Savagnone – Le quindici malattie della chiesa

Per una Chiesa rinnovata
Modena, Parrocchia di san Cesario, 18 marzo 2015
Le malattie della Curia sono quelle di ogni comunità cristiana, anche di una
parrocchia. E, se vogliamo cambiare la Chiesa, dobbiamo cominciare da noi
stessi e dalla nostra comunità.
Innanzi tutto, però, la premessa è di sapersi corpo (o, in un’altra immagine,
tralci di una stessa vite). Noi viviamo in un clima di individualismo selvaggio che
ha inventato una entità inesistente, l’individuo, e ci fa credere che possiamo
distinguere i “fatti nostri” da quelli degli altri. Anche la nostra libertà, non finisce
ma comincia dove comincia quella dell’altro. Questa società senza vincoli uccide
l’idea stessa di comunità.
Creare una comunità in Cristo richiede una radicale revisione. Vale la
domanda di Gesù al paralitico della piscina di Betzatà: «Vuoi guarire?». La scelta
è personale. Si può trovare comoda anche la malattia.
Accanto a questa scelta ne è necessaria una che implica la decisione di
aiutarsi a vicenda. Le parole del paralitico - «Signore, non ho nessuno…» (cfr. Gv
5,1-16) – possono anche essere intese come un alibi, uno scaricare sugli altri la
mancanza di volontà, ma il loro significato più vero è che non si può guarire e
non ci si può salvare senza l’aiuto degli altri.
Le malattie indicate da papa Francesco sono le nostre. A livello personale, ma
proprio per questo inevitabilmente ricadono sulla comunità. E a livello
comunitario, ma proprio per questo ricadono inevitabilmente sui singoli.
Bisogna confrontarsi con esse per realizzare la nostra crescita individuale e
comunitaria. Nell’esaminarle non seguirò rigorosamente l’ordine della
elencazione fatta dal papa.
Al di là dell’attivismo, il primato della vita spirituale
Come primo punto vorrei indicare ciò di cui egli parla quando denunzia il
“martalismo”, cioè l’attivismo. Una malattia che può colpire sia nella propria vita
professionale, sia all’interno della comunità cristiana e che ha come effetto la
perdita del senso della contemplazione. Anche del semplice cristiano si deve
dire, come del membro della Curia, che «non può vivere senza avere un rapporto
vitale, personale, autentico e saldo con Cristo» e che se «non si alimenta
quotidianamente con quel Cibo diventerà un burocrate (un formalista, un
funzionalista, un mero impiegato): un tralcio che si secca e pian piano muore e
viene gettato via. La preghiera quotidiana, la partecipazione assidua ai
Sacramenti, in modo particolare all’Eucaristia e alla Riconciliazione, il contatto
quotidiano con la Parola di Dio e la spiritualità tradotta in carità vissuta sono
l’alimento vitale per ciascuno di noi».
E’ qui la radice della vita ecclesiale, perché «il rapporto vivo con Dio alimenta
e rafforza anche la comunione con gli altri, cioè tanto più siamo intimamente
congiunti a Dio tanto più siamo uniti tra di noi, perché lo Spirito di Dio unisce e lo
spirito del maligno divide».
Una comunità cristiana – per esempio la parrocchia – deve perciò essere
innanzi tutto una scuola di vita spirituale: di pratica sacramentale (ci
confessiamo ancora?), di preghiera, personale e liturgica, di lettura meditativa
della Parola di Dio, presente sia nella Scrittura che nella tradizione (e perciò
anche in tanti libri che commentano e applicano alla vita la Parola di Dio).
Al di là dello sdoppiamento, l’unità della vita
Esiste nella nostra pastorale il dualismo tra sacro e profano, tra dentro e
fuori. Entrando in chiesa ci si spoglia dei problemi, delle idee, delle esperienze
della vita quotidiana, non li si mette a confronto con la Parola di Dio e con il
giudizio della comunità. E si è del “buoni cristiani” perché si va a messa, si fa il
catechismo, si è lettori o accoliti o ministri straordinari dell’eucaristia. Ma poi,
uscendo, così come nell’entrare si era lasciata alle spalle la vita reale, così si
lascia alle spalle ciò che si è ascoltato e vissuto in chiesa e si torna ad essere
quello che si era prima di andarci.
