano ben pieni. — Capito — rispose lei, arrancando sotto il peso del sacco di caffè. — Allora — dissi, soffocando una risata. “Resta sempre sul vago. Continua la conversazione.” — Per ora Bayfield ti piace? Lily fece un sospiro esasperato. — Be’, come sai, l’inizio è stato davvero interessante. Uff. — Lasciò cadere il sacco sul bancone. — Certo, ma sto ancora aspettando che tu mi dica perché non sei mai stata qui prima. — Non so. Mamma e papà una mattina hanno semplicemente annunciato che ci saremmo trasferiti. C’era qualcos’altro che non voleva dirmi, ma annuii. — La spontaneità è un’ottima cosa. Le cose migliori nella vita accadono quando lasci che gli eventi… si svolgano. Quando cerchi di controllare troppo una situazione, ti rovini con le tue mani. — So cosa intendi. — Tornò indietro a prendere il secondo sacco, mentre io la seguivo da vicino. — Allora, tuo padre insegna al college? — Sì. Insegnerà alla facoltà di Studi umanistici e Naturali dal prossimo trimestre. Ma basta parlare di me — aggiunse subito. — Cosa mi dici di te? — Ehm. Che cosa vuoi sapere? — chiesi, deluso che non fosse più disposta a essere l’argomento della conversazione. — Sono un libro aperto. — Allora dimmi tutto — ribatté. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa con cui tagliare il sacco; le porsi un paio di forbici. — Che ne pensi della versione ridotta? — Puoi cominciare da lì. Va bene qui? — chiese, aprendo il contenitore del caffè. Feci un cenno di assenso con il capo. — Bene, vediamo, mi piacciono… i calzettoni di lana e le magliette di cotone. — Ne prendo atto. Cos’altro? — Si passò le dita tra i capelli e li raccolse in un largo chignon. Mi chiesi come sarebbe stato passarle le dita tra i capelli in quel modo, e mi lasciai distrarre da questa fantasia, finché la pelle non mi bruciò sotto il suo sguardo paziente. — Mi piace il colore dei Caraibi. — Smisi di parlare per un attimo e assorbii l’energia del suo sorriso prima di aggiungere: — Cani, non gatti. Boxer, non slip. Rosse più delle brune… — La osservai di traverso; per un attimo, il mio sguardo incrociò il suo. — Ho una predilezione per le ragazze con le giacche di velluto… e penso che tu sia la ragazza più bella che io abbia mai visto. Si strozzò per la sorpresa, borbottò e scosse la testa. — Vedi? È questo che intendo. — Cosa? — Nessuno parla così. Ti conosco appena. Rimasi sinceramente confuso. Alle ragazze non piaceva sentire queste cose? Inoltre, senza forzature, era pure la verità. — Be’, io parlo così. E dovresti essere abituata al fatto che le persone ti dicano che sei bella. — Be’, non lo sono — ribatté, e sembrava che iniziasse a irritarsi di nuovo con me. Il sentimento era reciproco. Mi appoggiai alla parete e sollevai un ginocchio. — Va bene. Ritiro tutto. Sei assolutamente comune. Noiosa, noiosa, noiosa. Un tipo qualunque sotto ogni aspetto. — Molto meglio — disse lei, rasserenata. Mi pugnalò la spalla con un dito. Entrò una donna che comprò sei brioches al cioccolato. Lily le mise in un sacchetto, poi le mostrai come battere l’ordine. — Grazie. Torni presto — disse, salutando con la mano mentre la cliente usciva dalla porta. — Allora… — dissi ritornando all’attacco — torniamo a te. Alla tua famiglia. Com’è tuo padre? Dev’essere di una noia mortale per generare una persona banale come te. Lei emise un sospiro esasperato. — È divertente. — Poi sorrise come se stesse ricordando una battuta. — Ama molto mia madre, e non è del tutto sgradevole in pubblico. — Un altro sorriso. — Davvero? Niente battute stupide? Nessun pantalone imbarazzante? Lily si lasciò cadere su una sedia di colore viola acceso e infilò una pila di tovagliolini nel contenitore di acciaio inossidabile. — No. È in gamba. Ha passato un brutto periodo da ragazzino con i genitori, quindi penso che ce la metta tutta per essere un buon padre. Aveva sempre desiderato tornare qui, ma credo che avesse paura di farlo. — Di cosa c’è da avere paura? Lily esitò, come se non avesse avuto l’intenzione di andare così presto sul personale. Restò con la bocca spalancata e arrossì. — Si potrebbe dire che questo luogo ha fatto a pezzi la sua famiglia. Rimasi affascinato dall’ironia. Non era stata la mia famiglia a venire distrutta? Non potevo farla fermare lì. La fissai negli occhi e le imposi la volontà di condividere altre informazioni. Alcuni pensieri uscirono da me – immagini di noi due che sussurravamo in confidenza – e li spinsi nella sua mente, forzandola a fidarsi. Lei li combatté. Era più forte di quanto mi aspettassi, forse più di qualunque umano avessi mai incontrato. Ma proprio quando pensavo di non potermi aprire un varco, e di essere un fallimento più grande di quanto persino Maris avesse ritenuto, la resistenza di Lily crollò. Drizzò il mento e disse: — Si dice che questo luogo abbia portato alla follia mio nonno. Mi appoggiai al bancone, sentendo il marmo fresco sotto i palmi delle mani, e mi preparai a ciò che sarebbe arrivato dopo. Lei spinse indietro con forza la sedia, facendola stridere sul pavimento. — Disse di aver visto un mostro nel lago. — Mi osservò con attenzione. — Ti sei pentito di averlo chiesto? — No — risposi. — Trascinò via l’intera famiglia da qui senza alcun avvertimento. Tutti dissero che era pazzo. In seguito, a mio padre non venne mai permesso di entrare nell’acqua – in nessun luogo – e di certo non tornarono mai qui. Persino quando mio padre fu grande abbastanza da venirci da solo, se ne tenne alla larga per una forma di rispetto. — Allora perché ha cambiato idea? — In parte a causa della salute di mia madre. E il nonno è morto a gennaio. Penso che per mio padre questo trasferimento sia una questione “prendi di petto i tuoi demoni”. Deglutii forte. Per fortuna non aveva modo di sapere che il demone si trovava a pochi centimetri da lei, e stava usando il beccuccio per il vapore per trasformare una caraffa di latte in una schiuma perfetta. — L’ossessione per il mostro mandò in pezzi il matrimonio dei miei nonni. Il nonno venne persino curato per un po’. Non lo so. Forse era pazzo, ma a parte le storie strane, a me è sempre sembrato piuttosto normale. Perché mi guardi così? — Così come? — Come se provassi dolore o qualcosa del genere. — Si accigliò. — Tu sei qui da molto tempo, giusto? Hai mai visto… Sobbalzai. Non so cosa vide sul mio volto, ma qualunque cosa fosse la fece inspirare a fondo. — Oh santo cielo, lo sai. Hai sentito le storie! È così, vero? Finsi di essere distratto dal termometro sul beccuccio per il vapore e respinsi sdegnato l’accusa. — Calmati, Lily. Sto solo pensando che la tua è una storia davvero interessante. Tuo nonno ha mai detto che aspetto avesse il mostro? — Chiusi la valvola del beccuccio. — Sai che ti dico? Lascia perdere. Il modo in cui scosse la testa mentre pronunciava quella frase, la maniera in cui il suo viso assunse la stessa espressione di quando guardava il dipinto di Jack Pettit… Capii che sapeva con esattezza da che genere di demone il vecchio li aveva messi in guardia. Naturalmente, tutti pensarono che fosse matto, ma suo figlio non era così ignaro come avevamo creduto. Non mi stupiva che ce l’avesse con me per averle dato della pazza. Magari pensava che fosse genetico. Forse la mia piccola acrobazia di salvataggio le aveva fatto temere di finire in un ospedale psichiatrico. Per questo la rendevo nervoso. Dovevo subito mettere fine alla questione. — Ascolta, Lily. Solo perché tuo nonno ha perso le rotelle, non significa che sia pazza anche tu. Vedere i delfini nel Lago Superiore non ti rende una svitata. — Ah sì? E cosa mi rende? — Be’, resto ancora della mia teoria sulle allucinazioni indotte dall’ipotermia, ma che ne dici se pensassimo che ti rende fantasiosa? Non c’è niente di sbagliato in questo. Anzi, io la definirei una qualità. Lei sorrise; capii che le era piaciuta quest’interpretazione. Era il momento di giocare il mio asso nella manica. Alzai un dito e andai nella stanza sul retro, tornando con il mio nuovo libro di poesie. Girai la copertina verso di lei in modo che potesse leggere il titolo. Le si illuminarono gli occhi. Mi venne in mente l’espressione bersela tutta. — L’immaginazione è alla radice di ogni sforzo creativo, Lily. La pittura, la poesia… Guarda Mary Shelley. Se non avesse visto il mostro nella sua mente, non avrebbe mai scritto Frankenstein. Oppure, a pensarci bene, La dama di Shalott di Tennyson non parla di una ragazza impazzita? — Maledetta, più che altro. — È comunque una poesia bellissima. — D’accordo — disse Lily. — Capisco cosa stai cercando di dire. Non sapevo ti piacessero le poesie. Non penso di conoscere un solo ragazzo a cui piacciono. Le feci l’occhiolino e lei arrossì, allontanando lo sguardo mentre la campanella suonava sopra la porta d’ingresso. Irrigidii la schiena quando vidi le mie sorelle entrare nel locale schierate a triangolo, con Maris davanti. Aveva i capelli sciolti dietro le spalle, come un mantello, sopra una semplice maglietta bianca. Le sue iridi d’argento brillavano. Pavati mi strizzò l’occhio. La camicetta rosa da zingara era scivolata scoprendole una spalla. Tallulah notò il libro mentre lo infilavo sotto il bancone, poi alzò lo sguardo, fingendo di leggere la lavagna del menu. — Cosa posso servirvi? — chiese Lily in tono vivace. Avrei voluto mettermi tra lei e Maris, ma dovetti accontentarmi di stare fermo immobile al suo fianco. Lily non diede segno di aver riconosciuto Pav e Lulah dall’incontro nel bosco (e neanche dal dipinto di Jack). Speravo che non le ricordasse. Volevo solo servirgli da bere e spingerle fuori dalla porta. — Ciao — disse Pavati. — Ti ricordi di me? Lanciai un gemito. — Le sorelle di Calder — rispose Lily. — Maris White — disse Maris, porgendole la mano. — Non ci siamo ancora presentate. Trattenni il fiato. — Lily Hancock — disse lei, stringendo con noncuranza la mano di Maris. Non sembrò accusare alcun segno di dolore. Emisi un sospiro mentre la macchina del caffè sibilava e strideva. Mi affrettai a preparare le bevande e a metterle nei bicchieri da asporto. Maris mi lanciò un sorriso condiscendente. Portarono i bicchieri a un tavolo vicino alla finestra e disposero le sedie in una posizione insolita, con lo schienale attaccato al vetro, tutte rivolte in linea retta verso il bancone. Sollevarono i bicchieri in armonia coreografica, bevendo a piccoli sorsi. Senza mostrare alcun segno di volersene andare. Senza parlare. Limitandosi a osservarmi. “Che discrezione, ragazze. Il minimo che possiate fare è battere le palpebre.” — Forse dovresti andare a prendere un altro sacco di miscela French Roast — dissi a voce bassa a Lily. Lei iniziò a protestare, poi inarcò le sopracciglia e lanciò un’occhiataccia alle mie sorelle. Non disse altro, limitandosi a voltarsi e ad andare nel retro. — Che cosa pensate di fare? — chiesi a Maris. — Siamo solo venute a vedere come vanno le cose. Non c’è niente di male, ti pare? — Non dovete seguirmi dappertutto. — Pavati pensava che fosse meglio venire a controllare. La guardai di traverso e lei scrollò le spalle. — Smettetela di preoccuparvi. Sta andando tutto benissimo. — “Tranne il fatto che Jason Hancock è già in guardia contro i mostri del lago, e Lily pensa di aver visto una sirena.” — Ho solo bisogno di qualche altra settimana. — Dieci giorni, Calder. Ti concedo dieci giorni. Voglio porre fine a questa storia. Esitante, Lily tornò dal retro portando un altro sacco di chicchi. Non c’era un buon posto dove metterlo. Le mie sorelle si alzarono, raschiando il pavimento con le sedie. — È stato un piacere conoscerti, Lily Hancock — disse Maris. Pavati salutò con la mano, e Tallulah mi lanciò uno sguardo nervoso. Si avvicinò con la scusa di gettare via il bicchiere e si chinò per darmi un bacetto sulla guancia. Mi sussurrò all’orecchio: — Attento, Calder. Girai gli occhi e cercai di tranquillizzarla. — Te l’ho detto, Lulah. Ho tutto sotto controllo. A stasera. Si allontanò, mimando con le sopracciglia le parole “lo vedremo”. Anche dopo che la porta si chiuse, Lily continuò a guardare nella loro direzione, incantata, poi scosse la testa come per scendere dalle nuvole. Perché non poteva avere la stessa reazione con me? — Le tue sorelle sono molto belle. — Sono una spina nel fianco, ecco cosa sono — dissi, cercando di far svanire in lei il loro ricordo. Pavati somigliava moltissimo al dipinto a olio di Jack Pettit. Non c’era bisogno di rafforzare queste idee nella mente di Lily. — Non pensi lo stesso di tua sorella? — Sophie? No, affatto. — Davvero? Avevo l’impressione che voi due non foste molto simili. — Be’, non lo siamo, ma questo non significa che lei sia una spina nel fianco. Sophie ha solo bisogno di essere seguita. Non mi dispiace. È molto dolce. Provai un moto di disgusto per me stesso. Lily era brava, sincera e affettuosa, e io stavo cercando di sfruttare queste qualità. Mi facevo schifo. Digrignai i denti e afferrai il bordo del bancone, mentre un calore elettrico mi irritava la nuca. — Stai bene? — Sì, sì. Sto bene — sussurrai, allontanandomi da lei. Toccai la macchina per il caffè, una scintilla bianca balzò dalle mie dita all’apparecchio. — Cavolo. Sei sicuro di stare bene? — Lily allungò il braccio e mi toccò la fronte con il dorso della mano. — Sei bollente. Sussultai, poi risi al suo involontario doppio senso. Sembrava che Lily Hancock avesse un interruttore collegato al mio cervello. In questo momento mi stava accendendo e spegnendo così velocemente che la mia testa era una luce stroboscopica. — Credevo avessi detto che non ti piaccio — scherzai. Lei sgranò gli occhi. — Mi riferivo alla tua temperatura, idiota. Ma tanto per essere chiari, non ho mai detto che non fossi bello. Se ricordi, ho detto che mi rendi nervosa. — Giusto. Quindi mi trovi bello? Lily mi diede una botta sulla testa con il cappello a tesa larga, poi tornò al registratore di cassa, dicendo: — Sei davvero irritante. Se le tue sorelle sono spine nel fianco, penso che l’hanno imparato da te. 17 NON UN’ANIMA CODARDA La signora Boyd indicò l’orologio. — Ottimo primo turno, sarete una squadra eccellente quest’estate. Incartò alcuni muffin vecchi di un giorno e li diede a Lily. — Portali a casa. E di’ alla tua famiglia di passare qui qualche volta. — Senz’altro. E grazie. — Lily recuperò la sua borsa da sotto il bancone e tirò fuori il cellulare. — Oh, non disturbare i tuoi genitori — disse la signora Boyd. — Scommetto che Calder sarà felice di darti un passaggio in macchina. — Mi fece l’occhiolino. Le avrei dato un bacio. — Vi ho messi entrambi di turno presto domattina. Ce la fate ad arrivare per le sei? — Io ci sarò — disse Lily. Mi guardò per vedere se l’offerta della signora Boyd fosse legittima. Annuii e la guidai fuori fino alla mia macchina. Salì nel posto del passeggero, e attraversammo Manypenny Avenue verso la strada di campagna. Era una sensazione incredibile averla in auto, seduta accanto a me, come due persone normali uscite a fare un giro. Si tolse i sandali e mise i piedi sul cruscotto. Spinse il sedile indietro mentre Bob Marley suonava a tutto spiano dagli altoparlanti. Lily canticchiò il ritornello di “I shot the sheriff”. Poi allungò una mano e gemette, strofinandosi i polpastrelli. — I piedi mi fanno male da morire. È dura non potersi sedere tutto il giorno. Il mio sguardo andò avanti e indietro tra la strada e il turchese brillante sugli alluci di Lily, intorno all’arco del piede, di nuovo sulla strada, e poi lungo la curva del suo polpaccio fino al ginocchio, scoperto perché la gonna lunga era scivolata in alto, intorno alle cosce. Mi ripresi, prima che la fantasia mi distraesse dal mio vero compito. Lily si sporse in avanti per cambiare stazione radio, poi la sua mano si fermò a mezz’aria. La infilò sotto il sedile e tirò fuori la gonna di Pavati, la stessa che aveva indosso poco prima. — Che cos’è? — Lily la sollevò per mostrarmela. “Oh, merda.” — Non lo so. Mi sembra una gonna. — Non è di tua sorella? — Si chinò e tirò fuori la camicetta rosa coordinata, poi la maglietta bianca e i jeans di Maris. — Perché hanno lasciato i vestiti nella tua macchina? Scrollai le spalle, cercando di pensare a una spiegazione sensata. Meglio aderire il più possibile alla verità. — Sono andate a nuotare, immagino. — Non si infurieranno, capendo che te ne sei andato con i loro vestiti? Sospirai. Addio alla normale gita verso casa. — Perché non lasci che sia io a preoccuparmi delle mie sorelle? — Lily guardò in avanti e incrociò le braccia sul petto. Qualche minuto dopo, svoltai nella sua stradina; Hancock uscì per venirci incontro. Parcheggiai la macchina mentre lui posava le mani sul bordo del telaio e si sporgeva dal finestrino aperto. Piegai la mascella mentre sentivo la bocca che diventava asciutta. — La porti a casa di nuovo, vedo. — La sua voce era amichevole, ma piuttosto dura. Un avvertimento paterno, forse? Sogghignai al pensiero che Jason Hancock dovesse mettere in guardia me. — Sì, signore. Lavoriamo entrambi al Blue Moon. — Ma davvero? — Grazie per il passaggio, Calder. Ci vediamo presto — disse Lily. E anche se scese subito dalla macchina, non sembrò del tutto disturbata al pensiero. — Certo. Buona serata, Lily. — No — disse Hancock — perché non rimani? Potresti aiutarmi ad avvicinare una catasta di legna alla casa. Dopo faremo un falò e cucineremo gli hot dog vicino al lago. Lily si irrigidì, ma i suoi occhi brillarono di aspettativa. Decisi che, in fondo, non avrei spinto troppo in là il mio autocontrollo accettando l’invito. Inoltre, a Maris avrebbe fatto piacere. — Certamente. — Slacciai la cintura di sicurezza e scesi. Hancock mi fece segno di muovermi. Lily ci seguì nervosa. — Allora, hai detto che abiti a nord di Bayfield? — chiese Hancock, guardandomi da sopra la spalla. Ah. Non si trattava di spostare la legna. Voleva sapere che tipo fosse il ragazzo che frequentava sua figlia. Nascosi un sorriso dietro la mano. Per quanto Hancock potesse pensare male di me, e a prescindere dalla storia che aveva sentito dal padre, ero sicuro che potenziale serial killer non fosse ancora tra le sue preoccupazioni. Mi preparai alla sfilza di bugie ben ripassate che avrei dovuto propinargli per il resto del pomeriggio. — Ci abitavamo, signore. — Abitavate? — Avevamo una casa estiva dalle parti di Cornucopia. Ma i miei genitori l’hanno venduta e hanno comprato una barca a vela. Si fermò e si voltò per guardarmi. — Sei un marinaio? — Non proprio. Più che altro mio padre. Ha iniziato con le navi in affitto sull’isola di Madeline. Ora, quando veniamo per l’estate, stiamo sulla nostra barca. — Così presto nella stagione? Come si chiama la barca? Lily arrivò al fianco del padre. Gli diede un bacio sulla guancia; io deglutii forte. — Lo stai interrogando, papà. — È il mio lavoro, Lil. Sollevammo quattro assi e iniziammo a tornare verso la casa. Lily inarcò le sopracciglia verso di me e mosse le labbra come per dire: “Mi dispiace.” — Allora, quanti anni hai, Calder? — Diciotto, signore. — Vai al college? — Non ancora. — Lavorerai per un po’? — Qualcosa del genere. — Posai la mia estremità delle assi sulla pila che già prendeva forma accanto alla veranda. Tornammo alla catasta originaria a prendere un altro carico. Fu allora che scorsi la signora Hancock. Su una sedia vicino al lago, con una tela su un cavalletto, una coperta lavorata all’uncinetto avvolta intorno alle spalle. La luce del sole filtrava attraverso i rami degli alberi, gettandole sul corpo tre strisce simili ad artigli. — Non mi avevi detto che tua madre è un’artista. — Oh, sono piena di segreti — rispose Lily con fare misterioso. Il modo in cui lo disse, abbinato ai miei pensieri più cupi, mi fece ridere a voce alta. Inarcò le sopracciglia come a dire che non era così divertente. — Com’è andato il lavoro, Lily? — gridò la signora Hancock. — C’è anche Calder? Il nostro eroe! — Sorrise e alzò una mano, invitandoci ad andare da lei. Mentre ci avvicinavamo i miei battiti aumentarono all’impazzata. Non sapevo se dipendesse dal fatto che la signora Hancock si trovava su una sedia a rotelle – si era fatta così male quando era caduta in cucina? – oppure se era la sensazione di trovarsi vicino a una madre. Qualunque madre. Il volto di Carolyn Hancock si addolcì quando mi guardò. Forse lo stavo immaginando? Cercare la realizzazione di un sogno era un altro sintomo dell’astinenza prolungata? Cominciavo a delirare? — Ciao, mamma. — Lily si chinò per darle un bacio sulla guancia. — Calder e io lavoriamo insieme al caffè. — Be’, è meraviglioso — disse la donna. — Jason, non farlo stancare troppo. Lasciali rilassare. Hanno già lavorato tutto il giorno. Hancock borbottò e ci lasciò andare. Lily mi fece segno di seguirla. Esitai, riluttante a lasciare la signora Hancock. — Vai pure — disse la madre, fraintendendo la mia titubanza. — Jason avrà molto aiuto domani. Voi andate. Seguii la ragazza fino al pontile. Sophie mi venne accanto e mi toccò un gomito. Sobbalzai al contatto inaspettato. — Vuoi venire con me, Calder? Ho costruito un forte stamattina, al margine del bosco. Dentro ci ho messo le mie bambole più semplici, come se fossero in albergo. — Mi piacerebbe, Sophie, magari fra un po’? Si accigliò e se ne andò mettendo il muso. Lily si voltò a guardare per vedere se la stavo seguendo. Si era già seduta sul margine del pontile, tra i due riflettori appena installati. Mi tenni addosso le scarpe, scavalcando i sandali e il cappello che aveva tolto, e camminai lungo la banchina. Lei aveva steso due teli da mare sulle assi di cedro e lì mi sdraiai. Lily ciondolava le gambe nude nell’acqua. Immaginai l’odore di arance diffondersi in tutto il lago. — Perché tua madre è sulla sedia a rotelle? Lily mi guardò fisso. — Sei molto schietto, vero? — È un male? — No. — Sospirò. — A dire il vero è piacevole. Quasi tutti si sentono troppo a disagio per chiederlo. Fingono che sia normale, quando è evidente che non lo è. Aspettai. Lily si alzò e si tolse la maglietta. Balzai a sedere in preda allo shock, senza capire subito che indossava il costume da bagno sotto i vestiti. Mi lanciò un largo sorriso, godendosi la mia espressione scandalizzata. — È bene essere preparati — disse. Si sfilò la gonna ancheggiando e si avvicinò con grazia al molo. — Aspetta, non farlo! — L’acqua le arrivava soltanto alle cosce. Sotto i raggi diretti del sole era più calda che in pieno lago, ma non avevo mai visto un umano in acqua in questo periodo dell’anno. Almeno, non di sua spontanea volontà. La pelle le stava già diventando livida? Non ne ero sicuro. — Cosa c’è? — chiese Lily. — Non possono essere più di dieci gradi. — Davvero? Non mi sembra così male. — Sul serio — dissi. — Esci. Non sei stata tu a dire che nessuno nuota in aprile? È pericoloso senza… una tuta da immersione. Scrollò le spalle. — Ormai penso di essermi abituata. — Sparì sott’acqua e risalì con il mento in avanti, lasciando che i lunghi capelli bagnati si trascinassero in una coltre compatta dietro di lei. Sulle braccia e sulla pancia le spuntò la pelle d’oca, ma non aveva fretta di uscire. Mi morsi l’interno della bocca. — Per rispondere alla tua domanda — continuò — mamma ha la sclerosi multipla. Alcune giornate sono meglio di altre. Un paio di giorni fa camminava con un bastone; oggi ha bisogno della sedia. È frustrante non sapere come sarà ogni giorno. È come se la stessimo perdendo un po’ alla volta. Voglio dire, ti sembrerà strano: lei è qui, ma mi manca davvero tanto mia madre. Lily non sapeva quanto lo capissi. — Quando si è ammalata? — Quando avevo dodici anni. È cominciato lentamente, ma quest’anno la malattia è diventata davvero brutta. Certi giorni riesce a malapena a tenere in mano i pennelli. Il dottore dice che vivere in città le stava mettendo addosso troppo stress. Ha detto che dovevamo andare in un posto più tranquillo. Papà ha pensato che fosse il momento migliore per tornare qui. Non lo so. Immagino sia una cosa buona. Insomma, c’è meno gente che la fissa. — Perché la fissano? — chiesi, attento a eventuali segni di ipotermia sulla sua pelle. — Perché non sanno cosa c’è che non va. Così cercano di capirlo. A volte vorrei che uscissero allo scoperto e lo chiedessero, come hai fatto tu. — Probabilmente pensano che sia scortese — risposi. Lily posò le mani piatte sull’acqua e si girò rapidamente in cerchio, mandando alcune goccioline a spargersi sulla superficie. — È più da maleducati fissare. — Non è una cosa di cui essere imbarazzati. Smise di girare e alzò il mento in aria. — Non sono imbarazzata. Solo che sarebbe bello avere di nuovo una famiglia normale. — Piegò la testa di lato e mi esaminò attentamente, con la fronte aggrottata. — Tu non vieni in acqua? — Anche tu dipingi? — le chiesi, evitando la domanda. — No. Per niente. — Hai l’aria da artista. O almeno ce l’avevano i tuoi abiti, prima che li togliessi. — Armeggiai con la camicetta di pizzo e la giacca di velluto che giacevano ammucchiati ai miei piedi. — Vesti come un’artista. — Recito una parte. — Cosa vuoi dire? — Voglio essere una poetessa, quindi cerco di vestirmi così… o come immagino che vestirebbero le mie poetesse preferite. — Ti piacciono anche i Vittoriani — dissi con sicurezza. — Come hai fatto a indovinare? — Il tuo tatuaggio. Il suo volto si aprì in un largo sorriso e mi fece cenno di tenere la voce bassa. — Conosci quella poesia? — In parte. — Lasciai che la mia mente tornasse alle mie recenti sessioni di studi e tirai fuori le parole dalla memoria: Non è vile la mia anima, non trema nella tempestosa sfera del mondo vedo risplendere la gloria celeste risplende così la mia fede armandomi contro ogni paura. Annuì e dalle spalle emanò un bagliore color miele. La luce seguì la curva delle braccia e si fece più intensa in un dolce arancione. Conoscevo bene questo colore. Lily era felice. Potevo solo sperare di esserne io la causa.— È fantastico — disse. — Sono colpita. — Allora, in base a cosa decidi come dovrebbe vestirsi un poeta? Scrollò le spalle. — Semplice, davvero. Guardo cosa indossano tutti gli altri e faccio l’opposto. “Mancanza di conformità” riflettei. “Che lusso.” — Sentiamo, allora. — Sentire cosa? — chiese. — Qualche poesia. La tua poesia. Nonostante il freddo, un flusso di sangue le infiammò il volto. — Non posso declamare qualcosa così. — Perché no? — chiesi. Farfugliò, chiaramente colta in contropiede. — Devo essere… ispirata. Devo guardare qualcosa di bello… o di sorprendente. Mi indicai come a dire: “E io cosa sono?” Lei rispose alla domanda come se l’avessi fatta. — Tu sei un ragazzo irritante che non ha problemi a fare domande ma non condivide le risposte. — Unì le mani a forma di coppa e mi lanciò contro l’acqua. Mi piegai su un fianco, evitando lo spruzzo. — Vediamo di farti cominciare — dissi. — Che ne dici di un limerick? C’era una volta un ragazzo sorprendente. Lei scosse la testa. Così continuai. — Che credeva la sua ragazza fuori di mente. Inarcò le sopracciglia verso di me. Stavo decisamente spingendo con la battuta sulla “sua ragazza”, ma lei continuò da dove avevo interrotto. — La ragazza infastidì — disse. — Ma a evitar lei non riuscì — aggiunsi. Sorrise sicura di sé e terminò con forza: — L’insistenza e il silenzio così strani. — Ah. Hai ragione, Lily Hancock. Sei una poetessa. — Oh, chiudi il becco. Perché non entri? Non si sta troppo male al sole. — Stai mentendo. Ma anche se fosse vero, non ho portato un costume — dissi, respingendo la proposta con un gesto della mano. — Nuota con gli slip. — No, grazie. — Peggio per te. Le piaceva prendermi in giro. Una scia di lieta soddisfazione bruciò come un fuoco rosa, poi vorticò lontano in una girandola. Era un magnete che mi attirò verso Lily. Quasi senza volerlo, allungai una mano. Lei si avvicinò, non capendo i motivi del mio gesto, e mi sorprese intrecciando le sue dita alle mie. Osservai – inorridito, ammaliato – il bagliore strisciare via dai polpastrelli, attraversare il dorso della mia mano e finirmi sul polso. Gli avambracci ronzarono e si infiammarono, finché il calore avanzò lungo il braccio e si smorzò sul petto, esplodendo alla fine attraverso le labbra con una risata improvvisa e sorprendente. — So che sai qualcosa — disse lei a voce bassa — su ciò che vide mio nonno nel lago. Voglio che me lo riveli. — Non ho niente da dire. — Calder, dici più con gli occhi di quanto riesce a dire gran parte della gente con la bocca. In questo momento i tuoi occhi rivelano che hai paura. Un minuto fa dicevano che non è sicuro nel lago. Tanto vale che tu lo dica apertamente, Calder. So che sai qualcosa. — Poi abbassò le sopracciglia e improvvisò un terribile accento russo. — Noi avere modo per fare te parlare. — Già, be’… buona fortuna. — Jason! — chiamò la signora Hancock. — Sto perdendo il sole. Puoi spostarmi? Lasciai la mano di Lily, che finì nell’acqua con un tonfo. — Posso farlo io! — gridai alla donna. — Leccapiedi — disse Lily. — Non so perché è così difficile convincerti — risposi — ma non sono un ragazzo così cattivo. — Parole degne di un vero serial killer. Il mio stomaco si strinse fino a diventare un nodo freddo e duro. — Vedrai — dissi, forzando un sorriso negli occhi. — Uno di questi giorni potrei addirittura piacerti. 