L`O S S E RVATOR E ROMANO

Copia € 1,00. Copia arretrata € 2,00
L’OSSERVATORE ROMANO
EDIZIONE SETTIMANALE
Unicuique suum
Anno LXV, numero 16 (3.786)
IN LINGUA ITALIANA
Non praevalebunt
Città del Vaticano
Giovedì 16 aprile 2015
Bolla di indizione del giubileo straordinario
Il volto della misericordia
Nella solennità dell’Immacolata l’apertura della Porta santa
Santi Buglioni, «Le sette opere di misericordia: accogliere i pellegrini» (XVI secolo, Pistoia, ospedale del Ceppo)
Sintesi
della fede
cristiana
È una sintesi della fede cristiana la
bolla d’indizione del giubileo della
misericordia voluto da Papa Francesco. E questo perché, come si
legge al suo inizio, proprio la misericordia è il cuore della rivelazione che culmina in Gesù di Nazareth, volto del Padre e del suo amore, misericordiae vultus. Il documento papale è rivolto significativamente a quanti vorranno leggerlo, senza distinzione, e auspica che
«a tutti, credenti e lontani, possa
giungere il balsamo della misericordia come segno del regno di
Dio già presente» tra gli uomini.
Le date che racchiudono questo
nuovo anno santo straordinario
sono spiegate dal Pontefice nella
luce della misericordia, dall’inizio
l’8 dicembre 2015 alla conclusione
il 20 novembre 2016: dunque, tra
le ricorrenze liturgiche dell’Immacolata concezione e della domenica di Cristo re. Per sottolineare
all’inizio del giubileo l’agire di
Dio — che «non ha voluto lasciare
l’umanità sola e in balia del male»
ma ha preservato Maria dalla colpa originale — e con la sua conclusione indicare la signoria di Cristo, e cioè della sua misericordia,
sull’intero universo.
In questa cornice che richiama
tutta la storia della salvezza Papa
Francesco dichiara di aver scelto la
data d’inizio dell’anno santo nel
cinquantesimo anniversario della
conclusione del Vaticano II perché
la Chiesa «sente il bisogno di manCONTINUA A PAGINA 20
La misericordia è «l’architrave che sorregge la vita della
Chiesa». Per questo esige di essere riproposta «con nuovo entusiasmo e con una rinnovata azione pastorale»
all’umanità del nostro tempo. Nasce da questa consapevolezza l’iniziativa di celebrare l’Anno santo della misericordia: un «tempo straordinario di grazia» e di «ritorno all’essenziale», lo definisce Papa Francesco nella bolla di indizione Misericordiae vultus che è stata consegnata solennemente nel corso della celebrazione di sabato
pomeriggio, 11 aprile, nella basilica vaticana. «È giunto
di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono» spiega il Pontefice ribadendo che «la credibilità della Chiesa passa attraverso
la strada dell’amore misericordioso e compassionevole».
La bolla ricorda che il giubileo avrà inizio il prossimo
8 dicembre, cinquantesimo anniversario della conclusione del Vaticano II, con l’apertura della «porta della mi-
sericordia» a San Pietro e successivamente nelle basiliche papali e anche in cattedrali, santuari o chiese particolari sparse nel mondo quale «segno visibile della comunione di tutta la Chiesa». Filo conduttore e motto
dell’anno santo — che si chiuderà il 20 novembre 2016,
solennità di Cristo re — sarà la parola del Signore «misericordiosi come il Padre». Tra i segni peculiari
dell’esperienza giubilare la bolla indica soprattutto il
pellegrinaggio, le opere di misericordia corporale e spirituale, il sacramento della penitenza, l’indulgenza. Papa
Francesco annuncia inoltre che saranno inviati in tutte
le diocesi i «missionari della misericordia», chiamati a
predicare delle «missioni al popolo», e lancia un appello alla conversione rivolto soprattutto ai malavitosi e ai
corrotti.
PAGINE
DA
10-11
A
15
Centenario del martirio degli armeni
Sulla complementarità tra uomo e donna
Senza memoria
la ferita resta aperta
Creatività e audacia
PAGINE
DA
4
A
6
Al settimo vertice delle Americhe
Nuovo ordine di pace
e di giustizia
PAGINA 7
La vita consacrata è un esodo
In cerca
della via d’uscita
Il Papa con il marito e la figlia di Asia Bibi, la cristiana pakistana condannata a morte
PAGINE 2
E
3
PAGINE 8
E
9
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 2
giovedì 16 aprile 2015, numero 16
All’udienza generale Francesco parla della complementarità tra uomo e donna
Creatività e audacia
E chiede di riconoscere il ruolo femminile nella società e nella Chiesa
«L’uomo e la donna devono parlarsi di più, ascoltarsi di più, conoscersi di più,
volersi bene di più», perché «il legame matrimoniale e familiare è una cosa seria,
e lo è per tutti, non solo per i credenti». È quanto ha raccomandato Papa
Francesco all’udienza generale di mercoledì mattina, 15 aprile. Proseguendo con
i fedeli presenti in piazza San Pietro le riflessioni sul tema della famiglia,
il Pontefice ha anche esortato a «fare molto di più in favore» delle donne.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Marc Chagall, «La creazione» (1960)
La catechesi di oggi è dedicata a un
aspetto centrale del tema della famiglia: quello del grande dono che
Dio ha fatto all’umanità con la creazione dell’uomo e della donna e con
il sacramento del matrimonio. Questa catechesi e la prossima riguardano la differenza e la complementarità tra l’uomo e la donna, che stanno
al vertice della creazione divina; le
due che seguiranno poi, saranno su
altri temi del Matrimonio.
Iniziamo con un breve commento
al primo racconto della creazione,
nel Libro della Genesi. Qui leggiamo che Dio, dopo aver creato l’universo e tutti gli esseri viventi, creò il
capolavoro, ossia l’essere umano, che
fece a propria immagine: «a immagi-
In preghiera
per tutti i cristiani perseguitati
C’è «la preghiera per tutti i
cristiani perseguitati» nel saluto
che Asia Bibi ha fatto giungere al
Papa tramite il marito Masih e la
figlia quindicenne Esiham, che
hanno partecipato all’udienza
generale. La donna pakistana,
arrestata nel 2009, è stata
condannata a morte per la legge
sulla blasfemia. «In carcere non ha
perso la fede e ora stiamo cercando
l’appoggio di tutti per liberarla»
spiegano i familiari.
In piazza San Pietro il Papa ha
stretto in un abbraccio anche sei
familiari delle vittime della
sciagura aerea del 24 marzo sulle
Alpi francesi. Da Barcellona per
raccontare a Francesco il loro
dolore sono venuti Marta Grasas
Melich, che ha perso il marito e un
figlio, insieme con Immaculada de
Santiago Parera e Juan José
Ansoleaga Izquierdo che hanno
ricordato il loro figlio.
Significativamente da Istanbul
sono arrivati in piazza San Pietro
«per pregare per la pace» otto
rappresentanti dei dervisci rotanti
del Galata Mevlevi ensemble, del
maestro sheik Nail Kesova.
Insieme a loro dalla Turchia sono
venuti i sei frati minori francescani
che da dieci anni danno vita alla
fraternità internazionale nella
chiesa di Santa Maria Draperis a
Istanbul. «Il 27 ottobre di ogni
anno facciamo sempre un incontro
di preghiera per la pace con i
dervisci» spiega padre Gwénolé
Jeusset. «E così abbiamo deciso di
venire insieme per la prima volta
dal Papa, mentre domani saremo
ad Assisi». Da parte loro i dervisci
rimarcano «l’importanza di ogni
iniziativa comune che punti a unire
tutte le persone di fede».
In piazza San Pietro c’era anche il
coro delle suore armene
dell’Immacolata Concezione.
Significativa, poi, la presenza della
Lega maronita, antica istituzione di
laici cristiani maroniti, esponenti
del mondo politico, culturale,
finanziario e imprenditoriale.
Francesco ha inoltre ringraziato i
nove detenuti del carcere minorile
di Airola, nel beneventano, che gli
hanno portato «parecchi doni fatti
con le loro stesse mani, nei
laboratori artigianali del
penitenziario, tra cui
un’acquasantiera in ceramica»
spiegano i volontari. È la seconda
volta che una rappresentanza dei
giovani detenuti di Airola incontra
Francesco nella cornice
dell’udienza del mercoledì, con la
L’OSSERVATORE ROMANO
EDIZIONE SETTIMANALE
Unicuique suum
IN LINGUA ITALIANA
Non praevalebunt
CONTINUA A PAGINA 3
GIOVANNI MARIA VIAN
direttore
Giuseppe Fiorentino
Servizio fotografico
telefono 06 698 84797 fax 06 698 84998
[email protected]
www.photo.va
vicedirettore
Gianluca Biccini
Città del Vaticano
[email protected]
www.osservatoreromano.va
ne di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27), così dice il
Libro della Genesi.
E come tutti sappiamo, la differenza sessuale è presente in tante
forme di vita, nella lunga scala dei
viventi. Ma solo nell’uomo e nella
donna essa porta in sé l’immagine e
la somiglianza di Dio: il testo biblico lo ripete per ben tre volte in due
versetti (26-27): uomo e donna sono
immagine e somiglianza di Dio.
Questo ci dice che non solo l’uomo
preso a sé è immagine di Dio, non
solo la donna presa a sé è immagine
di Dio, ma anche l’uomo e la donna,
come coppia, sono immagine di
Dio. La differenza tra uomo e donna non è per la contrapposizione, o
la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre ad
immagine e somiglianza di Dio.
L’esperienza ce lo insegna: per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno
della reciprocità tra uomo e donna.
Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti
per ascoltarci e aiutarci a vicenda.
Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione
— nel pensiero e nell’azione, negli
affetti e nel lavoro, anche nella fede
— i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa
essere uomo e donna.
La cultura moderna e contemporanea ha aperto nuovi spazi, nuove
libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione di
questa differenza. Ma ha introdotto
anche molti dubbi e molto scetticismo. Per esempio, io mi domando se
la cosiddetta teoria del gender non
sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che
mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi
con essa. Sì, rischiamo di fare un
passo indietro. La rimozione della
differenza, infatti, è il problema, non
la soluzione. Per risolvere i loro problemi di relazione, l’uomo e la donna devono invece parlarsi di più,
ascoltarsi di più, conoscersi di più,
volersi bene di più. Devono trattarsi
con rispetto e cooperare con amicizia. Con queste basi umane, sostenute dalla grazia di Dio, è possibile
progettare l’unione matrimoniale e
familiare per tutta la vita. Il legame
matrimoniale e familiare è una cosa
seria, e lo è per tutti, non solo per i
coordinatore
TIPO GRAFIA VATICANA EDITRICE
L’OSSERVATORE ROMANO
Redazione
via del Pellegrino, 00120 Città del Vaticano
fax +39 06 698 83 675
don Sergio Pellini S.D.B.
direttore generale
credenti. Vorrei esortare gli intellettuali a non disertare questo tema,
come se fosse diventato secondario
per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta.
Dio ha affidato la terra all’alleanza dell’uomo e della donna: il suo
fallimento inaridisce il mondo degli
affetti e oscura il cielo della speranza. I segnali sono già preoccupanti,
e li vediamo. Vorrei indicare, fra i
molti, due punti che io credo debbono impegnarci con più urgenza.
Il primo. È indubbio che dobbiamo fare molto di più in favore della
donna, se vogliamo ridare più forza
alla reciprocità fra uomini e donne.
