La bicicletta è conveniente Fulvio Ervas La velocità, per i

La bicicletta è conveniente
Fulvio Ervas
La velocità, per i fisici, è un rapporto tra spazio e tempo. A grandi velocità puoi coprire
spazi immensi in tempi molto piccoli. Perciò non vedi quasi nulla. La bicicletta è un
compromesso nella lotta feroce tra spazio-tempo-velocità. Il miglior compromesso sino ad
ora inventato.
Che fosse così buono mica l’ho capito subito. Non volevo salire in bicicletta, da piccolo.
Nonostante le insistenze di mio padre, resistevo. Mi impressionava il manubrio.
Tenere tra le mani qualcosa collegato ad una ruota che, appunto, ruotava e dava l’idea di
essere instabile, mi pareva oltre le mie capacità. Poi, a tradimento, me l’hanno regalata la
bicicletta. Le solite biciclette rosse, irresistibili. Io ho preteso che alle ruote posteriori
venissero applicate delle piccole rotelle, per imparare senza capitombolare.
Che imparare capitombolando mi pareva operazione troppo d’annunziana per la mia
indole. Avrei preferito imparare da vivo. Certo, le sbucciature da caduta in bicicletta
facevano aumentare il valore personale. Le compagne, alle elementari, apprezzavano
i feriti in quel tipo di battaglie. Certi eroi pedalavano lungo tutta la strada centrale del
paese, appena asfaltata, per arrivare, dopo una breve salita, nel punto più alto. Era
l’argine San Marco, opera a difesa delle impennate del Piave, che una volta chiamavano
la Piave, al femminile, e che d’Annunzio mascolinizzò non capendo niente di idraulica
(come si intuisce dalla vicenda di Fiume).
Da quella sommità i ragazzi si lanciavano in discesa, pedalando come ossessi e poi
lasciavano i pedali, con l’obiettivo di superare in volata una linea rossa tracciata
sull’asfalto. I più arditi portavano i piedi sul manubrio e lì, spesso, capitombolavano.
L’asfalto è più abrasivo della terra battuta, come tutta la modernità.
Superare la linea rossa non era così facile. Si trattava, come sempre, di una combinazione
di fattori: il tipo di bicicletta, la forza muscolare, la massa corporea, il vento, la distrazione.
Se ti distraevi, finivi fuori strada e tutti a ridere come matti. Più spesso ti fermavi prima
della linea. Effetto dell’attrito.
Avevo preso confidenza con la bicicletta e mi sentivo pronto per abbandonare le rotelle
d’ausilio e l’avrei fatto se non mi fosse venuta la pessima idea di cimentarmi con la linea
rossa e m’ero convinto che, a quattro ruote, avrei stabilito un record speciale e ne
avrebbero parlato per secoli. Così, in un assolato pomeriggio d’estate, pedalo sino alla
salita, lancio uno sguardo di sfida alla striscia rossa in lontananza, e mi lancio.
Quattro ruote fanno aumentare l’attrito, adesso lo so. Quattro ruote ad alta velocità si
governano peggio di due, adesso lo so.
Prendo slancio, mi avvicino alla striscia e il manubrio, per una irregolarità dell’asfalto,
s’inclina verso destra, s’inclina troppo verso destra, ma davvero troppo. Finisco, a quattro
ruote, nel fosso. Colmo d’acqua, che erano anni in cui i fossi facevano per bene il loro
mestiere. Ne ho ricavato l’idea che la velocità sia pericolosa e quattro ruote non valgano
due.
Mio padre, a questa convinzione, è rimasto fedele per tutta la vita. Mai presa la patente. In
macchina non si pedala, cioè non si fa fatica, pertanto non ci si merita ciò che se ne
ricava. La macchina ti porta lontano, ma tu non ne hai alcun merito. Semmai il benzinaio.