18 LA MINACCIA Un’ora dopo arrivò un furgoncino e ne scesero in massa i Pettit, chiudendosi le portiere alle spalle. Gli occhi di Jack si misero a cercare. Quando trovò Lily seduta accanto a me vicino al fuoco, si accigliò. Gabrielle arrivò subito, di corsa. — Ho invitato anche i Pettit al nostro barbecue — disse Hancock alla moglie. — Martin, serviti pure, prendi una birra dalla ghiacciaia. — Devo proprio andare — dissi alzandomi in piedi. — Di già? — chiese Lily, togliendomi dalle mani il sacchetto di patatine e rovesciandolo rumorosamente. Erano passate più di dodici ore da quando mi ero immerso nel lago, di norma sarebbe stato uno scherzo da ragazzi, ma il fuoco mi stava asciugando a un livello pericoloso. Dovevo davvero andarmene, ma Jack sembrava troppo lieto del mio annuncio, così cambiai idea. — Credo di poter restare ancora per un po’ — dissi, avvicinando la mia sedia a Lily. Jack borbottò qualcosa sottovoce; la ragazza posò una mano sul bracciolo della mia sedia con dolcezza. Hancock attizzò il fuoco, mandando in aria uno spruzzo di scintille. — Come state ragazzi? Contenti della scuola agli sgoccioli? Jack allontanò lo sguardo dalla mano di Lily sulla mia sedia e lo rivolse al padre della giovane. Il signor Pettit parlò fuori dai denti. — Jack non è andato a scuola quest’anno. — Mi sono soltanto preso un anno di riposo — disse il giovane. — Inizierò il college il prossimo autunno, se le cose andranno bene. Per il momento, seguo alcuni corsi parauniversitari di pittura. — Oh, sei un artista? — domandò la signora Hancock, con il volto che le brillava alla luce del fuoco. — Dovresti venire a dipingere con me qualche volta. — Mi piacerebbe molto. Ora sto seguendo un corso di arte e mitologia. Tutti i classici greci e anche alcune cose celtiche e dei nativi americani. Ho dipinto un quadro a olio sulle leggende degli indiani Passamaquoddy del Maine. Lily l’ha visto. — Non ne so niente — disse Hancock. — Sono come le storie sui grandi spiriti manitù di queste parti — spiegò il signor Pettit. Scosse un sacchetto di semi di girasole, lasciandoseli cadere in bocca e riempiendosi una guancia. — Esistono molti manitù nella tradizione del popolo Anishinabe — disse Jack mentre il signor Pettit sputava i gusci nel fuoco. — Uno giace a faccia in su, sul fondo del lago. Gli indiani gli offrivano tabacco o pezzi di rame perché non ribaltasse le loro canoe. Lily si alzò a sedere e guardò ansiosa il padre. Hancock si mosse sulla sedia. — Conosco le antiche miniere di rame — disse. — Fa parte del mio programma di studi per il prossimo trimestre. Ma non ci sono mostri nel lago. — Non ho parlato di mostri — disse Jack, mentre il signor Pettit rideva fragorosamente. — Non fraintendere il ragazzo — disse suo padre. — Non siamo superstiziosi, ma i racconti sugli spiriti manitù sono tornati di moda dal ’67, dopo… Hancock si alzò, battendo in ritirata verso casa. Lily guardò sua madre, che scosse la testa per farla stare zitta. — Be’, sapete… — finì il signor Pettit, con la voce che si affievoliva fino a svanire nel nulla. — Cos’è successo nel ’67? — chiese Lily. Rivolse la domanda al signor Pettit, ma teneva lo sguardo su di me. — Lascia perdere, papà — ribatté Gabrielle. Tirò di lato i capelli neri e cominciò a sistemarli in una lunga treccia. Jack avvicinò la sua sedia a sdraio fino a premere il ginocchio contro quello di Lily. — Non ci è voluto molto tempo perché le leggende sui manitù si trasformassero in storie sulle sirene. Diciamo solo che alcune persone, da queste parti, hanno iniziato a soffrire di quella che si potrebbe chiamare febbre da sirene — continuò il signor Pettit. Sputò tra i denti, sparando semi di girasole nei tizzoni sibilanti. — I venditori di magliette fecero una piccola fortuna. La gente era convinta che un lago così grande, così profondo, dovesse contenere qualcosa. Ma durò un’estate soltanto. Poi la gente rinsavì. Ho ancora una maglietta da qualche parte. — Quindi lei pensa che non ci sia niente nel Lago Superiore? — chiese Lily. Gabrielle sgranò gli occhi; il signor Pettit sghignazzò benevolo. — Stiamo parlando del Grande Gitche Gumee — rispose. — Un lago antico e di una profondità inimmaginabile. Non arriverei certo ad affermare che nelle sue acque non c’è niente. — Potrebbe essere vero — disse Jack. La sua voce era bassa e incerta; ci voltammo tutti a guardarlo. Con la punta dello stivale, il ragazzo girò un altro ceppo nel fuoco. — Cos’hai detto, figliolo? — Ho detto che potrebbe essere vero. Le sirene, intendo. C’è la Strega di Novembre. — La Strega di Novembre è il nome di una tempesta — rispose Gabrielle. — Secondo la leggenda — aggiunse il signor Pettit — la Strega di Novembre aveva tre sorelle che si aggiravano nel Gitche Gumee. Lily rabbrividì. Jack corrugò la fronte. — E una volta ho sentito un’altra storia — disse, interrompendosi un istante per soppesare le parole. — Basta così, figliolo — disse il signor Pettit. Il ragazzo continuò. — Su alla taverna dei Peterson. Ho parlato con un vecchio. Mi ha raccontato che esistevano alcuni discendenti del grande spirito manitù, che però non sapevano di esserlo. Disse che abitavano in città, camminavano per le strade, proprio come noi. — Non penso che si possa smettere di essere un mostro marino — suggerii. Era troppo bello per essere vero; e se fosse stato possibile, io l’avrei saputo. — Non sto dicendo questo — ribatté Jack, la sua voce schioccò come un telo da spiaggia. — Non dico che smettono. Dico che non lo sanno. — Be’, io mi sono spaventato — dissi con una risata. — Stavolta penso davvero di dovermene andare. Lily allungò una mano verso di me e mi toccò timidamente la mano. — Be’, se proprio devi andare — disse Hancock mentre tornava al falò, passandosi la vasellina sulle mani. La luce tremolante del fuoco si rifletteva dalle finestre alle sue spalle. Non sembrava dispiaciuto che me ne andassi, così rimasi sorpreso quando aggiunse: — Ma non abbiamo nemmeno cominciato con gli hot dog. Magari la prossima volta potremmo cenare con te, tua madre e tuo padre? Feci un secco cenno di assenso. Se prima volevo andarmene, ormai era diventata una necessità. Eccolo qui – l’invito per cui avevo lavorato, arrivava anche prima del previsto – ma sulle sue labbra era blasfema persino l’allusione al nome di mia madre. Risvegliò una rabbia che non provavo da anni. Se avessi potuto uccidere Hancock sulla terraferma, lo avrei fatto in questo momento. Di fronte a tutti. — Calder, stai bene? — La voce di Lily era allarmata. Potevo soltanto immaginare l’espressione folle sul mio viso. Mi trascinai fino alla macchina e saltai dietro il volante. Mi resi vagamente conto del fatto che Lily mi aveva seguito. Afferrò il bordo della portiera e si sporse all’interno. — Come mai tanta fretta? La preoccupazione nei suoi occhi fece leva su un angolo ignoto del mio cuore. Volevo dirle di non preoccuparsi, che non agivo sempre da pazzo. Invece, ingranai la marcia e feci girare le ruote sulla stradina di ghiaia, coprendola di polvere. Non potevo permettermi di essere educato. Dovevo essere prudente. In questo momento, significava allontanarmi di molto, moltissimo. Ma la cosa buffa era che allontanarmi da Hancock significava allontanarmi anche da Lily. E più si ingrandiva la nuvola di polvere tra lei e me, più quell’impiccione di Jack Pettit si sarebbe sentito a suo agio. Lily Hancock era già abbastanza astuta, senza che tra noi si mettesse anche un sabotatore alimentato dal testosterone. Schiacciai a fondo il freno e barcollai fuori dalla macchina, sbattendomi la portiera alle spalle. Alcuni scoiattoli fuggirono mentre camminavo a passi pesanti nel bosco, verso l’acqua. Mi gettai con foga nel lago, completamente vestito, fermamente deciso a non trasformarmi. Era ancora difficile, ma non più impossibile. Attinsi a tutta la mia concentrazione. Le gambe tremavano, i polmoni bruciavano per l’acqua. Mi soddisfai saturando il corpo dall’esterno. Volevo essere pronto se lei avesse avuto bisogno di me, anche se non ero certo di quale potesse essere questa necessità. Di certo non sarei uscito di corsa dall’acqua solo per mettere la senape sul suo hot dog. Avevo abbastanza autocontrollo per non farlo. Giusto? L’odore della betulla che bruciava mi riportò indietro. Arrancai nell’acqua finché non riuscii a vedere il riverbero del fuoco di bivacco. I volti degli Hancock e dei Pettit brillavano per la luce e il calore, contro l’oscurità. Provai un tuffo al cuore quando posai lo sguardo su Lily. Stava fissando intensamente le fiamme. Alcune scintille volarono nella sua direzione, ma lei reagì appena. Gabrielle Pettit sedeva alla sua sinistra, Jack alla sua destra. Il viso del ragazzo era rivolto a lei, si vedeva chiaramente. Posò un braccio sullo schienale della sua sedia e si chinò per sussurrarle qualcosa all’orecchio. Senza volerlo serrai i pugni. D’accordo, allora non ero ancora del tutto pazzo. Avevo ragione. Jack Pettit era una minaccia. 19 QUEL CHE VOGLIO DA TE Dopo mezzanotte strisciai nell’amaca che gli Hancock avevano fissato tra due pini bianchi. Era una tela color verde foglia, decorata con frange di cotone bianco, ed era il luogo perfetto per nascondersi, dormire e passare un po’ di tempo lontano dalle mie sorelle. Questa sera c’era anche il vantaggio che Gabrielle Pettit era rimasta a dormire qui, e l’amaca era un posto utile da cui origliare le chiacchiere nella stanza di Lily; le due ragazze non davano segno di voler dormire. Le voci arrivavano dalla finestra aperta della camera da letto. Avevano già discusso gli argomenti indispensabili: scuola, moda e film. Gabrielle aveva rivelato a Lily le notizie più importanti su tutti i ragazzi più popolari della città – non che Lily sembrasse molto interessata o preoccupata – ed erano ormai passate a un argomento che prometteva di essermi più utile. — Allora — la incalzò Gabrielle. — L’altro giorno. Quando ti abbiamo aiutato con il trasloco. — Sì? — chiese Lily. — L’idea che ti aiutassi a metterti con Jack non sembrava interessarti molto. — Oh. — Mi chiedevo — continuò Gabrielle — se avessi un ragazzo a Minneapolis. — No. E tu? Gabrielle rise. — Non è la cosa più facile da fare quando hai Jack come fratello. — È protettivo? — Immagino che l u i si definirebbe così. — Ho sempre voluto un fratello maggiore. — Intendi qualcuno che ti presenta i suoi amici carini? Fidati, non è così meraviglioso. E dato che tutti gli amici di Jack sono andati al college, in giro non c’è praticamente nessuno. — Intendevo più qualcuno con cui parlare di alcune cose. Quando ero piccola avevo un’amica immaginaria. Le confidavo tutto. Sogghignai nell’amaca. A quanto pareva, io e Lily avevamo almeno una cosa in comune. — Del tipo? — le domandò Gabrielle. — Non saprei. Le cose che mi facevano paura o che mi elettrizzavano, o che volevo tenere nascoste ai miei genitori. — Io avevo una cagnolina così. Era un’ottima ascoltatrice. — Esatto — disse Lily. — Allora, di cosa hai paura? Lily esitò. — Non saprei… perlopiù mi preoccupo che le cose vadano in pezzi. Due a zero per le cose in comune. Non ero preoccupato per le “cose” che andavano in pezzi; mi preoccupava il fatto che andassi in pezzi io. — I tuoi genitori stanno per divorziare? — domandò Gabrielle. Lily rise. — Non direi proprio. Intendevo in senso letterale. Questa casa, mia madre, me… mi preoccupa che le cose vadano letteralmente in pezzi. Gabrielle ammutolì, forse si pentiva di essersi addentrata in un discorso così personale. Poi dalla finestra uscì un suono secco di metallo che graffiava altro metallo. Fiori arancioni fluttuarono nell’aria. — Hai alcuni… ehm… vestiti interessanti — disse Gabrielle. — Questo è molto carino. Eleganza bohémienne, forse. — Grazie. Dici? — No, sul serio. È davvero molto bello. — Di nuovo il suono del metallo. — Mmm. Allora, torniamo ai ragazzi. Oh, posso provare questo? — Come no — rispose Lily. — È stato un piacere rivedere quel Calder. Posai subito un piede a terra e fermai il gentile dondolio dell’amaca. Lily non disse nulla. Avrei voluto vedere la sua faccia. — L’hai invitato tu? — domandò Gabrielle. — No. Non proprio. Qualcuno si agitò; le molle del letto cigolarono. — Allora? Si è presentato da sé? — Lavoriamo insieme al Blue Moon — rispose Lily. — Sul serio? Lily fece una risata nervosa. — Mi ha dato un passaggio a casa, così papà gli ha chiesto di fermarsi per dargli una mano a sistemare alcune cose. Quindi, sì. — E poi è rimasto? — Direi di sì. — È un autentico splendore. Non sembra nemmeno vero. Parla in modo buffo, però. Ci hai fatto caso? È come se le sue parole fossero liquide. Le mette insieme in un modo un po’ strano. Lily non rispose. Significava che era d’accordo? Oppure no? Sembrava che Gabrielle non sapesse come interpretare quel silenzio. — Non lo pensi anche tu? — la spronò. — È bellissimo, senza dubbio — disse Lily con un sospiro. — Come potrei non pensarlo? Ma anche lui lo sa. Il sogghigno sparì dal mio viso. — Oh — disse Gabrielle. — Si dà delle arie? — Direi che sa come farne uso. Può guardarti e… be’… Gabrielle ridacchiò. — Dovrò andargli vicino e controllare di persona. Lily all’inizio non rispose. Restai in attesa nel silenzio, chiedendomi cosa stessero facendo. Alla fine domandò: — Come mai Jack non ha voluto andare al college? — Dovrai chiederlo a lui. Doveva andarci, ma è cambiato qualcosa l’estate scorsa, ed è diventato più strano, imbronciato, per tutto l’autunno e l’inverno. Pensavo che una ragazza potesse magari farlo tornare come prima. Per questo pensavo a te. Ti guarda in modo buffo. — Buffo nel senso di strano o buffo nel senso che lo faccio ridere? — Nel senso che mi pare interessato a te. — Mi dispiace, Gabby, non succederà. — Già, dopo stasera lo penso anch’io. — Stasera? — Be’, è evidente che Calder ti viene dietro. Peggio per me. — Fece una risatina. — Ne dubito sinceramente — ribatté Lily. — Non è nemmeno un buon candidato come fratello maggiore. — Non parla? — Oh, parla eccome — disse Lily. — Parla molto, ma in realtà non ti dice nulla. Non so se mi spiego. — Mmm — aggiunse Gabrielle. — Tipico dei maschi. Lily si fece silenziosa e, di nuovo, avrei voluto trovarmi in un punto con una visuale migliore. — Calder… — cominciò a dire Gabrielle. — Hai fame? — la interruppe Lily. — Cosa? Oh, sì, certo. Quattro gambe scesero in punta di piedi le scale che portavano in cucina. Rotolai giù dall’amaca e tornai in mezzo agli alberi. Le ragazze si appoggiarono al piano di lavoro, consentendomi così di vederle per la prima volta dopo un bel po’ di tempo. Lily sembrava più pallida del solito, tranne che per i cerchi neri sotto gli occhi. Gabrielle si infilava in bocca palline al formaggio. — Allora se la storia che hai con Calder non funziona… — disse Gabrielle. Lily aggrottò le sopracciglia. — Dico solo — aggiunse Gabrielle — che se non funziona, ci metterai una buona parola per me, eh? Prima che Lily riuscisse a rispondere, un ramoscello si spezzò nel vialetto. Mi girai. Maris? No, non avrebbe mai attaccato sulla terraferma. Non era degno di lei. Socchiusi gli occhi nell’oscurità e concentrai lo sguardo su una sagoma familiare. Sperai che la mia prima ipotesi fosse esatta. Il raggio della torcia di Jack Pettit ondeggiava e serpeggiava sul terreno davanti a lui. Tuttavia, sobbalzò quando vide che mi precipitavo verso di lui nel buio. — Cosa… cosa ci fai qui? — mi chiese. — Ho perso il portafoglio. Sono tornato a cercarlo. E tu? Mi guardò scettico. Immagino che recuperare portafogli nell’oscurità non fosse normale per gli umani. In particolare senza una torcia. Dovevo appuntarmelo. — Sono qui per portare fuori le ragazze — rispose Jack. — C’è una festa a… be’, non importa. — Sono sicuro che stanno già dormendo. Io e Lily iniziamo il turno molto presto domattina. — Pfff. Chi sei, sua madre? — chiese Jack. — E poi, come fai a saperlo? Anche se stanno davvero dormendo, scommetto che a Lily andrebbe di fare un salto a una festa. Gabby non si tira mai indietro. Lo fissai dall’alto in basso e lui si mosse a disagio nelle scarpe. — D’accordo — ribatté seccamente. — Allora, come stanno le cose tra te e Lily? — Le cose? — Sì — disse Jack, mentre portava lo sguardo sulla luce proveniente dalla finestra di Lily. — Le hai chiesto di uscire? — Non ancora. — Che cosa aspetti? “Ottima domanda” pensai. — Forse aspetto che lei abbia voglia che io lo faccia. — Ah. — Jack si mise a braccia conserte. — Non pensavo che fosse tanto presa da te. — Fece un largo sorriso; mi chiesi quale dei suoi denti brillanti si sarebbe rotto con maggiore facilità. — Calma, amico — disse, alzando le mani a palmi aperti. — Sto solo scherzando. Una falena bianca passò tra noi, poi svolazzò oltre la mia mano. Dal mio dito medio si sprigionò uno schiocco di luce blu, facendola cadere a terra in un mucchietto bruciacchiato. — Ma che cavolo! — gridò Jack indietreggiando di qualche passo. — Penso che alla tua festa ci andrai da solo — dissi, sentendo la scarica elettrica pulsarmi tra le dita. Allungai una mano per farlo girare sui tacchi, ma lui stava già tornando di corsa alla macchina. Dopo che la luce dei fanalini di coda fu scomparsa, tornai all’amaca e provai a dormire. Forse ci fu qualche fugace momento in cui sognai: immagini di tende da sole rosa e tamburi d’acciaio, uno sfondo turchese. Maris e uno storione, il volto di mia madre. Ma per la maggior parte del tempo, restai sveglio a fissare il cielo frammentato tra i rami degli alberi. Non sapevo quanto tempo stesse passando, o quanto fossimo vicini alla mattina; né quanto stessi allontanando la possibilità che Hancock mi mollasse un pugno per aver dormito nel suo giardino. Rotolai giù dall’amaca, mi alzai in piedi e mi diressi verso il vialetto. La ghiaia brillava di viola nelle prime luci del mattino, e mi scricchiolava sotto i piedi. — Di nuovo nel ruolo del viscido pedinatore? Mi girai di scatto. Lily era affacciata alla finestra della sua stanza, in stile Giulietta, con le mani sul davanzale. — Accidenti, Lily, mi hai spaventato. Che ci fai alzata? — Penso che ci sia una domanda più interessante di questa, non credi? Cosa diavolo ci fai tu laggiù? — Shhh — dissi. — Non vorrai mica svegliare tutti. La ragazza si guardò alle spalle, scavalcò la finestra e salì sul tetto della veranda. — Attenta! — Alzai le mani, pronto ad afferrarla se fosse caduta. — Che ti succede? — mi chiese. Ottima domanda. — Ho solo dimenticato il mio… — Indicai vagamente il punto in cui era stato acceso il falò. Lei mi guardò perplessa. — Forse, se non fossi corso via così in fretta, non ti saresti scordato niente. — Mi dispiace. — È stato scortese. — Il tetto scricchiolò; il piede di Lily produsse un cigolio sulle assicelle. — Be’, almeno ti ho lasciata in buona compagnia. — La mia voce suonò stranamente arrabbiata, e le sue sopracciglia si inarcarono. — Ma dici sul serio? Si tratta di questo? Hai qualcosa contro Jack Pettit? — Non essere ridicola. — Va bene. Allora perché sei qui? A meno che tu non intenda tirar fuori un’altra delle tue stupide scuse. — Si avvicinò strisciando al bordo del tetto; formai un cesto con le braccia. — Sai, probabilmente sei il peggior bugiardo che abbia mai conosciuto. — È stato Jack Pettit a sistemare quel tetto? — chiesi rabbrividendo. — Insieme a suo padre. — Potrebbe sfondarsi. Lei rise e si sedette sul bordo, dondolando le gambe oltre la grondaia. Persino nel buio, un alone rosa si diffondeva dalle punte degli alluci, come candele di cera rosa. — Che cosa vuoi da me? — le chiesi. Non capii da dove mi fosse uscita la domanda. In qualche modo, i nostri ruoli si erano invertiti senza autorizzazione. — Te l’ho detto quel che voglio — rispose. Ridacchiai sottovoce. Si sporse e allungò una mano verso di me. — Tu sai dare le risposte alle domande che mi faccio sin da piccola, dal momento in cui ho sentito per la prima volta mio nonno raccontare quella storia. — Sei libera di pensarlo, ma ti sbagli. Ora vuoi andartene da quel tetto? Sto per avere una crisi di nervi. — Visto? — disse lei. — Parli di nuovo con gli occhi, Calder White. Tu sai delle cose. E voglio saperle tutte anche io. — Sei incredibile — mormorai. — Ah — ribatté. — Me l’hanno detto. 20 ROSA La signora Boyd aveva aperto la porta, e l’aria fresca del mattino entrava nel locale. Io e Lily sedevamo a un piccolo tavolo rotondo con una pila di tovagliolini di carta e un contenitore di posate appena pulite davanti a noi. Le nostre mani si toccavano, mentre a turno le allungavamo per prendere coltelli e forchette da arrotolare nei tovaglioli. Cercai di farlo sembrare casuale, ma era una manovra ben studiata. Mezz’ora dopo avevamo accumulato una piccola pila di coperti. Nessuno dei due parlò. Mi chiesi se fosse ancora arrabbiata con me per aver lasciato il falò in quel modo scortese. Come darle torto? Io ero ancora infuriato perché aveva permesso a Jack Pettit di avvicinarsi troppo. Era forse cieca? Non vedeva cosa voleva da lei? Era subdolo come un serpente. Se avesse avuto la possibilità di scegliere, sarebbe andata con lui a quella festa? O forse era furiosa perché sapeva che le stavo mentendo. E come darle torto anche in questo? Lily portò il vassoio con le posate dietro il bancone. Io rimisi la sedia al suo posto, facendola stridere sul pavimento, e la seguii. — Che fai oggi dopo il lavoro? — le chiesi. — Chi è che lo vuole sapere? — Pensavo che magari potevamo fare qualcosa. Lily si voltò, lasciò cadere il vassoio sul bancone con un tonfo e si piantò le mani sui fianchi. — Dipende. Mi mollerai da sola un’altra volta? — Mi sono già scusato. — E non mi rivelerai niente? — No. — Allungai una mano; Lily non obiettò quando lasciai scorrere le dita sul suo braccio, dalla spalla al polso. Tremò appena e si allontanò. — Ma solo perché non c’è niente da rivelare. Si premette un dito sulle labbra quando un gruppetto di ragazzi entrò dalla porta, afferrando gli skateboard dopo averli sollevati con un calcio. Raggruppati intorno a un tavolo, svuotarono le tasche e misero in comune gli spiccioli. Due vennero a ordinare un caffellatte grande alla menta. La signora Boyd aveva messo sul bancone un cesto di mele; ne tagliai una a spicchi mentre Lily preparava il drink. Afferrai una saliera e sparsi il sale sulle fette. — Metti il sale sulla mela? — domandò Lily con interesse. Mise il coperchio sul bicchiere di carta e lo porse al ragazzo più basso. Sollevai due volte le sopracciglia verso di lei, che scosse la testa. Aprì la bocca per dire qualcos’altro, quando si udì la campanella alla porta. Jack e Gabrielle entrarono mentre i ragazzi con gli skateboard stavano uscendo. Lo sguardo sul volto della ragazza fu impagabile, tra la sorpresa e la soddisfazione. Risucchiò l’aria tra i denti e sollevò le sopracciglia verso Lily. In contrasto, potevo cogliere l’odore del testosterone di Jack. Serrò i denti e i muscoli della mascella gli si gonfiarono. — Ciao, ragazzi — disse Lily. La guardai con attenzione. Il suo tono luminoso confermava la sua completa ingenuità riguardo alle vere intenzioni di questo ragazzo. — Ciao, Calder — disse Gabrielle. Si appoggiò con tutto il corpo al bancone, lasciando che la maglietta a V si aprisse. — Sei andato via troppo presto ieri sera. Jack rimase fermo dietro la sorella, a braccia conserte. Non mi era chiaro se questa dimostrazione di machismo fosse per Lily o per me. La mente mi corse d’istinto a pensieri di violenza. Jack iniziò a squadrarmi e smise solo quando il suo sguardo corrucciato si posò sulle mie mani. Mi misi a braccia conserte, assumendo la sua stessa posa. Quando capì che lo stavo prendendo in giro, abbassò le braccia. Sorrisi. — Ti sei divertito ieri sera, Jack? — Eh? Ma cosa… Lily mi tirò un calcio sul piede. — Ignoratelo. Volete un caffè? — No — rispose Jack. — Siamo passati soltanto per dirti che stasera faremo una grigliata, da noi. Ci saranno molti nostri amici. Vieni pure, se ti va, Lily. Sei invitata. — Mi fissò per rafforzare l’affermazione. Passai in rassegna un elenco di potenziali risposte. Volevo dire che lei aveva già un impegno. Con me. Ma a Lily non piaceva sentirsi dare ordini. — Sì, certo, sembra divertente — rispose lei. — Ti andrebbe, Calder? L’espressione di Jack si inacidì, con mia grande soddisfazione, ma avevo bisogno di forzare la sorte. — Stasera ho già un impegno — dissi. Lily piegò le sopracciglia in risposta. Curiosità? Delusione? Chissà. Diede la schiena ai Pettit e mi chinai sul suo orecchio. — Ma voglio comunque fare qualcosa con te oggi pomeriggio. Posso portarti a Big Bay? Il suo piccolo cenno di assenso bastò a rendermi forte. Qualche ora dopo, la aspettavo impaziente al molo. La corsa del traghetto per l’Isola di Madeline sarebbe partita da Bayfield sette minuti dopo. Non dieci, sette. I residenti regolavano gli orologi in base al mostro di ferro. “Lily non verrà” pensai depresso. Aveva solo cercato di mostrarsi gentile dicendo che sarebbe venuta a Big Bay con me. Forse aveva ricevuto un’offerta migliore da Gabrielle, alla fine del nostro turno. Parecchi bambini con jeans e giacche a vento gialle mi passarono davanti di corsa, ridendo e lanciando raggi di arcobaleno dai loro visi felici. Muovevo con ansia il ginocchio su e giù, cercando di ignorarli. Non era facile. La loro eccitazione all’idea di andare sul traghetto bruciava come un’insegna al neon che diceva: “Prendimi, prendimi, prendimi.” Chiusi gli occhi di fronte ai bambini riccamente illuminati e affondai i denti nel labbro inferiore. Dov’era Lily? La separazione fisica mi stava divorando. Perché non si sentiva così anche lei? Maledissi il fiasco totale che ero diventato. Appoggiai la schiena su uno steccato di legno e chiusi gli occhi al vento che mi soffiava lieve sul viso. Le sagole sferragliarono e risuonarono contro gli alberi del veliero nel porticciolo turistico. — Calder! Mi girai di scatto al suono del mio nome e mi scappò subito un sorriso. Lily mi stava correndo incontro. Indossava una gonna assolutamente ridicola, un patchwork di riquadri di velluto e cachemire, lunga fino alla caviglia. Aveva uno zainetto appeso al braccio. I capelli le scivolavano sulla schiena in allegri ricci, sopra un’attillata maglietta blu. Le brillavano gli occhi per l’aspettativa. All’inizio pensai che sulle spalle portasse un maglione rosa, ma mentre si avvicinava notai l’alone che emanava dalle braccia, rivelando il suo entusiasmo. Gemetti per il desiderio. Peggio che i ragazzini. Non che non l’avessi già vista così, ma ora non avevo scuse per fuggire. Sarei stato intrappolato con lei al mio fianco per parecchie ore… con lei che sprigionava questa succulenta dolcezza nell’aria. Che mi faceva pizzicare la lingua. Implorando di essere consumata. Una familiare freddezza mi avvolse la mente. Perché avevo pensato che sarebbe stata una buona idea? — Stai bene? — mi chiese. Mi riuscì di tirar fuori un apatico — Benissimo — e la spinsi verso il traghetto, che aveva già caricato un vecchio furgone Volkswagen e molte macchine con i kayak sul tetto. Lily tirò fuori una tessera e la mostrò al capitano. — Abbonata — mi disse. Procedemmo, serpeggiando tra le macchine, fino a un punto lungo la ringhiera. Quando tutte le auto furono al loro posto, con il freno a mano inserito, l’equipaggio tolse le cime d’ormeggio dalle bitte di ferro e ci allontanammo dal molo. Il capitano spinse sul motore, facendoci salpare in direzione dell’isola di Madeline. Lily si sporse dal parapetto, lasciando che l’acqua le imperlasse il viso. Tremò; esitai qualche secondo prima di metterle un braccio intorno alle spalle. Non si oppose. Indicò il lago e disse: — Sembra un tessuto brillante. Annuii, mentre con la mente correvo alla ricerca di qualcosa di intelligente da dire. Non la trovai. Impacciato e senza equilibrio, ringraziai i motori del traghetto, tanto forti da scusare il mio silenzio. Giocherellai con la pittura della ringhiera che si staccava. Il vento disperse il bagliore rosa dal volto di Lily, frantumando il suo alone e spandendo macchioline rosa sulle onde, come petali di un fiore. Stare così vicini rese le cose più facili, ma rimasi comunque stupito del mio autocontrollo. Per un paio di volte ebbi l’istinto di prenderla e di tuffarmi oltre il parapetto del traghetto. Ma c’erano troppi testimoni. Inoltre, perché mettere fine a tutto questo? Come se mi leggesse la mente, Lily sospirò e si appoggiò ancora di più. Contemplai il suo viso, ma lei guardava in avanti, rendendo impossibile interpretare il suo linguaggio del corpo. Voleva che la baciassi? Non ne ero certo. Voglio dire, con qualsiasi altra ragazza sarebbe stata l’ipotesi ovvia, ma in Lily non c’era granché di ovvio. Se voleva che la baciassi, e se l’avessi fatto, avrei presentato un bel rapporto positivo a Maris questa stessa notte. Se invece avessi agito, e lei non lo avesse voluto, avrei perso tutto il terreno guadagnato nelle ultime ventiquattr’ore. Strinsi la presa intorno alle sue spalle; lei si appoggiò ancora di più contro di me. Non che non avessi mai baciato qualcuno prima. Quante volte il bacio era soltanto un preludio all’uccisione? Era una mossa che avevo praticamente inventato io. Tolsi il braccio e le toccai il mento con un dito. Lei schiuse le labbra, morbide e calde, in attesa. Ma non sapevo come baciarla. Quando la guardai negli occhi, vidi soltanto il mio inganno. Mi schiarii la gola e tornai a scrostare la vernice. Non impiegammo molto ad attraversare il canale. Piccoli edifici pallidi punteggiavano la costa. I loro pontili si protendevano sul lago come dita minuscole. Alcuni bambini coraggiosi correvano sulla spiaggia e saggiavano l’acqua con i piedi nudi, mentre gli adulti li osservavano stretti in pantaloni lunghi e maglioni. Il traghetto virò e indietreggiò verso il molo. Due gabbiani girarono in cerchio su un palo di legno macchiato di nero per il creosoto, e atterrarono sulla ringhiera a pochi centimetri da dove eravamo appoggiati io e Lily. Uno degli uccelli mi guardò per un secondo, accusandomi con il suo occhio giallo. — Pericolo? — domandò. Risposi alla sua domanda; si alzò di nuovo in volo, librandosi sul tetto di un lungo edificio bianco. Il capitano spense il motore; Lily barcollò. L’afferrai prima che cadesse. — Bella presa — disse, con un sorriso di apprezzamento. L’aiutai a rimettersi in piedi. — Direi proprio di sì — fu la mia risposta arguta. Le allusioni avrebbero dovuto compensare il romanticismo. Almeno per il momento. Il negozio che noleggiava motorini era a un solo isolato dall’approdo del traghetto, all’angolo tra Main Street e Middle Road. Ci accolse un uomo barbuto in pantaloni corti e maglietta dei Led Zeppelin. Lily osservò l’insegna dietro la sua testa, TUTTI I MINORENNI DEVONO ESSERE ACCOMPAGNATI DA UN GENITORE , e poi me che guardavo l’uomo. Senza interrompere il contatto visivo, ci consegnò due caschi. — Andate a Big Bay? — chiese. Feci segno di sì con la testa. — Vi serve una cartina? Scossi il capo. Feci un cenno a Lily e lei uscì rapida dal negozio. — Ma che diamine…? — disse divertita. — Non ci ha nemmeno chiesto i documenti. — Si attorcigliò i capelli in cima alla testa e infilò il casco scuotendolo un po’. — Ottimo — dissi, facendole l’occhiolino. — Sono senza documenti. — Hai almeno pagato per questi? Mi misi a cavalcioni di una Honda blu e avviai il motore. Lily si tirò su la gonna e salì dietro di me. Oscillammo piano sulle ruote, più volte, prima di imboccare Middle Road. Lei mi avvolse le braccia intorno alla vita, facendo passare i palmi lungo i fianchi, con i pollici premuti sugli addominali, e mi appoggiò la testa sulle scapole. Scivolai indietro contro il suo calore. La cittadina lasciò il posto alla foresta, e gli alberi apparvero su entrambi i lati. Lunghe ombre tagliavano la strada. Riuscivo a sentire i pensieri di numerosi cervi e di una volpe annidati nel bosco, appena fuori dalla portata degli occhi umani. Mi osservarono passare. Meravigliandosi. Preoccupandosi. La volpe balzò veloce dentro un tronco cavo e si acquattò. Tenevo gli occhi dritti davanti a me, in attesa del punto in cui la strada sarebbe arrivata alla spiaggia, curvando poi di novanta gradi a sinistra, verso Town Park. Indicai il lago davanti a noi; Lily annuì appoggiata alla mia schiena. Il sole colpiva l’acqua, trasformandola in argento, mentre io piegavo la moto in curva. Dopo qualche minuto, scorgemmo l’insegna marrone di Town Park e accostammo nel parcheggio. Spensi il motore e abbassai il cavalletto. Lily scavalcò il sellino per scendere. — Pensi che sia abbastanza caldo per fare una nuotata? — mi chiese. — Per te, forse — risposi. — Hai una tolleranza più alta di qualunque persona che io abbia mai conosciuto. — Compreso te? — Compreso me senz’altro. Io resto sulla spiaggia. — Oh, non fare il bambino. — Vedremo. — Azzardai a prenderle la mano. Il ben noto formicolio mi risalì il braccio fino al cuore, e il bagliore rosa fluorescente pulsò dalle sue spalle, diffondendosi sul suo corpo come una sagoma perfetta. Le lasciai la mano, e il bagliore si affievolì fino a diventare un’ombra color ruggine. Interessante. Era più felice quando la tenevo per mano. Seguimmo la passerella incrostata di licheni fino ai gradini che scendevano al ponte. Parecchie assi erano marce e rotte, così passammo con attenzione, attraversando il precipizio e poi procedendo sulla sabbia, oltre gli alberi, finendo sulla spiaggia inondata dal sole. Alcune famiglie camminavano lungo la riva. Lily corse davanti a me, togliendosi i vestiti. Non sapevo decidere cosa fosse più attraente; se la morbida rientranza della vita, o il bagliore arancione che le fluiva dalle braccia gocciolando dai suoi polpastrelli come un gelato sciolto. Le altre persone presenti sulla spiaggia osservavano incredule Lily sguazzare nell’acqua e tornare di corsa da me, per schiantarsi sul mio petto. La sua pelle scintillava e le venne la pelle d’oca su tutto il corpo. Allungai una mano dietro le spalle e mi sfilai la felpa, facendola passare sopra la sua testa. Lei alzò le braccia, lasciando che le infilassi la maglia al contrario. La voce di Maris mi ringhiò nell’orecchio. “Ricordati perché sei qui, Calder.” “Me lo ricordo” pensai, trascinando un dito intorno all’orecchio di Lily per sistemarle una ciocca di capelli. “Spingiti troppo oltre e giuro che…” mi ammonì la voce di Maris. “Cos’è troppo oltre?” mi domandai. Lily tremò. “Posso farcela” pensai. “Posso superare questa linea. Posso soddisfare Maris e in qualche modo occuparmi di questa ragazza.” Spinsi tutti i miei pensieri contraddittori in fondo alla mente. Che alternativa avevo? Un vento freddo mi colpì il petto nudo; Lily mi guardò contrita. — Avrei dovuto portare un asciugamano — disse. — Perché non ci ho pensato? — Te ne avrei portato uno io, se ti avessi pensato tanto pazza da entrare in acqua. — Rimpiansi la scelta delle parole, ma lei fece un largo sorriso. — Pensavo scherzassi. — La pazzia. Immagino di averla nel sangue. — Sciolse la coda di cavallo