È necessario, infatti, che la donna
non solo sia più ascoltata, ma che la
sua voce abbia un peso reale, un’autorevolezza riconosciuta, nella società e nella Chiesa. Il modo stesso con
cui Gesù ha considerato la donna in
un contesto meno favorevole del nostro, perché in quei tempi la donna
era proprio al secondo posto, e Gesù
l’ha considerata in una maniera che
dà una luce potente, che illumina
una strada che porta lontano, della
quale abbiamo percorso soltanto un
pezzetto. Non abbiamo ancora capito in profondità quali sono le cose
che ci può dare il genio femminile,
le cose che la donna può dare alla
società e anche a noi: la donna sa
vedere le cose con altri occhi che
completano il pensiero degli uomini.
È una strada da percorrere con più
creatività e audacia.
Una seconda riflessione riguarda
il tema dell’uomo e della donna
creati a immagine di Dio. Mi chiedo
se la crisi di fiducia collettiva in Dio,
che ci fa tanto male, ci fa ammalare
di rassegnazione all’incredulità e al
cinismo, non sia anche connessa alla
crisi dell’alleanza tra uomo e donna.
In effetti il racconto biblico, con il
grande affresco simbolico sul paradiso terrestre e il peccato originale, ci
dice proprio che la comunione con
Dio si riflette nella comunione della
coppia umana e la perdita della fiducia nel Padre celeste genera divisione e conflitto tra uomo e donna.
Da qui viene la grande responsabilità della Chiesa, di tutti i credenti,
e anzitutto delle famiglie credenti,
per riscoprire la bellezza del disegno
creatore che inscrive l’immagine di
Dio anche nell’alleanza tra l’uomo e
la donna. La terra si riempie di armonia e di fiducia quando l’alleanza
tra l’uomo e la donna è vissuta nel
bene. E se l’uomo e la donna la cercano insieme tra loro e con Dio, senza dubbio la trovano. Gesù ci incoraggia esplicitamente alla testimonianza di questa bellezza che è l’immagine di Dio.
Abbonamenti: Italia, Vaticano: € 58,00 (6 mesi € 29,00); Europa: € 100,00 - $ 148.00 U.S.;
America Latina, Africa, Asia: € 110,00 - $ 160.00 U.S.; America del Nord, Oceania: € 162,00 - $ 240.00
U.S. Per informazioni, sottoscrizioni e rinnovi: telefono 06 698 99 480; fax 06 698 85 164;
[email protected]
Pubblicità Il Sole 24 Ore S.p.A. System Comunicazione Pubblicitaria
Via Monte Rosa 91, 20149 Milano
telefono 02.30221/3003, fax 02.30223214
[email protected]
numero 16, giovedì 16 aprile 2015
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 3
Nei saluti ai gruppi di fedeli
Contro ogni forma di sopruso
Un invito a rifiutare «ogni forma
di sopruso o di ingiustizia,
in particolare contro le donne» è stato
rivolto dal Papa nel saluto ai fedeli
di lingua araba presenti all’udienza
generale. Come di consueto, dopo
la catechesi, il Pontefice si è infatti
rivolto ai vari gruppi di pellegrini
in piazza San Pietro.
Saluto cordialmente i pellegrini venuti dalla Svizzera, dal Belgio, dalla
Turchia, dal Canada e dalla Francia,
in particolare i sacerdoti della Diocesi di Fréjus-Toulon con Monsignor
Dominique Rey e il Seminario
Sant’Ireneo di Lione. Auguro a tutti
un buon pellegrinaggio nella gioia
del Signore Risorto, invitandovi ad
entrare nel mistero della sua infinita
misericordia. Che Dio vi benedica.
Saluto cordialmente i pellegrini di
lingua inglese presenti a questa
Udienza, specialmente quelli provenienti rispettivamente da Inghilterra,
Irlanda, Danimarca, Norvegia, Cina,
Indonesia, Nigeria, Canada e Stati
Uniti. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del
Signore Risorto!
Di cuore saluto i pellegrini provenienti dai paesi di lingua tedesca,
nonché dal Belgio e dai Paesi Bassi.
Un particolare benvenuto al gruppo
dell’apostolato per i non vedenti
dell’Arcidiocesi di Vienna, ai ministranti di Eupen e alle Suore del Divin Redentore che celebrano 25 anni
di professione religiosa. Il Signore
Risorto vi colmi della Sua pace e
gioia. La Sua parola vivente vi guidi
sul vostro cammino. Dio benedica
voi e i vostri cari.
Saluto i pellegrini di lingua spagnola, in particolare i gruppi provenienti da Spagna, Messico, Argentina, Ecuador e da altri Paesi
dell’America latina. Cari fratelli e sorelle, quando l’uomo e la donna insieme collaborano con il piano divino, la terra si riempie di armonia e
di fiducia. Dio vi benedica. Grazie
mille.
Carissimi pellegrini di lingua portoghese, benvenuti! Saluto cordialmente i fedeli della parrocchia di
Torrão e il gruppo di sacerdoti del
Portogallo. Il Signore vi benedica,
perché siate dovunque per tutti faro
di luce del Vangelo. Possa questo
Per tutti i cristiani perseguitati
DA PAGINA 2
speranza — confida il direttore
dell’istituto penale Antonio Di
Lauro — «che diventi un’esperienza
annuale». Ad accompagnare i nove
ragazzi anche il cappellano e il
personale del carcere. Sempre da
Airola è venuta una delegazione
guidata dal sindaco Michele
Napoletano per la benedizione
della grande statua di san Giorgio
che il 23 aprile sarà collocata nella
piazza centrale del paese, «proprio
davanti alla chiesa che rimase
gravemente danneggiata nel
terremoto del 1980, tanto da essere
poi demolita». Trentacinque anni
dopo, dunque, la statua del
patrono sarà messa nel luogo
esatto dov’era la chiesa.
Il gruppo Despar ha donato al
Papa un tir carico di generi
alimentari di prima necessità da
destinare ai poveri attraverso
l’arcivescovo elemosiniere Konrad
Krajewski. A Francesco è stato
inoltre presentato il «chiostro della
Provvidenza», segno forte di carità
realizzato per il quinto centenario
della diocesi di Lanciano-Ortona.
«Abbiamo ristrutturato un antico
monastero agostiniano, nel centro
storico di Lanciano, per creare
spazi per il dialogo, la formazione,
ma anche per un emporio solidale,
uno studio dentistico, un
accompagnamento scolastico e per
l’accoglienza» racconta monsignor
Emidio Cipollone che nei quattro
anni del suo episcopato ha visto
«praticamente decuplicare, da circa
quattrocento a circa quarantamila,
le famiglie aiutate e sostenute dalla
Caritas».
Anche nella prospettiva dell’Anno
santo, Francesco ha incontrato i
sacerdoti della misericordia, preti
diocesani che si ispirano al carisma
delle Figlie di Nostra Signora della
Misericordia nella loro
predicazione e nel loro ministero
apostolico. Sono a Roma per un
incontro di formazione. Un
incoraggiamento particolare il Papa
lo ha rivolto a cinque famiglie
veronesi impegnate in prima linea
nell’educazione alla sicurezza
stradale tra giovani.
E Francesco ha anche incontrato
due squadre di calcio: quella degli
zingari ungheresi — a Roma per
giocare con la rappresentativa delle
guardie svizzere — e quella degli
homeless argentini che ha
partecipato ai mondiali di categoria
ad Amsterdam.
pellegrinaggio rinvigorire nei vostri
cuori il sentire e il vivere con la
Chiesa. La Madonna accompagni e
protegga voi tutti e i vostri cari!
Rivolgo un cordiale benvenuto ai
fedeli di lingua araba, in particolare
a quelli provenienti dal Libano e dal
Medio Oriente. Dio creò l’uomo,
maschio e femmina, a sua immagine,
dando ad entrambi la stessa dignità
e uguaglianza: lavoriamo, nella
Chiesa e nella società, affinché tale
uguaglianza venga rispettata, rifiutando ogni forma di sopruso o di ingiustizia, in particolare contro le
donne. Il Signore vi benedica tutti e
vi protegga dal maligno!
Saluto i pellegrini polacchi, in
modo particolare tutti gli sposi. Insieme a voi rendo grazie a Dio per
la gioia e per la pace delle coppie felici. Sappiamo tuttavia quante sono
le famiglie e i coniugi provati dalle
crisi e dalle divisioni. Le raccomando alle vostre preghiere. Confidando
nella potenza di Cristo Risorto, riscoprano la forza unificante dell’alleanza sacramentale e ricostruiscano
la reciproca fiducia nel perdono e
nella riconciliazione. Vi benedico di
cuore.
Il dono di generi alimentari di prima necessità per i poveri
Saluto cordialmente i superiori e i
seminaristi del Seminario Maggiore
di Grodno in Bielorussia, venuti in
pellegrinaggio di ringraziamento per
i 25 anni della sua attività. Carissimi,
la visita alle tombe degli Apostoli
Pietro e Paolo vi ricorda che la vocazione al sacerdozio è prima di tutto
un incontro personale con Cristo Risorto, il quale chiama e invia i suoi
discepoli a portare a tutti il lieto annuncio della salvezza. Uniti a Lui,
avrete il coraggio di testimoniare il
Vangelo con franchezza e misericordia. Vi benedico con affetto. Sia lodato Gesù Cristo!
Rivolgo un cordiale benvenuto ai
pellegrini di lingua italiana. Sono
lieto di accogliere gli studenti del
Claretianum in occasione dell’Anno
per la vita consacrata e le Religiose
del Santissimo Sacramento che ricordano i trecento anni della loro Congregazione: vi esorto a vivere sempre
la vocazione religiosa con la gioia e
l’entusiasmo dei discepoli del Signore Risorto, sempre fedeli al carisma
di fondazione. Saluto i Sacerdoti
della Misericordia, la Scuola Sottoufficiali di Viterbo, la Reale Mutua Assicurazioni e i gruppi parrocchiali, in particolare i fedeli di Cervinara e Airola. Saluto la delegazione di Arezzo che mi ha accolto qui
in piazza, e che con tanta cortesia
mi ha regalato la sua bandiera e il libro della sua storia. Grazie tante!
Un particolare pensiero va ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. In questo tempo di Pasqua, vi
incoraggio ad essere dei veri testimoni della Risurrezione, nelle vostre famiglie e nei vostri ambienti di vita:
cari giovani, specialmente voi studenti della Scuola Sant’Elisabetta di
Roma, ricordate che la misericordia
è il dono più bello di Dio; cari ammalati, lasciatevi consolare dal Padre
Celeste; e voi, cari sposi novelli, vivete il vostro amore imitando l’amore misericordioso di Gesù.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 4
Nel centenario dello sterminio degli armeni considerato «il primo genocidio del
giovedì 16 aprile 2015, numero 16
XX
secolo»
Senza memoria la ferita resta aperta
Il male non proviene da Dio e non deve trovare giustificazione nel suo nome
«Non si può nascondere o negare il male» perché senza la memoria le ferite
della storia restano aperte. Il monito di Papa Francesco è risuonato domenica
mattina, 12 aprile, nella basilica vaticana durante la messa celebrata in occasione
del centenario del martirio degli armeni, quello che generalmente viene considerato
come «il primo genocidio del XX secolo» ha affermato il Pontefice citando il testo
della dichiarazione comune firmata nel 2001 da Giovanni Paolo II e Karekin II.
All’inizio della messa, durante la quale si è svolto il rito della proclamazione
di san Gregorio di Narek a dottore della Chiesa, Francesco ha pronunciato
il seguente saluto.
Cari fratelli e sorelle armeni, cari
fratelli e sorelle!