Noi ragazzini, invece, lavoravamo d’immaginazione scrutando le poche macchine che
transitavano sull’asfalto nuovo: quella del dottore, del veterinario, dell’impresario edile,
qualche camion, quella del pasticcere e questa, tra tutte, era la più osservata. Si diceva
portasse a domicilio le torte, ma non dolci qualsiasi. Si diceva si trattasse di torte
monumentali per le grandi occasioni: il matrimonio, il battesimo e la cresima. E non erano
torte, ma circonferenze perfette, glassate, ricoperte di confetti dorati e argentati, con scritte
augurali tanto ben fatte che nemmeno nel sussidiario c’erano lettere di tale elegante
grafia. Si mormorava che il pasticcere trasportasse addirittura tre torte per volta: due sui
sedili posteriori e una sul sedile anteriore, un autentico capolavoro.
Per questo la metteva davanti, perché valeva più del vescovo. Dicevano che il pasticciere
guidasse senza mai staccare gli occhi dalla sua opera, timoroso che un sussulto
provocasse qualche effetto negativo sulla composizione magistrale.
Dopo essere capitombolato a quattro ruote, sentendomi tradito, avevo deciso di fare
esperienza con due sole ruote e, alla fine, avevo acquisito una certa autonomia ciclistica.
Andavo dal fornaio a prendere il pane biscotto due volte alla settimana ed era una bella
pedalata, più impegnativa dei giretti attorno a casa.
C’era un certo traffico di biciclette e moto, furgoncini e qualche automobile. Niente di
pericoloso. Ai tempi della mia infanzia si rischiava davvero poco sulle strade.
Però non pochissimo. Ero bell’è pronto per diventare un guerriero di Cristo, cioè firmare
l’arruolamento grazie al sacramento della Cresima, che mia madre, il sabato prima della
cerimonia, s’accorge di non avere pane a sufficienza per l’indomani. Per l’occasione erano
previsti una dozzina di parenti a pranzo, qualcuno proveniente dalla città, gente che,
quando vede un pollo di campagna, tutto sapori e carne genuina, se lo vuole leccare a
colpi di pagnotta. Mio padre era partito in bicicletta a caccia di vino, verso chissà quali
sofisticate osterie e a me era toccato il fornaio. Di sabato pomeriggio.
Non eravamo nemmeno certi che fosse rimasto del pane, a quell’ora. Nel qual caso, avrei
dovuto recarmi da una famiglia amica ed elemosinare almeno cinque pagnotte. Ben cotte,
aveva precisato mia madre.
Con in testa due obiettivi, ero partito carico ma emotivamente confuso. Non mi conveniva,
pensavo, andare prima dalla famiglia amica? Così avremmo risparmiato i soldi del pane.
Mi sembrava una grande idea. Elettrizzato, arrivo all’incrocio dove c’era il fornaio, accelero
per passare oltre, verso la famiglia amica e, sul lato sinistro, sento un botto infernale.
Ero io, che finivo bello bello sotto una macchina che aveva girato a sinistra, senza
preoccuparsi di rispettare le precedenze. Uno che se ne va diritto, e quello ero io, non può
vedersi tagliare la strada da un altro che proviene da sinistra. E quello era il pasticcere.
Sono due dettagli che ho appreso dopo, perché, di mio, capitombolo sull’asfalto, mi arroto
la giacchetta, mi sbuccio il gomito e un ginocchio. Sciocchezze, se confrontate con
l’aspetto della mia bicicletta rossa, la cui ruota anteriore era diventata un otto che avrebbe
reso felice la mia maestra.
Rimango in silenzio, inebetito. Il pasticcere, terrorizzato, mi si avvicina, controlla la testa,
s’assicura che io muova le gambe e le mani, mi fa dire nome e cognome, anche il suo.
«Sono Emilio Zanatta, il pasticcere» ripeto.
Lì, ho capito. Proprio nello stesso istante in cui scorgo, sul sedile anteriore a lato della
guida, la più grande torta mai comparsa nel Veneto.
Sbavo, ma non per la caduta. L’uomo coglie il mio sguardo, ragiona, fa quattro conti sulla
punta delle dita: dice che la bicicletta la farà riparare e che mi sono meritato, per via dello
spavento, un regalo.
L’indomani, dopo essere diventato un soldato di Cristo, all’ora di pranzo non ti suona il
pasticcere che scarica, tra le braccia di mia madre, una torta che pare nuziale.
E poi dicono che andare in bicicletta non sia economicamente conveniente…