e scosse i capelli. — Mmm. Giusto. Il tuo pazzo patrimonio genetico. — Mantenni lo sguardo sui miei piedi mentre facevo la domanda che mi tormentava da quando ero un bambino. — Allora, cos’è successo a tuo nonno, a proposito? Dopo che è andato via di qui. Ruotai le caviglie nella sabbia, cercando di sembrare moderatamente interessato – come se non m’importasse affatto – ma la pelle mi formicolava per l’aspettativa. Nel corso degli anni le mie fantasie erano state pittoresche. Quella che avevo scelto alla fine vedeva Tom Hancock nascosto in una grotta, a nutrirsi di parassiti. — Te l’ho già detto — rispose Lily, scacciando una libellula dalla mia spalla. — Voglio dire, com’è finita? Abbassò gli occhi sulla sabbia e mi coprì le punte dei piedi con le sue. — Alzheimer. Non riconosceva più nemmeno mio padre. Ogni frammento di normalità se ne andò via, un po’ alla volta. L’ultima cosa che disse a mio padre fu: “Tua madre ti sta chiamando, ma non andare a casa.” — E cosa vorrebbe dire? — Dato che mia nonna era morta cinque anni prima, un bel niente. Mio padre pensò significasse che il nonno voleva che restasse con lui. Così naturalmente lo fece. Gli tenne la mano in punto di morte. E continuava ancora a parlare del mostro… — Lily mi lanciò uno sguardo. — Spezzò il cuore a mio padre. Mamma non ci permise di restare a guardare. Non sono sicura che avrei voluto farlo. Hai mai conosciuto qualcuno con l’Alzheimer? — No. — È terribile. Osservare una persona finire in pezzi in quel modo, poco a poco. Non penso che sarei riuscita a vederlo andare via. Alla fine. Seguì un momento di silenzio, poi Lily sorrise e scrollò le spalle, cambiando umore con la stessa facilità con cui si volta la pagina di un libro. Mi trasse verso quello che dichiarava essere “il posto perfetto” e spiegò la gonna come fosse un telo da mare. Mi distesi accanto a lei, dimenando il corpo fino a creare la mia forma nella sabbia. Mi concentrai sul calore della mia schiena, anziché sulla brezza che rinfrescava la pelle. Le palpebre si arrossarono e poi si scurirono quando una nuvola ci passò sopra. Lily si drizzò a sedere, ma io non mi mossi. Ero grato per quel silenzio. Qualche minuto dopo caddi addormentato. Ma il mostro era rimasto sveglio più che mai. 21 NON TENTARMI Calore. Fu la prima cosa che notai e la ragione per cui compresi che stavo sognando. Era il tipo di calore che veniva dall’essere abbrustoliti dal sole a picco in alto e dalla sabbia rovente in basso. Nel mio sogno, aprivo gli occhi e riconoscevo il paesaggio che mi circondava, grato di essere tornato alle Bahamas. Il turchese e il rosa sostituivano il marrone cupo e il verde dei Grandi Boschi del Nord. Un uomo dalla pelle scura suonava un tamburo d’acciaio sotto una tenda a strisce, mentre i turisti sorseggiavano bevande colorate con le cannucce di plastica. La sabbia era polvere sotto la mia pelle e la facevo scorrere dal pugno come in una clessidra. In contrasto con il calore esterno, il mio cuore tremava di freddo. La mente era annebbiata, cupa e afflitta, mentre respingeva i fili di disperazione che erano ormai intessuti dentro di me come la trama e l’ordito su un telaio. Istante dopo istante, i fili diventavano sempre più stretti, finché la disperazione quasi non mi soffocò. Avevo già provato questa sensazione. Fin troppe volte. Era solo questione di minuti, prima che la depressione diventasse così spessa da ingoiare gli ultimi residui di raziocinio. Mi chiesi che cosa mi avrebbe fatto scatenare, questa volta. Un sorriso? Una risata? Sperai solo che chiunque mi capitasse, non fosse troppo giovane. I bambini erano più difficili da maneggiare, dopo l’euforia del primo momento. Poi il sogno cambiò forma con la sabbia, mentre qualcuno si avvicinava. Un lieve bisbiglio al mio orecchio: — Ti ricordi di noi? Un fremito di aspettativa mi correva lungo le gambe. Guardai in alto, riparandomi gli occhi dal sole. Due sagome scure guardavano in basso, verso di me, con le braccia stranamente allungate, le teste piccole. — Al bar, ieri sera — dissi intontito, cercando di ricordare i loro nomi. Ma certo, non potevano accorgersi del pericolo che rappresentavo. Non sembravo altro che la perfetta avventura estiva: esotico, affettuoso, prodigo di risate. Le amavo perché non avessero paura, non come Pavati, che giocava con le sue prede come un gattino con un gomitolo, che lo fa rotolare via prima di tirarlo di nuovo a sé privando lentamente le sue vittime delle loro emozioni, finché non erano troppo intontite per reagire. No, non ero per niente come Pavati. Le mie vittime morivano sempre con dignità; facevo in fretta. — Andiamo a fare il bagno nude — disse una delle ragazze, la sua voce suonò lontana, mentre l’altra rideva. I miei occhi saettarono dalla sua parte e il cuore trasalì di desiderio. — Ci chiedevamo se ti andasse di unirti a noi. Una di loro – non saprei dire quale – mi prese la mano e mi sollevò, conducendomi a un punto nascosto su una roccia abbarbicata in alto, lontano dalla spiaggia pubblica. La sentivo tirarmi per un braccio, benché la visuale si stesse restringendo e non riuscissi più a vederla. Si fermò. Si voltò. Mi baciò. Rise in una maniera che mi fece ribollire dentro. La seconda ragazza disse: — Bacia anche me, Calder — e il suo sorriso fu come un lampo che illuminò l’intera scena. Mi ritrovavo nudo e senza fiato e, con un unico movimento fluido, le avvolgevo entrambe nelle mie braccia. Le loro grida di gioia mi riempivano le orecchie, mentre mi tuffavo nell’oceano, portandole sempre più a fondo, premendo i loro corpi contro il mio, mentre la metamorfosi prendeva il sopravvento. Continuavamo a scendere, la pressione crescente dell’acqua mi aiutava a spremere la vita dai loro corpi. Le emozioni luminose uscivano dalla loro pelle e penetravano nella mia. Come un’osmosi di champagne. Mi sprizzava nelle vene, rendendomi così leggero che dovetti sforzarmi di non farmi riportare in superficie. Invece, continuai a trascinarle verso il basso, in un vortice, giù nella sabbia, strizzandole come strofinacci senza guardarle in faccia; non volevo vedere i loro occhi rovesciarsi indietro, le bocche aperte. Ci volle solo un minuto. Una volta assorbito tutto il possibile, diedi un’ultima spremuta, quindi abbandonai i loro gusci vuoti nel solito posto. Riemersi esultante, sentendomi dieci volte più grande ed ebbro di vittoria. E poi mi accorsi che qualcuno mi stava guardando. Era Lily. Ero sveglio. E – dannazione – faceva freddo. Inghiottii la fame, che adesso mi lacerava il cuore con denti affilati come rasoi. — Cos’hai da guardare? — ringhiai. Mi buttai un braccio sugli occhi. — Chi dice che sto guardando? — ribatté lei. — Lo dico io. Sento che mi stai fissando. — Mi stupiva essere tanto conscio della sua presenza. Mi domandai da che distanza sarei riuscito a sentirla. — Che fai? — Scrivo. Tirai indietro il braccio e la guardai strizzando gli occhi. Reggeva un quaderno in equilibrio sulle ginocchia, lo zaino aperto ai piedi. Lily chinò la testa sulla pagina, mentre la penna graffiava la carta. — Che scrivi? — Scrivo di te — disse senza alzare gli occhi e senza scusarsi minimamente. Feci una risata forte, amara. — Credo di non volerlo sapere. — Cerco solo di descrivere come sei. Sei italiano? — Stavolta mi guardò assottigliando gli occhi. — No. — Irlandese? Armeno? — No, perché? — Non ho mai visto nessuno che ti somigli, finora. Capelli neri ricci. Pelle olivastra. E non sembra che tu abbia necessità di raderti; non hai nemmeno un filo di barba. E hai gli occhi verdi. Voglio dire, chi ha gli occhi come i tuoi? Magari brillano anche al buio. — Non brillano. Mi passò un dito su un braccio, saggiandone la levigatezza. — Te le depili o cosa? — Faccio parte della squadra di nuoto — spiegai, con una contrazione agli angoli della bocca. — Stai mentendo. — In parte. — Non farlo. — Scusa. — La guardai con gli occhi socchiusi e lei arrossì. — Va bene, cosa sei, allora? — mi domandò, enfatizzando il cosa più di quanto mi sembrasse normale. O era solo la mia immaginazione? — Sono qui. Ecco cosa sono. La bocca le si contrasse in un sorriso. — Immagino che basti. Mi girai di fianco su un gomito e mi avvicinai a lei. — Allora, ti rendo ancora nervosa? — Assoluta-maledettamente-sì. — Lily tornò al suo quaderno. Io mi sdraiai sulla sabbia e lasciai che le mie dita disegnassero dei cerchi sul tatuaggio in fondo alla sua schiena. Il sole era quasi scomparso e il vento stava diventando più freddo. — Lily? — Che c’è? — Sei sicura di voler andare dai Pettit, stasera? — Sei sicuro che tu n o n ci andrai? — Sicuro — dissi. — Non vorrei rovinare la festa di Jack. — Speravo di sì. — Cosa? Che gli rovinassi la festa? Con il quaderno mi diede una botta in testa. — No, stupido. Speravo che ci venissi. — Vedremo — dissi, sollevato per avere fatto abbastanza progressi da rendere felici, almeno per un’altra notte, sia Maris sia me stesso. — E ora rivestiti, fa freddo. E io rivoglio la mia felpa. 22 FALÒ Una labrador color miele percorreva su e giù la spiaggia dietro la rimessa dei Pettit. Mi guardava, la guardavo. Di tanto in tanto si abbassava sulle zampe anteriori, poi spiccava un salto e riprendeva a camminare. Il falò ardeva dietro di lei. Era stato acceso in una vasca di ceramica conficcata per metà nel terreno, ad appena una decina di metri dalla costa, e i rami secchi al suo interno bruciavano luminosi, spargendo scintille nell’aria. Qualcuno gettò una bracciata di foglie nel fuoco, ignorando le proteste di alcune ragazze, e una nuvola di fumo si levò gonfia dalla vasca. I partecipanti alla festa arretrarono tra gli alberi, per evitare l’odore tossico, e una nube grigia si riversò sul lago. Il fumo soffocò qualsiasi luce generata dalle fiamme, fui costretto a impegnarmi a fondo per individuare Lily in quella foschia. La vidi – come sospettavo, o forse temevo – al buio, vicino a Jack Pettit. O magari era lui a stare vicino a lei, perché quando Lily si scansò da una parte, lui si avvicinò di nuovo. Si chinò per bisbigliarle qualcosa all’orecchio. Lei sorrise. Era appoggiata di schiena a un albero. Non riuscivo a capire se fosse divertita o semplicemente educata, e… Come diamine si era vestita? Jack giocherellava con la frangia del foulard di seta che lei aveva avvolto intorno alla testa. La luce si rifletteva su qualcosa alle sue spalle. Assottigliai gli occhi al buio e vidi un sacchetto per i rifiuti appeso a un pino. A terra, intorno ai piedi di Lily, c’erano almeno una decina di lattine di birra e di bicchieri di carta. Un fusto di birra argentato sbucava per metà da dietro l’albero. — Chi è la tua amica? — domandò un ragazzo. — Lily Hancock — rispose Jack, chiaramente felice di mostrare una certa intimità con lei. — Lily, lui è il mio amico Bryce. È all’ultimo anno delle superiori. — Non mi pare di averti mai vista a scuola — disse Bryce. — Non vai a Bayfield. — Mi sono trasferita qui da poco — rispose Lily. — Inoltre, per il momento studio a casa. — Che peccato. — Bryce mise una mano sul tronco a cui era appoggiata Lily e le si avvicinò. — Sarebbe bello vedere una faccia nuova a scuola. Le altre ragazze le conosco tutte dai tempi dall’asilo. Cercai di cogliere la reazione di Lily, ma non ci riuscii. Gabrielle arrivò di corsa e diede una botta con i fianchi a Bryce. — Bello, levati — disse Gabrielle. — Dalle tregua. — Che problema hai, Gabby? — le domandò Bryce. — Stavo solo salutando la nuova arrivata. — Lily, vieni con me — disse Gabby. Prese Lily per mano e la trascinò via. — Voglio presentarti un po’ di gente. — Poi urlò, voltandosi verso Bryce: — Gente meno insopportabile. Lily se ne andò con Gabby. Avrei voluto seguirla per assicurarmi che stesse bene, ma lo sguardo lascivo di Bryce aveva tutta la mia attenzione. Schiacciò la sua lattina vuota e la gettò a terra, sotto il sacchetto dell’immondizia. — Si veste in modo strano — disse Bryce. — Oh, strana lo è di sicuro — ribatté Jack. — Però è carina, vero? — disse Bryce. Jack non rispose. — Sì — disse Bryce — è decisamente carina. Con chi è venuta? Jack incrociò le braccia sul petto e si protese in avanti, conficcando il gomito in pancia all’amico. — L’ho invitata io. Se sta qui con qualcuno, sta qui con me. Senza preavviso, l’elettricità mi schizzò dalla testa alle braccia, sprigionando un lampo bianco sull’acqua. In spiaggia sobbalzarono tutti. — Era un fulmine? — domandò qualcuno. — Le previsioni non davano pioggia — disse un ragazzino. — Speriamo che non piova — disse un terzo. — Non avrò un’altra serata libera nel fine settimana fino al giorno dei caduti. Un pesce morto galleggiava accanto alla mia mano tesa. — Pensi che stia con te? — mormorai, afferrando il pesce. Lo lanciai colpendo Jack dritto in mezzo agli occhi. — Non hai idea di chi c’è qui con te. — Che diavolo è stato? — gridò Jack. Il cane annusò il terreno, seguendo la scia del pesce straziato. Una volta trovato il suo obiettivo, gli diede un paio di belle annusate, prima di starnutire e sedersi su un piede di Jack. — Sparisci, stupido cane. — Jack raccolse un bastone e lo lanciò lontano, in acqua. Il cane trottò verso il lago, poi iniziò a nuotare nell’oscurità. Nuotò per oltre dieci metri, alla ricerca del bastone, poi tornò indietro, con il trofeo tenuto rispettosamente fuori dall’acqua. Lasciò cadere il pezzo di legno ai piedi di Jack e si scrollò l’acqua dal pelo. — Che schifo. Sparisci. — Jack scagliò il bastone ancora più lontano. Un lancio impressionante, con un atterraggio a pochi centimetri dalla mia mano. Se non fossi stato sicuro del contrario, avrei detto che aveva mirato proprio a me. Il cane entrò di nuovo in acqua. Mentre si avvicinava, riuscivo a scorgerne il muso e l’espressione stanca. Conoscevo bene la frustrazione di quella costrizione istintiva. Il suo naso si abbassava sempre di più sull’acqua, mentre i suoi pensieri scorrevano come le immagini di vecchie diapositive: coniglio, ciotola, qualcuno che le accarezza la testa, e poi… stanchezza… PANICO. — Non ti voltare, vecchia mia. Vieni da me. Ti aiuterò. Il cane uggiolò e si avvicinò. — Così va bene. Ancora un po’. Le misi una mano sotto la pancia – sentendo ogni costola – e la sostenni. La portai a riva, diversi metri a nord dalla festa. Mi nascosi di nuovo, pentendomi di avere lasciato i vestiti in macchina. Sbirciare dai cespugli iniziava a essere stancante, oltre che umiliante. Perché non irrompere alla festa sulle mie gambe come ogni persona che si rispetti? Non risposi alle centinaia di domande che mi frullavano nel cervello. Forse perché avevo la testa in piena confusione, forse perché stavo ascoltando il basso ringhio di avvertimento del labrador, ma non mi accorsi subito della ragazza che saliva sulla barca da pesca, né della sagoma scura che l’allontanava dalla sponda del lago. I miei occhi cercarono Lily sulla riva, mentre un sottile filo dell’odore di agrumi e pino galleggiava lungo l’acqua increspata. — Divertitevi — disse una voce che riconobbi essere di Gabrielle. La barca ondeggiò quando la figura scura scavalcò la prua con una gamba e montò sullo scafo. Dalla sagoma capii che era un maschio. Il vento sul lago gli fece volare via il cappuccio della felpa e lui mosse un altro passo, facendo oscillare la barca. La ragazza gridò, poi rise, dicendo: — Mi ha convinta Gabby. Non farmene pentire. — Lily — mormorai. Il ragazzo, ancora in piedi sulla barca, tirò la corda di accensione due volte, finché il motore non prese vita con un ruggito. Manovrò la valvola e la prua uscì dall’acqua. Lily era rivolta al centro della barca. Si chinò in avanti, reggendosi sui lati, finché il motore non si spense bruscamente – a pochissimi metri dalla riva – e lei fu spinta indietro. — Jack, sei un pessimo conducente — gridò all’altra figura. Era peggio di quanto pensassi. Cosa ci faceva in barca con lui? La prua era sprovvista di illuminazione. Mi guardai intorno, sperando di non vedere altre imbarcazioni. Una collisione era più di quanto mi servisse in questo momento. Jack si alzò e barcollò verso il sedile centrale. La barca ondeggiò pericolosamente, agitando l’acqua. — Sei ubriaco? Che fai? — Nella voce di Lily risuonava il panico. — Cosa faccio io? Cosa fai tu! — disse lui in tono di scherno. — Ci manderai a picco. — Non è vero. — Si avvicinò ancora, sedendosi sul bordo del sedile centrale. — Si sta bene, vero? Lontani dalla folla. Insomma, sono simpatici, credo, ma non vedevo l’ora di rimanere solo con te. — Pensavo che avremmo fatto un giro — disse Lily. — Certo, lo faremo. Ma prima volevo parlarti. — Jack parlava biascicando le parole. — Non è una cosa che posso dire davanti agli altri. Ci ho provato, credimi. — Di cosa vuoi parlare? — Di loro. — Rise nervosamente. — All’inizio pensavo che fossi una di loro. Il giorno del tuo trasloco. Sentivo il loro odore per tutta casa. Aromatico. Come di fumo e incenso. — Fece una breve risata. — Quando sei caduta nel lago e non facevi che parlare di quello stupido delfino, ho pensato che fosse tutta una copertura. Ma non aveva senso. — Sospirò, deluso. — Non sei una di loro. Gli sei solo andata vicino. Molto. Lily si allontanò. — È quello che stai dicendo che non ha senso. — Non fa niente — disse lui. — Non devi fingere con me. Anch’io sono stato vicino a una di loro. Molto vicino. — Vicino a cosa? Lui sorrise. — Falla finita. Lo sai di cosa parlo. Quella cosa che chiamavi delfino. — Rise di nuovo e abbassò la voce. — Sirene. — Sirene? — disse Lily. — Pensavi che i o fossi una sirena? — Sorrise, ma da questa distanza non capivo se si sentiva lusingata o divertita. — Le sirene profumano di incenso? Annuì e le si avvicinò ancora, fino a sfiorarle le ginocchia. — Una di loro veniva a trovarmi la scorsa estate. Tutte le settimane. Avevamo un posto speciale dove incontrarci, su alcune rocce piatte, leggermente a sud di qui. — E ora? — È da questo autunno che non la vedo. Ma ho sentito il suo odore addosso a te. — Si protese speranzoso. — Pensavo che magari tu l’avessi vista. Doveva tornare a trovarmi. Dal mio nascondiglio, nuotai in cerchio e gettai le braccia in aria. — Dannazione! — esclamai. Allora era questo che intendeva Maris? Pavati non aveva la precedenza su Jack Pettit come preda: lui era uno dei suoi giocattoli. Come avevo fatto a non accorgermene? Maris e Pavati stavano diventando brave a celare i loro pensieri. — Aspetta, mi stai dicendo che non ho avuto le allucinazioni? — gli domandò Lily. — Quello che ho visto... è lei? Il mio delfino è la sirena del tuo quadro? Jack non ascoltava. — Per tantissimo tempo ho sperato di essere una di quelle persone di cui mi parlava il vecchio pescatore. Persone che non sanno nemmeno di essere manitù… O sirene o altro. Se ne vanno in giro come gente normale… Pensavo che fosse per questo che lei era venuta a cercarmi. Forse sapeva qualcosa che io ignoravo. Ho fatto alcune prove, ma non è successo niente. Non riesco nemmeno a trattenere il respiro per più di diciassette secondi. Jack schiacciò il naso sulla pelle di Lily, nell’angolo tra il collo e la spalla. Inspirò a fondo e gemette. — Hai un profumo così buono. Proprio come il suo. Le mise una mano dietro la nuca. In qualsiasi altra circostanza sarebbe stata una scena romantica, ma era come vedere tutti i film dell’orrore di cui avevo sentito parlare. Lily piegò il polso, appoggiandogli il palmo della mano, piatto e rigido, sul petto. Quando fu chiaro che non ero l’unico a voler tenere alla larga Jack Pettit, scattai verso la barca, tenendo gli occhi appena sopra il pelo dell’acqua. Jack afferrò le estremità del foulard di Lily e la tirò bruscamente a sé. La barca iniziò a oscillare. Lily urlò quando Jack piantò le labbra sulle sue. Lo respinse e gli diede uno schiaffo in faccia. Jack trattenne il respiro, quasi che lei gli avesse tirato acqua ghiacciata e la colpì, forte. Lily cadde dal sedile. Una vena pulsava al centro della fronte di Jack, mentre la tirava di nuovo verso di sé e le afferrava il viso con entrambe le mani. — Portala da me — disse. — Dille che voglio vederla. Dille che non resisto più. Lily lanciò un grido, subito soffocato. Forse era per l’oscurità o perché aveva gli occhi chiusi, ma Jack Pettit non vide il braccio uscire dall’acqua. Il mio braccio. Le mie dita annaspavano, ansiose di ghermirlo alla gola. Lo afferrai per il collo e lo trascinai giù dalla barca con una velocità tale da farlo scomparire prima che Lily riaprisse gli occhi. L’avevo quasi trascinato sul fondale, quando mi ricordai di Lily. Tornai in superficie, quel tanto che bastava per spingere la barca a riva, e sentii la punta della mia coda sbucare dall’acqua. L’aria fredda della notte mi sferzò la pinna. Lily rimase con il fiato sospeso. Dannazione. Cosa aveva visto? Mentre pensavo alla mia mossa successiva, Jack si dimenava, agitando l’acqua. Tornò in superficie e gridò, prendendo una boccata d’aria. Lo afferrai per la nuca e lo spinsi giù, schiacciandolo sulla sabbia. Gli strofinai la faccia sui detriti e poi lo lasciai. — Jack! Jack! Jack! — gridarono i ragazzi dalla spiaggia. Qualcuno entrò in acqua e tirò la barca con Lily in secca. Avrei dovuto ricordarmi di ringraziarlo, chiunque fosse. Per prudenza spinsi Jack in basso ancora una volta, tanto per essere sicuro che avesse imparato la lezione, quindi mi dileguai. 23 LETTURA DI POESIE Quando arrivai al lavoro il giorno successivo, la signora Boyd mi salutò mentre era intenta a passare lo straccio sul pavimento, dietro il bancone. La mattinata sarebbe stata ancora più lenta del solito, con i nostri pochi “clienti fissi” in chiesa. — Lily non lavora oggi? — le domandai. — Arriverà per le dieci — rispose la signora Boyd. Ripose lo straccio e andò nel suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle. Mi dedicai al cruciverba del New York Times , guardando l’orologio e compilando una ventina di parole prima che Lily varcasse la soglia del locale. Un lieve livido a forma di dita seguiva la linea del suo zigomo. Strinse le labbra e si mise le mani sui fianchi. — Che hai da ridere? — E chi ride? — Alla vista di quel livido, mi pentii di non avere fatto fuori Jack Pettit quando ne avevo avuto la possibilità. — Mi stupisce solo che ti sia presentata al lavoro. — Perché? — Una lunga giornata al sole e all’aria aperta, seguita da una serata impegnativa. — Scrollai le spalle, cercando di mantenere leggera la conversazione. Andai dietro il bancone e mi legai il grembiule blu in vita. Lei mi seguì. — Cosa ti fa credere che abbia avuto una serata impegnativa? Mi voltai ed eccola. A pochi centimetri da me. Le passai accanto e andai sul retro a prendere del colombiano decaffeinato. — Non sei andata alla festa dei Pettit? — Ci sono andata. — La sua voce era proprio dietro il mio orecchio. — Ecco, è quello che intendevo. — Tornai al bancone, aprii la confezione di caffè e riempii il contenitore sotto la macchina dell’espresso. L’aroma ricco del caffè mi investì la faccia. — Pensavo che magari ti avrei visto là, ieri sera — disse. — Non ero stato invitato — le rammentai. Le toccai il naso con un dito e le passai di nuovo accanto. — E poi, ti avevo detto che avevo un impegno. Si morse il labbro inferiore, riflettendo su cosa dire. — Pensavo che magari avresti cancellato il tuo impegno per stare lì con me. Stropicciai imbarazzato i piedi e cercai qualcosa da pulire. — Dico male? — domandò. — No — dissi con un sospiro. Mi arresi e mi appoggiai al muro. Abbassai il mento sul petto. — Mi sarebbe piaciuto essere là con te. — Per un secondo, mi è sembrato di vederti davvero. Alzai lo sguardo. — Probabilmente il fumo ti ha giocato qualche brutto scherzo. Sorrise e annuì, come se le avessi risposto a un’altra domanda. La signora Boyd uscì dal suo ufficio, chiuse a chiave la porta e si diresse sul retro senza rivolgerci la parola. La guardai allontanarsi e, quando mi voltai di nuovo, Lily arricciò il naso. — Lo sai? Sono tre giorni che porti gli stessi vestiti. Non hai nient’altro? — Non tutti abbiamo il lusso di merletti e velluto, signorina Hancock. — Le parole mi erano uscite più taglienti del necessario, ma ero felice che i vestiti sporchi mascherassero gli odori che lei forse andava cercando. Abbassò la testa. — Scusa. Non volevo criticare. Davvero. — Tra noi si creò un lungo silenzio. Poi lei disse: — Se ti interessa, sono stata con Gabby quasi tutta la sera. Jack è andato a letto presto. Ha avuto un piccolo incidente con la barca. — La gente dovrebbe stare più attenta in acqua. Assottigliò gli occhi. — Devo stare attenta in acqua anche io? Incrociai le braccia al petto e la guardai dritta in faccia. — Di cosa stiamo parlando, Lily? — Parlo del fatto che forse mio nonno non era pazzo, dopotutto. Jack non la pensa così. Non risposi. — Ehi, sto parlando con te — disse, dandomi una botta sulla spalla con la base del palmo. Alzai gli occhi al soffitto. — Cosa vuoi che ti dica, Lily? Che penso che tu abbia ragione? Be’, non è così. Vuoi sapere cosa penso? Penso che passi troppo tempo con Gabrielle Pettit. E già che ne stiamo parlando, non mi piace molto nemmeno suo fratello. Vuoi parlare di mostri? Jack è un cretino patentato e se ti tocca di nuovo perderà un paio di dita. — Come fai a sapere che mi ha toccata? — Allungò una mano verso di me, ma feci un passo all’indietro e mi si drizzarono i peli sulla nuca. Gli occhi saettarono verso la sua guancia arrossata. — Non lo so. Credo solo che potresti trovare persone migliori con cui passare il tempo. — Persone? — chiese, inarcando le sopracciglia. — Persone come te? — Certamente, persone come me. Perché no? Lily posò lo zaino sul bancone di marmo, abbassò la cerniera e mise in mostra un libro con diverse striscioline di carta che marcavano le sue pagine preferite. Conoscevo questo libro. Era lo stesso che avevo visto a Minneapolis, quando mi ero nascosto nell’armadio della sua camera. Il ricordo era imbarazzante, ma mi era rimasto impresso nella mente: il libro, la borsa verde di velluto, la gonna nera, lei che si piegava per allacciare gli anfibi, il tatuaggio. Fu il momento in cui decisi che era l’obiettivo sbagliato e il momento in cui seppi – inconsciamente, credo – che era giusta per me. Se fossimo stati della stessa specie e se non avessi pianificato di ucciderle il padre entro la settimana. — Ho trovato un paio di poesie che potrebbero interessarti. Sono tra le mie preferite. Vuoi sentirle? — No. Mi lanciò uno sguardo strano, poi si schiarì la voce, chinandosi sul libro. I capelli le ricadevano in una cortina fitta ai lati del viso. — Una sirena trovò un ragazzo che nuotava, e lo prese per sé — lesse. — Premette il corpo al suo corpo. — Non amo Yeats — dissi bruscamente. — Va bene. — Un sorriso nascosto tornò ad affacciarsi ai suoi occhi. — Che ne dici di Tennyson? Scossi la testa, ma lei iniziò a leggere lo stesso. Sarei un tritone ardito Starei a cantare il giorno intero Riempirei gli antri del mare con voce possente Ma di notte viaggerei lontano e giocherei Con le sirene tra gli scogli… Fece una pausa, poi nervosamente saltò avanti: — Le bacerei spesso sotto il mare e le bacerei ancora, finché non mi baciassero. — Che stai facendo? — Niente. — Mi guardò con due occhioni innocenti. Come in uno di quei vecchi cartoni animati di Betty Boop. — Non ti piace nemmeno questa, vero? La fulminai con lo sguardo. Cosa voleva che facessi? Che accettassi le sue ridicole supposizioni? Che ammettessi quel che ero veramente? Cosa avrebbe pensato, quando le avessi detto che ero più simile al mostro in fondo al lago che a uno dei sirenetti nauseanti e narcisisti di Tennyson? Ebbe un brivido, ma non si arrese. — Va bene. Niente Tennyson. Vuoi sentire una cosa che ho scritto io, invece? — Sarebbe meglio. — Le parole mi uscirono come un ringhio. — Non ti metterai a ridere, vero? — Si morse il labbro inferiore, come se desiderasse rimangiarsi l’offerta. Adesso mi era venuta la curiosità. — Non credo che mi metterò a ridere — la rassicurai. Ero abbastanza sicuro di poter mantenere la promessa. In questo momento non c’era niente che mi apparisse così divertente. Lily tirò fuori un grosso quaderno con la spirale; sulla copertina, a lettere maiuscole, c’era la scritta I MIEI SCARABOCCHI. Lo aprì e si schiarì la voce. — L’ho scritta ieri sera. — Va’ avanti. Mi lanciò un altro sguardo ansioso. — Prometti di non ridere? Mi tracciai una croce sul cuore e lei iniziò a leggere le parole lentamente. Con cautela. Padre, quando mi sarò allontanata da te Madre, quando sarò morta Non sedetevi alla mia piccola tomba Ma cercate nelle cime degli alberi. Si fermò e mi guardò in viso, per capire se dovesse andare avanti. Annuii, incoraggiandola. Finora tutto bene. Forse la sua piccola lettura di poesie vittoriane era stata solo una sfortunata coincidenza. Si schiarì di nuovo la voce. Non nei fiori là piantati Mi troverete immobile Ma nel volo verso il cielo Dell’umile caprimulgo. Uccelli. Bene. Così andava meglio. Lily mi guardò come se si aspettasse di vedermi spaventato. Spostò il peso da un piede all’altro, prima di leggere l’ultima strofa. O giù andrò nel nascondiglio Dello storione striato Dove mi ritroverò invischiata Nella setosa chioma di un tritone. — Basta. — Qualcosa non va, Calder? — Mi guardò di nuovo con la massima, assoluta innocenza. — Cosa sono tutte queste poesie sulle sirene? Non penserai ancora a quel delfino? — Cercai di assumere un tono sprezzante, ma non riuscii a mascherare il panico nella voce. — Non ci sono delfini in questo lago, Calder. Lo sai. Probabilmente lo sai meglio di chiunque altro. — Cosa vorresti dire? — Lo sai, cosa voglio dire. — Chiuse piano il quaderno e lo fece scivolare nello zaino. Con lo stesso movimento fluido, le sue dita si intrecciarono alle mie. Il flusso di elettricità, dalla mia mano alla sua, le fece venire la pelle d’oca, mentre guardavo inorridito l’aria intorno alle nostre mani trasformarsi in sciroppo di lampone. La dolcezza penetrò negli spazi tra le mie dita e mi colorò il dorso della mano e poi mi attraversò il polso. Lily si avvicinò e io soffocai nel calore dolciastro in mezzo a noi. Mi bruciò le labbra e mi tirai indietro con un’esclamazione. Mi si era chiusa la gola e avevo la fronte imperlata di sudore. — Senti odore d’incenso? — mi domandò. — Non mi sento bene. Devo andare. — Prima di precipitarmi alla porta, mi sembrò di vedere un sorriso soddisfatto affiorarle sulle labbra. 