In diverse occasioni ho definito questo tempo un tempo di guerra, una
terza guerra mondiale “a pezzi”, in
cui assistiamo quotidianamente a crimini efferati, a massacri sanguinosi e
alla follia della distruzione. Purtroppo ancora oggi sentiamo il grido
soffocato e trascurato di tanti nostri
fratelli e sorelle inermi, che a causa
della loro fede in Cristo o della loro
appartenenza etnica vengono pubblicamente e atrocemente uccisi —
decapitati, crocifissi, bruciati vivi —,
oppure costretti ad abbandonare la
loro terra.
Anche oggi stiamo vivendo una
sorta di genocidio causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino che esclama: «A me che importa?»; «Sono
forse io il custode di mio fratello?»
(Gen 4, 9; Omelia a Redipuglia, 13
settembre 2014).
La nostra umanità ha vissuto nel
secolo scorso tre grandi tragedie
inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come «il
primo genocidio del XX secolo»
(Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione Comune, Etchmiadzin, 27
settembre 2001); essa ha colpito il
vostro popolo armeno — prima nazione cristiana —, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei
e ai greci. Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi. Le altre due furono quelle
perpetrate dal nazismo e dallo stalinismo. E più recentemente altri stermini di massa, come quelli in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in
Bosnia. Eppure sembra che l’umanità non riesca a cessare di versare
sangue innocente. Sembra che l’entusiasmo sorto alla fine della seconda guerra mondiale stia scomparendo e dissolvendosi. Pare che la famiglia umana rifiuti di imparare dai
propri errori causati dalla legge del
terrore; e così ancora oggi c’è chi
cerca di eliminare i propri simili, con
l’aiuto di alcuni e con il silenzio
complice di altri che rimangono
spettatori. Non abbiamo ancora imparato che «la guerra è una follia,
una inutile strage» (cfr. Omelia a
Redipuglia, 13 settembre 2014).
Cari fedeli armeni, oggi ricordiamo con cuore trafitto dal dolore, ma
colmo della speranza nel Signore Risorto, il centenario di quel tragico
evento, di quell’immane e folle sterminio, che i vostri antenati hanno
crudelmente patito. Ricordarli è necessario, anzi, doveroso, perché laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la
ferita; nascondere o negare il male è
come lasciare che una ferita continui
a sanguinare senza medicarla!
Vi saluto con affetto e vi ringrazio
per la vostra testimonianza.
Saluto e ringrazio per la sua presenza il Signor Serž Sargsyan, Presidente della Repubblica di Armenia.
Saluto cordialmente anche i miei
fratelli Patriarchi e Vescovi: Sua Santità Karekin II, Supremo Patriarca e
Catholicos di Tutti gli Armeni; Sua
Santità Aram I, Catholicos della
Grande Casa di Cilicia; Sua Beatitudine Nerses Bedros XIX, Patriarca di
Cilicia degli Armeni Cattolici; e i
due Catholicossati della Chiesa Apostolica Armena e il Patriarcato della
Chiesa Armeno-Cattolica.
Con la ferma certezza che il male
non proviene mai da Dio, infinitamente Buono, e radicati nella fede,
professiamo che la crudeltà non può
mai essere attribuita all’opera di Dio
e, per di più, non deve assolutamente trovare nel suo Santo Nome alcuna giustificazione. Viviamo insieme
questa Celebrazione fissando il nostro sguardo su Gesù Cristo Risorto,
Vincitore della morte e del male!
Gesù colma l’abisso
La malvagità umana apre voragini nel mondo
Di seguito il testo dell’omelia del Papa
durante la messa concelebrata
da Nerses Bedros XIX Tarmouni,
patriarca di Cilicia degli armeni.
San Giovanni, che era presente nel
Cenacolo con gli altri discepoli quella sera del primo giorno dopo il sabato, riferisce che Gesù venne in
mezzo a loro, disse: «Pace a voi!», e
«mostrò loro le mani e il fianco»
(20, 19-20), mostrò le sue piaghe.
Così essi riconobbero che non era
una visione, era proprio Lui, il Signore, e furono pieni di gioia.
Otto giorni dopo Gesù venne di
nuovo nel Cenacolo e mostrò le piaghe a Tommaso, perché le toccasse
come lui voleva, per poter credere e
diventare anch’egli un testimone della Risurrezione.
Anche a noi, oggi, in questa Domenica che san Giovanni Paolo II ha
voluto intitolare alla Divina Misericordia, il Signore mostra, mediante
il Vangelo, le sue piaghe. Sono piaghe di misericordia. È vero: le piaghe
di Gesù sono piaghe di misericordia.
Nelle [loro] sue piaghe noi siamo
stati guariti.
Gesù ci invita a guardare queste
piaghe, ci invita a toccarle, come ha
fatto con Tommaso, per guarire la
nostra incredulità. Ci invita soprattutto ad entrare nel mistero di queste piaghe, che è il mistero del suo
amore misericordioso.
Attraverso di esse, come in una
breccia luminosa, noi possiamo vedere tutto il mistero di Cristo e di
Dio: la sua Passione, la sua vita terrena — piena di compassione per i
piccoli e i malati — la sua incarnazione nel grembo di Maria. E possiamo risalire a ritroso tutta la storia
della salvezza: le profezie — specialmente quella del Servo di Jahweh —,
i Salmi, la Legge e l’alleanza, fino
alla liberazione dall’Egitto, alla prima pasqua e al sangue degli agnelli
immolati; e ancora ai Patriarchi fino
ad Abramo e poi nella notte dei
tempi fino ad Abele e al suo sangue
che grida dalla terra. Tutto questo
possiamo vedere attraverso le piaghe
di Gesù Crocifisso e Risorto, e come
Maria nel Magnificat possiamo riconoscere che «la sua misericordia si
stende di generazione in generazione» (cfr. Lc 1, 50).
Di fronte agli eventi tragici della
storia umana rimaniamo a volte come schiacciati, e ci domandiamo
«perché?». La malvagità umana può
aprire nel mondo come delle voragini, dei grandi vuoti: vuoti di amore,
vuoti di bene, vuoti di vita. E allora
ci domandiamo: come possiamo colmare queste voragini? Per noi è impossibile; solo Dio può colmare questi vuoti che il male apre nei nostri
cuori e nella nostra storia. È Gesù,
fatto uomo e morto sulla croce, che
colma l’abisso del peccato con l’abisso della sua misericordia.
San Bernardo, in un suo commento al Cantico dei Cantici (Disc. 61, 35; Opera omnia 2, 150-151), si sofferma
proprio sul mistero delle piaghe del
Signore, usando espressioni forti, audaci, che ci fa bene riprendere oggi.
Dice che «attraverso le ferite del corpo si manifesta l’arcana carità del
cuore [di Cristo], si fa palese il grande mistero dell’amore, si mostrano le
viscere di misericordia del nostro
D io».
Ecco, fratelli e sorelle, la via che
Dio ci ha aperto per uscire, finalmente, dalla schiavitù del male e
della morte ed entrare nella terra
della vita e della pace. Questa Via è
Lui, è Gesù, Crocifisso e Risorto, e
sono in particolare le sue piaghe piene di misericordia.
I Santi ci insegnano che il mondo
si cambia a partire dalla conversione
del proprio cuore, e questo avviene
grazie alla misericordia di Dio. Per
questo, sia davanti ai miei peccati sia
davanti alle grandi tragedie del
mondo, «la coscienza si turberà, ma
non ne sarà scossa perché mi ricorderò delle ferite del Signore. Infatti
“è stato trafitto per i nostri delitti”
(Is 53, 5). Che cosa vi è di tanto
mortale che non possa essere disciolto dalla morte di Cristo?» (ibid.).
Tenendo lo sguardo rivolto alle
piaghe di Gesù Risorto, possiamo
cantare con la Chiesa: «Il suo amore
è per sempre» (Sal 117, 2); la sua misericordia è eterna. E con queste parole impresse nel cuore, camminiamo
sulle strade della storia, con la mano
nella mano del nostro Signore e Salvatore, nostra vita e nostra speranza.
numero 16, giovedì 16 aprile 2015
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 5
Il Papa ricorda che anche oggi assistiamo a massacri sanguinosi e alla follia della distruzione
Dal dolore alla riconciliazione
Solo con la pace le nuove generazioni possono aprirsi a un futuro migliore
Al termine della messa di domenica
mattina, il Pontefice ha consegnato
un messaggio nelle mani dei tre
patriarchi presenti — Karekin II,
patriarca supremo e catholicos di tutti
gli armeni, Aram I, catholicos
di Cilicia, e Nerses Bedros XIX
Tarmouni, patriarca di Cilicia
degli armeni — e del presidente
della Repubblica dell’Armenia, Serzh
Sargsyan. Eccone il testo.
Cari fratelli e sorelle armeni,
un secolo è trascorso da quell’orribile massacro che fu un vero martirio
del vostro popolo, nel quale molti
innocenti morirono da confessori e
martiri per il nome di Cristo (cfr.
Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione comune, Etchmiadzin, 27
settembre 2001). Non vi è famiglia
armena ancora oggi, che non abbia
perduto in quell’evento qualcuno dei
suoi cari: davvero fu quello il Metz
Yeghern, il “Grande Male”, come
avete chiamato quella tragedia. In
questa ricorrenza provo un sentimento di forte vicinanza al vostro
popolo e desidero unirmi spiritualmente alle preghiere che si levano
dai vostri cuori, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità.
Ci è data un’occasione propizia di
pregare insieme nell’odierna celebrazione, in cui proclamiamo Dottore
della Chiesa san Gregorio di Narek.
Esprimo viva gratitudine per la loro
presenza a Sua Santità Karekin II,
Supremo Patriarca e Catholicos di
Tutti gli Armeni, a Sua Santità
Aram I, Catholicos della Grande Casa di Cilicia, e a Sua Beatitudine
Nerses Bedros XIX, Patriarca di Cilicia degli Armeni Cattolici.
San Gregorio di Narek, monaco
del X secolo, più di ogni altro ha saputo esprimere la sensibilità del vo-
San Gregorio di Narek
stro popolo, dando voce al grido,
che diventa preghiera, di un’umanità
dolente e peccatrice, oppressa
dall’angoscia della propria impotenza ma illuminata dallo splendore
dell’amore di Dio e aperta alla speranza del suo intervento salvifico,
capace di trasformare ogni cosa. «In
virtù della sua potenza, io credo con
una speranza che non tentenna, in
sicura attesa, rifugiandomi nelle mani del Potente ... di vedere Lui stesso, nella sua misericordia e tenerezza
e nell’eredità dei Cieli» (San Gregorio di Narek, Libro delle Lamentazioni, XII).
La vostra vocazione cristiana è assai antica e risale al 301, anno in cui
san Gregorio l’Illuminatore guidò alla conversione e al battesimo l’Armenia, la prima tra le nazioni che nel
corso dei secoli hanno abbracciato il
Vangelo di Cristo. Quell’evento spirituale ha segnato in maniera indelebile il popolo armeno, la sua cultura
e la sua storia, nelle quali il martirio
occupa un posto preminente, come
attesta in modo emblematico la testimonianza sacrificale di san Vardan e
dei suoi compagni nel V secolo.
Il vostro popolo, illuminato dalla
luce di Cristo e con la sua grazia, ha
superato tante prove e sofferenze,
animato dalla speranza che deriva
dalla Croce (cfr. Rm 8, 31-39). Come
ebbe a dirvi san Giovanni Paolo II:
«La vostra storia di sofferenza e di
martirio è una perla preziosa, di cui
va fiera la Chiesa universale. La fede
in Cristo, redentore dell’uomo, vi ha
infuso un coraggio ammirevole nel
cammino, spesso tanto simile a quello della croce, sul quale avete avanzato con determinazione, nel proposito di conservare la vostra identità
di popolo e di credenti» (Omelia, 21
novembre 1987).
