Del 28 Gennaio 2015 Estratto da pag. 25 Nella Corleone dei boss cade l’ultimo muro ora i commercianti denunciano il pizzo ATTILIO BOLZONI PALERMO .Se volete conoscere un luogo dove vedere da vicino un’Italia sottosopra, oggi ve ne suggeriamo uno. Dove dovete esattamente andare? Verso Sud, naturalmente. In Sicilia. Proprio al centro, in mezzo alle montagne. A Corleone. Gennaio 2015, la notizia — e che notizia — è che finalmente anche lì qualcuno parla. Nell’antica capitale della mafia che i vecchi boss d’America chiamavano Tombstone (pietra tombale), nel reame che Totò Riina e Bernardo Provenzano hanno fatto diventare famoso in tutto il mondo con le loro scorrerie e con il sangue, nel posto che ha ispirato Il Padrino di Mario Puzo (chi interpretava Marlon Brando nel film? Don Vito Corleone: Vito come Ciancimino, Corleone come il paese), uno e forse due o addirittura tre fra commercianti e imprenditori hanno raccontato ai carabinieri della locale caserma che venivano taglieggiati e dissanguati dagli eredi dello “zio” Totò. È la prima volta. E, a naso, non sarà neanche l’ultima. Sono passati più di sessant’anni — era il settembre 1949 — da quando un giovane capitano del Comando Forze Repressione Banditismo, Carlo Alberto dalla Chiesa, comandante del Terzo Gruppo Squadriglie dei carabinieri di Corleone, si aggirava sulla sua jeep per campagne desolate e spaventosamente silenziose a caccia degli assassini del sindacalista Placido Rizzotto. Ne sono passati più di trenta — era il settembre 1979 — da quando nessuno (proprio nessuno) osò avvicinarsi alla piazza dove la grande fotografa Letizia Battaglia aveva in mostra i suoi scatti sui “padroni” della Sicilia. Nel frattempo Tombstone ha preso la faccia dei peggiori criminali mai visti su questa parte della terra. Ma la mafia non è più la stessa mafia e anche Corleone non è più la stessa Corleone. In quest’inizio di anno, è finita anche l’omertà. Proprio laggiù, nel paese delle tribù dei cosiddetti uomini d’onore cresciuti ai piedi della Rocca Busambra. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato, però è accaduto davvero. E in queste ore è ufficiale: c’è chi collabora a un passo da vicolo Scorsone, casa Riina. Così un commerciante molto noto — quello che sicuramente si è ribellato prima degli altri ai suoi vampiri — qualche settimana fa è stato convocato in caserma e non ce l’ha fatta più a tenersi tutto dentro. Primo interrogatorio: «Il pizzo mi sta soffocando e ho dovuto chiudere due delle mie attività». Secondo interrogatorio: «Mi hanno chiesto duemila euro come una tantum per “mettermi a posto” per un’autorimessa, poi seicento al mese». Terzo interrogatorio: «Stamattina ho letto il giornale e ho visto le persone che avete arrestato, sono loro che mi chiedevano sempre soldi, li conosco uno per uno… sono loro». Nomi, cognomi e indirizzi. I muti non sono più muti a Corleone. E questo avviene mentre tengono la bocca chiusa imprenditori delle zone padane strangolati dalla ‘ndrangheta e dalla camorra, tacciono fortissimamente tacciono (almeno per ora) gli amici più intimi di Er Cecato e della razza mafiosa romana, fanno finta di non vedere e di non sentire perfino certi prefetti della Repubblica che quando — fino a poco tempo fa — si parlava e si scriveva di cosche o di ‘ndrine dal Tevere al Po loro — i prefetti — somigliavano a personaggi usciti dal mondo delle fiabe tipo Heidi che torna fra i monti. Eccola l’Italia sottosopra dove il silenzio non è più solo siciliano e da oggi non è nemmeno più “patrimonio” solo di Corleone, roccaforte di quegli assassini che per più di due decenni hanno seminato il terrore sull’isola e nel Paese. Dobbiamo aggiornarla la nostra scheda di Corleone: paese siciliano a cinquantasei chilometri da Palermo. I suoi cittadini più famosi: Bernardo da Corleone, santo; Francesco Paolo Nascè, letterato; Bernardino Verro, sindaco socialista assassinato dalla mafia; madre Teresa Cortimiglia, fondatrice dell’Ordine delle suore francescane di Santa Chiara; Pippo Rizzo, pittore; Francesco Bentivegna, patriota fucilato dai Borboni; Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Vito Ciancimino, mafiosi; l’ignoto commerciante che ha denunciato il pizzo e ha fatto tutti i nomi dei suoi aguzzini nel gennaio del 2015. È un primo passo, un muro che crolla, un colpo mortale a chi vorrebbe succedere a un Totò Riina ormai troppo vecchio e troppo stanco per avere un ruolo decisivo per il destino non solo di Cosa Nostra ma anche della Cosa Nostra di Corleone. Metà della sua famiglia non vive più in paese (il figlio Giovanni è ergastolano, la figlia Maria Concetta abita in Puglia e il figlio Salvuccio in Veneto), l’altra metà è rassegnata lì (la moglie Antonina detta Ninetta e la figlia più piccola Lucia), parenti stretti non ne hanno più, parenti alla lontana nemmeno. Restano gli “eredi”. Uno l’hanno preso tre mesi fa, era il custode del campo sportivo. In realtà Antonino Di Marco era diventato il nuovo capo mafioso del paese. E anche lui parlava. Non con i carabinieri direttamente, mai. Ma dentro le microspie messe dai carabinieri negli uffici comunali dove teneva summit e distribuiva appalti. E anche consigli. Raccomandava ai suoi di comportarsi bene, ricordava di «quella volta» che si prese uno schiaffone da Provenzano per una parola di troppo. Diceva l’erede: «Noi siamo una famiglia. C’è bisogno di serietà e di rispetto, dobbiamo essere sempre molto educati». Corleone 2015.
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