24 AGGUATI E TRAPPOLE Corsi alla macchina, bofonchiando una sfilza di oscenità. Era meglio mettere una bella distanza fra me e il caffè. I battiti del mio cuore rallentavano a ogni passo, ma più mi allontanavo da Lily, più diventavo irrequieto. Non riuscivo a capire cosa fosse. Potevo solo paragonarlo a quando si resta imprigionati in un mulinello. Ma non in un brutto modo. Mi ritrovavo a testa in giù, ma non mi bastava. Insomma, volevo che finisse. Era una forza irresistibile come l’impulso di migrare. Saltai a bordo dell’Impala e chiusi con violenza lo sportello. Nessuno poteva vedermi qui dentro. Le querce gettavano ombre sul parcheggio, e Maris era stata abbastanza scaltra da rubare una macchina con i vetri oscurati. Questo grado di copertura mi concedeva il lusso del tempo. Dovevo ricompormi. Chiusi gli occhi e picchiai la fronte sul volante. Non vedevo altro che Lily: il suo volto d’avorio e i seri occhi grigi, i lunghi capelli che si arricciavano sulle guance e le cadevano sulle spalle. Il tatuaggio sulla schiena, il sorriso confuso, la sua mano nella mia… il fuoco rosa lampone lungo tutto il mio braccio. — Stupido. Stupido. Stupido — gridai forte. Scossi la testa e cercai di mettere a fuoco l’immagine, cercai di riconquistare il buonsenso. Non era questo il piano. Maledetta Pavati! Era stata tutta colpa sua perché, tanto per cominciare, mi aveva messo in testa quest’idea ridicola. Io e Lily come una vera coppia… A me non sarebbe mai venuto in mente. Nemmeno tra cent’anni. Ma non c’erano altre spiegazioni. Mi piaceva troppo. Troppo, troppo. Mi rifiutavo di pensare all’altra parola, la parola importante; quelli della mia razza ne erano capaci? Era un’eventualità intollerabile. A quanto pare, mi ero innamorato di un’umana, e non un’umana qualunque, la peggiore umana possibile fra sette miliardi di possibilità. In preda a una crisi isterica, mi distesi sul sedile anteriore, mentre il corpo intero fremeva. Una cosa del tutto ridicola. Le lacrime mi scendevano sulle guance mentre mi scappava un’altra scarica di risate a denti stretti. Cosa avrei detto a Maris? Niente, punto e basta. Niente di niente. Quindi, la giovane Hancock amava le poesie sulle sirene. Bell’affare! Mi chinai sul poggiatesta e contai i respiri, scacciando Lily dalla mente, immaginando invece la metamorfosi. Dal mio arrivo a Bayfield, avevo ridotto i miei tempi di sei secondi, ma ero sempre con sette secondi di ritardo rispetto alle ragazze. Tanto valeva che fosse un’ora. Pavati si trasformava prima che le sue mani toccassero l’acqua. Maris e Tallulah lo facevano in un paio di secondi. Il mio tempo migliore della stagione era stato di nove, ma continuava a oscillare. Era a questo punto che entrava in ballo l’esercizio di visualizzazione. Se lo evitavo, a volte dovevo riemergere per prendere aria prima di trasformarmi. Quando accadeva, di solito tornavo a galla urlando, cosa che faceva ridere le mie sorelle. Non c’era nulla di più sinistro delle crisi isteriche sottomarine. Per giunta, detestavo attirare inutilmente l’attenzione su di me. Tempo fa un barcaiolo aveva pensato che stessi annegando. Quando mi raggiunse, io ero già sparito. Mi segnalarono come l’ennesimo caso di annegamento. Nessuno trovò strano che il corpo non fosse mai stato rinvenuto. Dicono che il Lago Superiore non restituisce mai i suoi morti. Mi tolsi i vestiti, senza darmi pena di piegarli, e li infilai sotto il sedile del conducente. Aspettai che passasse la nave della Guardia Costiera; aveva al rimorchio una barca più piccola con uno stendardo dell’università che sventolava a poppa. Una volta passata, attivai il timer del mio orologio e spalancai la portiera. Corsi verso la battigia e mi tuffai, volando in aria come un giavellotto prima di fendere l’acqua. Per i primi due secondi nulla mi distinse dagli altri nuotatori umani, incantato dalla fredda pressione che mi avvolgeva la pelle. Poi l’acqua penetrò nei polmoni, riempiendo di ossigeno le mie cellule affamate. Adesso sì che potevo respirare. Eppure, nonostante la sensazione di sollievo, mi preparai con fatica alla metamorfosi. Lo sconvolgimento delle cellule procurava un senso di panico, sembrava di stare sulle montagne russe o di precipitare nella tromba dell’ascensore. Il flusso di energia mi scorreva rapido nelle cosce, uscendo fuori dalle dita dei piedi, esplodendo in una grande coda d’argento tanto fantastica quanto terrificante. Consultai l’orologio, strizzando gli occhi nel limo rosso. Dodici secondi. Due secondi in più rispetto all’ultima volta. Maledissi la mia mancanza di concentrazione. Tallulah doveva aver capito che mi ero tuffato, perché vidi che mi veniva incontro. I suoi capelli d’oro ondeggiavano nella corrente, sfiorandole le spalle. I suoi pensieri mi portarono sott’acqua. — Pensavo che non saresti venuto all’isola. — Senti, Lu. Non voglio sapere cosa dicono le altre, ma per me è tutto a posto. Siamo sulla rotta giusta. Non devi preoccuparti. — Era spossante tutta questa ginnastica mentale per riuscire a mentire. Quando mi raggiunse, alzò le mani, palmi in avanti, e io appoggiai le mie alle sue, in segno di saluto. Riemergemmo insieme. Tallulah sorrise. Dopo la morte di mia madre, lei era stata una delle poche consolazioni nella mia vita. Era ciò che mi mancava di più quando ero lontano. Mi abbracciò e mi diede un bacio sulla guancia. I miei pensieri volarono a Lily. Mi chiesi che cosa avrei provato se avessi avuto lei fra le mie braccia, le sue labbra sulla mia guancia, le mie labbra… — Corri all’isola — dissi. Le parole mi uscirono di getto; e scacciai dalla mente ogni pensiero riguardo a Lily. Il volto di Tallulah si illuminò e poi scomparve dalla vista. Avevo inscenato una bella commedia, ma in realtà non volevo correre. Volevo solo restare per conto mio. A Tallulah non sarebbe sembrato affatto strano battermi un’altra volta. Se Maris aveva intenzione di permettermi di portare avanti il piano iniziale, non potevo lasciare che i miei pensieri contraddittori mi tradissero. Concessi alla mia mente di riempirsi delle immagini di nostra madre intrappolata nella rete di un pescatore. Mi riempii le orecchie della sua richiesta soffocata di aiuto. Mi riempii il cuore del nostro dolore collettivo. Mi riempii le viscere di un odio che solo l’uccisione di Jason Hancock avrebbe appagato, finché i miei sentimenti sconvenienti per Lily furono salvaguardati nel mio animo. Quando riemergemmo all’isola di Basswood, Tallulah si allontanò saltellando e andò a sedersi sulla sabbia accanto a Maris e Pavati, che mi sorrisero con felice stupore. Con un grugnito, mi guardai intorno per cercare di capire come mai. C’erano tre cadaveri sulla battigia, nel punto in cui la marea si era ritratta. — Dio, Maris, pensavo volessimo darci una calmata. — Mi inginocchiai accanto a uno degli studenti universitari e guardai in direzione dell’acqua. L’espressione vacua del giovane era rivolta al cielo. — Infatti — ribatté Maris. La parola le esplose dalle labbra insieme a una ributtante risata. — Questa è solo la nostra prima uccisione dell’estate. — Il suo umore era migliorato e questo mi dava i brividi; guardai Pavati, che inarcò un sopracciglio sfidandomi a tradirla. — Ti sei saziata — dissi. — Non dovevamo risparmiare l’appetito per Hancock? — I ragazzi di quell’età — disse Maris in tono malinconico guardando i cadaveri — si credono immortali. Fra trent’anni si sarebbero accorti dell’errore, e questo li avrebbe resi così cupi. — Sospirò con finta compassione. — Gli abbiamo solo fatto un favore, privandoli della vita adesso. Mentre erano ancora giovani e deliziosamente felici. Un angolo della mia bocca si contrasse e annusai per sentire se ci fosse ancora una traccia di vita in loro, ma erano solo gusci vuoti. Maris equivocò la mia espressione, scambiando la pietà per una critica. — Senti, fratellino, non so davvero come fai. Ma quanti mesi sono passati ormai, sei? Vedi di non far ricadere il tuo perverso senso di abnegazione su di noi. Anche se, lo ammetto, sono felice di sapere che ti sei concentrato su Hancock. Pavati aveva l’impressione che cominciassi a distrarti. — Pavati dovrebbe pensare per sé. — Chiusi gli occhi di uno dei ragazzi, trascinando le dita sulle sue palpebre, e sperai che Hancock potesse contare su una morte altrettanto facile e rapida. Tallulah mi offrì il posto sulla sabbia accanto a sé, e così restammo seduti, tutti vicini, sulla spiaggia – Maris, Pav, Lulah e io – con i nostri corpi così ravvicinati che, nonostante sedessi all’estremità, avvertivo ugualmente il calore irradiato da Maris dopo l’omicidio. Il fatto più strano era che non provavo nessuna tentazione. Persino la nuotata da Bayfield a Basswood non aveva raffreddato la sensazione della mano di Lily nella mia. Il problema più spinoso era Hancock. Nonostante i miei sentimenti per Lily, restava ancora in piedi la questione di vendicare mia madre e la promessa fatta da Maris di ridarmi la libertà. 25 LA CATTURA Quando mi svegliai il mattino seguente, mi alzai a sedere di scatto, con il cuore che martellava contro lo sterno, la testa carica di sogni di braccia pallide e di bolle che salivano da una creatura marina bella ma pericolosa, che non riuscivo a identificare. Le ragazze dormivano ancora, accoccolate sotto un baldacchino improvvisato di felci e rampicanti, con i volti tesi anche nel sonno, i corpi che si contraevano e sobbalzavano. Entrai in acqua, prima fino alle caviglie, poi fino alle ginocchia e quindi alla vita. I muscoli si irrigidirono mentre si abituavano al freddo. Tirai un respiro profondo e presi il largo. Se mi avessero chiesto dove ero diretto, avrei forse risposto: “Da nessuna parte.” Ma il mio inconscio avrebbe potuto rispondere ancor prima che la domanda fosse stata formulata. Ero diretto all’abitazione degli Hancock, o alle acque davanti alla loro casa. Dovevo assolutamente sapere se Lily parlava di me. Se magari stava confessando le sue ipotesi al padre. Quando avvistai il loro pontile, capii che era troppo presto e che forse nessuno si era ancora alzato. Troppo, troppo presto. C’erano solo poche luci accese davanti agli edifici di Bayfield, e la casa degli Hancock, a circa quattro chilometri a nord della città, era completamente al buio, a eccezione della finestra sopra il portico. La luce brillava attraverso i vetri, generando sul prato quattro blocchi gialli e distorti, ma all’interno non si vedevano movimenti. Lily doveva essersi addormentata con la luce accesa. Forse stava sognando un sirenetto. Forse stava facendo un incubo. Il pontile era appena visibile sull’acqua scura. Qualcuno aveva spento i riflettori. Mi lasciai portare dalle onde vicino alla riva. — Ti vedo, sai. La voce di Lily trafisse il silenzio e una scarica di adrenalina mi arrivò al cuore. Sfrecciai verso il familiare ramo di salice e uscii dall’acqua solo fino agli occhi. Lei parlava, ma senza guardare nella mia direzione. Seduta in fondo al pontile, fissava il punto in cui ero appena passato. — Senti, non ho una passione per i delfini, ma non credere che sia delusa. Quindi stava facendo una battuta. La credeva divertente? Era matta? — Calder, non mi importa se ti muovi di soppiatto nell’acqua, seguendomi per la città. Non mi importa nemmeno che Jack Pettit non tornerà mai più a nuotare. Ma vuoi venire fuori e spiegarmi cosa sta succedendo? — Non credo che sia una buona idea. — Le parole mi uscirono senza avere prima consultato il cervello. Rimasi sorpreso dal suono della mia stessa voce. Anche Lily trasalì quando capì che non ero nel punto in cui credeva lei. Si alzò in piedi e appoggiò le mani sui fianchi. Si girò in quella che pensava fosse la mia direzione, sbagliando di circa venti gradi. — Perché non vieni a parlare con me? — Ripeto. Forse è una cattiva idea. Lily riuscì a mettermi a fuoco e i nostri occhi si incontrarono, anche se non ero ancora sicuro che riuscisse a vedermi nel buio. — Stavo solo facendo una nuotata mattutina — spiegai — e poi… sono nudo, sai, e… insomma, sono timido. Lei sgranò gli occhi e scacciò una zanzara che le si era posata sul ginocchio. — Calder, finiscila. Sono io. Lily Hancock. Non sono completamente all’oscuro di ciò che succede in questo lago. — Se mi avvicino, tu rimarrai sul pontile? — Vuoi che rimanga sul pontile? Mi piaceva la delusione nella sua voce. — Assolutamente. — Allora, va bene. — Si rimise seduta. — Togli i piedi dall’acqua, però. — Fatto. — Incrociò le gambe sotto di sé. Maledissi la cattiva sorte. Per adesso, però, non avevo nulla da perdere. Inoltre, l’idea di essere scoperto mi eccitava. Il pericolo era stranamente inebriante. Mi fermai a circa cinque metri dall’estremità del pontile ed emersi fino alle spalle. Lily spalancò gli occhi. Aveva un nastro rosso fra i capelli, che le cadeva sulla spalla. — L’acqua è molto profonda in quel punto — disse. Annuii. Vidi che il suo sguardo si posava sul mio collo. Non capivo se vedesse l’anello d’argento. Ormai la luna brillava a stento e gli alberi gettavano ombre sull’acqua. — Allora, me lo dici cosa stai facendo? — Ti sorveglio. — Non pensavo di essere in pericolo. — Mi guardò assottigliando gli occhi con sospetto, era chiaro che i suoi pregiudizi su sirene e sirenetti erano ancora legati al mondo romantico delle fiabe. Un malinteso che di solito costituiva il nostro strumento più efficace, ma mi disgustava dovervi fare ricorso con lei. — Puoi venire più vicino? — mi domandò. Mi spinsi in avanti, valutando l’opacità dell’acqua e tenendo il torace dritto come una boa, le braccia lungo i fianchi. Lily annuì; ogni dubbio che le fosse rimasto sembrava dissolto dal modo in cui mi muovevo. Ricordai l’ultima volta in cui ero stato vicino a una ragazza nel momento della trasformazione. Per la ragazza non era andata tanto bene. I giornali scrissero che si era trattato dell’attacco di uno squalo. Qui non avrei potuto sfruttare la stessa scusa. — Credo di essermi avvicinato abbastanza — dissi. Dal mio corpo partì una scarica elettrica, e un cerchio di insetti morti del diametro di un metro si propagò intorno a me. Lei si schiarì la gola e iniziò a parlare lentamente: — Sei il mostro di mio nonno? Mi affrettai a fare di no con la testa, felice di rispondere negativamente alla sua domanda. Per la mia mente stava succedendo tutto troppo in fretta. L’aria mi offuscava i pensieri. Ma ne restava uno nitido: l’immagine di Lily che scopriva il nostro segreto sarebbe stata troppo forte per tenerla nascosta a Maris. Non avevo modo di rimediare a questa figuraccia. Quando l’avesse saputo, Maris sarebbe andata su tutte le furie. Avrebbe impedito a Lily di avvisare suo padre. Non avrebbe esitato a ucciderla, se questo gesto fosse stato necessario per salvare i suoi piani di vendetta contro Hancock. Mi si fermò il fiato in gola. Anzi, peggio, i metodi di Maris mi erano fin troppo familiari. Mi venne la pelle d’oca solo all’idea che toccasse Lily, figuriamoci pensare a lei che la trascinava sott’acqua. Facendola soffrire. Godendo dei suoi spasmi frenetici per tornare in superficie. Crogiolandosi nella tortura. La bile mi salì alla gola appena compresi cosa dovevo fare. Dovevo uccidere Lily con le mie mani. Era il minimo che potessi fare per lei. Potevo così risparmiarle la sofferenza. Potevo farlo rapidamente. Non doveva sapere che la morte era in agguato. Non doveva avere paura. Non doveva sentire dolore. Un’uccisione misericordiosa? Sarebbe stata la prima. — Non sei il mostro — disse. Sollevata. Chiusi gli occhi. Non potevo fare una cosa del genere guardandola negli occhi. — Senti, Lily. Non vorrei parlare di questo, adesso. La tua famiglia si sveglierà tra poco, perciò devo andarmene. Dopo colazione, prendi uno dei vostri kayak e va’ verso nord. Non dovrai arrivare lontano. C’è una grotta a nord di Red Cliff. — Non credevo ci fossero delle grotte finché non sei arrivato a Cornucopia. Riaprii gli occhi e a nuoto mi avvicinai al punto in cui era seduta. — Ce n’è una, nascosta dietro una cortina di rampicanti. Mi troverai lì. Mi allungai e le tolsi il nastro rosso dai capelli. — Te la indicherò con questo. — Ci sarai veramente? — Sì. — Sospirai. Come se non avessi altra scelta, ormai. La mia imprudenza mi aveva fatto finire in questo pasticcio; toccava dunque a me risolverlo. — Ci sarò. 26 LA GROTTA La terra sporgeva sull’acqua e i rovi crescevano sopra l’argine. Scansai il velo di edera, rivelando alla vista la piccola grotta, e annodai il nastro di Lily sui rampicanti. Un millennio di sedimenti rossi e neri tappezzava le pareti di roccia. Nel corso del tempo, l’acqua e il ghiaccio avevano scavato una piccola rientranza. Mi sollevai per sedermi su una sporgenza vicino all’acqua e lasciai cadere la coda sotto la cresta delle onde. Sarei rimasto qui ad aspettarla. Sentii le budella attorcigliarsi in così tanti nodi che avrei potuto vincere una gara di boy scout. Provai a distrarmi pensando a qualcosa che non fosse ciò che stavo per fare. Ma per quanto mi sforzassi, la mente non faceva che tornare all’inevitabile. Il sole stava per sorgere all’orizzonte. Lily si sarebbe seduta a fare colazione con la sua famiglia. Immaginai la sua eccitazione all’idea di venire a cercarmi. Avrei voluto che avesse più paura. Forse i genitori le avrebbero chiesto di aiutarli con la casa. Forse invece avrebbe capito da sé che era pericoloso. Avrebbe parlato di me a suo padre? No, ne dubitavo. Non avrebbe voluto fargli pensare che stava diventando matta come suo nonno. Ma se glielo avesse detto, lui avrebbe preso la sua famiglia e avrebbe lasciato di corsa la città? La storia si sarebbe ripetuta? Me lo auguravo. Se gli Hancock se ne fossero andati, io mi sarei tirato fuori dai guai. Per il momento. Se Jason Hancock avesse portato via Lily… Neppure questa sembrava una prospettiva allettante. Ma era una preoccupazione ridicola, considerato quello che stavo per fare. Due uccellini si inseguivano in aria, bisticciando. Avevano ingaggiato uno scontro di ali per stabilire se fossero bene assortiti. Non avevo mai prestato molta attenzione a questi riti primaverili. Lily aveva cominciato a farmi vedere il mondo sotto una luce diversa. Mi soffermai a guardare gli uccelli. Alla fine la femmina si arrese alle lusinghe del maschio e insieme andarono a nascondersi in una crepa nell’arenaria. Scacciando dalla testa questi pensieri sul romanticismo primaverile, provai a immaginare che cosa sarebbe successo se Lily si fosse avvicinata. Meglio asciugarmi o restare in acqua? I miei vestiti erano ancora in macchina, perciò avrei dovuto nascondermi dietro i cespugli. Cosa era peggio? Difficile stabilirlo ma, per quanto fossi stufo delle ombre, scelsi l’acqua e mi addentrai ancora di più negli oscuri recessi della grotta. Il sole irruppe fra gli interstizi dei rampicanti, gettando sull’acqua cerchi di luce grossi come palle da golf. Cominciai a nuotare avanti e indietro, dalla luce al buio, dalle zone di acqua gelida alle sacche in cui era solo fredda. Passò un’altra ora prima di scorgere la piccola sagoma di un kayak sbucare da dietro l’angolo. L’acqua era uno specchio piatto, a parte le increspature lasciate dall’imbarcazione di Lily. Sembrava che procedesse a pieno ritmo, eppure avanzava con lentezza. Si era messa un vestito di lino bianco con la scollatura profonda. Le maniche svolazzavano mentre remava. I capelli rossi le cadevano sciolti sulla schiena. Passò attraverso i rami spioventi dei salici, abbassando la testa ogni volta. La brezza soffiava tra i pioppi, e ogni nuova foglia tremava in sintonia con il mio cuore. Incredulo, scossi la testa. La solita attitudine teatrale; stava interpretando una scena di una delle poesie di Tennyson. — La dama di Shalott — sussurrai. Soffocai la cupa ironia del momento: io non ero Lancillotto, ma lei sarebbe comunque morta. Sospirai e le andai incontro a nuoto, emergendo sotto il kayak e portandolo sulle spalle. All’inizio non ero certo che avesse capito che ero io a farla andare più veloce. Poteva essere il vento. Ma poi colsi il suono di un respiro soffocato, ora sapevo che mi aveva visto. La trasportai fino all’ingresso della grotta e ripresi il mio posto fra le ombre. Gettò la cima del kayak intorno a una betulla coperta di muschio sulla sponda e si volse a guardare. I suoi occhi erano ardenti e bruciavano nei miei. — Quindi sei una sirena? — Lo disse come se fosse una domanda, perché si rifiutava di guardare sotto l’acqua e avere conferma di ciò che già sapeva. — Sirenetto — la corressi, anche se era un termine che avevo sempre odiato. Faceva tanto Hans Christian Andersen. Restammo seduti in silenzio, chiedendoci chi avrebbe preso la parola per primo. Lily mi batté sul tempo. Cominciò a giocherellare con i ciondoli portafortuna del braccialetto d’argento, facendoli andare su e giù. — Ovviamente, ho un sacco di domande. Mi concessi un momento per andare sotto e schiarirmi le idee. Riemersi e scossi i capelli. — Mi stupirebbe il contrario. Fece un largo sorriso, come se avesse appena vinto un premio importante. — Quindi, per te va bene? Risponderai? — Be’, dipende dal tipo di domande, ma in questo momento mi sento molto generoso. “Non che tutto questo abbia importanza visto che tra poco sarai morta” pensai mestamente. Sentivo un groppo in gola mentre cercavo di parlare: — Comincia pure. — D’accordo. — Si girò dall’altra parte, arrossendo. — Se posso chiedertelo… come mai nella gran parte dei giorni hai due gambe? — Evoluzione — risposi semplicemente. — Sopravvivenza dei più adatti. Posso andare sulla terraferma in caso di bisogno. — Sei un sirenetto evoluto? — Molto. — Mossi i pollici opponibili. — Sono rimasti molti tratti primitivi. — Tipo? “Seduzione. Assassinio. Caos.” — Be’, se volessi, potrei darti una bella scossa elettrica. Considerai questa eventualità. Avevo programmato di affogarla, ma una bella scossa sarebbe stata più rapida, più misericordiosa… — E sono telepatico con gli animali e con le mie sorelle, quando siamo sott’acqua. — Da qui riesci a sentirle? — Potrei, ma oggi non sono nel lago. — Dove sono? — Al cinema. Sbuffò e soffocò una risata. — Sì, come no! — sghignazzò, ma poi si ricompose. — Le ho conosciute, le tue sorelle. Tua madre come si chiama? Sobbalzai e sussurrai: — Nadia. — Lily non parve accorgersi del mio cambiamento. — E tuo padre? Mi schiarii la gola mentre cercavo di raccogliere i ricordi. — Non lo so. Il padre di Pavati era un musicista. Si chiamava Deepak o qualcosa del genere. Il padre di Maris e Tallulah era John Bishop. Un biologo. Inarcò le sopracciglia. — Bishop sembra un nome banale per un… un… sirenetto. — Ma non era un sirenetto. Ai sirenetti non è consentita la paternità. — Non è consentita? — Non è che il lago pulluli di sirene e sirenetti. Diventerebbe incestuoso, non trovi? I padri delle mie sorelle erano umani. Così diversifichiamo il patrimonio genetico. Le sirene si accoppiano con gli umani, e in questo modo ci riproduciamo. Be’, è uno dei modi. — Le tue sorelle conoscevano il loro padre? — Non esattamente. I neonati vivono con i loro padri umani per il primo anno di vita, o dovrei dire finché non cominciano a camminare. Devono imparare quest’abilità sulla terraferma, finché sono ancora piccoli. Insomma, te lo immagini un adulto che barcolla di qua e di là? Poi, dopo il primo anno, tornano alle loro madri. Quindi, immagino che a un certo punto le mie sorelle abbiano conosciuto i loro padri, ma adesso non se lo ricordano più. Ci stavo impiegando troppo tempo. Avrei dovuto tirarla giù dal kayak e fermarle il cuore. Perché prolungare l’attesa? Era un’agonia. Il suo viso, così fiducioso, mi spingeva a odiarmi più del solito. Ma volevo che continuasse a parlare. Volevo che mi conoscesse. Volevo che qualcuno mi conoscesse. Anche se poi avrei dovuto ucciderlo non appena gli avessi detto la verità. — Quindi, hai detto che quello è uno dei modi per fare una sirena. E gli altri quali sono? Continuava a parlare, e io sorrisi al tono forzatamente casuale della sua voce. — L’altro modo è molto più pericoloso… e molto meno divertente. Arrossì. — Vale a dire… — Una persona deve morire. Il suo cuore deve fermarsi. E una sirena dovrà essere lì per rinvigorirlo. — Rinvigorirlo? — Si sporse in avanti dal suo sedile nel kayak, con le mani fra le ginocchia. — È così che diciamo quando riportiamo in vita qualcuno. È il tipo di sirenetto che sono io. Rinvigorito. — Eri morto? — Avevo tre anni. Non ricordo molto. Ero in barca con i miei genitori. La mamma che mi ha dato alla luce mi diede una scatola di uvetta. È strano. Mi è rimasta più impressa quella scatoletta rossa che non il suo viso. «Rivedo le sue mani che mi offrono uno spuntino. Ricordo solo un grido, e io che cadevo in acqua. Non so neppure chi fosse stato a gridare… Allora, ecco mia madre. «Ricordo di essere rimasto a guardare l’ombra della barca dei miei genitori. Poi è arrivata la Guardia Costiera, ma a questo punto ci stavamo già allontanando a nuoto. Alzai lo sguardo su di lei e mi interrogai sui suoi occhi lucidi. — Sono venuti a cercarti? — domandò Lily. Con un’alzata di spalle risposi: — Immagino. Per un po’. — E tu hai cercato loro? — Dopo essere stato rinvigorito, ho praticamente smesso di pensarci. — Non capisco — disse con gli occhi colmi di preoccupazione. — Chi è stato rinvigorito sviluppa un legame con la famiglia che l’ha trasformato; non si tratta solo di prendere un nome nuovo. C’è un filo mentale che li unisce. Indicai il suo polso. — Come i ciondoli del tuo braccialetto. Scivolano e si separano, ma sono ancora uniti dalla catenina. — Lasciai scorrere uno dei ciondoli verso una delle estremità. — D’inverno posso svignarmela. Le mie sorelle preferiscono restare unite, ma io scelgo di prendermi una tregua. Quando arriva la primavera, però… — Spinsi il ciondolo verso gli altri. — Dobbiamo migrare di nuovo in questo lago. È qui che ci ricongiungiamo. È per questo che riusciamo a sentirci, è un legame famigliare. Come un branco di pesci. Nel lago Michigan sono pochi quelli come noi. Se uno di loro venisse qui, non riuscirebbe a cogliere i nostri pensieri. Famiglia diversa. Capisci? — Quindi vuoi dire che, se tu rompessi il braccialetto, la tua mente sarebbe libera? — Esatto. Lily annuì impercettibilmente. — Ed è una cosa possibile? Alzai le braccia sopra la testa e mi immersi per schiarirmi le idee. Questa conversazione stava prendendo una piega pericolosa. Quando riemersi, i pensieri avevano corrugato la fronte di Lily. — Hai detto che è pericoloso — disse. — Rinvigorire. — Perdi due battiti di cuore ed è tardi. E lo facciamo con delle scariche al cuore. A volte l’elettricità è troppa. Di solito questa parte non funziona molto bene. — Tu l’hai mai fatto? — La sua voce era acuta adesso, ma non scorgevo nessuna emozione. — Mai. Il rinvigorimento è roba da femmine. Il miracolo del dare la vita e tutto il resto. — Risi. — Non ho mai sentito di un sirenetto che l’abbia fatto. In nessuna storia. — Tu mi hai salvato il giorno in cui sono caduta dallo scoglio. Per quanto ne so, adesso potrei essere una sirena. Feci segno di no con la testa. — Prima cosa, non eri morta. Seconda cosa, non ho dato nessuna scarica elettrica al tuo cuore. Il sangue le salì alle guance. Sentivo l’energia che emanava. Ne vedevo il colore, un bagliore rosa bordato di giallo. Era un’euforia felice e inebriante. Distolsi lo sguardo. “Continua a parlare” mi dissi. “Non guardare.” — Terza cosa, quel che ho fatto è stata una semplice rianimazione cardiopolmonare. Chiunque al mio posto lo avrebbe fatto. — Può darsi. Però, non è stato chiunque a farlo. Sei stato tu. Il calore della sua voce mi inondò il cuore, rivoltandolo. Forse fu l’egoismo a mutare il corso degli eventi. Concentrai lo sguardo sul suo collo. Volevo far scorrere le dita fino alla sua clavicola, sulle spalle. Volevo farle venire la pelle d’oca. Non potevo uccidere Lily. Dovevo far funzionare il piano senza sacrificare la sua vita. Potevo nasconderla e lasciare Jason Hancock alle mie sorelle. — Quindi, le sirene se ne stanno ad aspettare che qualcuno cada dalla barca e anneghi? La domanda mi mise in imbarazzo. — Sai… per fare altre sirene? Aspettano che il cuore di qualcuno si fermi, così da essere presenti per cogliere quello spiraglio di opportunità? Lily davvero non capiva. Nella testa aveva evidentemente una versione fiabesca del nostro mondo. Chissà come avrebbe reagito, una volta che le avessi detto la verità… Che eravamo assassini, mostri, nemici. Che l’avevo attirata qui per ucciderla. Che stavo attingendo a ogni risorsa in mio potere per contrastare la mia natura. Cercai di trovare le parole per rispondere. — No. Non abbiamo tutta questa pazienza. E in fondo, siamo solo predatori. Sgranò gli occhi. La paura mitigò la sfumatura rosa e gialla della sua aura, ora ero in grado di guardarla a viso aperto. — La mia storia è l’eccezione alla regola. È stato un caso che una sirena si trovasse lì quando sono caduto in acqua. In genere, quando una sirena è lì per rinvigorire, non è per pura fortuna. Sono lì perché sono loro ad aver compiuto l’assassinio. A volte uccidono per puro gusto. Come il coccodrillo che se ne sta in agguato nell’acqua bassa. — Ricordai la prima sera in cui l’avevo vista sul pontile. — La zebra va a bere e zac! Il coccodrillo la trascina in acqua, la volta e la rivolta, e dopo pochi secondi è tutto finito. — Perché uccidere, se poi non hanno intenzione di rinvigorire la vittima? — Deglutì a fatica. — Le sirene si nutrono di umani? — Non dire sciocchezze. — E allora perché uccidere solo per il gusto di farlo? È un tale… un tale… spreco. — Invidia. Come gruppo, siamo alquanto invidiosi. — Di cosa? — Normalmente, della felicità. Dell’amore. Della gioia. Di qualunque emozione positiva irradiata dalla gente. La vediamo, la avvertiamo, la assaporiamo… — Io che aspetto ho? Sorrisi, ricordando la nostra giornata all’isola Madeline. — Ovviamente, cambia a seconda dell’umore. Oggi sembri un sorbetto all’arancia che si sta sciogliendo. Delizioso. — L’amarezza mi attraversò il volto e guardai gli occhi di Lily assottigliarsi. — È quest’emozione positiva che desideriamo tanto. Noi non ce l’abbiamo e la vogliamo, ne abbiamo bisogno, di fatto, per sopravvivere. Così ce la prendiamo. Mi guardò, confusa. Alzai gli occhi verso il soffitto della grotta, mentre la mia mente vagava alla ricerca di una spiegazione che Lily potesse comprendere. — È come per gli animali a sangue freddo. Immagina una lucertola. Non è in grado di regolare la sua temperatura corporea. Morirebbe se non trovasse una maniera per scaldarsi, e allora la cerca, e si arrampica sulle rocce arroventate dal sole e ne assorbe il calore. Lo stesso vale per me. Per le mie sorelle. Per tutti quelli della nostra specie. Siamo attratti dall’emozione positiva. La cerchiamo e quando la troviamo… la assorbiamo dalla sua fonte. — E quando dici “assorbiamo”, tu intendi… — Lo sai cosa intendo. Era questo che aveva attirato Pavati al vecchio dell’altro giorno, e le mie sorelle agli studenti universitari. Questo aveva attirato mia madre al nonno di Lily. Volevo quasi raccontarle la storia. Era un uomo così felice da essere come una calamita per lei. Gli aveva rovesciato la barca e lo aveva trascinato giù, ma lui si era ribellato. Aveva riguadagnato la superficie e l’aveva implorata. Lei gli aveva offerto una vita da sirenetto, ma lui l’aveva respinta, così lei aveva chiesto un’altra vita in cambio. Lui le aveva offerto il figlio, che all’epoca aveva appena compiuto un anno. Lei era tornata a riva ed era rimasta ferma, sul pontile, ad aspettare che glielo portasse. Poco dopo, l’intera famiglia si precipitava in macchina e lasciava di corsa la città. Lei aveva seguito la strada lungo la costa. E alla fine era rimasta strangolata dalla rete di un pescatore. Cosa avrebbe pensato Lily se gliel’avessi raccontata così? Sarebbe corsa via gridando, capendo che eravamo qui per riscuotere il pegno di quella promessa? Lei non mi sembrava tanto ottusa da non capire che c’era qualcosa che mi assillava. Si sporse fuori dal kayak e mi cinse le spalle con un braccio, appoggiando la guancia sulla mia, consolandomi senza davvero sapere cosa avessi. Mi allontanai di scatto, non avevo capito quanto le fossi andato vicino, permettendole di toccarmi. Una scintilla si sprigionò nell’aria fra il suo braccio e la mia schiena. Potevo scegliere di non uccidere Lily Hancock. Era una scelta ancora tutta mia. Potevo proteggerla dalle mie sorelle. Ma c’era una cosa che sfuggiva al mio controllo. Alla fine, avrei comunque continuato a ingannarla. Jason Hancock era destinato a morire. 