Questa fede ha accompagnato e
sorretto il vostro popolo anche nel
tragico evento di cento anni fa che
«generalmente viene definito come il
primo genocidio del XX secolo»
(Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione Comune, Etchmiadzin, 27
settembre 2001). Il Papa Benedetto
XV, che condannò come «inutile
strage» la Prima Guerra Mondiale
(AAS, IX [1917], 429), si prodigò fino
all’ultimo per impedirlo, riprendendo gli sforzi di mediazione già
compiuti dal Papa Leone XIII di
fronte ai «funesti eventi» degli anni
1894-1896. Egli scrisse per questo al
sultano Maometto V, implorando
che fossero risparmiati tanti
innocenti (cfr. Lettera del
10 settembre 1915) e fu
ancora lui che, nel
Concistoro Segreto
del 6 dicembre
1915, affermò con
vibrante sgomento: Miserrima Armenorum gens ad
interitum prope ducitur, (AAS, VII
[1915], 510).
Fare memoria
di quanto accaduto è doveroso non
solo per il popolo
armeno e per la Chiesa universale,
ma per l’intera famiglia umana, perché il monito che viene da questa
tragedia ci liberi dal ricadere in simili orrori, che offendono Dio e la dignità umana. Anche oggi, infatti,
questi conflitti talvolta degenerano
in violenze ingiustificabili, fomentate
strumentalizzando le diversità etniche e religiose. Tutti coloro che sono
posti a capo delle Nazioni e delle
Organizzazioni internazionali sono
chiamati ad opporsi a tali crimini
con ferma responsabilità, senza cedere ad ambiguità e compromessi.
Questa dolorosa ricorrenza diventi
per tutti motivo di riflessione umile
e sincera e di apertura del cuore al
perdono, che è fonte di pace e di
rinnovata speranza. San Gregorio di
Narek,
formidabile
interprete
dell’animo umano, sembra pronunciare per noi parole profetiche: «Io
mi sono volontariamente caricato di
tutte le colpe, da quelle del primo
padre fino a quello dell’ultimo dei
suoi discendenti, e me ne sono considerato responsabile» (Libro delle
Lamentazioni, LXXII). Quanto ci colpisce questo suo sentimento di universale solidarietà! Come ci sentiamo
piccoli di fronte alla grandezza delle
sue invocazioni: «Ricordati, [Signore,] ... di quelli che nella stirpe umana sono nostri nemici, ma per il loro
bene: compi in loro perdono e misericordia (...) Non sterminare coloro
che mi mordono: trasformali! Estirpa la viziosa condotta terrena e radica quella buona in me e in loro»
(ibid., LXXXIII).
Dio conceda che si riprenda il
cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco, e la pace sorga anche nel Nagorno Karabakh. Si tratta di popoli che, in passato, nonostante contrasti e tensioni,
hanno vissuto lunghi periodi di pacifica convivenza, e persino nel turbine delle violenze hanno visto casi
di solidarietà e di aiuto reciproco.
Solo con questo spirito le nuove generazioni possono aprirsi a un futuro migliore e il sacrificio di molti
può diventare seme di giustizia e di
pace.
Per noi cristiani, questo sia soprattutto un tempo forte di preghiera,
affinché il sangue versato, per la forza redentrice del sacrificio di Cristo,
operi il prodigio della piena unità
tra i suoi discepoli. In particolare
rinsaldi i legami di fraterna amicizia
che già uniscono la Chiesa Cattolica
e la Chiesa Armena Apostolica. La
testimonianza di tanti fratelli e sorelle che, inermi, hanno sacrificato la
vita per la loro fede, accomuna le diverse confessioni: è l’ecumenismo
del sangue, che condusse san Giovanni Paolo II a celebrare insieme,
durante il Giubileo del 2000, tutti i
martiri del XX secolo. Anche la celebrazione di oggi si colloca in questo
contesto spirituale ed ecclesiale. A
questo evento partecipano rappresentanze delle nostre due Chiese
e si uniscono spiritualmente numerosi fedeli sparsi nel mondo, in un segno che riflette sulla terra la comunione perfetta che esiste tra gli spiriti beati del cielo. Con animo fraterno, assicuro la mia vicinanza in occasione della cerimonia di canonizzazione dei martiri della Chiesa Armena Apostolica, che avrà luogo il
23 aprile prossimo nella Cattedrale
di Etchmiadzin, e alle commemorazioni che si terranno ad Antelias in
luglio.
Affido alla Madre di Dio queste
intenzioni con le parole di san Gregorio di Narek:
«O purezza delle Vergini, corifea
dei beati,
Madre dell’edificio incrollabile
della Chiesa,
Genitrice del Verbo immacolato di
D io,
(...)
rifugiandoci sotto le ali sconfinate
di difesa della tua intercessione,
innalziamo le nostre mani verso di
te,
e con indubitata speranza crediamo di essere salvati».
(Panegirico alla Vergine)
Dal Vaticano, 12 aprile 2015
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
giovedì 16 aprile 2015, numero 16
Vetrata raffigurante
l’incredulità di Tommaso
L’incredulità di Tommaso
Nel segno dei chiodi
«Nel segno dei chiodi» Tommaso
«trova la prova decisiva che era
amato, che era atteso, che era capito».
Lo ha detto Papa Francesco
commentando al Regina caeli
del 12 aprile le letture della seconda
domenica di Pasqua. Al termine
della messa nella basilica vaticana,
il Pontefice si è affacciato alla finestra
dello studio del Palazzo apostolico
per la recita della preghiera mariana
con i fedeli presenti in piazza
San Pietro.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi è l’ottavo giorno dopo la
Pasqua, e il Vangelo di Giovanni ci
documenta le due apparizioni di Gesù Risorto agli Apostoli riuniti nel
Cenacolo: quella della sera di Pasqua, assente Tommaso, e quella dopo otto giorni, presente Tommaso.
La prima volta, il Signore mostrò le
ferite del suo corpo ai discepoli, fece
il segno di soffiare su di loro e disse:
«Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20, 21). Trasmette ad essi la sua stessa missione,
con la forza dello Spirito Santo.
Ma quella sera mancava Tommaso, il quale non volle credere alla testimonianza degli altri. “Se non vedo e non tocco le sue piaghe — disse
—, io non credo” (cfr. Gv 20, 25).
Otto giorni dopo — cioè proprio come oggi — Gesù ritorna a presentarsi
in mezzo ai suoi e si rivolge subito a
Tommaso, invitandolo a toccare le
ferite delle sue mani e del suo fian-
co. Viene incontro alla sua incredulità, perché, attraverso i segni della
passione, possa raggiungere la pienezza della fede pasquale, cioè la fede nella risurrezione di Gesù.
Tommaso è uno che non si accontenta e cerca, intende verificare di
persona, compiere una propria esperienza personale. Dopo le iniziali resistenze e inquietudini, alla fine arriva anche lui a credere, pur avanzando con fatica, ma arriva alla fede.
Gesù lo attende pazientemente e si
offre alle difficoltà e alle insicurezze
dell’ultimo arrivato. Il Signore proclama “beati” quelli che credono
senza vedere (cfr. v. 29) — e la prima
di questi è Maria sua Madre —, però
viene incontro anche all’esigenza del
discepolo incredulo: «Metti qui il
tuo dito e guarda le mie mani...» (v.
27). Al contatto salvifico con le piaghe del Risorto, Tommaso manifesta
le proprie ferite, le proprie piaghe, le
proprie lacerazioni, la propria umiliazione; nel segno dei chiodi trova
la prova decisiva che era amato, che
era atteso, che era capito. Si trova di
fronte un Messia pieno di dolcezza,
di misericordia, di tenerezza. Era
quello il Signore che cercava, lui,
nelle profondità segrete del proprio
essere, perché aveva sempre saputo
che era così. E quanti di noi cerchiamo nel profondo del cuore di incontrare Gesù, così come è: dolce, misericordioso, tenero! Perché noi sappiamo, nel profondo, che Lui è così.
Ritrovato il contatto personale con
l’amabilità e la misericordiosa pa-
zienza del Cristo,
Tommaso comprende
il significato profondo della sua Risurrezione e, intimamente
trasformato, dichiara
la sua fede piena e
totale in Lui esclamando: «Mio Signore e mio Dio!» (v.
28).
Bella,
bella
espressione, questa di
Tommaso!
Egli
ha
potuto
“toccare” il Mistero
pasquale che manifesta pienamente l’amore salvifico di Dio,
ricco di misericordia (cfr. Ef 2, 4). E
come Tommaso anche tutti noi: in
questa seconda Domenica di Pasqua
siamo invitati a contemplare nelle
piaghe del Risorto la Divina Misericordia, che supera ogni umano limite e risplende sull’oscurità del male e
del peccato. Un tempo intenso e
prolungato per accogliere le immense ricchezze dell’amore misericordioso di Dio sarà il prossimo Giubileo
Straordinario della Misericordia, la cui
Bolla di indizione ho promulgato ieri sera qui, nella Basilica di San Pietro. Quella Bolla incomincia con le
parole “Misericordiae Vultus”: il Volto
della Misericordia è Gesù Cristo. Teniamo lo sguardo rivolto a Lui, che
sempre ci cerca, ci aspetta, ci perdona; tanto misericordioso, non si spaventa delle nostre miserie. Nelle sue
piaghe ci guarisce e perdona tutti i
nostri peccati. E la Vergine Madre ci
aiuti ad essere misericordiosi con gli
altri come Gesù lo è con noi.
Al termine del Regina caeli,
il Pontefice come di consueto
ha salutato i gruppi presenti,
rivolgendo un particolare augurio
ai fedeli delle Chiese d’Oriente
che celebravano la Pasqua.
Cari fratelli e sorelle,
rivolgo un cordiale saluto a voi fedeli di Roma e a voi venuti da tante
parti del mondo. Saluto i pellegrini
della diocesi di Metuchen (Stati
Uniti d’America), le Ancelle del
Bambino Gesù provenienti dalla
CONTINUA A PAGINA 7
Al sinodo patriarcale della Chiesa armeno-cattolica
Una storia di fedeltà e di risurrezione
Le celebrazioni di domenica 11 aprile
sono state precedute, nella mattina
di giovedì 9, dall’udienza di Papa
Francesco ai membri del sinodo
patriarcale della Chiesa armenocattolica. Dopo il saluto rivoltogli
dal patriarca Nersos Bedros XIX
Tarmouni, nella biblioteca privata
del Palazzo apostolico, il Pontefice
ha pronunciato il seguente discorso.
Beatitudine, Eccellenze!
Vi saluto fraternamente e vi ringrazio per questo incontro, che si colloca nell’imminenza della celebrazione
di domenica prossima nella Basilica
Vaticana. Eleveremo la preghiera del
suffragio cristiano per i figli e le figlie del vostro amato popolo, che
furono vittime cento anni orsono.
Invocheremo la Divina Misericordia
perché ci aiuti tutti, nell’amore per
la verità e la giustizia, a risanare
ogni ferita e ad affrettare gesti concreti di riconciliazione e di pace tra
le Nazioni che ancora non riescono
a giungere ad un ragionevole consenso sulla lettura di tali tristi vicende.