Corrisponde a questo ciò che papa Francesco ha chiamato «la malattia della
schizofrenia esistenziale. E’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita (…).
Creano così un loro mondo parallelo, dove mettono da parte tutto ciò che
insegnano severamente agli altri e iniziano a vivere una vita nascosta e sovente
dissoluta».
Una comunità parrocchiale dev’essere una scuola di unità della persona. Un
luogo dove si porta e si mostra agli altri la propria vita “di fuori”, quella reale,
per confrontarla insieme a loro con il Vangelo, e da dove si esce per portar fuori
questa vita trasformata, praticandola con coerenza.
Al di là del funzionalismo e delle regole, il primato del desiderio e
dell’abbandono allo Spirito
Dalla mancanza di vita spirituale e allo sdoppiamento tra fede e vita reale
deriva, nella pratica ecclesiale, una mentalità burocratica e routinaria, che
riguarda i preti ma anche i laici, perfino come semplici fedeli: si sbrigano delle
pratiche (anche la messa domenicale lo diventa). Si uccide il desiderio. Allora s
va a messa per precetto, come un marito che assolve senza alcun entusiasmo il
“debito coniugale”. Che ne pensa Dio? Ma anche per noi è un disastro, perché col
desiderio si uccide anche la gioia delle pratiche cristiane, ridotte a un arido
dovere invece di essere la festa della nostra giornata e della nostra settimana.
Corrispondono a questo le malattie dell’”impietrimento” e quella
dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo. Invece che un’avventura
entusiasmante e imprevedibile, la vita cristiana diventa una serie di compiti da
assolvere.
Una comunità parrocchiale deve essere una scuola di desiderio. Ma per
questo bisogna riscoprire la dimensione dell’eros, nel suo senso più ampio, che è
proprio della vita cristiana come di quella umana (papa Benedetto XVI, Deus
caritas est), scoprire di essere «gridi nella notte» (Recalcati) assetati dell’Altro.
Solo allora si può provare la gioia di essere ogni giorno salvati.
Al di là del puro presente, la gratitudine per la propria storia
«C’è anche la malattia dell’“alzheimer spirituale”: ossia la dimenticanza della
propria storia di salvezza, della storia personale con il Signore, del “primo
amore” (Ap 2,4)». In questo tempo di persone che credono di essersi fatte da sé,
in cui muore il padre, si perde il senso della propria storia e dei debiti che
abbiamo verso tutti, in primo luogo verso Dio. Ci si dimentica di tute le persone,
le esperienze, i libri, che ci hanno consentito di diventare quello che siamo. Non
si ringrazia più.
Una comunità parrocchiale è un luogo dove si racconta a se stessi, agli altri e a
Dio la propria storia e si impara a esserne grati, per quanto dura e difficile essa
possa essere stata.
Al di là dell’autoreferenzialità, sapersi collaboratori e servitori
La malattia del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile”
è molto frequente nelle nostre comunità. In una parrocchia, in un gruppo a volte
ci sono persone che hanno bisogno di sentirsi utili, anzi indispensabili, magari
compensando i vuoti e i fallimenti della propria vita. «Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10).
Da qui la rivalità: «La malattia della rivalità e della vanagloria». «Non fate
nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli
altri superiori a se stesso» (Fil 2,3-4).
Da qui la gelosia dei propri carismi e il piacere degli errori altrui: «Quando il
più esperto non mette la sua conoscenza al servizio dei colleghi meno esperti.
Quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di
condividerla positivamente con gli altri. Quando, per gelosia o per scaltrezza, si
prova gioia nel vedere l’altro cadere invece di rialzarlo e incoraggiarlo».
Una comunità è il luogo dove si cerca di valorizzare gli altri e di farli crescere,
perché possano fare meglio di noi.