27 LEZIONI DI RESPIRAZIONE Ero talmente concentrato sulla mia tristezza da non accorgermi che Lily aveva sciolto la cima del kayak e si stava avvicinando. Fu solo quando colpì la roccia che alzai lo sguardo. — La felicità non potrai mai trovarla fuori da te, Calder. Scossi la testa. — Sembri un biscotto della fortuna. — Ma è vero. Sai, è quello che cercano di fare tutti. Cercano di frequentare le persone giuste, di mettersi con il ragazzo giusto, di entrare a far parte del giro giusto; senza però mai chiedersi cosa sia giusto. — E questo cosa c’entra con me? Io non sono uno studentello dall’identità confusa, Lily. Forse non mi hai ascoltato bene, ma io mi trasformo in un ladro e in un assassino. Lei fece un sorrisetto furbo. — Ma non sei un assassino. Quanto meno… non vuoi esserlo. Dico solo che non saresti invidioso della felicità. Se avessi qualcuno tutto per te, non dovresti più rubarla agli altri. — Come se fosse facile. Non pensi che, in tutti questi secoli, qualcuno della mia specie avrebbe trovato il modo di farlo? — Penso solo che forse nessuno ci ha mai pensato. O se ne è mai interessato. A questo non potevo rispondere. E comunque, ero troppo distratto dal tentativo di trovare una spiegazione. Adesso era ancora più vicino. — E vorrei che tu ci provassi — disse. — Se pensi, cioè, che io possa renderti felice. Una luce rosa baluginò intorno alla sagoma di Lily, la sua energia che conoscevo bene, come un maglione sulle spalle. — Andiamo — dissi, tirando impulsivamente il kayak nell’arco buio della grotta. La sollevai dalla barca e la misi a sedere su una sporgenza di arenaria. — Costei ha un viso grazioso — recitai. — Dio nella sua misericordia le conceda la grazia. — Chinai il capo e mi misi la mano sul cuore. — La dama di Shalott. — Sono così scontata? — scoppiò a ridere e nel mio corpo si diffuse un gradevole tepore. Assorbii il calore e mi meravigliai di essere capace di farlo mentre lei sedeva ancora qui, asciutta e al sicuro, sul suo trono. — Quindi, se io sono la Dama, tu sei Lancillotto. — No, io sono meglio. Sono qui per eseguire i tuoi ordini, che è molto di più di quanto Lancillotto abbia mai fatto per la Dama. — Verissimo. Allora, il tuo primo dovere sarà di portarmi a nuotare insieme a te. Alla faccia del tepore. Il mio corpo si gelò come il lago. — Vacci piano, Lily. Non mi sembra una buona idea. — Perché? — Non l’ho mai fatto. — Intorno a me, l’acqua cominciò ad agitarsi e la grotta amplificava il suono, quando lambiva la roccia. — Sei già stato in acqua con me. — Era diverso. — In che senso? — Si sporse, con le mani sulle ginocchia. — Non saprei. È stato veloce. Non ho avuto il tempo di pensare che eri con me. Non voglio farti del male. Fece per toccarmi. — E non me lo farai. — Come fai a saperlo? — Perché non sei come le tue sorelle, Calder. — Sono tale e quale a loro. — Devi smetterla di vederti come un mostro. — Parli tu che non hai mai guardato sott’acqua. Nemmeno una volta da quando sei arrivata qui. Credi che non me ne sia accorto? Lily contrasse le labbra e guardò di proposito sotto la superficie dell’acqua. Nonostante le ombre, il sole filtrava attraverso il velo verde dell’ingresso. Le squame argentee della mia coda riflettevano dardi di luce mentre la mia pinna smuoveva la sabbia. Vidi le sue spalle rilassarsi, dopodiché tornò a guardarmi in faccia con un sorriso trionfale. Scossi la testa, scoraggiato. — Bene. Diciamo pure che non ti farò del male. Però sentirai troppo freddo. Sopravviveresti solo per pochi minuti. — Riscaldami tu, allora. — Dal suo trono scivolò in acqua, così silenziosa da farmi pensare che forse adesso era lei a braccare me. Il vestito bianco le galleggiava intorno alla vita mentre si spingeva più vicino. Le maniche si erano incollate alle braccia e alle spalle. Allungai il braccio per tenerla a distanza. — Va bene. Ti sei avvicinata a sufficienza. — Che c’è? Sono troppo felice? — Mi stuzzicava con gli occhi, e il bagliore rosa si gonfiò verso di me come un paracadute. Non riuscivo a capirla. Voleva morire? — Ma non lo vedi, Calder? Hai ragione. Sono felice. Ma questa felicità non devi rubarmela. Posso donartela. — Si illuminò in volto. — Ne ho a sufficienza per condividerla. In questo preciso momento, sulla terra non c’è persona più felice di me. Allungò il braccio e mi appoggiò una mano sulla spalla. Sotto di me la coda oscillava dolcemente, permettendomi di restare a galla. A questo punto, era talmente vicina da avere il petto schiacciato sul mio. Con le dita seguì il cerchio argenteo che avevo intorno alla gola e i muscoli della spalla e del braccio, che erano tesi e cominciavano a bruciare. Chiuse gli occhi. Una goccia di acqua cristallina si fermò sulle sue ciglia. — Calder, io ti piaccio? E allora scoppiai a ridere, spezzando l’incantesimo. Spalancò gli occhi e il sangue le inondò le guance. Si allontanò con una spinta, ma io la afferrai e la spinsi di nuovo verso di me. I pochi istanti di separazione fisica furono un vuoto troppo doloroso. — A volte fai delle domande stupidissime, Lily. Un senso di sollievo le attraversò gli occhi. — Vedi qualcun altro da queste parti? Pensi che sia mia abitudine rivelarmi in questo modo alla gente? Credi che avresti resistito in acqua tutto questo tempo se non mi fossi… piaciuta? Non era necessario dirle il resto, che lei stava diventando la mia ossessione, che rischiavo la salute mentale (e forse anche la vita, se Maris l’avesse scoperto), che il mio stomaco stava pensando di unirsi a un circo ed esibirsi in numeri acrobatici. Che, proprio come aveva previsto Pavati, avrei potuto persino amarla. — Non mi hai ancora risposto. — Mi passò le dita fra i capelli e io chiusi gli occhi. — Sì, Lily Hancock, mi piaci. — Quindi mi porterai a nuotare. — Senti, fa troppo freddo. — Se non te ne fossi ancora accorto, il freddo non mi disturba affatto. Forse sei tu che fai qualcosa per riscaldarmi. Io non ne sapevo niente. Se accadeva, era del tutto involontario. — Va bene, allora. Lasciamo stare il freddo. Ma sai trattenere il fiato così a lungo? — Respira tu per me. Una palpitazione mi attraversò il cuore e si aprì un varco fino alle budella. Afferrai Lily, prima di riuscire a riflettere sul pericolo. Volevo prenderla. Volevo mostrarle ogni angolo del lago. Era il desiderio di farle conoscere il mio mondo a rendermi impulsivo. Mi tuffai prima che lei riuscisse a riempire i polmoni di aria, cogliendola alla sprovvista. Si contorse, e io la spinsi verso la superficie. Riemerse tossendo. — Scusa — disse. — Non sono stata molto brava. — No, è tutta colpa mia. Inspirò ed espirò due volte. Ci immergemmo, faccia a faccia. Le sue guance gonfie e gli occhi stretti mi fecero sorridere. Aprii i palmi delle mani come avrei fatto con Tallulah e intrecciai le mie dita alle sue. Controllavo i nostri corpi mentre ci libravamo negli abissi del lago, quasi come fossimo in orbita, mentre costellazioni di bolle le uscivano dal naso e salivano in superficie. Indicò verso l’alto. Aveva bisogno di aria. La trassi ancora più vicino a me, e lei si dibatté in preda al panico. Mi addolorava che potesse credere che le avrei fatto del male adesso. Sorrisi, ma dubitai che mi avesse visto, e rovesciai di lato la testa. Mi avvicinai alla sua bocca e sigillai per bene le mie labbra sulle sue. Soffiavo, riempiendole i polmoni. Sorpresa, Lily sgranò gli occhi. Non sapevo quanto sarebbe durata quest’aria. Mi auguravo non molto. Volevo un’altra scusa per potermi stringere a lei. La guardai in faccia. Gli occhi erano mere fessure, ma cercai di scorgere una traccia di panico. Consultai l’orologio, contando i secondi. Ventotto, ventinove, trenta… “Oh, accipicchia, ma quanto resiste questa ragazza?” Poi le sue dita mi affondarono nei bicipiti e la riportai in superficie. La mia mente correva, chiedendosi da dove cominciare. Non potevo offrirle una visita completa in stile National Geographic. Il grande lago aveva ventimila anni, e c’erano circa cinquantamila chilometri quadrati di antichi manufatti, relitti e meraviglie geologiche. Ma in quel momento passò la Sun Sport dei Pettit. Trascinai Lily in mezzo ai rampicanti e guardai Jack che scrutava la costa con un binocolo. — Sta cercando la sua sirena — sussurrò Lily. Ignorai questa supposizione e la riportai giù. L’acqua era profonda solo due metri e mezzo, e intorno a noi la barca di Jack faceva pulsare delicatamente le alghe, che ci accarezzavano il corpo come mille piume di pavone. Ripetei il verso che aveva scritto per me: — Là dove mi troverò imprigionato nei capelli d’oro di una sirena. — Lei non poteva capirmi, né sentirmi. Ma mi trasse più vicino a sé, e io appoggiai le mie labbra alle sue, un’altra volta. 28 LEZIONI DI NUOTO Lily avrebbe dovuto essere gelata. Non capivo cosa la tenesse al caldo. Disse che era la mia vicinanza, ma essendo una creatura a sangue freddo, non ero in grado di riscaldarla. Mi domandai se per lei la respirazione riuscisse a bloccare il freddo, ma erano solo pensieri in secondo piano. Il resto del cervello era occupato dall’emozione di nuotare insieme a Lily, con il braccio intorno alla sua morbida vita, tenendole il viso vicino al mio per farla respirare meglio. La portai sopra il relitto dell’Ottawa, devastata dal fuoco nel 1881, e di nuovo a nord verso l’isola di Stockton. I resti vecchi di un secolo della Noquebay giacevano a trenta metri di profondità. Nuotammo lungo il timone e la caldaia ausiliaria. Lily fece scorrere la mano sul ponte distrutto. Le alghe le fluttuavano intorno come i coriandoli di Time Square a Capodanno. La sua bellezza mi lasciava senza fiato. Rivaleggiava con quella di una qualsiasi tra le mie sorelle, compresa Pavati. Tranne che per i pallidi arti inferiori, Lily sembrava una vera e propria sirena. Alla fine la portai all’isola di Manitou. Mentre l’acqua diventava sempre più bassa, lei mi lasciò e mise i piedi a terra per raggiungere da sola la riva. Si voltò a guardarmi con occhi perplessi. Indugiavo in acqua, la osservavo, la desideravo. — Che fai, non esci, Calder? — Forse no. — Perché? — Non ho vestiti nascosti su quest’isola. Le sopracciglia le schizzarono fino all’attaccatura dei capelli. — Oh, a questo non ci avevo pensato. Potrei restare in acqua con te. — No, va bene così. Va’ a prendere un po’ di ramoscelli e poi siediti su quel pezzo di ramo. Io vado a mettermi poco più in là. Poi, se non ti dispiace, ti passo alle spalle e mi siedo dall’altra parte di quel cespuglio. E poi parleremo, giuro. Lily risalì la spiaggia, senza perdermi di vista, sospettando forse che avrei ripreso il largo lasciandola qui. Considerai quest’idea per un istante. Non era così terribile. Sarebbe rimasta lontano. Maris non sarebbe mai venuta qui a cercarla. Tempo un paio di mesi, ci sarebbero state molte more selvatiche con cui nutrirsi… Ma a questo punto l’idea svanì. Nuotai verso la riva e, una volta sicuro che non potesse più vedermi, cominciai a galleggiare nell’acqua bassa, dedicando tutta la mia mente alla trasformazione. Feci un respiro profondo e tesi i muscoli, e serrai i denti mentre avevano inizio le contrazioni. Uno spasmo si propagò in tutto il corpo, poi la lacerazione. Mi piegai su me stesso stringendomi nelle braccia. Strozzai il grido che avevo in gola e restai seduto tra le secche, mentre la coda lasciava il posto a due gambe ancora in preda agli spasmi. Il lago intorno a me si placò poco a poco mentre mi alzavo. Poi, barcollando e scalciando la sabbia, raggiunsi i rovi. Quando le arrivai alle spalle, Lily era seduta sul ceppo come le avevo ordinato, gli occhi rivolti al lago, con una piccola catasta di stecchi davanti a sé. La scia di un Boston Whaler fece alzare le onde sulla spiaggia, con un palpito delicato. Il suo corpo tremò mentre il vento le risucchiava l’acqua dalla pelle. Non parlai. Camminai lentamente. Sapevo che Lily avrebbe sobbalzato, che avessi parlato o no. Era rigida. Forse credeva di sognare. Un’altra allucinazione; ed eccola lì, seduta su un’isola deserta, a chiedersi come diamine ci fosse arrivata. — Lily — la chiamai piano. Aveva le braccia intorno alle ginocchia, e le spalle si mossero in modo quasi impercettibile al suono del suo nome. La pelle rosa traspariva dal lino bagnato. — Ho pensato che forse mi avessi mentito, che te ne fossi andato — disse. — No. Non ti lascerei. — Le parole, ormai uscite e sospese nell’aria fra noi, erano più sincere di quanto pensassi. — E poi, te l’ho giurato. Quelli della mia specie saranno pure dei gran bugiardi, ma non veniamo mai meno alle nostre promesse. Sussultò, come avevo previsto, e bisbigliò: — Dove sei? — Proprio dietro di te. — Mi strofinai i palmi per creare un po’ di attrito, poi accesi un pezzo di legno con la scintilla sprigionata dalla mia mano. Glielo passai da sopra la spalla, e lei accese un falò. — Va bene se parliamo così? Tu tieni lo sguardo davanti a te. — Va bene. — Il bagliore rosa del suo corpo sfumava verso il color lavanda. Riconobbi il segnale: l’eccitazione dell’avventura. Lo stesso colore della mia preda in kayak, lo stesso colore dei marinai prima di schiantarsi con le loro navi sugli scogli. Prue Purpuree, dicevano gli antichi. Aveva raccolto i capelli in una coda di cavallo, che si arricciava in un’unica spirale. La nuca era quasi trasparente. Allungai la mano e le toccai le vertebre sporgenti. Lei rabbrividì e girò la testa. — Guarda dritto davanti a te, per favore. — Questa situazione iniziava a piacermi. Lei non si era comporta così con me, nell’ultima settimana? Inconsciamente, forse, volevo contraccambiare. Mi avvolsi la sua coda di cavallo intorno alle dita e allentai la presa, lasciandola serpeggiare sul palmo della mia mano. — Mi stai stuzzicando — disse. Ora aveva le pelle d’oca. — Può darsi. — È una crudeltà — aggiunse, con un sospiro. — Sono un mostro, ricordi? — Passai le dita sulle sue braccia, peggiorando la situazione, senz’altro, ma assaporavo ogni istante. — Calder, come mai nessuno sa che sei qui? — E chi lo dice? — I Pettit non hanno mai sentito parlare di te, e loro vivono qui da sempre. Le strofinai le mani lungo le braccia, cercando di riscaldarla come meglio potevo. — Prima di tutto, sono qui solo d’estate. E poi, prima di incontrare te non avevo tanti motivi per stare sulla terraferma. — Vuoi dire che tu e le tue sorelle passate il resto dell’anno nel Maine? Feci segno di no con la testa anche se lei non poteva vedermi. — So che sei rimasta molto colpita dalla leggenda dei Passamaquoddy che ti ha raccontato Jack, ma io non c’entro niente. È successo molto, molto tempo fa. Forse c’è qualche legame ancestrale, ma niente di più. — Stai dicendo che non sei immortale? — No — dissi con una risata. — Cosa te lo fa pensare? — Sei una creatura mitica. — Niente affatto. Sono seduto accanto a te. E a parte il fatto che mi trasformo in un grosso pesce, non ho niente di speciale. — Non ci credo. — Il mio corpo è fragile quanto il tuo. Mi esce il sangue. E morirò. Forse non presto come voi. Invecchio più lentamente, di un anno ogni tre degli umani. — Quanti anni hai? — Diciotto. — Insomma, quando sei nato? Chiusi gli occhi per non dover affrontare la domanda. — So dove vuoi arrivare, Lily. Ma l’anno della mia nascita non è che una data sul calendario. Ragiona come si fa con gli anni dei cani, ma al contrario. Quando si tratta degli anni che passano, io ne ho diciotto. Quante volte ho visto la sfera di cristallo calare a Times Square… non è un dettaglio rilevante. Invecchio… proprio come te… — Non come me. — Be’, sì. Tutti invecchiamo e moriamo. Alla fine. — Tua madre è morta, giusto? Per questo non l’ho conosciuta. Mi si chiuse la gola. — Sì, è morta. — Era bella come le tue sorelle? — Di una bellezza straordinaria. Assomigliava a Tallulah, e forse un po’ anche a te. — Era Ariel. — No, non lo era. Era una vera sirena. — Bene — disse Lily; e capii che stava sorridendo. — Mostro. Quindi, se non sei uno di quelli delle leggende, quali sono le origini della tua famiglia? — Sono nati qui, ed è per questo che la mia famiglia torna ogni anno a primavera. Sono legato a loro, attraverso nostra madre. Devo tornare, che io lo voglia o no. Scommetto che se mi legassero a una sedia e mi rinchiudessero in una stanza al Polo Sud, riuscirei comunque a ritornare. — Ricordai il mio ultimo giorno alle Bahamas, le fastidiose telefonate di Maris. Se avessi saputo che sotto a tutto c’era Lily, sarei tornato anche prima. — D’inverno vado ai Caraibi. C’è una spiaggia, alle isole Abaco, dove mi piace passare il tempo. — E ci saranno un sacco di ragazze, scommetto. Attesi prima di rispondere. Non potevo leggere il suo volto, stava guardando dall’altra parte. Nel suo tono c’era qualcosa, però, che attirò la mia attenzione. Una nota tagliente. Amara. La gelosia delle sirene la conoscevo; ci ero cresciuto. Se questo era il sentimento che avvertivo nella sua voce, la versione umana era diversa. Ne sentivo il sapore nell’aria, come vino diventato aceto. Mentre mi concedevo un momento per assaporarlo, non mi accorsi che in lei cresceva l’ansia. — Quante ragazze? — Cominciò a voltarsi, ma le diedi una bottarella sulla schiena. — Cosa? — Ne hai mai baciata una? Non sapevo che dire. Ero rimasto a bocca aperta come un idiota. — Perché ho notato che non mi hai mai baciata — disse. — Ma di che parli? Cosa abbiamo fatto nell’ultima ora? — Non è la stessa cosa. Era una questione di sopravvivenza. Quando capii cosa voleva, il cuore cominciò a battermi più forte. Vedevo già l’eccitazione sulla sua pelle. Per esperienza, sapevo quali effetti poteva suscitare un bacio. L’emozione sarebbe cresciuta, la luce ci avrebbe inondato come una pozza di marea. Non ero mai stato capace di resistere, ma ormai mi ero spinto lontano; tanto valeva rischiare. Girandomi, mi avvicinai. Ora eravamo spalla a spalla, con gli occhi rivolti in direzioni opposte. Mi sporsi e lasciai scivolare le labbra sulla sua spalla. Lei mi sollevò il mento con l’indice e mi baciò a sua volta, con le labbra calde e morbide. Chiusi gli occhi, assaporando la sua eccitazione sulla lingua ma resistendo all’impulso di prendere più di quanto mi offrisse. Si staccò, toccandomi la bocca con un dito. — Ti brillano le labbra. — Sei tu. Sono le tracce della tua emozione. — E Jack aveva ragione. Sai davvero di incenso — mormorò. — Patchouli, credo. Ridacchiai piano. — Lo scopo sarebbe quello di ammaliare la preda quando le siamo vicini. Dubito che puzzare di pesce sarebbe di grande aiuto. Come ho detto, l’evoluzione è stata buona con noi. — Ed è quello che hai fatto a me? Ammaliarmi? — Mi passò il dito sulle labbra un’altra volta. Risi di nuovo, questa volta più forte. — Credimi, con te sono ricorso all’ipnosi. Ce l’ho messa tutta, sul serio. Ma tu eri incredibilmente resistente. — No — disse. — Recitavo. — La sopravvivenza dei più adatti — mormorai. Mi si appoggiò alla spalla e recitò ancora Tennyson: Vorrei essere una sirena leggiadra Per cantare per l’intera giornata Per pettinarmi con un pettine di perle… Scossi il capo. — Rifletti su quello che ti ho detto, Lily. Non è tutto rose e fiori. Dimentichi questo: Finché il grande serpente marino nell’abisso Avvolto nel sonno nel profondo scranno Per sette volte lento si avvolgerà Intorno al palazzo in cui mi sazio. Non dimenticare questa parte. È l’unica vera. Viscidi predatori. Ecco cosa siamo. Lily curvò la schiena e si strinse nelle braccia. Il vento aveva fatto evaporare le ultime tracce di acqua sulla sua pelle, e cominciava a tremare. Il piccolo falò serviva ben poco a tenerla calda, così tornai al posto di prima e le strofinai la schiena, cercando di generare un po’ di tepore. Comunque, non sarei riuscito a guardarla in faccia, sapendo ciò che avrei dovuto fare. Per quanto ci tenessi a lei, ero ancora legato alle mie sorelle. Per quanto lei insistesse nel dirmi che non ero un assassino, sapevo che era vero solo in parte. Io non le avrei mai fatto del male, ma ci avrebbe pensato Maris a riscuotere il debito. Questo non potevo spiegarlo, a Lily. Non potevo neppure provarci. Ero incatenato alle mie sorelle e al loro piano, poco importava quanto mi disgustasse. Lily si appoggiò a me e il suo respiro mi avvolse. — Ricordi quello che mi hai chiesto sulla mia famiglia umana? Se penso mai a loro? Annuì. — Ciò che avrei dovuto rispondere è che non penso alle persone in sé, che divennero degli sconosciuti immediatamente dopo la mia trasformazione. Ma mi manca l’idea di loro. L’idea di una famiglia normale. Sì, è questa parte che mi manca. Che ancora mi manca. Poi chiusi gli occhi e dissi ciò che dovevo dire. — Tuo padre ha invitato me e la mia famiglia a cena da voi uno di questi giorni. — Ogni parola era filo spinato che mi lacerava la gola e la lingua. — Mmmm-mmm. Sarà un vero spasso. — Allungò il braccio dietro di sé, mettendomi la mano a coppa sulla nuca. — Ovviamente, sai che non ho nessun genitore da portarmi appresso. — Lo so, va bene. — Si appoggiò a me con tutto il peso del corpo. Mi chiesi se si stesse addormentando. — Quindi, che faccio? Ci vengo? — A Sophie farebbe piacere. Sorrisi mio malgrado. — E a te? — Anche a me. Sentivo il bruciore che mi pizzicava gli occhi. Nella mia testa potevo razionalizzare tutto. Potevo essere felice. Potevo persino amarla. Ma questo non significava che non avrei ucciso suo padre. Scacciai il pensiero. Non avrei fallito. Soddisfare le condizioni di Maris, assicurare la vendetta contro Jason Hancock, era il mio unico mezzo per ottenere la libertà. Qualunque fosse stato il prezzo da pagare, non avrei rinunciato a quel sogno. — Allora, cosa ne pensi? — domandai. — Dirò che ti ho invitato per domani sera. Annuii e rimasi paralizzato. Qualcos’altro aveva attirato la mia attenzione. Erano soltanto minuscoli puntini all’orizzonte, invisibili all’occhio umano. Forse qualcuno li avrebbe scambiati per strolaghe, o per l’estremità di tronchi affondati, ma erano tre, e io lo sapevo. — Non ti muovere! Mi alzai, gettai due manciate di sabbia sul minuscolo falò e corsi nel bosco, ripercorrendo il sentiero fino al lago, a una cinquantina di metri dalla sponda dove sedeva Lily. Rami appuntiti e piante spinose mi tagliavano le caviglie e mi infilzavano la pianta dei piedi. Corsi nell’acqua a ginocchia alte, sollevando tanti spruzzi prima di tuffarmi. Fu la mia trasformazione più rapida di tutti i tempi. Quando riemersi, direttamente davanti a Lily, ero nel panico, carico di elettricità. Lei camminava su e giù nell’acqua bassa. — Calder, che succede? Stai bene? Feci un respiro profondo e cercai di alleviare la carica elettrica il più possibile prima di farle cenno di venirmi vicino. — Vieni in acqua. Avvicinati. — Che succede? — Mi stanno cercando, e non possono trovarti in mia compagnia. Non così, comunque. Non sarà un bene se lo scoprono. — Perché? Non farò niente di male a nessuna di loro. — Per l’amor di Dio, Lily. Non sto dicendo che sarai tu a far del male a loro. Te lo vuoi mettere in testa che questo non è un film? Dimentica tutto quello che credi di sapere sulle sirene. Dimentica quella cavolo di Ariel; pensa al Silenzio degli innocenti, pensa a Venerdì 13 . Possibile che tu non abbia ascoltato una sola parola di quello che ti ho detto oggi? Loro. Ti. Uccideranno. — L’ironia non l’avevo certo persa, visto che fino a poco prima stavo pensando di ucciderla con le mie mani. Lily impallidì. — Come fanno a sapere dove ti trovi? Mi pareva avessi detto che dovevate essere in acqua per potervi sentire? — Loro non lo sanno. Stanno solo cercando. Ma non ci metteranno molto. Ti prego, sbrigati. Corse nell’acqua e si tuffò. Fece tre bracciate e mi raggiunse, e me la misi sulle spalle come se fosse un borsone. — Dovrò tenere la testa sott’acqua il più possibile. — La voce mi uscì acuta e squillante. Dal modo in cui mi stringeva, era chiaro che finalmente stava cominciando a capire. — Così non potranno sentirmi e tu potrai respirare. Non riuscirò ad andare veloce come prima, ma non c’è altro modo. — Lily affondò la testa sul mio collo e partimmo. Solcai l’acqua verso Bayfield, con bracciate violente nei punti in cui era mossa, le spalle protese come se il lago fosse di melma. Non mi voltai a vedere se mi stessero seguendo. Tanto non sarebbe servito a farmi andare più veloce. Ero a metà strada quando vidi una via d’uscita da quel pasticcio. Non era certo un’alternativa allettante, ma sicuramente il male minore. La barca di Jack Pettit stava incrociando la nostra rotta. — Lily, è Jack. — Tuffati! Non puoi mica farti vedere. — Posso farti salire a bordo della sua barca. — No! Calcolando le nostre rotte e il loro punto di intersezione, dominai le onde e raggiunsi il fianco della barca, facendo sbattere la coda a babordo. Jack sobbalzò al timone e spense il motore. — Ma che… — Prendila — dissi. Lily frignò: — No. — E strinse la presa intorno al mio collo. — Tu — disse Jack, prendendo Lily dalla mia schiena e la issò sul ponte. — Lo sapevo. — Portala a casa sana e salva. — Jack, ti prego, non dire niente — lo supplicò Lily. — Come se dirlo alla gente potesse servirmi a qualcosa. — Poi il suo viso si contrasse in una smorfia di dolore. — Senti. Manterrò il tuo segreto, ma di’ a Pavati che la sto cercando. Dille che devo vederla. — Prometto di farlo, ma dubito che ci guadagnerai granché. — Mi serve solo la tua promessa, e tu potrai tenerti le tue opinioni per te; a quanto pare, hai due pesi e due misure riguardo a questa cosa. Lily fece per afferrarmi, guardandomi con gli occhi sgranati. Non voleva lasciarmi. — Te la caverai? — mi domandò. Temeva sempre il peggio. — Torna a casa. Non stare in pena per me. — Non hai cambiato idea riguardo a domani sera, vero? — Adesso va’. Jack girò la chiave e l’elica frullò l’acqua a pochissimi centimetri dalla mia coda. Feci un balzo indietro e lanciai un’occhiataccia all’improbabile salvatore. Jack spinse il motore a tutto gas e invertì bruscamente la rotta, facendo emergere lo scafo, spargendo raffiche di acqua lungo la scia. A me non restava che domandarmi se lui fosse bravo quanto me a mantenere le promesse. 29 AFFRONTARE LA MUSICA Sull’isola di Basswood regnava la pace. Nulla disturbava l’acqua, nulla faceva frusciare il folto sottobosco. Non c’erano scoiattoli che litigavano sui rami degli alberi. Rimasi ad aspettare, da solo, per molto tempo. Le luci della casa degli Hancock si riflettevano sul lago e, mentre il sole tramontava e il cielo si scuriva, si spensero una a una. La luce della stanza di Lily si spense per ultima. Ma prima di lasciare la casa completamente al buio, la accese e la spense, a intermittenza. Lo presi come un augurio di “buona notte, buona fortuna” per me. Cos’altro poteva essere? Le nuvole del giorno si dissolsero lasciando posto alle stelle. Disteso sulla schiena, rintracciai Orione nel cielo. Il Cacciatore. Ed era ciò che eravamo noi, ma in qualche modo la nobiltà di Orione aveva disertato la nostra razza. Temevo che le mie sorelle fossero a caccia. Di loro non c’era traccia nelle vicinanze della casa degli Hancock. Questo lo sapevo per certo. Ma non le trovai neppure in acqua. Entrai a mollo qualche volta, immergendomi per cogliere le loro voci. Ma c’era il silenzio. Dovevano essersi allontanate parecchio. A mezzanotte, tre punti neri si ingrossarono fino a diventare figure lunghe e sottili che emergevano dal lago. Nessuna di loro mi salutò. Pavati e Tallulah mi passarono davanti in cerca di legna da ardere. Maris raccolse il vestito che aveva lasciato sulla battigia e se lo passò sopra la testa, lasciandolo cadere sul corpo spigoloso. Si fermò dritta in piedi davanti a me. Senza sedersi; fui costretto ad alzare gli occhi per guardarla. — C’è un nuovo odore nell’acqua, Calder. — Ah, sì? E di cosa? — Non fare l’ingenuo. — Era in barca. Maris maledisse il mio nome. — Sei tornato in acqua insieme a lei? — No, certo che no. Maris scrollò le braccia per la disperazione. Il vento agitava il lago, generando onde violente alle sue spalle. — Calder, stai rovinando tutto. Chi ti dice che non avviserà suo padre? Se starà sul chi vive, il nostro piano è fregato. Non avrei mai dovuto fidarmi di te per una cosa così importante. Non cresci mai. Quando si tratta di essere responsabili, tu sei un disastro. Hai idea di quanto ci tengo a questo piano? Vuoi ancora farne parte? — Ma certo. La ragazza non sa chi siamo. Stai reagendo in maniera esagerata. — Non dirmi che sono esagerata. Ti ho cresciuto io. Pensi che sia stato facile? Pensi che mi servisse un altro fratello a cui badare? — Adesso si era messa a urlare. — Potevamo abbandonarti e basta. Mamma non doveva mica salvarti per forza. Però, l’ha fatto. Perciò, come pensi ci sentiamo ora che ci tradisci? — Non vi ho… Pavati e Tallulah tornarono con le braccia cariche di legna, che lasciarono cadere rumorosa in una pila. Io e Maris ci voltammo. Tallulah evitava di guardarmi negli occhi. — Qualcuno ha fame? — domandò Pavati. — Ma che problema hai, Maris? — dissi infuriato. — Pensavo che fosse quello che volevi. Che la avvicinassi. Non è quello che avevi detto? — Sì, ma quanto ti stai avvicinando? — Il tuo odore si è mescolato al suo, Cal — disse Tallulah. Aveva una voce sottile e sconosciuta. — È tutto sull’isola, a Manitou. — Ha preso una barca per arrivarci. — Mi stavo inventando tutto. Pregai che non pensassero a quanto fosse improbabile che qualcuno prendesse una barca malridotta come quella degli Hancock per andare al largo. — L’ho incontrata sulla spiaggia. Le ho detto che avevo fatto la stessa cosa. — Non credi che fosse poco credibile, visto che tu non avevi una barca? E che mi dici dei vestiti? — Li avevo. Le ho detto che avevo lasciato la barca alla spiaggia, nascosta fra i cespugli. Non mi ha fatto molte domande. Era felice di vedermi. Ed è un bene, no? Maris assottigliò gli occhi. Io volsi lo sguardo dalla parte di Tallulah, ma lei si rifiutò di guardarmi. Pavati sogghignò e dispose i rami sopra una montagnola di foglie secche. Si strofinò i palmi delle mani finché sprigionarono alcune scintille che infiammarono le foglie. — Ho un invito a cena per domani. — Ero contento di avere quanto meno quest’informazione da offrire. Speravo che giovasse al loro umore. Non volevo far scoppiare una lite. L’idea mi colse di sorpresa. A questo saremmo arrivati? Avrei dovuto litigare con le mie sorelle per la nipote di Tom Hancock? Avvertivo la frenesia di Maris. Era come un piranha che fiuta il sangue nell’acqua. E come ne sarei uscito da un litigio con loro? Uno contro uno, me la sarei cavata bene. Ma tre contro uno, non mi lasciava nessuna possibilità di farcela. Eravamo tutti veloci, assassini per natura. O per appetito? Non avevo mai conosciuto una sirena che vivesse in un altro modo, ma le parole di Lily mi assillavano. Ero fatto così a causa di Maris? Era lei che mi aveva insegnato a essere in questo modo? Potevo ancora trovare la mia felicità? Se ci fosse stata una lite, mi chiesi da che parte si sarebbe schierata Tallulah. Non riuscivo a immaginare che avrebbe permesso a Maris di distruggermi. Eppure… — Cena — disse Maris. — Credo che la notizia mi faccia piacere. La mia determinazione si rafforzò. Con o senza Tallulah, mi sarei battuto per Lily. Era una brava ragazza. Ed era innocente. E non aveva colpa per i peccati del nonno. Ma non potevo confidare nel fatto che Maris non se ne sarebbe occupata. Avrei dovuto restare vicino a Lily per assicurarmi che non corresse rischi. Non potevo lasciarla senza protezione visto che, se era in pericolo, la colpa era tutta mia. Questo voleva dire smetterla di dormire a Basswood con le mie sorelle. Avrei detto che avevo bisogno di stare per conto mio, che mi serviva tempo per riflettere, per mantenere la mente concentrata sul piano. Perché, nonostante i sentimenti che nutrivo per Lily, nonostante il bisogno di proteggerla, il piano doveva andare avanti. Era una questione di puro egoismo: solo allora sarei stato libero di lasciare le mie sorelle, senza più nessun obbligo di eseguire i loro ordini. Il nostro patto era questo. Mi avrebbero dato la libertà. Avrei saputo se era possibile essere felice, come aveva promesso Lily. E avrei potuto portarla con me, e avremmo potuto vivere come la gente normale. O forse… mi frenai prima che le fantasie prendessero il sopravvento. Sapevo che non avrei mai potuto azzardare un rinvigorimento con lei, ma non potevo fare a meno di pensarci. Le possibilità che riuscisse erano pressoché nulle. Magari avrei potuto esercitarmi con qualcun altro, tanto per vedere… ma dovevo frenare anche quest’idea. Come potevo giocare alla roulette russa con una come Lily? Non riuscivo a scrollarmi di dosso questa fantasia. L’idea di noi due che vivevamo insieme, senza pretesti, senza provocazioni. Dovevo allontanarla il più possibile, prima che si radicasse nel mio cervello. Essere avventati non avrebbe giovato a nessuno. Stavo già camminando su una fune, in precario equilibrio fra la voglia di appagare i bisogni di Lily e la necessità di soddisfare i desideri delle mie sorelle. Dovevo essere rimasto con lo sguardo fisso mentre questi pensieri mi viaggiavano in testa. Pavati mi schioccò le dita davanti agli occhi. — Ehi, Calder — disse Maris. — Terra chiama Stronzo. Come pensi di organizzare la gita in barca con Hancock? — Maris era piegata in due