In voi e attraverso di voi saluto i
sacerdoti, i religiosi e le religiose, i
seminaristi e i fedeli laici della Chiesa Armeno-Cattolica: so che in tanti
vi hanno accompagnato in questi
giorni qui a Roma, e che molti di
più saranno uniti spiritualmente a
noi, dai Paesi della Diaspora, come
gli Stati Uniti, l’America Latina,
l’Europa, la Russia, l’Ucraina, fino
alla Madrepatria. Penso con tristezza
in particolare a quelle zone, come
quella di Aleppo — il Vescovo mi ha
detto «la città martire» — che cento
anni fa furono approdo sicuro per i
pochi sopravvissuti. Tali regioni, in
questo ultimo periodo, hanno visto
messa in pericolo la permanenza dei
cristiani, non solo armeni.
Il vostro popolo, che la tradizione
riconosce come il primo a convertirsi
al cristianesimo nel 301, ha una storia bimillenaria e custodisce un ammirevole patrimonio di spiritualità e
di cultura, unito ad una capacità di
risollevarsi dopo le tante persecuzioni e prove a cui è stato sottoposto.
Vi invito a coltivare sempre un sentimento di riconoscenza al Signore,
per essere stati capaci di mantenere
la fedeltà a Lui anche nelle epoche
più difficili. È importante, inoltre,
chiedere a Dio il dono della sapienza del cuore: la commemorazione
delle vittime di cento anni fa ci pone
infatti dinanzi alle tenebre del mysterium iniquitatis. Non si capisce se
non con questo atteggiamento.
Come dice il Vangelo, dall’intimo
del cuore dell’uomo possono scate-
narsi le forze più oscure, capaci di
giungere a programmare sistematicamente l’annientamento del fratello, a
considerarlo un nemico, un avversario, o addirittura individuo privo
della stessa dignità umana. Ma per i
credenti la domanda sul male compiuto dall’uomo introduce anche al
mistero della partecipazione alla Passione redentrice: non pochi figli e figlie della nazione armena furono capaci di pronunciare il nome di Cristo sino all’effusione del sangue o alla morte per inedia nell’esodo interminabile cui furono costretti.
Le pagine sofferte della storia del
vostro popolo continuano, in certo
senso, la passione di Gesù, ma in
ciascuna di esse è posto il germoglio
della sua Resurrezione. Non venga
meno in voi Pastori l’impegno di
educare i fedeli laici a saper leggere
la realtà con occhi nuovi, per giungere a dire ogni giorno: il mio popolo non è soltanto quello dei sofferenti per Cristo, ma soprattutto dei risorti in Lui. Per questo è importante
fare memoria del passato, ma per attingere da esso linfa nuova per alimentare il presente con l’annuncio
gioioso del Vangelo e con la testimonianza della carità. Vi incoraggio a
sostenere il cammino di formazione
permanente dei sacerdoti e delle persone consacrate. Essi sono i vostri
primi collaboratori: la comunione tra
loro e voi sarà rafforzata dall’esemplare fraternità che essi potranno
scorgere in seno al Sinodo e col Patriarca.
Il nostro pensiero riconoscente va
in questo momento a quanti si adoperarono per recare qualche sollievo
al dramma dei vostri antenati. Penso
specialmente a Papa Benedetto XV
che intervenne presso il Sultano
Mehmet V per far cessare i massacri
degli armeni. Questo Pontefice fu
grande amico dell’Oriente cristiano:
egli istituì la Congregazione per le
Chiese Orientali e il Pontificio Istituto Orientale, e nel 1920 iscrisse
Sant’Efrem il Siro tra i Dottori della
Chiesa Universale. Sono lieto che
questo nostro incontro avvenga alla
vigilia dell’analogo gesto che domenica avrò la gioia di compiere con la
grande figura di San Gregorio di
Narek.
Alla sua intercessione, affido specialmente il dialogo ecumenico tra la
Chiesa Armeno-Cattolica e la Chiesa
Armeno-Apostolica, memori del fatto che cento anni fa come oggi, il
martirio e la persecuzione hanno già
realizzato “l’ecumenismo del sangue”. Su di voi e sui vostri fedeli invoco ora la benedizione del Signore,
mentre vi chiedo di non dimenticare
di pregare per me! Grazie!
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 16, giovedì 16 aprile 2015
pagina 7
Messaggio del Papa al settimo vertice delle Americhe a Panamá
Nuovo ordine di pace e di giustizia
La speranza di «un nuovo ordine
di pace e di giustizia» che promuova
«la globalizzazione della solidarietà e
della fraternità» è stata espressa
dal Papa in un messaggio inviato
al presidente di Panamá in occasione
del settimo vertice delle Americhe.
Pubblichiamo di seguito una traduzione
del messaggio, il cui testo originale
in spagnolo è stato letto dal cardinale
segretario di Stato, Pietro Parolin,
durante la sessione inaugurale
dei lavori svoltasi venerdì 10 aprile.
All’Eccellentissimo Signor
Juan Carlos Varela Rodríguez
Presidente di Panamá
Come ospite del VII Vertice delle
Americhe, desidero farLe giungere il
mio cordiale saluto e, attraverso di
Lei, a tutti i Capi di Stato e di Governo, così come a tutte le delegazioni partecipanti. Allo stesso tempo, mi piacerebbe manifestare la mia
vicinanza e il mio incoraggiamento
affinché il dialogo sincero consegua
tale mutua collaborazione che unisce
gli sforzi e supera le differenze nel
cammino verso il bene comune.
Chiedo a Dio che, condividendo i
valori comuni, si arrivi a impegni di
collaborazione nell’ambito nazionale
o regionale che affrontino con realismo i problemi e trasmettano speranza.
Mi sento in sintonia con il tema
scelto per questo Vertice: «Prosperità con equità: la sfida della cooperazione nelle Americhe».
Sono convinto — e così l’ho
espresso nell’Esortazione apostolica
Evangelii gaudium — che la inequità,
la ingiusta distribuzione delle ricchezze e delle risorse, è fonte di conflitti e di violenza fra i popoli, perché suppone che il progresso di alcuni si costruisca col necessario sacrificio di altri e che, per poter vivere degnamente, bisogni lottare con-
tro gli altri (cfr. 52, 54). Il benessere
così raggiunto è ingiusto nelle sue
radici e attenta alla dignità delle
persone. Ci sono «beni di prima necessità», come la terra, il lavoro e la
casa, e «servizi pubblici», come la
salute, l’educazione, la sicurezza,
l’ambiente, dai quali nessun essere
umano dovrebbe rimanere escluso.
Questo desiderio — che tutti condividiamo — sfortunatamente è ancora lontano dalla realtà. Tuttora continuano ad esserci disuguaglianze ingiuste, che offendono la dignità delle persone. La grande sfida del nostro mondo è la globalizzazione della solidarietà e della fraternità al posto della globalizzazione della discriminazione e dell’indifferenza e, finché non si consegue una distribuzione equa della ricchezza, non si risolveranno i mali della nostra società
(cfr. Evangelii gaudium 202).
Non possiamo negare che molti
paesi hanno sperimentato un forte
sviluppo economico negli ultimi anni, però è altrettanto vero che altri
continuano prostrati nella povertà.
Regina caeli
DA PAGINA 6
Croazia, le Figlie della Divina
Carità, i gruppi parrocchiali di
Forlì e Gravina di Puglia, e tutti i ragazzi e giovani presenti,
in particolare gli alunni della
scuola “Figlie di Gesù” di Modena, quelli del “Liceo Verga”
di Adriano e i cresimandi di
Palestrina. Saluto i pellegrini
che hanno partecipato alla Santa Messa presieduta dal Cardinale Vicario di Roma nella
chiesa di Santo Spirito in Sassia, centro di devozione alla Divina Misericordia.
Saluto le comunità neocatecumenali di Roma, che iniziano
oggi una speciale missione nelle
piazze della Città per pregare e
dare testimonianza della fede.
Rivolgo un cordiale augurio
ai fedeli delle Chiese d’O riente
che, secondo il loro calendario,
celebrano oggi la Santa Pasqua.
Mi unisco alla gioia del loro
annuncio del Cristo Risorto:
Christós anésti! Salutiamo i nostri fratelli di Oriente in questo
giorno della loro Pasqua, con
un applauso, tutti!
Rivolgo anche un sentito saluto ai fedeli armeni, che sono
venuti a Roma e hanno partecipato alla Santa Messa con la
presenza dei miei fratelli, i tre
Patriarchi, e numerosi Vescovi.
Nelle settimane scorse mi sono arrivati da ogni parte del
mondo tanti messaggi di auguri
pasquali. Con gratitudine li ricambio a tutti. Desidero ringraziare di cuore i bambini, gli anziani, le famiglie, le diocesi, le
comunità parrocchiali e religiose, gli enti e le diverse associazioni, che hanno voluto manifestarmi affetto e vicinanza. E
continuate a pregare per me,
per favore!
A tutti voi auguro una buona
domenica. Buon pranzo e arrivederci!
Per di più, nelle economie emergenti, gran parte della popolazione non
ha beneficiato del progresso economico generale, al punto che frequentemente si è aperto un divario maggiore tra ricchi e poveri. La teoria
del «gocciolamento» e della «ricaduta favorevole» (cfr. Evangelii gaudium 54) si è rivelata sbagliata: non
è sufficiente sperare che i poveri raccolgano le briciole che cadono dalla
tavola dei ricchi. Sono necessarie
azioni dirette a favore dei più svantaggiati, l’attenzione per i quali, come quella dei più piccoli all’interno
di una famiglia, dovrebbe essere
prioritaria per i governanti. La Chiesa ha sempre difeso «la promozione
delle persone concrete» (Centesimus
annus, 46), prendendosi cura delle
loro necessità e offrendo loro possibilità di sviluppo.
Mi piacerebbe anche richiamare
l’attenzione sul problema dell’immigrazione. L’immensa disparità delle
opportunità tra alcuni paesi e altri fa
sì che molte persone si vedano obbligate ad abbandonare la propria
terra, la propria famiglia, diventando
facile preda del traffico delle persone e del lavoro schiavizzato, senza
diritti, né accesso alla giustizia... In
alcuni casi, la mancanza della cooperazione tra gli Stati lascia molte
persone fuori dalla legalità e senza
possibilità di far valere i propri diritti, obbligandoli a collocarsi tra quelli
che approfittano degli altri o a rassegnarsi a essere vittime di abusi. Sono situazioni nelle quali non basta
salvaguardare la legge per difendere
i diritti fondamentali della persona,
nelle quali la norma, senza pietà e
misericordia, non risponde alla giustizia.
A volte persino all’interno di ogni
paese si creano differenze scandalose
e offensive, specialmente tra le popolazioni indigene, nelle zone rurali
o nelle periferie delle grandi città.
Senza un’autentica difesa di queste
persone contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza, lo Stato di diritto perderebbe la propria legittimità.
Signor Presidente, gli sforzi per
tendere ponti, canali di comunicazione, tessere relazioni, cercare l’intesa non sono mai vani. La situazione
geografica di Panamá, nel centro del
continente Americano, che la rende
punto di incontro tra nord e sud, tra
gli Oceani Pacifico e Atlantico, è sicuramente una chiamata, pro mundi
beneficio, a generare un nuovo ordine
di pace e di giustizia e a promuovere
la solidarietà e la collaborazione rispettando la giusta autonomia di
ogni nazione.
Con l’augurio che la Chiesa sia
anche strumento di pace e riconciliazione tra i popoli, riceva il mio più
sentito e cordiale saluto.
Dal Vaticano, 10 aprile 2015.
FRANCESCO
Udienza a responsabili di organizzazioni internazionali
No alla violenza su donne e bambini
Papa Francesco appoggia
pienamente l’impegno per
far rispettare i diritti umani
violati nel mondo e si associa in particolare a quanti
operano per mettere fine alla
violenza sui bambini e sulle
donne nel corso dei conflitti.
