Lo stato delle agri-culture: erosione e affermazione per una cittadinanza contadina A.R. Vasavi I processi di capitalizzazione dell’agricoltura e di mercificazione della terra contengono il seme dello sradicamento della pluralità delle agri-culture locali, così come hanno appiattito il paesaggio rurale a una neutralità che non gli appartiene. Le forme dominanti di agricoltura si fondano su di una serie di disconnessioni. Prima di tutto dalle ecologie locali, che diventano una variabile da tenere sotto controllo e da rendere il più possibile neutrale e uniformata al paesaggio produttivo globale. Ma sono anche espressione dell’attuale disconnessione dal valore simbolico della terra e dei semi e la de-ritualizzazione del loro ciclo produttivo. Le pratiche agricole sono svincolate dalla loro pluralità culturale. Nonostante l’evidenza della resilienza, sostenibilità, e produttività dei piccoli coltivatori, il rurale, così come le relazioni ecologiche, sociali e culturali intorno alle quali si realizza, sono stati resi ridondanti. È diventato lo spazio anti-economico che ha bisogno di essere educato a una nuova logica che si professa neutra e univoca basandosi su “oggettivi” parametri produttivi. Una delle caratteristiche principali delle pratiche agricole basate primariamente sull’investimento di capitali e orientate al mercato consiste nel rendere ogni agricoltore un coltivatore individualizzato, che deve sopportare i pesi e i rischi del proprio lavoro su basi esclusivamente individuali. In un contesto di crescente incertezza e di rischi dovuti alla fluttuazione dei mercati, alla crescita dei costi di produzione e all’imprevedibilità climatica, tale individualizzazione e la perdita delle reti di supporto sociale hanno reso l’agricoltura un’esperienza solitaria e spesso dolorosa. Ne è tragica testimone la morte di più di 200 000 agricoltori indiani che si sono suicidati dal 1997 a oggi. Dall’essere un atto silenzioso e un’individuale risposta alla disperazione, i suicidi degli agricoltori indiani sono progressivamente diventati atti di protesta collettiva, di riaffermazione del proprio diritto di riconnettere la produzione al sostentamento e alle condizioni della sua riproduzione. L’individualizzazione dell’agricoltura si fonda sullo sradicamento di una base comune, sociale e culturale e sull’introduzione del singolo agricoltore come giocatore individuale all’interno dell’economia di mercato. L’indebolimento del tessuto sociale di supporto e il passaggio alla famiglia nucleare, l’atomizzazione delle pratiche agricole, la perdita di un corpo di sapere collettivo basato sulla trasmissione dell’esperienza, insieme all’eccesso di rischio che porta con sé un’economia di mercato competitiva hanno reso i piccoli agricoltori particolarmente vulnerabili. I suicidi degli agricoltori non sono puramente “atti individuali”, o almeno non lo sono più, quanto piuttosto l’ultimo disperato tentativo di esprimere il dissenso e di parlare una voce politica. Il cittadino agrario, quando non perfettamente inserito nella logica dell’economia di mercato, viene reso patologico, considerato come paziente da essere curato con vari regimi di alta tecnologia o come mendicante da gratificare con politiche populiste. Il diniego dei suoi diritti e benessere rappresenta l’erosione della cittadinanza agraria che, andando oltre alla cittadinanza civica e politica, riconosce il diritto alla terra, all’agricoltura come fonte di sussistenza e i diritti alle risorse comuni. L’interiorizzazione dello svantaggio agrario è visibile nell’incremento del numero di persone che stanno abbandonando le aree rurali, che si affidano alla migrazione e che esprimono, in questo modo, la delusione per l’agricoltura come stile di vita e di sussistenza. L’erosione della cittadinanza agraria ha spesso portato alla formazione di una gran massa “rifugiati rurali”, profughi della campagna in ricerca di sussistenza nelle periferie urbane.
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