e mi urlava in faccia. — Hancock terrà un corso universitario sulla natura, o qualcosa del genere — dissi. — Gli chiederò di portarmi sul lago. Lui non pesca, ma potrebbe essere solo un giro in barca. Una piccola lezione sulla natura o roba del genere. Le ragazze si sedettero in soddisfatto silenzio. Pavati mi tirò una gomitata e disse: — Allora, cosa indosserai per la cena? 30 SPESE PAZZE Pavati lasciò la nostra auto in fondo al parcheggio riservato ai clienti dei grandi magazzini. Tallulah e io scendemmo dal sedile posteriore e Pavati mi lanciò le chiavi da sopra il tetto della macchina. Le afferrai al volo e le infilai in una delle tasche dei miei pantaloni, che – ora che li guardavo bene – avevano certo conosciuto giorni migliori. La punta di una delle chiavi sbucava dal buco di una tasca. — Mi sa che sui vestiti hai ragione tu, Pav. Sarebbe ora di bruciarli. Girò intorno all’auto e finse di studiare i miei abiti come se non vi avesse mai prestato molta attenzione. — Non ti preoccupare. Quando avremo finito di sistemarti, sembrerai il fidanzato perfetto. Tallulah fece una smorfia. — Andiamo. Vediamo di sbrigarci. Ci sono troppe persone qui, mi dà la nausea. La capivo. Il tono emotivo di ogni persona si fondeva con gli altri. Nella folla c’era una tale cacofonia di sentimenti e passioni da creare un ronzio costante e una distorsione di colori. Se fossimo rimasti troppo a lungo, ci saremmo ritrovati con un gran mal di testa. Pavati ci precedeva. Calai i RayBan sugli occhi per attenuare il bagliore. Un gruppo di ragazzi dai capelli spettinati, con pantaloni fuori misura e canottiere larghe, indietreggiarono per farci passare. — Forse dovresti chiedere chi è il loro stilista — bisbigliò Pavati. — Uff — disse Tallulah, buttandosi la borsa sulla spalla. — La smettete di scherzare, per favore? Il reparto uomo dov’è? — Di là — rispose Pavati, indicando il fondo del negozio. — Pensavo a qualcosa di classico. Magari una camicia semplice, e senz’altro un paio di pantaloni nuovi. Questi puzzano di alghe e hanno l’orlo consumato. — Oh, Pavati, non credevo che ci avessi fatto caso. Passammo davanti a file di espositori carichi di tutine per bambini, vestiti per ragazzi e abiti per signore. Presi una scatola di mocassini da uno scaffale. Non avevo pensato a un paio di scarpe nuove. Nemmeno le ragazze, a quanto pare. Ero felice di averle trovate. Un vero fidanzato non si presenta certo a piedi nudi. Tallulah si diresse verso uno scaffale di camicie, piegate in confezioni compatte, e ordinate per taglia e colore. Non perse tempo a scegliere. Ne prese una verde, di taglia media, e mi piantò la confezione sul petto. — Ecco. Si intona ai tuoi occhi. Presi la camicia prima ancora che la mollasse. — Qualcosa ti preoccupa, Lu? La bocca le si contrasse. Stava per dire qualcosa, quando si avvicinò una commessa. — Posso esservi di aiuto? — domandò la donna. Portava una targhetta con scritto il suo nome: Jo- Ellen. Quando Pavati le si avvicinò con aria minacciosa, lei si toccò i capelli schiariti in un gesto nervoso. — A dire il vero, sì… Jo-Ellen. Speravo di trovare un abito per un aperitivo a cui dovrò andare il prossimo fine settimana. Rosa, magari. Pavati sostenne lo sguardo della donna finché lei, arrossendo, disse: — Certamente, certamente. Da questa parte. — Prima di seguire Jo-Ellen, Pavati ci guardò muovendo le sopracciglia. Con l’agilità di un illusionista, Tallulah si infilò nella borsa la mia nuova camicia, poi mi tirò per il gomito. — I pantaloni sono di qua. La afferrai per una spalla e la costrinsi a voltarsi. La sua espressione, solitamente calma, vacillò e le luci fluorescenti si specchiarono nei suoi occhi umidi. — Che sta succedendo? — domandai. — Niente. — Finse un sorriso. — Mi sta venendo il mal di testa. Tutto qui. Sbrighiamoci, d’accordo? Lasciai la presa e la guardai allontanarsi. Si fermò vicino al reparto dei pantaloni da uomo e li passò in rassegna uno a uno, con un rumore stridulo ogni volta che scansava con forza una delle stampelle sull’asta di ferro. — Troppo scuri, troppe pieghe, troppo antiquati… — Durante la sua selezione, le voltai le spalle e restai lì a fare il palo. Tanto, non avevo occhio per la moda. Ero più utile come sentinella. Mi spinse in un camerino con un paio di pantaloni neri. Pochi secondi dopo, le passai i miei vecchi calzoni e la scatola di scarpe da sopra la porta. Quando riemersi, aveva già nascosto i miei scarti dove, più tardi, li avrebbe trovati un ignaro commesso. Alzai le braccia, in attesa del suo giudizio. Con un dito mi fece cenno di voltarmi, così girai su me stesso per mostrarle i pantaloni. — Belle gambe — disse, staccando le etichette. — Zitta, Lulah. — Completai l’ultima piroetta e la vidi di sfuggita passarsi una mano agli angoli degli occhi. Pavati ci raggiunse a passo veloce. — Pronti? — Pronti. Jo-Ellen era rimasta indietro. — Sono davvero dispiaciuta che non abbiamo un Versace, signorina Vanderbilt. — Vanderbilt? — chiesi. Pavati mi fece l’occhiolino e ci avviamo in fretta verso l’uscita. Le ragazze si sfregarono le mani con un movimento circolare, mentre ci avvicinavamo alle porte. Afferrai un paio di pantaloncini da uno scaffale e li buttai nella borsa di Tallulah. Diversi commessi ci osservarono incuriositi, ma quando attraversammo le barriere antifurto le ragazze premettero i loro palmi elettrificati sui sensori, mandando in tilt il sistema. Non ci fermò nessuno. 31 LA CENA Quando bussai alla porta degli Hancock, alle sei in punto, venne ad aprire Lily, con un sorriso che le arrivava quasi alle orecchie. Si era legata i capelli in un morbido nodo e si era coperta con una camicetta di pizzo a collo alto e una gonna nera, di velluto a coste. Mi mancavano la sua pelle e il bagliore rosa del giorno prima. Stasera era tesa. Dietro di lei, la casa brillava di cera e lucidante. Un pavimento di pino dalla tonalità lieve aveva rimpiazzato la vecchia moquette e il linoleum. I quadri della signora Hancock erano appesi alle pareti. Le finestre riflettevano la luce di una decina di candele. Lily notò il mio nuovo stile e sollevò divertita le sopracciglia. — Taci — le sussurrai. — Si chiama “cena con i genitori”. — No. Stai bene. Sei molto… normale. — Perfetto. — Le strizzai l’occhio e la presi per mano. — È esattamente quello che voglio sembrare. — Ritirò la mano, e a questo punto toccò a me sorprendermi. — Cerca di non esagerare con loro — disse. — Non ho mai portato un ragazzo a cena. — Non è la prima volta che vengo qui. — È diverso. Non c’è bisogno di spaventarli subito. — Capito. — La abbracciai e le diedi un rapido bacio. — Non li spaventerò. Rise e mi condusse in soggiorno. Hancock e signora si trovavano in piedi, insieme a Sophie, come se avessero i posti assegnati. — Buonasera, Calder — disse la signora Hancock. — È stato gentile da parte tua unirti a noi per la cena. Mi dispiace che i tuoi non siano potuti venire. — Anche loro sono molto dispiaciuti. — Strinsi i denti e mi costrinsi a sorridere. — Spero che il pollo ti piaccia. — Il pollo — ripetei. Non l’avevo mai assaggiato. — Splendido. — Possiamo offrirti qualcosa da bere? — mi domandò Hancock. — Una Coca? — Arriva subito. Sophie? — È in arrivo, papà. Ci addentrammo ancora di più nella stanza e ci accomodammo su due divanetti. Non riuscivo a rilassarmi. Avevo i muscoli contratti e sedevo con la schiena rigida, immobile, pronto a saltare. Lily mi scrutava ansiosa in volto. Sophie tornò e mi porse il bicchiere, che trasudava umidità. Passai l’indice sul bordo, calmandomi grazie alla condensa. — Giochi a golf, Calder? — Hancock si chinò in avanti e prese una manciata di noccioline da una ciotola. Se le lanciava in bocca una alla volta. — No, signore. — Giocavi a football alle superiori? — Non esattamente. — È un peccato. È il football che ti fa capire di che pasta sei fatto. Ai miei tempi ero un running back. Numero sedici. — Calder era nella squadra di nuoto, papà — disse Lily, mettendo un piattino sotto il mio bicchiere. — Ah-ah. Darai filo da torcere a Michael Phelps? Sorrisi, immaginando la sfida. — Oh, penso di potermela cavare. — Così mi piaci. L’attitudine è tutto. Lily si sedette accanto al padre e gli schioccò un bacio sulla guancia. Trasalii e distolsi lo sguardo. Sophie sedeva sulla poltrona di fronte a me. Non l’avevo degnata di molta attenzione, ma lei mi stava osservando. Sorrisi e la guardai inarcando le sopracciglia. La sua espressione rimase immutata. Hancock si chinò per prendere un’altra manciata di noccioline. Lily giocherellava con un filo della sua manica. L’unico suono era quello delle noccioline masticate. Continuavo ad agitare il ghiaccio nel mio bicchiere. Lily mi guardò e incrociò gli occhi in un’espressione buffa. La salvezza giunse quando la signora Hancock ci chiamò per la cena. — Ci siamo — annunciò Hancock, battendosi le mani sulle ginocchia per alzarsi dal divano. — Era ora. Lily gli diede uno schiaffetto quando le passò davanti. Mi sedetti al posto che mi aveva indicato Hancock, e Lily si accomodò tra me e suo padre. — Quello è il mio posto — disse Sophie, guardando storto Lily. La signora Hancock indirizzò Sophie dall’altra parte del tavolo, mentre raggiungeva il suo posto sulla sedia a rotelle. Fu Lily a servirci. Il piatto che avevo davanti era pieno di qualcosa che non avevo mai visto. Un grande pezzo di carne bianca che – immaginai – doveva essere pollo. Ma era coperto da una specie di salsa gelatinosa che usciva dai bordi e colava nel piatto. Sorrisi fiaccamente alla signora Hancock e cercai di non dare nell’occhio mentre toglievo la salsa dalla carne. Ne mangiai un pezzo. Il pollo era caldo e gommoso. Lo inghiottii a fatica e prosciugai il mio bicchiere d’acqua. Lily mi mise nel piatto una porzione di spinaci e mi passò il sale. Lo versai in abbondanza su tutto, mentre la guardavo grato. Le portate erano in costante movimento, passavano dal padre, alla madre, alla figlia, e poi il giro ricominciava. Hancock porse un bicchiere di latte a Sophie. La signora Hancock le versò nel piatto un mestolo di noodle. Era tutto così… normale. Esattamente come mi ero sempre immaginato una vera famiglia. Mancava solo un cane sdraiato sotto il tavolo. Per un momento, pensai che avrei potuto farne parte. Ero nato per quel tipo di vita: i genitori, la casa, i pasti. Forse anche i miei genitori umani mangiavano pollo. Erano da qualche parte. Magari mi avevano anche voluto bene. Mi stavano ancora cercando, dopo tutti questi anni? Non riuscivo a immaginarlo. Di punto in bianco Hancock mi domandò: — Ti piace passare l’estate qui? Passai il cestino del pane a Lily. — Molto. — Per tutta la mia vita — disse — da quando ho memoria, ho sempre desiderato tornare qui. Era un assillo. Ho visitato molti laghi… Erie, Michigan, Huron, Ontario. — Snocciolò i nomi dei Grandi Laghi agitando la forchetta in aria. — Ma fino a questa primavera, non avevo mai visitato il Lago Superiore. È incredibile, vero? — Molto. Ma Lily me l’ha detto, signore. Della promessa fatta a suo padre. Hancock masticò e inghiottì. Si sporse sul tavolo, verso di me. — Sono sempre stato convinto di una cosa: se fai una promessa, Calder, dovrai mantenerla. Non importa quanto potrà essere doloroso. — Sono assolutamente d’accordo — dissi. Meglio mettere fine alla faccenda. — Va spesso in barca sul lago, signor Hancock? Mi guardò, gli occhi colmi di sorpresa. Poi abbassò le palpebre per squadrarmi un’altra volta. — Abbiamo un paio di kayak. E c’è una piccola barca da pesca. Ma non ho mai imparato a nuotare e non sono tipo da andare in barca. — Fece una pausa. — Sembri sorpreso. — Oh, no, signore, è solo che… — I Grandi Laghi possono essere pericolosi; affascinanti, anche, ma pericolosi, soprattutto se non hai esperienza. Immagino avrai sentito di quei tre ragazzi del college, hanno ritrovato la loro barca, ma senza di loro. — Scosse la testa e grattò la forchetta sul piatto di porcellana. — Mi stupirei di vederli riaffiorare. — Puntò la forchetta verso Lily e pugnalò l’aria a ogni parola. — Il Lago Superiore non restituisce i suoi morti. Hancock fece una smorfia e si schiarì la gola. — A ogni modo, preferirei studiare la storia del lago anziché galleggiarci sopra tutto il giorno. Lo sapete che hanno scoperto una strada sommersa? Ho visto le foto. Somiglia a una via lastricata romana. Ora, questa sì che è una scoperta affascinante. Una specie di Atlantide. La conoscevo. Non sapevo che gli umani l’avessero scoperta. — Una strada costruita dagli uomini? Sott’acqua? Mi piacerebbe vederla. Hancock annuì, masticando. — La teoria è che facesse parte di un’antica miniera di rame. — Il lago serba molti misteri — dissi. Lily mi strinse il ginocchio sotto il tavolo. — Ci sono anche centinaia di navi affondate — aggiunse la signora Hancock. Annuii. — Un autentico cimitero di navi. Ne ho viste un paio. Alcune si possono vedere perché si trovano in punti in cui l’acqua non è alta. Magari potrei mostrargliele, uno di questi giorni, signor Hancock. — Mi piacerebbe… — cominciò a dire Sophie, ma la signora Hancock la interruppe. — Oh, scommetto che ti piacerebbe, Jason, vero? Vai a vederle, almeno una volta. — Allungò una mano e toccò l’avambraccio del marito. Sophie allontanò bruscamente la sedia dal tavolo e si alzò per portare via il piatto. La signora Hancock gettò uno sguardo verso la figlia minore. — Hai già finito, tesoro? — Non ho fame. — C’era una strana espressione sul volto di Sophie. Mi ricordò Pavati quando non otteneva ciò che voleva. Sophie rimase imbronciata in cucina e la signora Hancock riprese la conversazione. — Lily mi diceva che la tua famiglia passa l’estate sulla vostra barca a vela. — Esatto. Ci piace la semplicità. È un po’ come un lungo campeggio. — Masticai lentamente un altro pezzetto di pollo. Più masticavo, più sembrava diventare grande. Forchette e coltelli stridevano sui piatti, mentre io mi godevo la civiltà di questo pasto. Posate d’argento, veri tovaglioli di stoffa… Niente sabbia nel cibo. Avrei potuto abituarmi. — Sophie? — La signora Hancock chiamò in direzione della cucina. — Pensi di unirti di nuovo a noi? — Poi si voltò verso di me. — In sei su una barca. Non riesco a immaginare di vivere così per più di un fine settimana, ma capisco perché tua madre voglia farlo. È difficile separarsi dalla famiglia anche per un breve periodo. Non so come faremmo, se non stessimo insieme. — Non che tu debba preoccuparti per questo, con una casa così piccola — disse Lily. — Sai bene cosa intendo — disse la signora Hancock. — Calder, sono sicura che tu mi puoi capire. La tua famiglia deve essere molto unita, se riuscite a vivere in così poco spazio. Togli anche una sola persona… Non riesco nemmeno a immaginare il dolore per una famiglia. Lasciai cadere rumorosamente la forchetta nel piatto. Afferrai il bordo del tavolo. La voce gentile della signora Hancock, il ricordo di mia madre, il modo in cui Lily guardava il padre, “il dolore per una famiglia”, l’avvertimento di Pavati… Pavati aveva ragione ancora prima che ci fosse qualcosa per cui avere ragione. Non potevo amare Lily e uccidere Hancock, perché non potevo uccidere Hancock senza distruggere Lily. Dovevo andarmene di lì. Dovevo andarmene in fretta. Il mio mondo stava precipitando, come massi in una diga. — Scusatemi — dissi senza aggiungere altro. Il calore mi salì in volto e mi precipitai verso la porta. 32 CONFESSIONI — Calder, tutto a posto? — chiese Lily, seguendomi mentre mi allontanavo dal tavolo. — Scusa, non mi sento bene. La signora Hancock esclamò: — Oh cielo, spero non sia stato il pollo. Lily mi corse dietro, camminando a piedi nudi sulle assi del pavimento. — Che cos’hai? — mi chiese, mentre la zanzariera della porta le sbatteva alle spalle. Avevo già sceso i gradini della veranda, a metà strada verso l’auto. Lily mi afferrò per la spalla, quando mi raggiunse, e io avvertii la scossa elettrica che da me si scaricò nel suo palmo. Doveva essere stato doloroso, eppure Lily non mollò la presa. — Devo andarmene da qui — dichiarai. — Cosa? — Le mie sorelle, Lily. Non posso restare qui. Non posso farlo. Si è incasinato tutto. — Ma di che parli? Che c’entrano le tue sorelle? — Si mise una mano sulla bocca. — Lo sanno? Sanno che io so? — No, no. Non è questo. — E allora? — Se fosse solo questo, ti porterei via con me. Scapperemmo insieme alle Isole Abaco. Potremmo prendere una casetta in spiaggia su uno degli isolotti. Tu scriveresti poesie… e io ti proteggerei. — Servirebbe ad aggiustare le cose? Perché se è così, dobbiamo andare. — No! Tu non capisci. Anche se ti portassi via da qui, non cambierebbe nulla. Lo uccideranno in ogni caso. — Uccidere? Chi? Camminavo nervoso, avanti e indietro, con le dita intrecciate ai capelli. I denti serrati, combattuto tra due fuochi. — Credi che sia tutto un caso? — le domandai. — Un gruppo di sirene bussa alla porta di una famiglia che ha sentito parlare di un mostro del lago. Non solo ne ha sentito parlare, ma ne è rimasta invischiata. — Non ci sono mostri nel lago — rispose Lily con voce atona. — Apprezzo questa fiducia, ma sei completamente fuori strada. — Calder, quello che è successo a mio nonno non è colpa tua. — Certo che no. Ma non capisci? Il mio unico rimpianto riguardo a tuo nonno — quest’ultima parola sputata con sdegno dalle mie labbra — è che sia morto prima che potessimo ucciderlo noi. Lily aggrottò la fronte. — Ma che dici? Le raccontai tutta la storia, fino al respiro soffocato di mia madre. A ogni parola, il suo volto impallidiva sempre più. — Lui le aveva promesso che avrebbe sacrificato tuo padre. — Ma mio padre era un bambino! — L’età non ha importanza. E per una sirena, ogni promessa è sacra. — Avevate intenzione di uccidere un bambino? — Tecnicamente, mia madre aveva intenzione di farlo, ma non è questo il punto. Lui aveva promesso suo figlio in cambio della propria vita. Promesso. Tuo nonno e mia madre avevano un contratto. Le sirene non rompono mai una promessa. Ci aspettiamo che la controparte faccia lo stesso. E la promessa infranta di tuo nonno ha ucciso mia madre. — Lui non lo sapeva. — Lui ne è stato la causa. — E quindi? Cosa posso fare per salvare mio padre? — Tu? Niente. Voglio che resti alla larga da questa situazione quanto più possibile. Cercai di abbracciarla, ma Lily mi mollò uno schiaffo e indietreggiò. — E quale sarebbe, esattamente, questa situazione?— disse. Gli occhi ormai le bruciavano di rabbia. — Lily, le mie sorelle vogliono uccidere tuo padre. Mi hanno chiesto di fare amicizia con te per arrivare a lui. Vogliono che lo porti al lago, per reclamare ciò che è loro di diritto. — Ti sei avvicinato a me su ordine delle tue sorelle? — Cosa? Sì. All’inizio. Ma ti stai concentrando sui dettagli sbagliati. Il mento di Lily cominciò a tremare. Aveva gli occhi colmi di lacrime. — Ma non è più così adesso.— Le posai le mani sulle spalle e lei se le scrollò di dosso subito. Tra noi scese il gelo. — Te ne stavi lì dentro a chiacchierare di un giro in barca con mio padre. — Lo so, lo so. Ma non posso farlo. Non capisci? — Vai via di qui, Calder. Sta’ lontano da me, sta’ lontano dalla mia famiglia. E tieni alla larga anche le tue sorelle. — Si voltò per correre di nuovo a casa, ma la costrinsi a girarsi verso di me. — Non è così semplice, Lily. Lo prenderanno. Ora che lo hanno trovato, lo perseguiteranno in eterno. — Io posso proteggerlo. — Con uno strattone si liberò dalla mia presa. — Sparisci di qui. E non tornare. Prima che potessi aprire la bocca per protestare, il grido di una bambina riverberò dal lago e riecheggiò in tutto il bosco. 33 LO SCONTRO La porta a zanzariera si spalancò. Hancock era sulla veranda, con un’espressione che esprimeva il suo panico più di quanto potessero fare le parole. — Lily, Sophie è lì con te? — No. — Aiuto, papà! Ci voltammo tutti verso il lago, tentando di individuare l’origine del suono. La signora Hancock comparve alle spalle del marito, il volto smorto e impotente, confinata nella sua sedia. Anziché correre verso il lago, Hancock restò immobile, le gambe bloccate e le mani tremanti. — Jason — gridò la signora Hancock, dandogli una spinta alle spalle. — Non farti bloccare dalle tue paure proprio adesso! Con trepidazione, Hancock barcollò fino alla riva e spinse la barca sull’acqua. — Oddio, no — sussurrò Lily. Teneva gli occhi fissi nei miei, l’espressione fiera. — Stai lontano dall’acqua. Stagli lontano. Hancock tirò la corda del motore più volte, prima di riuscire ad avviarlo; poi si lanciò nel lago, come se volasse. Mi precipitai verso il vialetto, tagliando per il bosco, lacerando i vestiti nella corsa. I rami degli alberi mi schiaffeggiavano il viso, il petto e le cosce. Giunto al limitare dell’acqua, feci uno scatto senza mai spostare lo sguardo. Mi trasformai a mezz’aria. Ben più veloce di quanto Pavati avesse mai fatto. Forse perché Pavati era nei miei pensieri, quando toccai l’acqua, sentii la sua voce. Gorgheggiava per l’eccitazione. Doveva essere ad almeno un chilometro da me, Maris e Tallulah ancora più lontane, ma si stavano avvicinando rapidamente e ascoltavano assorte il racconto di Pavati. La ragazzina era uscita di casa. Aveva il broncio perché nessuno le aveva prestato attenzione. Voleva sedersi accanto a me, a cena. Pavati aveva osservato la scena dall’acqua. L’aveva chiamata, le aveva chiesto di avvicinarsi al lago. Ora potevo rivedere la scena con i suoi occhi, nella sua mente: Sophie che trascinava un kayak sull’erba. Pavati che le prometteva tanto divertimento. Poi giunse l’eco della memoria di Pavati, il suono del kayak che si rovesciava. Sophie si era aggrappata all’imbarcazione capovolta e ora – finalmente! – Jason Hancock si trovava in acqua. La sua barca era lenta. Il motore sbuffava, il carburante era quasi finito. Lui estrasse i remi e cominciò a vogare. — Presto! — gridò Pavati. — È il nostro momento. Nel lago riuscivo a sentire le urla di Sophie aggrappata al kayak. Maris fendeva l’acqua, Tallulah era una scia argentea dietro di lei. Cercavo di calcolare la distanza e la loro velocità, eppure c’era qualcosa che mi tormentava il cuore, ora che Hancock era così vicino. Scossi la testa per cancellare quell’impulso profondo di fare giustizia. Avevo desideri più grandi. Dovevo fermare le mie sorelle. L’adrenalina mi spingeva a nuotare più veloce del normale. Ma anche Maris era una scheggia. E poi giunse qualcos’altro. Un nuovo odore. Lily in un altro kayak. Il mio cuore fece un balzo, mentre il suo volto mi appariva nella mente. — N o ! — strillò Tallulah. Contrasse la coda e cambiò direzione. — Perché? — le urlai a gran voce. — Tallulah, lascia stare Lily. Hancock raggiunse Sophie in pochi secondi, a nemmeno cinquanta metri dalla riva. La tirò nella sua imbarcazione e legò il kayak al motore difettoso. Maris era in arrivo, ma giunsi prima di lei davanti a Hancock. Poggiai una mano sulla parte posteriore della barca e spinsi con più forza di quanto mi sarei aspettato. Questo impeto inatteso fece crollare Hancock e Sophie sul fondo dell’imbarcazione. Qualche secondo dopo la barca raschiò la sabbia toccando la riva. Le maledizioni di Maris e la furia di Pavati ne attutirono il rumore. Tallulah taceva. Quando capii di non riuscire a sentire dove fosse, mi lasciai prendere dal panico. Mi sforzai di risalire in superficie, incurante di chi potesse vedermi. Il sole non era ancora tramontato, ma non avevo bisogno di guardare per sapere che Hancock era ancora qui. Se voleva sapere qualcosa del mostro del lago, stava per assistere al migliore spettacolo possibile. Lily si trovava a una ventina di metri da me, a sud. Dopo avere capito che suo padre e sua sorella erano in salvo, aveva smesso di vogare. Ora appariva disorientata, come se si fosse cacciata in una situazione in cui non avrebbe mai pensato di trovarsi. Girava la testa, in cerca di qualcuno o di qualcosa. Sarei stato meglio, se lei non avesse saputo che cosa doveva cercare. La immaginai a studiare il lago in cerca di increspature, schiene che si inarcavano e code che sguazzavano nell’acqua. — Glielo hai detto!— mi strillò Tallulah. — Lo sa. Ne sono certa. — Lasciala stare, Tallulah. Lei è mia. — Ci siamo giocati l’elemento sorpresa, Calder. Hai rovinato tutto. E adesso tu, tu…— la voce si ruppe in un singhiozzo — te ne sei innamorato. Come hai potuto farmi una cosa del genere? — A te? Cosa c’entri tu? Fatti da parte, Lu. Subito! — No. Non posso permettertelo. Ci scontrammo a tre metri dal kayak di Lily. La forza dell’impatto ci sbalzò fuori dall’acqua, aggrovigliati come una vite selvatica, prima di schiantarci di nuovo nel lago. L’acqua turbinò e il kayak fu scosso con violenza. Tenendo il braccio intorno al collo di Tallulah, la trascinai in profondità. Le coprivo la bocca con una mano, e lei affondò i denti nelle mie dita. Non avrei avuto neanche una possibilità, se fosse arrivata Maris. Sarebbe stato impossibile battere anche Pavati. Trascinai Tallulah sul fondale, scorticandole la pancia fino a vedere il sangue. Mi morse più forte il braccio. Le appoggiai la coda sulla schiena e spinsi. Le conseguenze della mia forza furono due: lei che scendeva più a fondo nel lago e io che venivo lanciato più vicino a Lily. Quando emersi in superficie, Lily urlò e tentò di remare con le mani nell’acqua, senza muoversi. Mi meritavo il suo terrore. Immaginavo a stento ciò che lei si aspettava che potessi fare. — Lily, sono io. Continuava a colpire l’acqua. — Sei al sicuro. La tua famiglia è al sicuro. Non vi farò del male. — Spinsi il kayak tra le alghe finché la prua non affondò nella sabbia e la mia coda strisciò sulle rocce. — Entra in casa, Lily, te ne prego. Non ti toccheranno. Non stasera. — E mio padre? — chiese affannata. Aveva il volto pallido come la luna. — Neanche lui. Non glielo permetterò. — E tu? — domandò. Fissai nervosamente l’acqua ormai placata. — Lily, se domattina non mi vedi arrivare, porta subito via la tua famiglia. 34 LA CACCIATA Per quanto lo volessi, non potevo restare al largo, in acqua, per tutta la notte. Dovevo tornare a Basswood e affrontare le mie sorelle. Il nostro incontro era diventato per me un esercizio di ripetizione: avevo provato tutta la scena nella mia testa, più e più volte prima di raggiungere l’isola. D’altronde, sapevo cosa avrebbero detto. Non ci sarebbe stato modo di ragionare con loro. Con un po’ di fortuna, ne sarei uscito senza ferite gravi. Tallulah era l’unica incognita in questa situazione. In qualsiasi altra circostanza, avrei potuto contare sul fatto che lei mi avrebbe difeso. Ma non comprendevo la sua reazione nei confronti di Lily. Certo, nessuno di noi le aveva mai voluto rivelare la nostra vera identità, ma per quanto ne sapeva Tallulah, la missione non era affatto completata. Perché abbandonare l’inseguimento di Jason Hancock per seguire Lily… Niente, non riuscivo proprio a capire. Possibile che non le interessasse più la vendetta? In tal caso, avrebbe appoggiato la mia decisione. Giunsi sull’isola da una direzione diversa. Vedevo il loro falò acceso e notai che qualcuno gettava pietre nel lago. Un approccio troppo diretto non sarebbe stato sinonimo di scuse. Raggiunsi l’isola dal punto più settentrionale, seguii la riva e mi fermai a una trentina di metri dal punto in cui erano sedute. Mi misi in piedi con le braccia protese verso di loro e i palmi rivolti verso l’alto. Non proferivo parola, aspettavo che fossero loro a notarmi. Fu Tallulah a voltarsi per prima, e mi accorsi che stava piangendo. Diede un colpetto a Maris. Lei e Pavati si girarono e mi guardarono. Nessuna parlò. Non capivo se stessero ancora deliberando o avessero già emesso un verdetto. Maris posò un braccio attorno a Tallulah, che le appoggiò la testa su una spalla. Si voltarono di nuovo tutte a fissare il fuoco. Le loro espressioni erano enigmatiche. Il silenzio, peggio di quanto avessi immaginato. Mi avvicinai a nuoto, le braccia ancora tese in avanti lungo lo specchio dell’acqua. Maris mi sputò addosso la sua ira sibilando tra i denti. Mi bloccai. — Maris — cominciai a dire. — Lasciami spiegare. — Per stasera hai già fatto abbastanza. Non abbiamo nient’altro da dirti. Farfugliai: — Mi… mi state cacciando? Finisce così? Non mi state nemmeno a sentire? — Non riesco a immaginare che cosa avresti da dire, Calder. Non puoi capire quanto io sia delusa, quanto lo siamo tutte. Un conto è abbandonarci per un lungo periodo tutti gli anni, sbatterci in faccia quanto poco tu tenga a noi. Ma tradirci, tradire nostra madre, questa è tutta un’altra storia. Credi che mi piaccia essere una tale arpia? Pensi che sia nata così? La mia unica speranza è che la morte di Hancock mi salvi da questo inferno. Ma tu, di noi due, hai scelto lui. E hai scelto sua figlia, anziché tua sorella. Stavo per chiederle cosa intendesse dire, quando Tallulah alzò lo sguardo su di me sgranando gli occhi, colmi di lacrime, il volto segnato dallo struggimento. Conoscevo quello sguardo. L’orrore mi attanagliò serpeggiandomi nella mente. L’avversione di Tallulah nei confronti di Lily, il suo attacco ingiustificato e improvviso… — Ma tu sei mia sorella — sbottai, ancora incredulo. — È immorale! Pavati fece un ghigno e ravvivò il fuoco. Un altro singhiozzo scosse la gola di Tallulah, e Maris balzò in piedi. Quanto più lei si avvicinava alla riva, tanto più io indietreggiavo. Si arrestò solo quando l’acqua cominciò a lambirle le dita. — Sta’ alla larga da noi, Calder. — Mi mostrò i denti e gridò: — Non credere che non ti ucciderò, se si dovesse arrivare a tanto. Mi tuffai all’indietro, la schiena inarcata, scomparendo nel buio del lago. Un’ora più tardi stavo ancora nuotando. Se avessi fatto caso alle pietre, alla sabbia e ai tronchi affondati, avrei capito che mi trovavo a quasi dieci chilometri a nord di Cornucopia. Riuscivo a orientarmi in questo lago senza mai dare uno sguardo ai punti di riferimento terreni. Ma per la verità, non mi importava dove fossi. Un banco di salmoni argentei cacciava aringhe intorno alla roccia su cui ero seduto sott’acqua. Mi coprii il volto con le mani e mi tuffai in profondità, dove loro non si sarebbero spinte. Ma il silenzio a venti metri sott’acqua cela i suoi tranelli; ero rimasto solo con i miei pensieri. Lo stomaco mi si contorceva in modo insopportabile, ora che conoscevo i sentimenti di Tallulah nei miei confronti. Non era vero amore. Per una sirena l’ossessione rappresenta l’emozione più prossima all’amore. A essere onesto, avevo sempre saputo che Tallulah provava per me più di quanto avrebbe dovuto. Ma le sue attenzioni erano l’unico affetto che avessi conosciuto dalla morte di mia madre. Cosa avrei dovuto farci ora, con questa informazione? Di certo, questa notte non avrei chiuso occhio. Avevo bisogno di parlare con qualcuno. Qualcuno che mi sapesse ben consigliare… Continuai a seguire la costa dell’isola di Madeline verso sud e captai le vibrazioni acute della fabbrica di carta di Ashland. La loro durata mi indicò quando tagliare per il passaggio tra Long Island e Chequamegon Point. Mi diressi verso Little Girl’s Point, quindi a nord, lungo il confine tra Wisconsin e Michigan, fino al relitto della J. P. Brodie. L’ultima volta che ero passato da queste parti era ancora presidente Reagan, ma tutto era rimasto pressoché immutato. Avvertii l’odore del vecchio legno di quercia e aggirai l’albero spezzato fin giù nello scafo. Era tale e quale a come lo ricordavo. Percorsi la murata di dritta fino al terzo oblò. Un sorriso, e vidi il volto emaciato di Joe che fluttuava dall’altra parte del vetro appannato. Forse non era il suo vero nome, ma io lo chiamavo così. Non era cambiato molto, dal nostro primo incontro. Joe e il suo equipaggio erano morti già da molti anni, ma l’acqua gelida li aveva preservati. La manica della sua giacca si era impigliata in qualcosa e la testa gli dondolava perennemente contro il vetro. Era bello vederlo di nuovo. Mi ascoltava sempre di buon grado, e nel corso degli anni gliene avevo raccontate di tutti i colori. Dopo la morte di mia madre, gli facevo spesso visita e fingevo che mi desse consigli paterni. Era d’aiuto, talvolta, quando mi sentivo molto giù. — Ehi, Joe — lo salutai, poggiando la spalla sulla parte esterna della nave. — Ti trovo bene, amico.