Lo ha riferito Maria Cristina
Perceval, rappresentante permanente della missione permanente di Argentina presso
le Nazioni Unite, dopo l’incontro con il Pontefice avvenuto venerdì mattina, 10 aprile. Ad accompagnarla erano l’algerina Leila Zerrougui,
la sierraleonese Zainab Bangura e la congolese Julienne Lusenge.
Insieme hanno parlato con il Papa della cultura del rispetto, della riconciliazione,
della tolleranza e della pace, ma anche della prevenzione, della protezione e della
necessità che i responsabili dei crimini commessi non restino impuniti. La signora
Perceval ha inoltre sottolineato come troppo spesso le vittime delle violenze nei
conflitti siano i soggetti più deboli: i bambini, le donne, i poveri, le minoranze etniche e religiose. Il Pontefice ha convenuto sulla necessità che queste vittime non
vengano colpevolizzate e discriminate, ma siano reintegrate nelle famiglie e nella
società.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 8
giovedì 16 aprile 2015, numero 16
Francesco ricorda che la vocazione cristiana è un esodo da se stessi
In cerca della via d’uscita
La vocazione cristiana è un’esperienza
di esodo, di uscita da se stessi
e di cammino alla sequela di Cristo
e al servizio dei fratelli. Lo afferma
Papa Francesco nel messaggio per
la cinquantaduesima giornata
mondiale di preghiera per le vocazioni,
che si celebra il prossimo 25 aprile,
quarta domenica di Pasqua.
L’esodo
esperienza fondamentale della vocazione
Cari fratelli e sorelle!
La quarta Domenica di Pasqua ci
presenta l’icona del Buon Pastore
che conosce le sue pecore, le chiama,
le nutre e le conduce. In questa Domenica, da oltre 50 anni, viviamo la
Giornata Mondiale di Preghiera per
le Vocazioni. Ogni volta essa ci richiama l’importanza di pregare perché, come disse Gesù ai suoi discepoli, «il signore della messe... mandi
operai nella sua messe» (Lc 10, 2).
Gesù esprime questo comando nel
contesto di un invio missionario: ha
chiamato, oltre ai dodici apostoli, altri settantadue discepoli e li invia a
due a due per la missione (Lc 10, 116). In effetti, se la Chiesa «è per
sua natura missionaria» (Conc.
Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 2), la
vocazione cristiana non può che nascere all’interno di un’esperienza di
missione. Così, ascoltare e seguire la
voce di Cristo Buon Pastore, lasciandosi attrarre e condurre da Lui e
consacrando a Lui la propria vita, significa permettere che lo Spirito
Santo ci introduca in questo dinamismo missionario, suscitando in noi il
desiderio e il coraggio gioioso di offrire la nostra vita e di spenderla per
la causa del Regno di Dio.
L’offerta della propria vita in questo atteggiamento missionario è possibile solo se siamo capaci di uscire
da noi stessi. Perciò, in questa 52ª
Giornata Mondiale di Preghiera per
le Vocazioni, vorrei riflettere proprio
su quel particolare “esodo” che è la
vocazione, o, meglio, la nostra risposta alla vocazione che Dio ci dona.
Quando sentiamo la parola “esodo”,
il nostro pensiero va subito agli inizi
della meravigliosa storia d’amore tra
Dio e il popolo dei suoi figli, una
storia che passa attraverso i giorni
drammatici della schiavitù in Egitto,
la chiamata di Mosè, la liberazione e
il cammino verso la terra promessa.
Il libro dell’Esodo — il secondo libro
della Bibbia —, che narra questa storia, rappresenta una parabola di tutta la storia della salvezza, e anche
della dinamica fondamentale della
fede cristiana. Infatti, passare dalla
schiavitù dell’uomo vecchio alla vita
Nadia Blarasin, «Esodo» (2008)
nuova in Cristo è l’opera redentrice
che avviene in noi per mezzo della
fede (Ef 4, 22-24). Questo passaggio
è un vero e proprio “esodo”, è il
cammino dell’anima cristiana e della
Chiesa intera, l’orientamento decisivo dell’esistenza rivolta al Padre.
Alla radice di ogni vocazione cristiana c’è questo movimento fondamentale dell’esperienza di fede: credere vuol dire lasciare sé stessi, uscire dalla comodità e rigidità del proprio io per centrare la nostra vita in
Gesù Cristo; abbandonare come
Abramo la propria terra mettendosi
in cammino con fiducia, sapendo
che Dio indicherà la strada verso la
nuova terra. Questa “uscita” non è
da intendersi come un disprezzo della propria vita, del proprio sentire,
della propria umanità; al contrario,
chi si mette in cammino alla sequela
del Cristo trova la vita in abbondanza, mettendo tutto sé stesso a disposizione di Dio e del suo Regno. Dice Gesù: «Chiunque avrà lasciato
case, o fratelli, o sorelle, o padre, o
madre, o figli, o campi per il mio
nome, riceverà cento volte tanto e
avrà in eredità la vita eterna» (Mt
19, 29). Tutto ciò ha la sua radice
profonda nell’amore. Infatti, la vocazione cristiana è anzitutto una chiamata d’amore che attrae e rimanda
oltre sé stessi, decentra la persona,
innesca «un esodo permanente
dall’io chiuso in sé stesso verso la
sua liberazione nel dono di sé, e
proprio così verso il ritrovamento di
sé, anzi verso la scoperta di Dio»
(Benedetto XVI, Lett. Enc. Deus Caritas est, 6).
L’esperienza dell’esodo è paradigma della vita cristiana, in particolare
di chi abbraccia una vocazione di
speciale dedizione al servizio del
Vangelo. Consiste in un atteggiamento sempre rinnovato di conversione e trasformazione, in un restare
sempre in cammino, in un passare
dalla morte alla vita così come celebriamo in tutta la liturgia: è il dinamismo pasquale. In fondo, dalla
chiamata di Abramo a quella di Mosè, dal cammino peregrinante di
Israele nel deserto alla conversione
predicata dai profeti, fino al viaggio
missionario di Gesù che culmina
nella sua morte e risurrezione, la vocazione è sempre quell’azione di Dio
che ci fa uscire dalla nostra situazione iniziale, ci libera da ogni forma
di schiavitù, ci strappa dall’abitudine
e dall’indifferenza e ci proietta verso
la gioia della comunione con Dio e
con i fratelli. Rispondere alla chiamata di Dio, dunque, è lasciare che
Egli ci faccia uscire dalla nostra falsa
stabilità per metterci in cammino
verso Gesù Cristo, termine primo e
ultimo della nostra vita e della nostra felicità.
Questa dinamica dell’esodo non
riguarda solo il singolo chiamato,
ma l’azione missionaria ed evangelizzatrice di tutta la Chiesa. La Chiesa
è davvero fedele al suo Maestro nella misura in cui è una Chiesa “in
uscita”, non preoccupata di sé stessa,
delle proprie strutture e delle proprie
conquiste, quanto piuttosto capace
di andare, di muoversi, di incontrare
i figli di Dio nella loro situazione
reale e di com-patire per le loro ferite. Dio esce da sé stesso in una dinamica trinitaria di amore, ascolta la
miseria del suo popolo e interviene
per liberarlo (Es 3, 7). A questo modo di essere e di agire è chiamata
anche la Chiesa: la Chiesa che evangelizza esce incontro all’uomo, annuncia la parola liberante del Vangelo, cura con la grazia di Dio le ferite
delle anime e dei corpi, solleva i poveri e i bisognosi.
Cari fratelli e sorelle, questo esodo
liberante verso Cristo e verso i fratelli rappresenta anche la via per la
piena comprensione dell’uomo e per
la crescita umana e sociale nella storia. Ascoltare e accogliere la chiamata del Signore non è una questione
privata e intimista che possa confondersi con l’emozione del momento; è
un impegno concreto, reale e totale
che abbraccia la nostra esistenza e la
pone al servizio della costruzione del
Regno di Dio sulla terra. Perciò la
vocazione cristiana, radicata nella
contemplazione del cuore del Padre,
spinge al tempo stesso all’impegno
solidale a favore della liberazione
dei fratelli, soprattutto dei più poveri. Il discepolo di Gesù ha il cuore
aperto al suo orizzonte sconfinato, e
la sua intimità con il Signore non è
mai una fuga dalla vita e dal mondo
ma, al contrario, «si configura essenzialmente come comunione missionaria» (Esort. ap. Evangelii gaudium,
23).
Questa dinamica esodale, verso
Dio e verso l’uomo, riempie la vita
di gioia e di significato. Vorrei dirlo
soprattutto ai più giovani che, anche
per la loro età e per la visione del
futuro che si spalanca davanti ai loro
occhi, sanno essere disponibili e generosi. A volte le incognite e le
preoccupazioni per il futuro e l’incertezza che intacca la quotidianità
rischiano di paralizzare questi loro
slanci, di frenare i loro sogni, fino al
punto di pensare che non valga la
pena impegnarsi e che il Dio della
fede cristiana limiti la loro libertà.
Invece, cari giovani, non ci sia in voi
la paura di uscire da voi stessi e di
mettervi in cammino! Il Vangelo è la
Parola che libera, trasforma e rende
più bella la nostra vita. Quanto è
bello lasciarsi sorprendere dalla chiamata di Dio, accogliere la sua Parola, mettere i passi della vostra esistenza sulle orme di Gesù, nell’adorazione del mistero divino e nella
dedizione generosa agli altri! La vostra vita diventerà ogni giorno più
ricca e più gioiosa!
La Vergine Maria, modello di
ogni vocazione, non ha temuto di
pronunciare il proprio “fiat” alla
chiamata del Signore. Lei ci accompagna e ci guida. Con il coraggio
generoso della fede, Maria ha cantato la gioia di uscire da sé stessa e affidare a Dio i suoi progetti di vita. A
lei ci rivolgiamo per essere pienamente disponibili al disegno che Dio
ha su ciascuno di noi; perché cresca
in noi il desiderio di uscire e di andare, con sollecitudine, verso gli altri
(cfr. Lc 1, 39). La Vergine Madre ci
protegga e interceda per tutti noi.
Dal Vaticano, 29 marzo 2015
Domenica delle Palme
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 16, giovedì 16 aprile 2015
pagina 9
Ai formatori alla vita consacrata
Ripartire dalla Galilea
«Non siete soltanto “maestri”; siete soprattutto
testimoni della sequela di Cristo»: con queste parole
Papa Francesco, dopo il saluto del cardinale João
Braz de Aviz, si è rivolto ai formatori alla vita
consacrata ricevuti in udienza, sabato 11 aprile,
a conclusione del loro congresso internazionale.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
M’ha detto [il Cardinale Prefetto] il vostro numero, quanti siete, e io ho detto: “Ma, con la scarsità
di vocazioni che c’è, ci sono più formatori che
formandi!”. Questo è un problema! Bisogna chiedere al Signore e fare di tutto perché vengano le
vocazioni!
Ringrazio il Cardinale Braz de Aviz per le parole che mi ha rivolto a nome di tutti i presenti.
Ringrazio anche il Segretario e gli altri collaboratori che hanno preparato il Congresso, il primo di
questo livello che si celebra nella Chiesa, proprio
nell’Anno dedicato alla Vita Consacrata, con formatori e formatrici di molti Istituti di tante parti
del mondo.
Desideravo avere questo incontro con voi, per
quello che voi siete e rappresentate in quanto
educatori e formatori, e perché dietro ciascuno di
voi intravedo i vostri e nostri giovani, protagonisti
di un presente vissuto con passione, e promotori
di un futuro animato dalla speranza; giovani che,
spinti dall’amore di Dio, cercano nella Chiesa le
strade per assumerlo nella propria vita. Io li sento
qui presenti e rivolgo loro un pensiero affettuoso.