Al di là dell’obbedienza cieca e del servilismo, il senso vero dell’autorità
Anche in una parrocchia, come effetto del desiderio di primeggiare sugli altri,
si può sviluppare «la malattia di divinizzare i capi. E’ la malattia di coloro che
corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime
del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio (cfr Mt 23,812)».
Spesso questo è colpa anche dei superiori stessi. Un vescovo, un parroco, la
guida di un gruppo, tendono ad ascoltare soprattutto chi li loda, chi esalta ogni
loro scelta come la migliore possibile. Ma il servizio più grande che si può loro
rendere sarebbe invece di metterli in guardia dai loro difetti e di segnalare i loro
errori. Critica il proprio vescovo, il proprio parroco, è un atto di carità. Il cui
contrario è quello di criticarli dietro le spalle, ostentando invece un piena
adesione o almeno tacendo.
Una comunità è il luogo dove si impara a essere sinceri verso i “superiori” e
capaci di accogliere con gratitudine le critiche degli “inferiori”.
Al di là dell’incomunicabilità, la comunicazione
Papa Francesco ha molto insistito nel denunciare «la malattia delle
chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi.
«Fate tutto senza
mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri» (Fil 2,14-15). È la
mancanza di comunicazione che produce questo. Si diceva prima di chi critica
alle spalle l’autorità. Ma questo può riguardare anche lo stile generale del
rapporto con gli altri in una comunità. Non si dive mai quello che realmente si
pensa all’interessato, ma si sparla di lui con i terzi. Senza comunicazione la
comunione, di cui tanto parliamo, diventa uno slogan retorico.
Quando la mancanza di comunicazione si verifica tra responsabili di servizi
diversi in una comunità, o tra gruppi, anzi si entra in concorrenza ostile, si
verificano dei danni per tutti: «La malattia del cattivo coordinamento: quando le
membra perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa
funzionalità e la sua temperanza, diventando un’orchestra che produce chiasso,
perché le sue membra non collaborano e non vivono lo spirito di comunione e di
squadra. Quando il piede dice al braccio: “non ho bisogno di te”, o la mano alla
testa: “comando io”, causando così disagio e scandalo».
Anche senza far parte di movimenti o associazioni diverse, possono crearsi in
una parrocchia o in una diocesi gruppetti e fazioni: «La malattia dei circoli
chiusi, dove l’appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al Corpo e, in
alcune situazioni, a Cristo stesso. “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina” (Lc
11,17)».
Una comunità c’è dove– tra i singoli e tra i gruppi - si parla con franchezza e si
realizza quella sinodalità (esperienza di una strada comune) che consiste nel
condividere insieme un unico cammino scambiandosi a vicenda informazioni,
idee, aiuti di ogni genere.
Al di là della ricchezza e del potere, la povertà della comunità e delle
persone
C’è infine «la malattia dell’accumulare: quando l’apostolo cerca di colmare un
vuoto esistenziale nel suo cuore accumulando beni materiali, non per necessità,
ma solo per sentirsi al sicuro. “Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho
bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco
e nudo ... Sii dunque zelante e convertiti” (Ap 3,17.19)». c’è uno spirito di povertà
a cui come singoli e come comunità i cristiani sono chiamati.
Ma ancora più pericolosa è «la malattia del profitto mondano, degli
esibizionismi, quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere, e il suo
potere in merce per ottenere profitti mondani o più poteri». Il potere è ciò che
attrae più fortemente di ogni altra cosa gli esseri umani. E ci può essere un
piccolo poter anche nell’ambito di una parrocchia, di una comunità, quando il
servizio diventa occasione per controllare gli altri e imporsi nei loro confronti.
Una comunità cristiana è un luogo dove, sia a livello individuale che
comunitario,
la povertà come rinunzia al consumismo e alla ricerca
indiscriminata del benessere diventa via alla condivisione con i poveri e dove la
rinunzia alla logica del potere consente una sincera fratellanza.