— Per educazione attesi che mi rispondesse, poi immaginai il resto. — Dove sei stato, giovanotto? — mi chiese. — In giro. — Lontano dai guai, spero. Non vorrei ricevere brutte notizie. — Mmm — risposi ridendo alla sua battuta. — Cos’è che ti preoccupa? Mi passai le dita tra i capelli. — Si vede così tanto che sono preoccupato? — Le tue sorelle ti creano ancora problemi? Annuii e premetti le mani sul vetro dell’oblò. — Va così male? — Va così male. — Fammi indovinare: non hai fatto vincere Tallulah in una gara di velocità? Hai infilato di nuovo un millefoglio palustra tra i capelli di Pavati? — No. — Serpentaria? — Non sono più un bambino, Joe. — Va bene, va bene. Senti, tu e le tue sorelle farete sempre a capocciate. Immagino sia una cosa naturale. — Non replicai in alcun modo, così Joe finì per chiedere a bruciapelo: — Cos’hai combinato questa volta? — Mi sono messo fra loro e Jason Hancock. Joe rise di gusto. — Cavoli, ragazzo. Non avevo capito che Maris l’avesse trovato. Cos’è, un istinto suicida, il tuo? — Qualcosa del genere. Un lungo silenzio innaturale si frappose tra noi, mentre lui aspettava che io aggiungessi altro e io attendevo da lui un saggio consiglio. Joe parlò per primo. — Be’, sono certo che avessi le tue ragioni. Rotolai sulla spalla, distendendo la schiena sullo scafo. — M-mmm. — E questa ragione… dev’essere stata molto bella. — Molto. — Un’amabile conversatrice? Sorrisi e annuii. — E allora perché diavolo te ne stai qui a parlare con me, figliolo? Mi voltai di nuovo per guardarlo in faccia e con la mano diedi un colpo sul lato dello scafo, come a dire: — Grazie, papà. — Il mio posto era accanto a Lily. Le avevo promesso di proteggerla. E avrei mantenuto questa promessa, che lei lo volesse o meno. Il mio corpo scattò guizzando verso la superficie, con una scia di bollicine bianche che mi seguiva. Tirai dritto a ovest e circumnavigai la grande isola, diretto al salice che mi era ormai così famigliare. Da lì avrei vegliato e aspettato. 35 L’AMACA Quando giunsi al pontile degli Hancock, indugiai appena fuori dal raggio dei riflettori. La porta principale si aprì, lasciando trapelare un piccolo squarcio di luce sul giardino anteriore. Trattenni il fiato. Era Lily. Certo che era Lily. Sicuramente mi stava cercando. Indossava una camicia da notte. La luce dalla casa illuminava il tessuto, attraversandolo fino a rivelare le curve delle sue gambe. Percorse il portico in punta di piedi e scese i gradini con una torcia in una mano, premendo qualcosa contro il petto con l’altra. La batteria della torcia era quasi scarica e il fascio di luce non copriva più di un metro. Mi incamminai verso il pontile. Lentamente. Se si stava avvicinando all’acqua era un buon segno, ma non ero ancora sicuro di cosa avrebbe detto. Aver fatto ammenda dei miei peccati salvando Hancock non importava, ero certo che la sua collera superasse qualsiasi cosa. — Calder — sussurrò, la voce trasportata sulla superficie dell’acqua. — Sono qui — bisbigliai in risposta, preparandomi a ciò che stava per accadere. Sospirò e si stese sul pontile, allungando la mano nell’acqua verso di me. Nuotai in avanti, a tentoni, e lei mi afferrò le mani. Mi trasse a sé. Quando con il petto toccai il bordo del pontile, vidi ciò che si era portata appresso. I miei vestiti nuovi erano piegati e ordinati accanto a lei. Quanto tempo ci aveva messo per trovarli nel buio? — Sei ferito? — No — risposi. — Non ancora, comunque. — Avevo una paura matta che ti avessero fatto del male. In che guaio ti sei andato a cacciare? — Guaio non è che un eufemismo. Mi baciò e intrecciò le dita ai miei capelli. — Mi dispiace. Non avrei mai dovuto dubitare di te. Le sue scuse. Facevano più male del suo perdono, e non meritavo né l’uno né le altre. Per cosa doveva scusarsi poi? Era una punizione peggiore della sua rabbia. Scossi la testa e mi allontanai. — Ti ho raccontato di aver pianificato di uccidere tuo padre, Lily. Hai reagito com’era giusto che fosse. Mi afferrò per la vita, traendomi più vicino a sé, stringendomi le braccia al collo. — Mi dispiace lo stesso. — Ti prego, non dire così. Mi baciò un’altra volta, posandomi una mano sulla guancia, accarezzandomi il labbro inferiore con il pollice. — Cosa ti succederà adesso? — Non lo so. — Già immaginavo Maris che complottava ai miei danni, camminando su e giù per la spiaggia. — Mi hanno cacciato, messo al bando. — Lo dici come se fosse una cosa brutta — sussurrò con gli occhi fissi sulle mie labbra. — Pensavo che volessi liberarti di loro. Mi scappò quasi da ridere. — Libero, non direi. Sarò anche stato espulso, ma continuo a essere legato a loro mentalmente, e Maris non mi renderà mai la mia libertà, adesso. Anzi, è persino peggio, perché non avrò più il vantaggio di conoscere la loro prossima mossa. Se attaccheranno di nuovo, non sarò in grado di bloccarle. Lily scosse la testa. — Tu sei forte. — Anche loro. E sono in tre. — Nemmeno Tallulah sta dalla tua parte? Il nome di Tallulah sulle labbra di Lily era come l’imprecazione di un angelo. Feci un verso di disgusto che lei non capì. Non avevo la minima intenzione di spiegarle gli ultimi sviluppi. — Dobbiamo tenere tuo padre lontano dall’acqua, Lily. — Non si avvicina mai al lago. Be’, a parte oggi. Ma non credo che dobbiamo preoccuparci. Sta davanti al computer adesso, a pubblicare l’annuncio “Vendesi barca”. Mi immersi nell’acqua, per poi risalire. — Non sottovalutare le mie sorelle, Lily. Nessuno pianifica mai di andare da loro, eppure sono in tanti a farlo. — Non credi mica che si presenteranno a casa nostra, vero? — Non devi preoccuparti di questo. Un omicidio è onorevole solo in acqua. — Onorevole? Mi scappò una breve risata. — Già, un tempo questa cosa aveva senso per me. Immagino che tu non voglia raccontare tutta la verità a tuo padre? — E dirgli che il nonno aveva intenzione di sacrificarlo? Non penso proprio. — Lo immaginavo. Perciò, ecco cosa possiamo fare. Io porterò al largo le vostre barche e le affonderò. È il modo più facile per tenere tuo padre lontano dall’acqua. Ma devi convincerlo che stare così vicino al lago, rischiare di perdere Sophie, è uno stress insostenibile per tua madre. Le nuoce alla salute. Devi convincerlo. Dovete andarvene, Lily. Sembrava spaventata. — E se accetta? — disse stringendomi più forte le mani. — Io starò un passo dietro di voi. Fece una pausa, valutando le mie richieste. Poi si alzò in piedi. — Esci fuori. Vestiti. Incontriamoci vicino all’amaca. Qui si gela. — Tornò di corsa verso casa, i capelli fluenti sulla schiena. Qualche minuto dopo, Lily strisciò sull’amaca accanto a me e coprì entrambi con una coperta di lana. L’amaca dondolò e noi ondeggiavamo sotto gli alberi. Alzai lo sguardo al cielo. Con il dito, Lily mi disegnava piccoli cerchi concentrici sul petto. — Perché lo hai fatto, Calder? Perché lo hai salvato? — Che altro potevo fare? — Tenevo la voce bassa. — Avevi programmato di ucciderlo, prima. — Già. Smise di disegnare cerchi e stese la mano. Il calore delle sue dita mi riempì la pelle. — Ho capito che ucciderlo avrebbe significato uccidere te. E questo avrebbe di conseguenza ucciso anche me. — In senso metaforico — commentò Lily. — Non ne sono così certo. — Quindi, questo è tutto? — domandò. Non replicai immediatamente, cercando di capire quale risposta si aspettasse. — Cos’altro dovrebbe esserci? Non rispose. — Adesso sei tu che devi dire qualcosa a m e — esordii, sollevandole il mento con un dito. — Cosa vuoi sapere? — Com’è possibile che tu stia qui con me? Senza pensare a quello che ho fatto la scorsa notte. Come puoi perdonarmi? — Mi piace vederla dal punto di vista opposto. Attesi una spiegazione. — Cosa sarebbe accaduto se non ti avessi perdonato? — mi chiese. — Magari la tua famiglia sarebbe andata a nascondersi. Io avrei fatto l’impossibile per sabotare i tentativi delle mie sorelle di venirvi a cercare ancora. — Ve ne sareste andati? — Certamente — risposi con leggerezza, senza pensare agli aspetti pratici, e mi arrotolai una ciocca dei suoi capelli attorno al dito. — È impossibile crederlo, ma non è proprio quello che intendevo io. — Ti ascolto. — Pensa alle tue sorelle, Calder. Sono creature spietate e infelici, che ora se la prendono con te. Hanno trascorso mezzo secolo con l’ossessione di uccidere. Voglio davvero condannarmi a quel tipo di carcere? La capivo. Non mi ero forse sempre sentito incatenato a loro? — Ma come posso riuscirci, Lily? Da dove dovrei partire? — Dal perdono? Io non ho altra scelta. O almeno, nessuna valida alternativa. — Non sono sicuro di poterle perdonare per quello che hanno cercato di fare ieri notte, a tuo padre, a Sophie, ma soprattutto a te. — Il perdono non è solo per loro, Calder. È per te. Il perdono è libertà. Qualcosa che fai per te stesso, per mantenere integro ciò che sei. Ora che ci penso, in un certo senso, è una forma di egoismo. Serrai la stretta delle mie dita attorno alle sue spalle e le tirai la coperta fin sotto il mento. Il cielo doveva essere terso perché le stelle brillavano di una luce insolita. Immaginai che, dalla loro posizione privilegiata, potessero vedere l’alba che si stava avvicinando. Questo mi spinse a riflettere. Era meglio vedere la propria morte avvicinarsi o essere colti di sorpresa? — Guarda le stelle, Lily. — Preferisco guardare te — mi sussurrò in risposta. — Puoi farlo anche dopo. Sollevò il capo di un paio di centimetri appena e il suo sguardo arse nel mio. I capelli le caddero in morbidi riccioli sulla mia spalla. — Posso davvero, Calder? Credevo che stessi cercando di liberarti di me. Aggrottai le sopracciglia in un’espressione corrucciata. — Perché dici questo? — Dovete andarvene, Lily. — Ripeté quello che avevo detto prima, vicino al pontile, imitando la mia voce. Rilassai i muscoli del volto. — Ho aggiunto che sarei stato un passo dietro di voi. — Parole, parole — borbottò, posandomi nuovamente la testa sulla spalla. Allungai la mano destra e le girai delicatamente il mento perché potesse osservare il cielo. — Vedi le stelle, Lily? Sospirò, arrendendosi. — Certo. — Secondo te possono vedere il sole che arriva? — Non lo so. Può darsi. — Pensi che lo temano? — Sono masse di gas incandescente, Calder. — Ma dai, dov’è finita la poetessa che era in te? Fece un sospiro, e io avvertii il suo sorriso. — Capisco. Be’, in tal caso, sì. Sono finalmente giunte a casa. Trionfanti nel loro regno di mezzanotte. Ma il nemico si avvicina. Loro sono tante, ma l’avversario è più grande, più forte e si porta alle spalle una storia di vittorie fin dall’alba dei tempi. Sì, sono decisamente terrorizzate. Annuii. Lily aveva capito la mia analogia. — Ma loro non scappano, Calder. Mi si bloccò il respiro in gola. — Io resterei su quest’amaca con te, circondati da nient’altro se non la felicità, rischiando di cadere in un’imboscata, anziché scappare. Scossi la testa. — Se resto sul lago, sarò come le stelle che vedono arrivare il sole. Potrei sentirle, potrei avvisarvi e voi potreste scappare. — Avevo omesso di dire che, se non avessi assunto le mie sembianze umane, adesso non sarei stato qui con lei. E non volevo trovarmi in nessun altro posto. Lily si stese sul fianco, il braccio sinistro appoggiato sul mio petto, il ginocchio sinistro piegato sopra di me, come se fosse lei a proteggermi da ciò che stava per succedere. Il mio braccio le faceva da cuscino, e lei mi premeva il naso contro il collo. — Come ti senti, Calder? — Felice. Il suo respiro mi scaldò la pelle. Disse: — Anch’io. Lo sai cosa vuol dire, vero? Sì. Lo sapevo. Lo sapevo già da tempo. Sin da quando avevo visto quei ragazzi del college morti sulla spiaggia e non avevo avvertito l’impulso di andare a caccia. — Non sei più come loro. — Ma non sono neanche come te — la corressi. Mi strinse più forte. — Vero. Sei migliore. La guardai, sorpreso. — Va bene, sono un tesoro. Mi chiedo cosa ne penserebbe tuo padre se ti vedesse accoccolata a un mostro marino. — Mi meravigliai di come riuscissi a pensare a Jason Hancock, anche solo a pronunciare il suo nome, senza il minimo rancore. — Mi fai venire in mente — disse — un’altra cosa che ho letto e che potrebbe interessarti. — Non un’altra poesia, spero! — Non esattamente. Un brano della Bibbia. Mi girai a guardarla in faccia. — Ora sì che sono interessato. Non sapevo che fossi credente. — Oh. Hai solo cominciato a grattare la superficie.— Si schiarì la voce. — L’ho imparato a memoria. Sei pronto? — Attacca pure — risposi. — Stupiscimi. — Poi disse Iddio: “Brulichino le acque di una moltitudine di esseri viventi.” Così Iddio creò i grandi animali acquatici e tutti gli esseri viventi che si muovono e di cui brulicano le acque, secondo la loro specie. Ed egli vide che ciò era buono. — Be’, chi sono io per mettermi a discutere con Dio? — Esatto. — Le sue labbra trovarono le mie. Sollevò il mento, e con la bocca le scivolai lungo la gola, fino alla clavicola e sulle spalle. Il suo profumo si mescolava a quello dello shampoo e ai vestiti freschi di bucato. Nulla poteva essere più giusto di così. Il calore, per la prima volta da settimane, mi avvolse. Tanto calore. L’acqua non poteva intaccarlo. Nessuno poteva cambiarlo. O forse una persona poteva. Se Lily avesse seguito il mio consiglio e se ne fosse andata, il freddo mi avrebbe pervaso di nuovo come il mare che si infiltra in una nave che affonda. Prima magari non ero felice della vita che avevo, ma almeno la accettavo così com’era. A questo punto, non potevo più tornare indietro. Indugiavo sui particolari, desideravo riavvolgere il tempo e ripetere tutto dall’inizio, oppure correre fino alla prossima occasione in cui sarei stato con lei. Lily si era rannicchiata sul mio petto. La testa le ricadde pesante sulla mia spalla. Gli occhi chiusi. — Ti amo — sussurrai, baciandole la fronte. Non mi rispose. — Lily? Dormiva in una pace assoluta, che non avevo mai visto su nessuno. Un contrasto stridente con il sonno inquieto delle mie sorelle. Mi chiedevo se questa pace derivasse dal perdono. Dietro di noi, la casa degli Hancock si stagliava silenziosa e invisibile tra gli alberi scuri. Sotto di noi, l’amaca ci cullava. Il peso del braccio di Lily sul mio petto era rassicurante. Mi sentivo al contempo esausto ed euforico. Avrei fatto di tutto per preservare questa sensazione, ma osai chiudere gli occhi e fui sopraffatto dal sonno. 36 PROMESSA MANTENUTA Non saprei dire quanto avessi dormito. Forse un’ora. Forse solo un minuto. Quando riaprii gli occhi era ancora buio, ma gli uccelli avevano smesso di cantare. Un pesce spuntò dall’acqua con un piccolo plif. Il vento increspava le fronde degli alberi. Qualcosa di più grande salì in superficie, non lontano dalla riva. Ero sorpreso e allo stesso tempo disgustato per essermi concesso di sperare. Qualcuno scattò verso la sponda, con le braccia allungate sull’acqua e i palmi verso l’alto, in un gesto di pace. Forse Tallulah era venuta a darmi qualche spiegazione, sebbene non riuscissi a immaginare cosa avesse da dire. Ma scorsi gli occhi grandi ed esotici di Pavati luccicare nell’oscurità. Mi districai dal gioioso intreccio di braccia e gambe che eravamo diventati io e Lily. L’amaca si inclinò quando rotolai giù, ma riavvolsi la coperta prima che lei si accorgesse della mia assenza. Mormorò teneramente mentre io avanzavo verso il lago, i sensi tesi, pronti a riconoscere qualunque segnale di agguato. — Pavati — la salutai quando infine si arrestò a qualche metro da me. — Pace, Calder. — Lo disse con una voce che però suonava stranamente ansiosa. — Vieni a nome di Maris o di Tallulah? Era a disagio e rispose rapidamente: — Tallulah aveva una confessione da fare. Non sta a me parlare al suo posto. Né prima, né ora. Feci una pausa per analizzare la sua espressione ansiosa. — Come farò a guardarla ancora in faccia? — Ascolta — cominciò a dire, guardandosi alle spalle. — Non sono qui per parlare di lei. — Dimmi quello che hai da dire, allora. — Maris ha preso in mano la storia di Hancock. D’istinto, gettai uno sguardo alla casa. — Ha preso la ragazzina. Ha deciso di accettare una figlia al posto del padre. — Stai mentendo — ribattei. Ma nonostante l’accusa, non riuscivo a smettere di sentire il suono di Sophie che si voltava nel letto, un piccolo sbuffo, un mormorio. Non coglievo null’altro, voleva forse dire che Pavati stava dicendo la verità? La casa non era più silenziosa di prima. Di certo non avrei permesso che Maris rapisse Sophie proprio sotto il mio naso. Ma era possibile? Oh, Dio… — Perché dovrebbe farlo? — chiesi. Il sole spuntò all’orizzonte alle spalle di Pavati, mettendole il viso in ombra. — Ti prego — ribatté. — Non c’è tempo per le spiegazioni. — Non sono mica stupido. Questo è solo un trucco per allontanarmi da Hancock. Immagino tu non abbia niente in contrario se vado dentro a controllare… — Guardami, Cal. Si avvicinò ancora, potevo vedere di nuovo il suo volto. Il mio cuore si riempì di compassione. Per lei. Per me. Non saprei dirlo. Non saprei dire nemmeno se l’idea partisse da me. Sentivo la testa leggera, distante. Le gambe mi tremavano per l’indecisione. Pavati allungò le braccia davanti a me, e nei suoi occhi lessi solo verità e panico. — L’ha rapita veramente? — chiesi. Pavati indicò a nord, implorandomi di seguirla. — Come faccio a sapere che non attaccherete Hancock? — le domandai. — Io e Maris abbiamo litigato. — Si sollevò abbastanza perché potessi notare le lunghe escoriazioni rosse sul collo e sulle spalle. — Sapeva che avevo una specie di debole per quella ragazzina. Questo è il modo in cui Maris mi ha punita per averle dato torto. Ti prego. Ti prometto che nessuno toccherà il padre — mi assicurò con voce più serena e calma di prima. — E poi, io verrò con te. L’ha portata a Basswood, e lì fa troppo freddo per la bambina. Per quanto ne so, potrebbe essere già morta. Un grido dall’accampamento delle mie sorelle squarciò le acque fino al mio orecchio. Gli occhi di Pavati dardeggiarono; il terrore dipinto sul suo volto era autentico. — Siamo in ritardo? — chiese. Mi strappai i vestiti di dosso e scattai nel lago, lasciando Lily sola sull’amaca. Dopo essermi trasformato, perlustrai la mente di Pavati in cerca di segnali di inganno. Malgrado i suoi pensieri fossero sparpagliati e smozzicati, non riuscivo a trovare nessuna contraddizione. Non avevo altra scelta se non aggrapparmi alla promessa che non poteva essere infranta: Nessuno toccherà il padre. E sperare che non fosse troppo tardi. Saettai nell’acqua. Pavati mi seguiva a distanza, con il corpo che si piegava e si inarcava lottando contro le onde, mentre le urla di Sophie fendevano l’acqua. Nella mente tentavo di stipulare i termini per una tregua, o persino per uno scambio. A quale compromesso potevamo giungere? Cosa avevo da offrirle? Come avrei potuto convincere Maris a risparmiare la piccola? Sarebbe stato contro natura per lei lasciar andare ciò che reclamava dalla famiglia Hancock. D’altronde, io mi ero ribellato alla nostra natura. Potevano trovare anche loro la stessa pace? E quale ruolo aveva Tallulah in tutto questo? Come sarebbe riuscita Maris a giustificarla? Avvicinandomi alla spiaggia, ero felice di non sentire i pensieri di Maris, evidentemente lei era ancora sulla terraferma. Forse con Sophie. Viva. Mi voltai a consultarmi con Pavati, ma lei era già sbucata in superficie. La seguii e appena tirai la testa fuori dall’acqua la sentii dire: — Eccolo, Maris. Ora dammi la bambina. Dietro di me, Maris disse: — Con piacere. Questa non vale i problemi che crea. — E aggiunse: — Tallulah, tocca a te. Mi girai appena in tempo per vedere Maris che sollevava una pietra sopra la sua testa, prima di farla ricadere su di me. 37 REPLAY Quando ripresi conoscenza, mi ritrovai intrappolato in una rete da pesca, sott’acqua, con i polsi legati e il viso affondato nella sabbia. Pavati e Tallulah se n’erano andate, ma riuscivo a sentire Maris che, galleggiando nelle vicinanze, mi teneva d’occhio. Girai la testa per quanto la vecchia rete me lo consentisse. — Fermo, fermo! — esclamò Maris con finta preoccupazione. — Come va, fratellino? Mi pulsava l’occhio e, da quanto mi sembrava di ricordare, il naso non era mai stato piegato a destra. Mi contorsi per riuscire a vedere meglio. — Che diamine di problema hai, Maris? Dov’è Sophie? La mia domanda la lasciò di stucco. I capelli le fluttuavano come un’aureola bianca intorno alla testa. — Fai sul serio? È questo che vuoi sapere? Pavati l’ha riportata a casa. Non si è fatto male nessuno. Mi dimenai, urlando con una furia incontrollata in cerca di un varco nella rete. — Tutto qui? — chiesi a denti stretti. E poi ricordai le parole di Pavati, ore prima, la promessa che nessuno avrebbe toccato Hancock, mentre mi raccontava che Maris aveva accettato di prendersi una figlia al posto suo. La verità mi piombò addosso, e mi calmai. Nessuno avrebbe toccato Jason Hancock e Sophie era salva. Ma Maris aveva accettato una figlia al posto del padre, e io mi ero fatto ingannare. Peggio, non avevo idea di quanto tempo fossi rimasto incosciente, né sapevo se avessi ancora tempo per rimediare al mio errore. Mi impegnai per recuperare le immagini perdute attraverso la mente di Maris. I miei sforzi erano vani: lei era troppo tenace. Si infiltrò nella mia mente come un verme parassita, fino a mostrarmi con chiarezza il viso di Lily. Avrei percepito ogni particolare. Era questa la punizione che Maris aveva architettato per me: guardare da lontano, testimone muto della distruzione di Lily e, di conseguenza, della mia stessa fine. — Guarda cosa ti sei perso — disse Maris. — Guarda. Con questa parola Maris riempì la mia testa di tutto ciò che mi ero perso mentre ero privo di sensi. Aveva trasformato la mia mente in uno schermo dove proiettava immagini terrificanti e voci familiari, che non avrei voluto sentire. Tallulah nuotava avanti e indietro lungo la riva. Un tuono in lontananza svegliò Lily dal suo sonno. Si mise a sedere e si guardò intorno. Disorientata. — Calder — bisbigliò Lily. Rotolò giù dall’amaca e in punta di piedi si avvicinò all’acqua. Dalla prigionia della rete, strillai: — Sta’ indietro! — Ma era come strillare a un attore al cinema. La scena era già stata girata. Non sapevo ancora quanto tempo prima. Non c’era nulla che potessi fare per cambiare il passato. Il sortilegio delle proiezioni di Maris continuava, e non potevo sviare lo sguardo: Lily non scorse quel volto pallido e appassionato, i capelli dorati nascosti dall’ombra degli alberi sporgenti. Si morse un labbro mentre faceva qualche passo prudente. — Calder — bisbigliò di nuovo, stavolta più confusa di prima. — Calder, sei lì? Ancora nessuna risposta. Si strinse nella coperta, il volto contratto per la preoccupazione, quando mise piede sul pontile. Giunta all’estremità opposta, scrutò il lago in direzione di Basswood. Maris si studiò la punta dei capelli, poi sollevò lo sguardo mentre cercavo di districarmi dalla mia trappola. — Punizione appropriata, non trovi? — disse con voce sdolcinata. — Chi se lo immaginava che Tallulah diventasse tanto perfida, una volta respinta? Rifiutavo di crederlo, ma ero convinto che Maris ricordasse il modo in cui Tallulah si comportava con le sue prede. Lily sussultò. — Cavoli, Calder, mi hai spaventato. — Non sono Calder. Indietreggiando, Lily inciampò nell’orlo della coperta. Tallulah sorrise e tese le braccia avanti. — Non sono qui per farti del male. — È un altro trucco! — urlai. Le spaventose vibrazioni della risata di Maris scavarono solchi profondi nella sabbia. — Aspetta — disse. — Adesso arriva il meglio. — Cosa vuoi? — La voce di Lily era esile e gelida. — Lui dov’è? — Se n’è andato — rispose Tallulah, in tono suadente. — Ti stava solo usando. Devi averlo notato nei suoi occhi, no? Le tracce dell’inganno? Lily scosse la testa. — Non crederle! — continuai a urlare. Detestavo che la mia agonia fosse uno spasso per Maris, ma non riuscivo a contenere le mie suppliche. — In fondo capisco perché l’ha tirata tanto per le lunghe — continuò Tallulah. — Sei davvero bella. Non me n’ero mai accorta. In effetti, a Calder piacciono le cose belle. Almeno per un po’. Guardavo Lily, si aggiustava la coperta stringendola al corpo. Il vento le scompigliava i capelli, che svolazzavano in ciuffi selvaggi, rendendo l’immagine romantica e tragica al tempo stesso. — Oh, che bella mossa, no? — disse Maris. — Quella che ha fatto con la coperta. L’hai notata? — Ma ultimamente la vita non è così bella, vero? — aggiunse Tallulah. — Noi non possiamo dimenticare. È la nostra natura a impedircelo. Lily arretrò di un altro passo, e un filo di speranza si riaccese nel mio cuore distrutto. — Ferma — le ordinò Tallulah. Lily si fermò. Le spalle si contrassero, come se volesse scappare ma i piedi fossero ancorati al terreno. — Sono qui per metterti in guardia — proseguì Tallulah. — E come ti ho già detto, non sono venuta per farti del male. — Mettermi in guardia? — Sono certa che Calder ti ha raccontato che eravamo in cerca di tuo padre. Credi davvero che, dopo tutto questo tempo, ora che lo abbiamo a portata di mano, ce ne andremo senza alzare un dito? Mi sembri una ragazza intelligente. Una ragazza coraggiosa. Come pensi che andrà a finire? Di sicuro te lo puoi immaginare. — Per favore — implorò Lily. — Ve ne prego, lasciateci in pace. Maris mi diede un piccolo calcio facendomi rotolare su un fianco, come se fossi un ceppo di legno. — Sentito come implorava? — Quasi sbottò a ridere. — Una caratteristica di famiglia, mi pare di capire. Lily serrò i denti. — Calder non mi ha mentito. Mi ha raccontato tutto. Il boato di un tuono quasi soffocò le parole di Tallulah: — Allora sai cosa ci è stato promesso. La voce di Lily era un sussurro. — Mia madre è malata. Abbiamo bisogno di mio padre. Lui non c’entra niente. Maris e Tallulah le risposero all’unisono. Il “no” di Maris era arrabbiato, mentre il “no” di Tallulah aveva il tono di chi stava prendendo in considerazione il discorso di Lily. — Hai ragione. Non c’entra niente. Secondo Calder tuo padre non è il debitore, ma solo una garanzia collaterale. Vedi, però… Si tratta di una distinzione che non fa differenza. Alla fine dei conti, dobbiamo prendere lui. — Garanzia collaterale? — Gli occhi di Lily scrutarono l’acqua, come se la soluzione si trovasse da qualche parte sotto le onde. — Piantala di cercarlo — urlò Tallulah, abbandonando la voce vellutata per lasciare spazio al suo odio. — Che ne dici di me? — le domandò Lily. — In che senso? — Le labbra di Tallulah si contrassero. Maris ridacchiò, poi mormorò qualcosa tra sé e sé, mentre la paura si insinuava nel mio stomaco, che si contorceva e aggrovigliava. — E se prendessi me? — chiese Lily. — Al posto di mio padre. Sul volto di Tallulah sbucò un sorriso. — Sei una ragazza perspicace. Vieni in fondo al pontile e ti prometto che rinunceremo a tuo padre. Calder deve avertelo detto che non possiamo infrangere una promessa. Puoi credermi, su questo. — Non qui. Non dove i miei genitori possono vedermi. L’espressione di Tallulah tornò spietata, e l’acqua vorticò mentre lei muoveva la coda. — C’è uno scoglio, qui vicino, verso nord — disse Lily. — Sporge sul lago di circa tre metri dalla superficie. — Lo conosco. — Sarò lì. — Non aspetterò molto, Lily Hancock. — Non ci metterò molto. — Be’, sai com’è — disse Tallulah, a questo punto apparentemente annoiata. — Da quanto ne so io, gli Hancock non hanno la fama di chi sa mantenere le promesse.