Al vedervi così numerosi non si direbbe che ci
sia crisi vocazionale! Ma in realtà c’è una indubbia diminuzione quantitativa, e questo rende ancora più urgente il compito della formazione, una
formazione che plasmi davvero nel cuore dei giovani il cuore di Gesù, finché abbiano i suoi stessi
sentimenti (cfr. Fil 2, 5; Vita consecrata, 65). Sono
anche convinto che non c’è crisi vocazionale là
dove ci sono consacrati capaci di trasmettere, con
la propria testimonianza, la bellezza della consacrazione. E la testimonianza è feconda. Se non c’è
una testimonianza, se non c’è coerenza, non ci saranno vocazioni. E a questa testimonianza siete
chiamati. Questo è il vostro ministero, la vostra
missione. Non siete soltanto “maestri”; siete soprattutto testimoni della sequela di Cristo nel vostro proprio carisma. E questo si può fare se ogni
giorno si riscopre con gioia di essere discepoli di
Gesù. Da qui deriva anche l’esigenza di curare
sempre la vostra stessa formazione personale, a
partire dall’amicizia forte con l’unico Maestro. In
questi giorni della Risurrezione, la parola che nella preghiera mi risuonava spesso era la “Galilea”,
“là dove tutto incominciò”, dice Pietro nel suo
primo discorso. Le cose accadute a Gerusalemme
ma che sono incominciate in Galilea. Anche la
nostra vita è incominciata in una “Galilea”: ognuno di noi ha avuto l’esperienza della Galilea,
dell’incontro con il Signore, quell’incontro che
non si dimentica, ma tante volte finisce coperto
da cose, dal lavoro, da inquietudini e anche da
peccati e mondanità. Per dare testimonianza è necessario fare spesso il pellegrinaggio alla propria
Galilea, riprendere la memoria di quell’incontro,
quello stupore, e da lì ripartire. Ma se non si segue questa strada della memoria c’è il pericolo di
restare lì dove ci si trova e, anche, c’è il pericolo
di non sapere perché ci si trova lì. Questa è una
disciplina di quelli e di quelle che vogliono dare
testimonianza: andare indietro alla propria Galilea, dove ho incontrato il Signore; a quel primo
stupore.
È bella la vita consacrata, è uno dei tesori più
preziosi della Chiesa, radicato nella vocazione
battesimale. E dunque è bello esserne formatori,
perché è un privilegio partecipare all’opera del
Padre che forma il cuore del Figlio in coloro che
lo Spirito ha chiamato. A volte si può sentire questo servizio come un peso, come se ci sottraesse a
qualcosa di più importante. Ma questo è un inganno, è una tentazione. È importante la missione, ma è altrettanto importante formare alla missione, formare alla passione dell’annuncio, formare a quella passione dell’andare ovunque, in ogni
periferia, per dire a tutti l’amore di Gesù Cristo,
specialmente ai lontani, raccontarlo ai piccoli e ai
poveri, e lasciarsi anche evangelizzare da loro.
Tutto questo richiede basi solide, una struttura
cristiana della personalità che oggi le stesse famiglie raramente sanno dare. E questo aumenta la
vostra responsabilità.
Una delle qualità del formatore è quella di avere un cuore grande per i giovani, per formare in
essi cuori grandi, capaci di accogliere tutti, cuori
ricchi di misericordia, pieni di tenerezza. Voi non
siete solo amici e compagni di vita consacrata di
coloro che vi sono affidati, ma veri padri, vere
madri, capaci di chiedere e di dare loro il massimo. Generare una vita, partorire una vita religiosa. E questo è possibile soltanto per mezzo
dell’amore, l’amore di padri e di madri. E non è
vero che i giovani di oggi siano mediocri e non
generosi; ma hanno bisogno di sperimentare che
«si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,
35), che c’è grande libertà in una vita obbediente,
grande fecondità in un cuore vergine, grande ricchezza nel non possedere nulla. Da qui la necessità di essere amorosamente attenti al cammino di
ognuno ed evangelicamente esigenti in ogni fase
del cammino formativo, a cominciare dal discernimento vocazionale, perché l’eventuale crisi di
quantità non determini una ben più grave crisi di
qualità. E questo è il pericolo. Il discernimento
vocazionale è importante: tutti, tutte le persone
che conoscono la personalità umana — siano psicologi, padri spirituali, madri spirituali — ci dicono che i giovani che inconsciamente sentono di
avere qualcosa di squilibrato o qualche problema
di squilibrio o di deviazione, inconsciamente cercano strutture forti che li proteggano, per proteggersi. E lì è il discernimento: sapere dire no. Ma
non cacciare via: no, no. Io ti accompagno, vai,
vai, vai... E come si accompagna l’entrata, accompagnare anche l’uscita, perché lui o lei trovi la
strada nella vita, con l’aiuto necessario. Non con
quella difesa che è pane per oggi e fame per domani.
La crisi di qualità... Non so se è scritto, ma
adesso mi viene da dire: guardare le qualità di
tanti, tanti consacrati... Ieri a pranzo c’era un
gruppetto di sacerdoti che celebrava il 60° di Ordinazione sacerdotale: quella saggezza dei vecchi... Alcuni sono un po’..., ma la maggioranza
dei vecchi ha saggezza! Le suore che tutti i giorni
si alzano per lavorare, le suore dell’ospedale, che
sono “dottoresse in umanità”: quanto dobbiamo
imparare da questa consacrazione di anni e anni!... E poi muoiono. E le suore missionarie, i
consacrati missionari, che vanno là e muoiono
là... Guardare i vecchi! E non solo guardarli: andare a trovarli, perché conta il quarto comandamento anche nella vita religiosa, con quegli anziani nostri. Anche questi, per una istituzione religiosa, sono una “Galilea”, perché in quelli troviamo il Signore che ci parla oggi. E quanto bene fa
ai giovani mandarli da loro, che si avvicinino a
questi anziani e anziane consacrati, saggi: quanto
bene fa! Perché i giovani hanno il fiuto per scoprire l’autenticità: questo fa bene.
La formazione iniziale, questo discernimento, è
il primo passo di un processo destinato a durare
tutta la vita, e il giovane va formato alla libertà
umile e intelligente di lasciarsi educare da Dio
Padre ogni giorno della vita, in ogni età, nella
missione come nella fraternità, nell’azione come
nella contemplazione.
Grazie, cari formatori e formatrici, del vostro
servizio umile e discreto, del tempo donato
all’ascolto — l’apostolato “dell’orecchio”, ascoltare
— del tempo dedicato all’accompagnamento e alla
cura di ogni vostro giovane. Dio ha una virtù —
se si può parlare della virtù di Dio —, una qualità,
della quale non si parla tanto: è la pazienza. Lui
ha pazienza. Dio sa aspettare. Anche voi, imparate questo, questo atteggiamento della pazienza,
che tante volte è un po’ un martirio: aspettare... E
quando ti viene una tentazione di impazienza,
fermati; o di curiosità... Penso a santa Teresa di
Gesù Bambino, quando una novizia incominciava
a raccontare una storia e a lei piaceva sentire come era finita, e poi la novizia andava da un’altra
parte, santa Teresa non diceva niente, aspettava.
La pazienza è una delle virtù dei formatori. Accompagnare: in questa missione non vanno risparmiati né tempo né energie. E non bisogna scoraggiarsi quando i risultati non corrispondono alle
attese. È doloroso, quando viene un ragazzo, una
ragazza, dopo tre, quattro anni e dice: “Ah, io
non me la sento; io ho trovato un altro amore che
non è contro Dio, ma non posso, me ne vado”. È
duro questo. Ma è anche il vostro martirio. E gli
insuccessi, questi insuccessi dal punto di vista del
formatore possono favorire il cammino di formazione continua del formatore. E se a volte potrete
avere la sensazione che il vostro lavoro non sia
abbastanza apprezzato, sappiate che Gesù vi segue con amore, e la Chiesa tutta vi è grata. E
sempre in questa bellezza della vita consacrata: alcuni — io l’ho scritto qui, ma si vede che anche il
Papa viene censurato — dicono che la vita consacrata è il paradiso in terra. No. Casomai il purgatorio! Ma andare avanti con gioia, andare avanti
con gioia.
Vi auguro di vivere con gioia e nella gratitudine questo ministero, con la certezza che non c’è
niente di più bello nella vita dell’appartenere per
sempre e con tutto il cuore a Dio, e dare la vita al
servizio dei fratelli.
Vi chiedo per favore di pregare per me, perché
Dio mi dia anche un po’ di quella virtù che Lui
ha: la pazienza.
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 16, giovedì 16 aprile 2015
pagina 10/11
Rembrandt, «Il ritorno del figliol prodigo» (1668,
particolare)
Bolla di indizione del giubileo straordinario
Il volto della misericordia
MISERICORDIAE
VULTUS
Bolla di indizione
del Giubileo straordinario
della misericordia
FRANCESCO
ROMA
DIO
VESCOVO DI
SERVO DEI SERVI DI
A QUANTI LEGGERANNO QUESTA
LETTERA
GRAZIA, MISERICORDIA E PACE
1. Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola
la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in
Gesù di Nazareth. Il Padre, «ricco di
misericordia» (Ef 2, 4), dopo aver rivelato il suo nome a Mosè come «Dio
misericordioso e pietoso, lento all’ira e
ricco di amore e di fedeltà» (Es 34, 6),
non ha cessato di far conoscere in vari
modi e in tanti momenti della storia la
sua natura divina. Nella «pienezza del
tempo» (Gal 4, 4), quando tutto era disposto secondo il suo piano di salvezza,
Egli mandò suo Figlio nato dalla Vergine Maria per rivelare a noi in modo
definitivo il suo amore. Chi vede Lui
vede il Padre (cfr. Gv 14, 9). Gesù di
Nazareth con la sua parola, con i suoi
gesti e con tutta la sua persona1 rivela
la misericordia di Dio.
2. Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. È
fonte di gioia, di serenità e di pace. È
condizione della nostra salvezza. Misericordia: è la parola che rivela il mistero
della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto
ultimo e supremo con il quale Dio ci
viene incontro. Misericordia: è la legge
fondamentale che abita nel cuore di
ogni persona quando guarda con occhi
sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via
che unisce Dio e l’uomo, perché apre il
cuore alla speranza di essere amati per
sempre nonostante il limite del nostro
peccato.
«Opere di misericordia» (XII secolo, battistero di Parma)
3. Ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a
tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre. È per questo
che ho indetto un Giubileo Straordinario
della Misericordia come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte
ed efficace la testimonianza dei
credenti.
L’Anno Santo si aprirà l’8 dicembre
2015, solennità dell’Immacolata Concezione. Questa festa liturgica indica il
modo dell’agire di Dio fin dai primordi
della nostra storia. Dopo il peccato di
Adamo ed Eva, Dio non ha voluto lasciare l’umanità sola e in balia del male. Per questo ha pensato e voluto Maria santa e immacolata nell’amore (cfr.
Ef 1, 4), perché diventasse la Madre del
Redentore dell’uomo. Dinanzi alla gravità del peccato, Dio risponde con la
pienezza del perdono. La misericordia
sarà sempre più grande di ogni peccato, e nessuno può porre un limite
all’amore di Dio che perdona. Nella festa dell’Immacolata Concezione avrò la
gioia di aprire la Porta Santa. Sarà in
questa occasione una Porta della Misericordia, dove chiunque entrerà potrà
sperimentare l’amore di Dio che consola, che perdona e dona speranza.