— Stavolta è diverso — dichiarò Lily. Un fulmine attraversò il cielo, squarciandolo come un piatto rotto. — No! — urlai quando la promessa di Lily riecheggiò nella memoria di Maris. Ma sapevo che le mie suppliche erano vane, e un senso di nausea stomaco. mi gorgogliò nello 38 IL SACRIFICIO Meno di un’ora dopo essermi trovato intrappolato nella rete, le prime gocce di pioggia cominciarono a martellare la superficie dell’acqua. Lo spettacolo di Maris era finito. Mentre io e lei attendevamo che la storia continuasse in tempo reale, Tallulah aspettava Lily sulla scogliera. Persino a questa distanza, riuscivo a sentire che la pazienza di Tallulah si stava esaurendo. Maris si avvicinò. Girò per due volte attorno alla rete e avvinghiò il suo corpo al mio, arricciandomi i capelli con un dito. Non avevo mai smesso di provare a liberare le mani e alla fine ero ricorso ai denti sull’intreccio di corde annodate. — Sii paziente — consigliò Maris, materna e tranquillizzante. — Non c’è bisogno di sprecare così tanta energia. Presto sarà tutto finito. — Posò la mano su uno dei pali che assicuravano la rete alla sabbia. Per un istante pensai che volesse liberarmi, e il mio corpo si abbandonò esausto. — Perché, Maris? Dimmi solo perché. — Due piccioni… — rispose accerchiandomi di nuovo, fino a ritrovarci faccia a faccia — con una fava. Devo chiudere il capitolo Hancock nella mia vita, e Tallulah per qualche strana ragione vuole te nella sua. Facciamo fuori la ragazza e portiamo a termine entrambe le missioni. Ora, mi spiace lasciarti così. — Schioccò la lingua. — Capisco che devi stare proprio scomodo. Ma purtroppo devo andare. Nella remota possibilità che la ragazza mantenga la promessa, sarà già in arrivo. Tallulah dovrà uscire in superficie e voglio assicurarmi che tu non ti perda neanche un dettaglio. Resta in ascolto, fratellino. Che evento mozzafiato. — Rise del suo stesso gioco perverso e guizzò via come il serpente che era. Se mai avessi sperato di convincere Maris a lasciarmi andare, questa speranza, insieme alla possibilità di salvare Lily, era svanita. Lottando per liberarmi avevo smosso uno dei pali ma ancora molti mi tenevano saldo alla sabbia. Non c’era tempo. Maris era quasi giunta alla scogliera e, attraverso l’occhio della sua mente, riuscivo a distinguere Lily che spuntava tra i pini. L’odio di Maris ne distorceva il volto, rendendola quasi irriconoscibile. Ma sapevo che era lei, perché aveva indossato il vestito in stile Dama di Shalott. Quella poetica ironia mi era insopportabile. — Lily, no! — gridai quando Maris spostò la scena dalla preda al predatore. Lo sguardo di Tallulah ardeva di fervore, l’oggetto del suo desiderio ormai vicino. Con mio disgusto, Maris gridò: — Azione! Esitando una manciata di secondi accanto a una betulla, Lily mosse i primi passi giù per il terrapieno in erosione, fino allo scoglio. Apparentemente sapeva che Tallulah era lì, ma non la cercò con lo sguardo. Scrutò invece l’immensa massa d’acqua che la separava da Basswood. La mia pena aumentò quando compresi che cercava me. Se pensava che sarei andato a salvarla, avrei tradito le sue speranze. Anche se fossi riuscito a liberarmi, sapevo che anche Maris avrebbe attaccato. Lily serrò le labbra e volse lo sguardo al cielo. La pioggia scrosciava più forte, inzuppandole il vestito e incollandole i capelli al viso. Sul lago non si vedeva neanche una barca a vela. Sapeva che nessuno l’avrebbe notata mentre si immergeva. Procedeva a passi saldi e controllati sulla roccia. Solo una volta i suoi piedi nudi si storsero sulla superficie irregolare del masso. In pochi secondi raggiunse il bordo e arricciò le dita dei piedi sulla scogliera. Tallulah annuì e si avvicinò. — Che teatralità — disse Tallulah. — Appropriato. Pensavo che ti saresti semplicemente tuffata. — Ci ho pensato — rispose Lily, lo sguardo fisso oltre la testa di Tallulah. — Avevo pensato di immergermi come le ragazze indiane Passamaquoddy. Ma… Completai io il suo pensiero. Quel salto da una roccia stuzzicava il suo lato poetico. Ma non solo: sperava che io sapessi dove andare a cercarla. — Calder non verrà a salvarti — chiarì Tallulah. — Non lo farà o non può farlo? — Non fa differenza. Per la prima volta, Lily abbassò lo sguardo e fissò Tallulah. Non avevo mai visto una tale ferocia negli occhi di Lily e per un momento mi domandai se Tallulah avesse trovato pane per i suoi denti. Ma poi l’equilibrio di Lily venne meno, e lei vacillò. Riuscì a non cadere e irrigidì le gambe, per lottare contro qualsiasi dubbio. Un secondo dopo, notai che la sua mente si era svuotata. Non pensava più al salto dalla roccia, né a ciò che stava per abbandonare. I muscoli della mascella si serrarono. — È finita, Calder — sancì Maris dal suo punto di osservazione; la sua voce una combinazione di incredulità e gioia. Mi dimenavo contro la rete ma non riuscivo a liberarmi dai nodi che mi tranciavano la carne. Agitandomi e contorcendomi, lottavo contro la rete, che mi scorticava la pelle, disperdendo squame nell’acqua come una poggia di monetine. — Non farlo! — gridai. — Non ho scelta — ribatté Lily, rispondendo però ai suoi stessi pensieri. — No, in effetti — replicò Tallulah — non ne hai. — Invece sì — sussurrai. — Esiste sempre un’alternativa. — Vieni da me — disse Tallulah con voce seducente. — Se lo farò, risparmierete mio padre? — chiese Lily. — Lo giuro — dichiarò Tallulah. — E lascerete libero Calder? — Se lui lo desidera ancora. Con un rantolo, Lily sporse il piede dallo scoglio con la stessa facilità con cui si varca la soglia di una porta. Mentre precipitava, i capelli fluivano verso l’alto. Le braccia si tesero accanto alle orecchie, le dita dei piedi affusolate. Trafisse l’acqua come un dardo, e il lago nero la inghiottì. Tallulah si tuffò, mentre io osservavo Lily con gli occhi delle mie sorelle. Una miriade di particelle morbide galleggiò come un sistema solare sottomarino, mentre Maris incombeva tra le alghe e Tallulah contava i secondi prima che Lily restasse senza fiato. La desolazione della mente di Tallulah mi invase il cuore. Mai come ora capivo quanto fosse caduta in basso, quanto il mio rifiuto l’avesse prosciugata di ogni emozione. Lei era vuota e Lily aveva promesso di riempirla oltre ogni misura. Nessuno di noi aveva mai assistito alla morte di un martire. Lily proiettava colori mai visti. Magnetici. Gloriosi. Sublimi. Inebriavano me, ammaliavano Tallulah e attiravano Maris fuori dal suo nascondiglio. Tallulah avvertì che Maris voleva impadronirsi della sua preda, e le riservò un ruggito selvaggio. — Vattene via! — gridò. — La finisco io, la ragazza. Un sibilo attraversò il petto di Maris. Tallulah mostrò i denti e si scagliò verso Lily, rapida ed elegante, come i viscidi serpenti delle leggende. Insieme risalirono in superficie e Lily prese aria, prima che Tallulah scattasse e la tirasse di nuovo in profondità, in una spirale di morte. — Stai guardando, Calder? — disse Maris rabbiosa, sgattaiolando di nuovo nella flora lacustre, con la mente che ribolliva per la gelosia, mentre Tallulah si avvinghiava al petto della splendente Lily. — Questo è quello che succede quando tradisci la tua famiglia. Trascorse un altro secondo, e Lily era ormai morta. La mente di Maris schizzò nel futuro, in quello che lei immaginava come l’affettuoso ricongiungimento tra me e Tallulah. Lei non aveva intenzione di restare nei paraggi e assistere a quel momento. Portato a termine il sacrificio di Lily, non aveva più alcuna ragione per restare. E poi, osservare Tallulah le aveva scatenato l’appetito. Partì in cerca di Pavati. Le vibrazioni della ritirata di Maris arrivarono fino alla mia prigione, ma non potevo farmi una ragione dei suoi ultimi pensieri. Concentrai la mente su Tallulah e sulla preziosa vita che stringeva tra le mani. Un calore mi pervase il corpo quando nella sua testa dilagò un’ossessione folle, che traboccava del piacere dell’omicidio. Serrò la stretta sul petto di Lily, pronta ad assorbire il brillante arcobaleno del martirio. — Tu non sei niente — disse Tallulah, sebbene Lily non potesse sentire i suoi pensieri. — Insignificante. Inutile. L’odio ribolliva scuro e fuso nel mio cuore. Rosicchiai le corde, ingoiando la sabbia. I granelli si infilavano tra i miei denti, creando scintille incandescenti che mi schioccavano sulla lingua. — Non sei mai stata sua — sentenziò Tallulah. — Mai. Ma adesso sei MIA. Su quest’ultima parola, l’ira mi esplose nella mente. Dagli occhi e dal cuore saettò un fascio blu di elettricità. L’energia mi corse sulle braccia fino alla punta delle dita, che tranciarono le corde, squarciando la rete in migliaia di pezzi che schizzarono in una vampata verso il cielo. Non sapevo se stessi nuotando o volando. L’acqua suonava come i tasti di un pianoforte, entrandomi nelle orecchie. I brandelli fumanti della mia prigione precipitarono sul fondale. I pesci si sparpagliarono. E allora vidi il sangue. In lontananza, si dissolveva il suono dell’inquietante, sottile risata di Maris. Tallulah chiuse gli occhi. Lily non c’era più. 39 L’ANELLO D’ARGENTO Non avevo mai saputo che Tallulah fosse in grado di tranciare la pelle, ma questa non era la Tallulah che conoscevo. L’immagine del corpo ferito di Lily alimentò la mia rabbia e mi spinse a nuotare più veloce. Avrei ucciso mia sorella. Tallulah avrebbe conosciuto il mio dolore. Il sapore metallico del sangue mi impregnava i sensi, mi preparai per ciò che avrei visto. Ma mi ero sbagliato. In cima alla scogliera, Jack Pettit si sporgeva dal ciglio roccioso, l’obiettivo di un fucile da caccia premuto contro l’occhio. Puntava la canna verso Tallulah, le cui braccia senza vita galleggiavano a pochi centimetri dalla superficie. La sua coda penzolava verso il basso, mentre una linea rossa le fluiva dal corpo in una spirale, per dissolversi tra le acque. Il sangue di Tallulah fu trasportato fino alle mie labbra, sapore di rame sulla lingua: il suo macabro bacio d’addio. Le mie spalle si irrigidirono, i muscoli pulsavano per l’adrenalina. Non riuscivo più a ricordare se dovessi odiare Tallulah o piangerla. Nonostante tutto, provavo solo pietà e mi chiedevo se Maris avesse incoraggiato l’interesse malato di Lulah nei miei confronti, se l’avesse usato, come tutti gli stratagemmi nel suo cilindro di manipolazioni. Non potevo abbandonare il corpo di mia sorella agli avvoltoi. O peggio, a Jack Pettit. Ma soprattutto, non potevo lasciare che il corpo di Tallulah venisse scoperto da qualcuno. Jack abbassò l’arma e mi piantò gli occhi addosso. — Le sirene sanno solo fare male alla gente — urlò. — Ma adesso basta. — Sollevò di nuovo il fucile e centrò l’obiettivo su di me. Prima che premesse il grilletto, una voce strillò: — Fermo! Jason Hancock andò a sbattere sulla spalla di Jack. Seguì un momento di scompiglio, quando il fucile scivolò dalle mani di Jack, colpì la roccia e cadde nel lago. Jack scappò prima che affondasse. Io e Hancock vedemmo Lily nello stesso momento. Le onde l’avevano spinta contro la scogliera, le braccia spalancate, i palmi premuti verso lo strapiombo. Il suo cuore batteva lento, un ritmo che riuscivo a sentire attraverso l’acqua. Il volto pallido era inclinato indietro contro la forza delle onde, come un giglio spezzato. — N… non farlo — bisbigliò. Hancock barcollò, le gambe gli tremavano. Fletté le ginocchia preparandosi a un salto che la sua mente non riusciva a ordinare al corpo di spiccare. — Jason!— lo chiamai. — È qui con me. Non saprò mai perché mi uscirono queste parole. Forse avevo pensato di riuscire a rassicurarlo, ma mi sbagliavo. Avevo dimenticato com’era diverso il mio aspetto: non ero umano. La mia presenza non sarebbe stata di alcun conforto. Quando Hancock scorse la mia coda torcersi e schiaffeggiare le onde, strillò: — Stai lontano da mia figlia! — Poi di riflesso cercò il punto in cui era caduto il fucile. Alzai le mani, con i palmi rivolti all’esterno. — Non le farò del male. Non potrei mai. — È sparita! — urlò lui. — Oddio, è sparita! Mi tuffai. E rituffai. Verso il fondale. In profondità. La vita di Lily era sospesa, le braccia protese dolcemente in avanti. Il suo naso esalava gli ultimi segnali di aria, una sottile linea di bollicine che giungeva in superficie. Il lago era silenzioso come una tomba. Non ci separavano altro che una quindicina di metri. L’avrei raggiunta in pochi secondi. Mi formicolarono le dita per una nuova scarica di elettricità, mentre mi preparavo ad afferrarla e farla riprendere, ignorando se avrebbe funzionato. Un’altra parte di me si domandava se fosse meglio lasciarla morire. La morte di una martire era davvero peggiore della vita di una sirena? Era egoistico da parte mia salvarla? Potevo condannarla alla vita che odiavo, e lei avrebbe potuto continuare ad amarmi una volta fatto il danno? Tutte queste domande si fusero, fino a creare un mosaico confuso di speranze e paure. La raggiunsi, percorrendo gli ultimi, pochi metri. I polpastrelli si caricarono di una luce blu brillante. Poi colsi un tonfo sopra di me: Jason Hancock, immerso in acqua per la prima volta nella sua vita, nuotava con bracciate potenti e decise per salvare la figlia morente. Non aveva la coda, sarebbe stata solo questione di tempo. Avevo assistito a migliaia di trasformazioni e ne conoscevo i segni. Un anello argenteo già gli luccicava intorno alla gola, e gli occhi brillavano di un fuoco innaturale. Non sembrava essere consapevole del suo cambiamento imminente. Sarei stato l’unico testimone. Fui colto da un breve momento di confusione, niente più che pochi istanti. Giusto il tempo che impiega un sasso a rimbalzare sul pelo dell’acqua e affondare. Quasi un soffio. Ma nella mia esitazione, due braccia avvolsero il petto di Lily e la trassero in salvo. E non erano le mie. 40 INCUBI Le labbra di Lily si schiudevano silenziose, e la testa le scivolava indietro, sulle braccia di qualcuno. Con quest’immagine mi risvegliai, ansimando sotto la volta degli alberi, mentre invocavo il suo nome. — Lily! Provai a fingere che fosse soltanto un sogno, ma non avevo mai sentito una rabbia così travolgente. Ero stato bandito, incolpato, tradito e ora abbandonato da solo a morire, con il cuore spezzato. Imploravo chiunque o qualunque cosa potesse sentirmi di riavvolgere il tempo, rimettere le cose a posto, come erano prima. Avrei fatto di tutto. Ma chi volevo prendere in giro? Non avevo risposte, e affondavo sempre più in profondità. Erano trascorse dodici ore da quando Hancock aveva trascinato Lily fuori dall’acqua. Dodici ore da quando avevo riconosciuto i suoi occhi lucenti e l’anello d’argento. Undici ore da quando avevo scoperto la verità. Tom Hancock non aveva promesso di sacrificare suo figlio in cambio della propria vita. Aveva giurato di restituire il figlio a mia madre, il loro figlio, al compimento del primo anno di età. Jason Hancock era mio fratello. Questo spiegava il suo desiderio fortissimo di tornare al lago in tutti questi anni. Questo spiegava la sua incapacità di infrangere la promessa del padre. Tutto quadrava, tranne la ragione per cui mia madre ci avesse lasciati crescere nella menzogna. Cosa pensava che avremmo fatto? Non doveva certo aver desiderato che uccidessimo suo figlio. Maris però… Maris doveva conoscere la verità. Queste domande avrebbero atteso qualche tempo. Avevo la mente troppo stanca, il cuore distrutto. Disteso nella parte più folta del bosco, rivestito da una coperta di foglie umide, mi riparavo dal calore del sole. Respiravo l’odore delle piante in decomposizione e lasciavo che gli scarabei si arrampicassero sul mio corpo. Questa era la mia penitenza per essermi comportato da eroe indegno. Niente aveva più senso. Perché Tallulah non era venuta a parlarmi, semplicemente? Perché non aveva provato a spiegarmi ciò che provava? Avrei potuto farla ragionare. Non doveva finire in questo modo. Ogni volta che chiudevo gli occhi, i sogni tornavano. Hancock che si tuffava in acqua. Hancock che mi strappava Lily dalle braccia. Hancock che provava a rianimarla e le soffiava aria salvifica nei polmoni. Mi sentivo supplicare: — Per favore, Lily. Ti prego. — Contavo ogni pesantissimo secondo all’unisono con Hancock, che le spingeva il sangue in corpo, mentre lei espirava con lui, che le buttava ossigeno nei polmoni sfiancati. I colpi di tosse di Lily, che sputava acqua sulle ginocchia del padre, erano l’unica tregua da questo incubo, che però mi faceva sprofondare in quello successivo: io che trascinavo Tallulah negli abissi del lago, in cerca di un posto in cui nascondere il suo cadavere, e scavavo una buca sotto un bancale affondato. Io che la incastravo in quel baratro e riposizionavo il bancale sopra di lei, poi chiudevo gli occhi dinanzi all’ignobile sepoltura. Io che spingevo nella buca il suo braccio, che anche nella morte continuava a cercarmi. Io che le stringevo la mano prima di lasciare che le sue dita scivolassero via. Poi la testa di Lily ripiombò all’indietro e mi svegliai di nuovo, boccheggiando… Lily! E tutto continuò a ripetersi identico per tre giorni. Sessantuno ore. Un nuovo record. Dalle ombre gelide del bosco osservavo la finestra della sua stanza. Non si muoveva nulla. Né brillava alcuna luce. Nessun movimento di tende. Volevo andare in città, per scoprire se circolassero pettegolezzi. Dubitavo che Hancock avesse raccontato la verità a qualcuno, ma valeva la pena conoscere qualsiasi notizia, anche una bugia. Però non ce l’avrei mai fatta ad arrivare in città, neppure se ci avessi provato. Il mio corpo si indeboliva ogni minuto trascorso in esilio volontario dall’acqua. La pelle delle guance mi tirava da impazzire. I tendini cominciavano ad assottigliarsi diventando fragili. Avevo i crampi ai muscoli, dalle cosce fino alla punta dei piedi. Sconfitto, tutto ciò che mi riusciva di fare era guardare tra gli alberi. Sussurravo Tennyson a labbra spaccate. Quando la pelle iniziò a lacerarsi in lunghe e sottili linee sulle guance e tra le scapole, mi chiesi quanto ci sarebbe voluto per giungere alla mummificazione completa. Mentre il corpo si prosciugava, la mente crollava in mezzo alle allucinazioni. All’inizio pensai che gli alberi mi stessero spiando, o almeno la pallida, sottile betulla piegata in avanti, spinta dalla brezza, come se fosse pronta a parlare o volesse farlo, ma si domandasse se fosse il caso. Con un barlume di razionalità, mi ricordai che le betulle non parlavano, neanche negli incubi. Mi forzai di schiarire la mente e mettere a fuoco, ma sarebbe stato meglio se mi fossi abbandonato alle allucinazioni. Non ci volle molto prima che capissi che non si trattava di un albero parlante. La figura pallida e slanciata era Maris. Che si avvicinava sempre di più. — Sta’ lontana da me — gracchiai, ora che la laringe aveva ceduto. — Non essere infantile — ribatté Maris. — Era ovvio che Tallulah non ti avrebbe lasciato nella rete per sempre. Dov’è adesso? — Scrutò tra gli alberi. — Perché sei qui? Strinsi gli occhi. Non lo sapeva? Ma certo che no. Tallulah non aveva notato il pericolo in cima alla scogliera. Non aveva visto Jack Pettit che premeva il grilletto. Non aveva avuto il tempo di avvertire Maris, né di proiettare la sua paura o il suo dolore. Quel segreto lo conoscevo soltanto io. Nel bene e nel male. — Tu hai veramente bisogno di aiuto, Maris. — La mia voce strideva come gesso sulla lavagna. Si aggrappò alla corteccia di un albero, e gli angoli della bocca si torsero in rassegnazione. — Pensavo che tu e Lulah aveste già spiccato il volo nel tramonto, a quest’ora. — Non volerò in nessun tramonto con Tallulah. Né con nessun’altro, per quanto mi riguarda. Tirò in dentro le labbra e annuì con l’aria di chi la sa lunga. — Suppongo di essere qui per questo. Non c’è nulla che vuoi chiedermi? — Io? — tossii. — Proprio tu. Avevamo un accordo. Il piano è terminato. Vorrai che io mantenga la promessa, immagino. Non sapevo cosa rispondere. — Il nostro accordo…? — Allora. Se vuoi che lo dica ad alta voce… Può bastare per ripagarti del bernoccolo sulla testa?— Sembrava quasi dispiaciuta. — Ti abbiamo chiesto di sedurre la ragazza. Ammetto che ci sei riuscito, anche se… — Mi diede un colpetto di piede sulla spalla e mi squadrò. — Anche se adesso non sei un bel vedere. Ma sto divagando. Ti abbiamo chiesto di portare Hancock nel lago, per poterlo abbattere. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non sapevo bene cosa. Maris appoggiò una mano a un albero. — Sì, certo, lo so, alla fine ci è andata di mezzo una Hancock diversa, ma non è colpa tua se Tallulah mi ha fatto cambiare idea. Come penso che ti abbia spiegato Pavati, basta un Hancock morto qualsiasi per saldare il debito. La fissavo, terrorizzato persino di battere le ciglia. Era troppo bello per essere vero. Davvero Maris non sapeva che Lily era salva? Forse i miei pensieri erano stati talmente confusi che lei non ne aveva visto neanche uno? Oppure – e non osavo pensarci – lei sapeva qualcosa di cui io ero all’oscuro? Magari Lily non era sopravvissuta. Lanciai un’occhiata furtiva alla casa buia, alla finestra ancora più buia. Maris non se ne accorse. — Calder, dannazione! Sai che non avevo altra scelta. Una promessa è una promessa. — Sospirò. — Comunque, non vedo come la tua indipendenza possa farti bene. Non ho mai conosciuto uno di noi che sia riuscito a sopravvivere a lungo, vivendo in solitudine. Se non esci da questo melodramma, non ti resterà molto tempo. A ogni modo, non sta a me giudicare. Frantumò un pezzo di corteccia tra le dita, poi lo lasciò cadere come coriandoli al suolo. — Hai fatto il tuo dovere, dopotutto. Io farò il mio. Da questo momento in poi, il tuo desiderio si avvera. — Piantò gli occhi nei miei e dichiarò: — Non siamo più una famiglia. A queste parole avvertii uno scatto nella mente, come un interruttore, la rottura del legame che mi vincolava alla famiglia White. Mi chiedevo come avesse fatto. Niente più che un sussulto delle spalle. Ma non era ancora pronta a lasciarmi. — Era solo una ragazza, Calder. — Maris abbassò lo sguardo su di me in un misto di irritazione, pietà e incomprensione. — La verità — dissi. Si morse l’interno della bocca meditando sulle sue parole. — Cosa vuoi che ti dica? — Di me. Di Hancock. Voglio tutta la storia. Voglio sapere la verità prima di morire. — Feci del mio meglio per guardarla in tralice, con gli occhi che mi scricchiolavano nelle orbite. Si rannicchiò accanto a me, con la pelle ancora lucida di goccioline d’acqua. Fece serpeggiare la punta di un dito sul mio braccio, lasciando una scia di sollievo. — Perché mentire, Maris? — Hancock ha confessato? — Dimmelo tu. — Tom Hancock aveva promesso di restituire il bambino alla mamma, non appena avesse imparato a camminare. Ha infranto la promessa. — Come fa a essere colpa di Jason Hancock? — È cresciuto, no? — sbottò, con gli occhi fiammeggianti. — Sono trascorsi molti anni, Calder. Decenni. Avrebbe potuto tornare a casa in qualunque momento. Deve averne sentito l’impulso. Doveva sapere qual era il suo posto. — Lo sapeva. Maris apparve compiaciuta. — Ovviamente. Tu non hai idea di cosa voglia dire guardare la mamma morire. Lentamente. Scivolava via, giorno dopo giorno. Io avevo dodici anni. Tu, Pavati e Tallulah eravate troppo piccoli per capire. Me ne sono fatta carico io. Io. Da sola. — La mamma è morta tra le reti — le ricordai. — L’ho vista con i miei occhi. — È morta di crepacuore. Non c’è stato nessun incidente. — Ma io ho visto tutto. — Tu hai visto il ricordo che ti ho mostrato io, Calder. A tutti voi. Lei sperava che con te avrebbe potuto sostituire il figlio perduto. — Si sbagliava — aggiunsi, in un sussurro. Ogni senso d’inadeguatezza che avevo sempre provato si moltiplicò in quel preciso istante. Non avevo salvato Lily. Non avevo salvato Tallulah. Non ero stato abbastanza forte per salvare mia madre. Alzai lo sguardo al cielo, opaco e monotono, senza stelle. — Ma perché uccidere Jason Hancock? — le domandai. — Era tuo fratello. Persino più di me. Maris ridacchiò. Impiegai ogni fibra della mia energia per spostare gli occhi e guardarla più intensamente. — E io che c’entravo con tutto questo, Maris? Strisciò un’unghia sul palmo della mia mano, tagliandomi come con un bisturi. La fragile pelle si separò in un rivolo rosso, che si addensò e riempì ogni fessura. — Né la verità né le bugia hanno veramente importanza. Fratello o no, Hancock è la sola e unica ragione per cui la mamma è morta. Doveva pagare. «Volevo che ti sentissi utile. Speravo che aiutandoci ti saresti avvicinato a noi. Poi, quando abbiamo scoperto che ti eri innamorato della ragazza, Tallulah ha suggerito che qualunque membro della famiglia avrebbe potuto pagare il debito. «Il suicidio della ragazza avrebbe torturato Hancock persino più del suo omicidio. Fargli provare la perdita di un figlio, proprio come nostra madre. Togliendo di mezzo la ragazza, poi, tu e Tallulah… Maris si voltò a osservare il lago. La brezza notturna le asciugò le punte dei capelli. Quando tornò a guardarmi, fece schioccare la lingua mentre il sangue dalla mia mano colava sulle foglie bagnate e macchiava le punte dei suoi piedi. — Per Tallulah è stato più difficile convincere Pavati che me… Non capisco. Dov’è? Non riusciamo a sentirla da nessuna parte. Che cosa le hai detto? Chiusi gli occhi. A dispetto degli inganni e dei tradimenti, la perdita di Tallulah mi logorava il cuore in ogni caso. A parte gli ultimi tempi, era sempre stata la mia confidente più intima, la mia migliore amica. Il ricordo del suo corpo senza vita era troppo struggente per me per mentire a Maris. Ma non dovevo preoccuparmi. Quando riaprii gli occhi, Maris era sparita. Senza un addio. Senza amor perduto. 41 IL SIRENETTO Nel profondo degli abissi donerei loro la mia passione, Ancora e ancora, li bacerei per ricambiare l’effusione Ridenti tra le risa; E andremo errando lontano, lontano Fino alla pallida selva marina, vasta e maestosa, Rincorrendoci, al culmine della gioia. Lord Alfred Tennyson Sgusciai fuori dal bosco. Non per uno scatto improvviso di coraggio, ma perché, dopo essermi comportato da patetico idiota per tutto quel tempo, cominciavo a farmi schifo. E Lily meritava di meglio. I rilevatori di movimento dei riflettori erano spenti, le luci ormai restavano costantemente accese, a illuminare l’acqua. Scivolai fino al pontile degli Hancock, trascinandomi quando non riuscivo a camminare dritto, e giunsi infine bocconi. Accarezzai le onde con le dita, ma le ritrassi con uno scatto prima che diventasse impossibile resistere alla tentazione. Non ero ancora pronto. Non dubitavo che i miei pensieri fossero ormai al sicuro. Non dubitavo di poter tenere nascosto a Maris e Pavati il destino di Tallulah. Le frequenze radio delle nostre menti non erano più le stesse. Me ne rendevo conto, anche sulla terraferma. Oltre a me, non c’era nessun altro nella mia testa. Non potevo andarmene, però, senza sapere che fine avesse fatto Lily. La casa alle mie spalle era buia e silenziosa. Con la mente tornai alla notte precedente, sull’amaca, quando Lily mi sfiorava il petto con un tocco delicato, invocando il mio nome. — Calder — sussurrò. Sorrisi tra me e me. Il mio corpo poteva anche deteriorarsi, ma la mia immaginazione era vivida come al solito. La voce di Lily era cristallina, quasi si trovasse proprio dietro di me. — Calder, sei lì? Mi voltai di scatto. Una luce dalla camera di Lily, e la sua figura familiare si stagliava alla finestra aperta. — Lily. — Vacillai, arrancando sul pontile, con le gambe rigide che non rispondevano a dovere. — Sono qui. Con un sospiro liberai la tensione provocata dalla nostra separazione, senza avvertirne la vera intensità fino al momento in cui la lasciai andare, a poco a poco. — Stai bene? — le chiesi, temendo la risposta. — Meglio. Eri preoccupato? Sembri preoccupato. Cercai sul suo volto le tracce del trauma. Era pallida come un fantasma e per un attimo mi domandai se mi trovassi davanti al suo spettro. — Calder, lo hai visto? — Si indicò il collo. — Mio padre. Lo hai visto? — Sì, ma mi sorprende che lo abbia notato tu. Che cosa sa lui? Ti ha tirato fuori dall’acqua così in fretta che non ha completato la trasformazione. — Sa che, dopotutto, mio nonno non era pazzo. — Ma lui non si è ancora reso conto di quello che è veramente. Meglio così. Non c’è motivo che lo scopra. Quello che è successo… dovrebbe dargli l’ennesima ragione per restare sulla terraferma. — No — replicò Lily. — Non ne ha idea. Pensa che sia stata un’anomala scarica di adrenalina a infondergli il coraggio di venire a nuotare. Ma, Calder, lui sa cosa sei tu. Mi ha proibito di rivederti. Mi rispedisce a Minneapolis domani. “Bene, bene. Non posso rischiare che Maris scopra che Lily è sopravvissuta.” — Pensa che ti farei del male. — No. Sì. Ma… quello che voglio sapere… quello che devo sapere è: se mio padre è come te, io che cosa sono, allora? Scossi la testa per placare le sue paure. — Non sei una sirena, Lily. Credo che forse tu abbia ereditato qualcosa, qualche tratto che ti fa sentire a tuo agio nel lago. Ho sempre saputo che non era normale. — Siamo imparentati? Chiusi gli occhi. — Niente affatto. Semmai, sei imparentata con le mie sorelle. — Scoppiai in una gran risata. — Scusami, scusami! — Ma lei non sorrise al mio tentativo di scherzo. — Come sta Sophie? — le chiesi. — Bene. Perché? “Ah. Quindi Pavati ha avuto un po’ di pietà.” Aveva lasciato che Maris usasse la bambina come una marionetta, ma non aveva permesso che Sophie ricordasse. — Niente. Non importa. Ora per favore, Lily, vieni fuori. Non resisto più. Lily si guardò alle spalle, poi sparì per un secondo. Tornata alla finestra, lanciò una gamba oltre il davanzale. Guardavo nervoso mentre scavalcava il tetto della veranda e a brevi passi si avvicinava al bordo. Saltò, atterrando delicatamente sulle punte dei piedi. Mi afferrò la mano e mi tirò a sé, incespicando attraverso il cortile fino al limitare dei boschi, poi giù verso la riva nei pressi del mio salice. Emisi un gemito quando le onde mi lambirono le caviglie. Lily si chinò e con le mani a coppa prese l’acqua e me la strofinò addosso, temendo forse che potessi frantumarmi al suo tocco. Dopo avermi bagnato gambe e spalle, si riempì le mani e mi fece bere. Era d’aiuto, ma niente più che un sollievo illusorio. — Perché lo hai fatto, Lily? — le chiesi, la voce secca e rauca. Smise di aiutarmi e arrossì. — Come hai potuto fare questa cosa a te, a me? — Era l’unico modo per mettere fine a tutto quanto — bisbigliò. — Ha funzionato, no? Hanno promesso che se mi fossi offerta… La strinsi tra le braccia e le posai il mento sulla testa. — Hai fatto bene. Hai mantenuto la promessa. Loro lo hanno sentito dalla mente di Tallulah. Il resto… — Mi sforzai di terminare la frase, ma non ci riuscivo. — Non avrei mai dovuto lasciare quel biglietto di addio per mamma e papà — aggiunse. — È stato un gesto stupido, ma volevo che sapessero cosa mi era successo. Non sapevo che Jack stesse lavorando a casa. L’ha trovato lui per primo. Povero Jack. Adesso perseguiteranno lui? — È successo tutto troppo in fretta perché Tallulah potesse proiettare la paura nei suoi pensieri. Maris e Pavati non lo sanno. Lily alzò lo sguardo, gli occhi lucidi. — Ho peggiorato le cose? La trassi più vicino a me. — Cosa ho mai fatto per meritarti, Lily? Sei un’eroina. Ci hai salvati tutti. Tuo padre… me… Ci hai liberati, entrambi. — Ma non Tallulah — sussurrò. — No. Lei no. — La voce mi si bloccò in gola. — Mi dispiace. Mi tirai indietro per guardarla meglio. Era una ragazza straordinaria. — Mi hanno tratto in trappola, Lily. Se avessi saputo cosa avevano architettato, non ti avrei mai lasciata. Il tuo cuore ha smesso di battere. Avvertivo la sua tensione sotto le mie dita. — Io ero lì. Proprio lì. — dissi — Per un attimo, ho pensato di… Lei annuì. — Ma avevo troppa paura di provarci. E anche se avesse funzionato, non potevo sopportare il pensiero di strapparti alla tua famiglia. — Lasciai cadere la testa, il mento sul petto. L’acqua si infranse nuovamente sulle mie caviglie. Tutto il corpo vibrò per l’impulso di tuffarmi, e barcollai pericolosamente. Ero giunto al limite. — Te ne vai — disse. Non era una domanda. — Ma tornerò. — Per la migrazione? Le lanciai un’occhiata veloce. — Veramente, pensavo a te. Non credo di avere più tante alternative. Tornerò per te. Ovunque tu sia. — Questa è una delle promesse da sirenetto? — Non ce ne sono di altro tipo. — Be’, se è così — chiuse gli occhi e premette la sua fronte sulla mia — sarà meglio tirarti fuori di qui prima che tu ti incenerisca. — Lanciò uno sguardo verso casa. — E prima che mio padre si svegli. Le rivelazioni che ha ricevuto gli basteranno per qualche tempo. — Rise, nonostante le lacrime le riempissero gli occhi. Poi aggiunse: — Aspetta qui. La seguii con lo sguardo mentre correva verso casa, poi concentrai l’attenzione sui miei piedi immersi nell’acqua, le onde che rotolavano via dalle caviglie quando piegavo le dita dei piedi nella sabbia, un nodo che mi saliva in gola. Lily tornò con una piccola sacca a cordoncino. — Immagino che non potrai più mollare i vestiti in auto — disse. La strinsi a me e mi immersi nel profumo di arance e pino. Una luce rosata si diffuse dalle sue braccia, permeandomi spalle, petto, gambe… Mi riscaldò al punto da farmi dimenticare persino il mio nome. Poi le sue labbra incontrarono le mie. Si staccò da me troppo in fretta, voltandomi le spalle. Mi spogliai, infilai i vestiti nella sacca, che misi a tracolla. — Va’! — mi ordinò, continuando a fissare la casa. E mi tuffai. Immediatamente, un’esplosione di luce e calore illuminò il cielo notturno. Ogni cellula del mio corpo si spalancò, gridando di sollievo, accogliendo l’acqua che mi inondava. Sembrava che mi stessi espandendo, come una spugna consumata e reidratata. Infiammate dall’energia repressa, le gambe si unirono fondendosi, esplodendo nella coda argentea che si fletteva nell’acqua e mi lanciava lontano dalla riva. Mi inarcai e mi voltai, infrangendo lo specchio d’acqua, l’aria di mezzanotte sul viso. Lei mi guardava dal pontile, la mano in alto. Il ricordo del suo bacio era ancora fresco sulle mie labbra, e sapevo che con Lily ero al contempo libero e imprigionato per l’eternità. RINGRAZIAMENTI Questa è la parte che mi fa più paura: ringraziare tutte le persone che mi hanno aiutato a portare al mondo Calder e Lily (e spero di non aver tralasciato nessuno). Secondo l’ordine cronologico degli eventi (perché sono una che pensa in modo lineare), sono loro: tutti quelli che mi hanno fatto conoscere il Lago Superiore quando nemmeno camminavo, e che mi hanno salvata quando ci sono ruzzolata dentro; mia sorella Elizabeth, che mi ha detto di darmi una mossa e mettermi a scrivere qualcosa, cavolo; i miei primi tre romanzi, che mi hanno insegnato cosa funziona e cosa no; i miei genitori, Steve e Deede Smith, che hanno letto la prima stesura del primo capitolo di quello che un giorno sarebbe diventato Un bacio dagli abissi, spronandomi ad andare avanti; i talentuosi scrittori del Minneapolis Writers Workshop, che hanno colto ogni mio passo falso mentre leggevo la storia di Calder a voce alta; i miei lettori beta e tutti i miei sostenitori, comprese Stephanie Landsem, Laura Sobiech, Beth Djalali, Weronika Janczuk, Therese Walsh, Elissa Hoole, e gli Apocalypsies, e Nina Badzin, che ha detto: — Credo che questo sia quello giusto! Ian Baker, per essersi dimenticato il libro a casa e perché ama For Weasel (che nessuno capirà tranne lui, ma gliene sono profondamente grata); i miei agenti pieni di entusiasmo: Jacqueline Flynn, Jenny Meyer e Rich Green. Inoltre: Françoise Bui, per la sua fine intuizione e le domande perfette, e tutti quelli di Delacorte Press e Random House Children’s Books. Grandi abbracci ai miei tre figli, meravigliosamente strani, Samantha, Matthew e Sophie, la cui gioia e creatività illuminano il mio mondo. Che vi sia da lezione. Non rinunciate mai ai vostri sogni. E infine, grazie a mio marito, Greg: alla fine della giornata, ci sei sempre tu. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.librimondadori.it www.mondichrysalide.it Un bacio dagli abissi di Anne Brown © 2012 Anne Greenwood Brown © 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l’edizione italiana | Titolo dell’opera originale Lies Beneath Ebook ISBN 9788852028984 COPERTINA || ART DIRECTOR: FERNANDO AMBROSI | GRAPHIC DESIGNER: STEFANO MORO | ILLUSTRAZIONE DI © 2012 ALINA SLIWINSKA
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