La domenica successiva, la Terza di
Avvento, si aprirà la Porta Santa nella
Cattedrale di Roma, la Basilica di San
Giovanni in Laterano. Successivamente,
si aprirà la Porta Santa nelle altre Basiliche Papali. Nella stessa domenica stabilisco che in ogni Chiesa particolare,
nella Cattedrale che è la Chiesa Madre
per tutti i fedeli, oppure nella Concattedrale o in una chiesa di speciale significato, si apra per tutto l’Anno Santo una uguale Porta della Misericordia.
A scelta dell’Ordinario, essa potrà essere aperta anche nei Santuari, mete di
tanti pellegrini, che in questi luoghi sacri spesso sono toccati nel cuore dalla
grazia e trovano la via della conversione. Ogni Chiesa particolare, quindi, sarà direttamente coinvolta a vivere questo Anno Santo come un momento
straordinario di grazia e di rinnovamento spirituale. Il Giubileo, pertanto, sarà
celebrato a Roma così come nelle Chiese particolari quale segno visibile della
comunione di tutta la Chiesa.
4. Ho scelto la data dell’8 dicembre
perché è carica di significato per la storia recente della Chiesa. Aprirò infatti
la Porta Santa nel cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio
Ecumenico Vaticano II. La Chiesa sente
il
bisogno
di
mantenere
vivo
quell’evento. Per lei iniziava un nuovo
percorso della sua storia. I Padri radunati nel Concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello Spirito,
l’esigenza di parlare di Dio agli uomini
del loro tempo in un modo più comprensibile. Abbattute le muraglie che
per troppo tempo avevano rinchiuso la
Chiesa in una cittadella privilegiata, era
giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo. Una nuova tappa
dell’evangelizzazione di sempre. Un
nuovo impegno per tutti i cristiani per
testimoniare con più entusiasmo e convinzione la loro fede. La Chiesa sentiva
la responsabilità di essere nel mondo il
segno vivo dell’amore del Padre.
Tornano alla mente le parole cariche
di significato che san Giovanni XXIII
pronunciò all’apertura del Concilio per
indicare il sentiero da seguire: «Ora la
Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore ... La Chiesa Cattolica, mentre con questo Concilio Ecumenico innalza la fiaccola della
verità cattolica, vuole mostrarsi madre
amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bon-
tà verso i figli da lei separati» 2. Sullo
stesso orizzonte, si poneva anche il
beato Paolo VI, che si esprimeva così a
conclusione del Concilio: «Vogliamo
piuttosto notare come la religione del
nostro Concilio sia stata principalmente
la carità ... L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità
del Concilio ... Una corrente di affetto
e di ammirazione si è riversata dal
Concilio sul mondo umano moderno.
Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige
la carità, non meno che la verità; ma
per le persone solo richiamo, rispetto
ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono
partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati
non solo rispettati, ma onorati, i suoi
sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette ... Un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ricchezza
dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in
ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità» 3.
Con questi sentimenti di gratitudine
per quanto la Chiesa ha ricevuto e di
responsabilità per il compito che ci attende, attraverseremo la Porta Santa
con piena fiducia di essere accompagnati dalla forza del Signore Risorto
che continua a sostenere il nostro pellegrinaggio. Lo Spirito Santo che conduce i passi dei credenti per cooperare
all’opera di salvezza operata da Cristo,
sia guida e sostegno del Popolo di Dio
per aiutarlo a contemplare il volto della
misericordia 4.
5. L’Anno giubilare si concluderà
nella solennità liturgica di Gesù Cristo
Signore dell’universo, il 20 novembre
2016. In quel giorno, chiudendo la Porta Santa avremo anzitutto sentimenti di
gratitudine e di ringraziamento verso la
SS. Trinità per averci concesso questo
tempo straordinario di grazia. Affideremo la vita della Chiesa, l’umanità intera e il cosmo immenso alla Signoria di
Cristo, perché effonda la sua misericordia come la rugiada del mattino per
una feconda storia da costruire con
l’impegno di tutti nel prossimo futuro.
Come desidero che gli anni a venire
siano intrisi di misericordia per andare
incontro ad ogni persona portando la
bontà e la tenerezza di Dio! A tutti,
credenti e lontani, possa giungere il
balsamo della misericordia come segno
del Regno di Dio già presente in mezzo a noi.
6. «È proprio di Dio usare misericordia e specialmente in questo si manifesta la sua onnipotenza» 5. Le parole di
san Tommaso d’Aquino mostrano
quanto la misericordia divina non sia
affatto un segno di debolezza, ma piuttosto la qualità dell’onnipotenza di
Dio. È per questo che la liturgia, in
una delle collette più antiche, fa pregare dicendo: «O Dio che riveli la tua
onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono» 6. Dio sarà per
sempre nella storia dell’umanità come
Colui che è presente, vicino, provvidente, santo e misericordioso.
«Paziente e misericordioso» è il binomio che ricorre spesso nell’Antico
Testamento per descrivere la natura di
Dio. Il suo essere misericordioso trova
riscontro concreto in tante azioni della
storia della salvezza dove la sua bontà
prevale sulla punizione e la distruzione.
I Salmi, in modo particolare, fanno
emergere questa grandezza dell’agire
divino: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva
dalla fossa la tua vita, ti circonda di
bontà e misericordia» (103, 3-4). In mo-
Il rito della consegna e della lettura nella basilica vaticana
Tempo di risveglio
Con la consegna e la lettura, sabato pomeriggio, 11 aprile,
della bolla di indizione del giubileo, il Papa ha compiuto
un passo avanti verso la porta santa che aprirà l’8
dicembre. E davanti a quella porta, nell’atrio della basilica
vaticana, si è fermato in preghiera all’inizio della
cerimonia. Il rito è proseguito con la recita dei primi vespri
della seconda domenica di Pasqua o della Divina
misericordia. In dodici hanno ricevuto la bolla direttamente
dalle mani del Pontefice. Monsignor Leonardo Sapienza,
Risuona ancora in tutti noi il saluto
di Gesù Risorto ai suoi discepoli la
sera di Pasqua: «Pace a voi!» (Gv
20, 19). La pace, soprattutto in queste settimane, permane come il desiderio di tante popolazioni che subiscono la violenza inaudita della discriminazione e della morte, solo
perché portano il nome cristiano.
La nostra preghiera si fa ancora più
intensa e diventa un grido di aiuto
al Padre ricco di misericordia, perché sostenga la fede di tanti fratelli
e sorelle che sono nel dolore, mentre chiediamo di convertire i nostri
cuori per passare dall’indifferenza
alla compassione.
protonotario apostolico, ha poi letto da un pulpito in legno
alcuni brani della Misericordiae vultus. Quindi si è mossa
la processione verso l’interno della basilica. Il Papa ha
voluto accanto a sé l’arcivescovo Fisichella, presidente del
Pontificio Consiglio per la promozione della nuova
evangelizzazione, a cui ha affidato l’organizzazione dell’anno
santo. Francesco ha quindi preso posto lungo la parete
sinistra della navata centrale, di fronte alla statua bronzea
di San Pietro in cattedra. Ecco la sua omelia.
San Paolo ci ha ricordato che siamo stati salvati nel mistero della
morte e risurrezione del Signore
Gesù. Lui è il Riconciliatore, che è
vivo in mezzo a noi per offrire la
via della riconciliazione con Dio e
tra i fratelli. L’Apostolo ricorda che,
nonostante le difficoltà e le sofferenze della vita, cresce tuttavia la
speranza nella salvezza che l’amore
di Cristo ha seminato nei nostri
cuori. La misericordia di Dio si è riversata in noi rendendoci giusti, donandoci la pace.
Una domanda è presente nel cuore di tanti: perché oggi un Giubileo
della Misericordia? Semplicemente
perché la Chiesa, in questo momento di grandi cambiamenti epocali, è
chiamata ad offrire più fortemente i
segni della presenza e della vicinanza di Dio. Questo non è il tempo
per la distrazione, ma al contrario
per rimanere vigili e risvegliare in
noi la capacità di guardare all’essenziale. È il tempo per la Chiesa di ritrovare il senso della missione che il
Signore le ha affidato il giorno di
Pasqua: essere segno e strumento
della misericordia del Padre (cfr. Gv
20, 21-23). È per questo che l’Anno
Santo dovrà mantenere vivo il desiderio di saper cogliere i tanti segni
CONTINUA A PAGINA 12
della tenerezza che Dio offre al
mondo intero e soprattutto a quanti
sono nella sofferenza, sono soli e
abbandonati, e anche senza speranza di essere perdonati e di sentirsi
amati dal Padre. Un Anno Santo
per sentire forte in noi la gioia di
essere stati ritrovati da Gesù, che
come Buon Pastore è venuto a cercarci perché eravamo smarriti. Un
Giubileo per percepire il calore del
suo amore quando ci carica sulle
spalle per riportarci alla casa del
Padre. Un Anno in cui essere toccati dal Signore Gesù e trasformati
dalla sua misericordia, per diventare
noi pure testimoni di misericordia.
Ecco perché il Giubileo: perché
questo è il tempo della misericordia. È il tempo favorevole per curare le ferite, per non stancarci di incontrare quanti sono in attesa di vedere e toccare con mano i segni della vicinanza di Dio, per offrire a
tutti, a tutti, la via del perdono e
della riconciliazione.
La Madre della Divina Misericordia apra i nostri occhi, perché comprendiamo l’impegno a cui siamo
chiamati; e ci ottenga la grazia di
vivere questo Giubileo della Misericordia con una testimonianza fedele
e feconda.
pagina 12
L’OSSERVATORE ROMANO
giovedì 16 aprile 2015, numero 16
Bolla di indizione del giubileo straordinario
DA PAGINA 10
do ancora più esplicito, un altro Salmo attesta i segni concreti della misericordia: «Il Signore libera i prigionieri, il Signore ridona la vista ai
ciechi, il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti, il Signore
protegge i forestieri, egli sostiene
l’orfano e la vedova, ma sconvolge le
vie dei malvagi» (146, 7-9). E da ultimo, ecco altre espressioni del Salmista: «[Il Signore] risana i cuori affranti e fascia le loro ferite. ... Il Signore sostiene i poveri, ma abbassa
fino a terra i malvagi» (147, 3.6). Insomma, la misericordia di Dio non è
un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore
come quello di un padre e di una
madre che si commuovono fino dal
profondo delle viscere per il proprio
figlio. È veramente il caso di dire
che è un amore «viscerale». Proviene dall’intimo come un sentimento
profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e
di perdono.
7. «Eterna è la sua misericordia»:
è il ritornello che viene riportato ad
ogni versetto del Salmo 136 mentre
si narra la storia della rivelazione di
Dio. In forza della misericordia, tutte le vicende dell’antico testamento
sono cariche di un profondo valore
salvifico. La misericordia rende la
storia di Dio con Israele una storia
di salvezza. Ripetere continuamente:
«Eterna è la sua misericordia», come
fa il Salmo, sembra voler spezzare il
cerchio dello spazio e del tempo per
inserire tutto nel mistero eterno
dell’amore. È come se si volesse dire
che non solo nella storia, ma per
l’eternità l’uomo sarà sempre sotto lo
sguardo misericordioso del Padre.
Non è un caso che il popolo di
Israele abbia voluto inserire questo
Salmo, il «Grande hallel» come viene chiamato, nelle feste liturgiche
più importanti.
Prima della Passione Gesù ha pregato con questo Salmo della misericordia. Lo attesta l’evangelista Matteo quando dice che «dopo aver
cantato l’inno» (26, 30), Gesù con i
discepoli uscirono verso il monte degli ulivi. Mentre Egli istituiva l’Eucaristia, quale memoriale perenne di
Lui e della sua Pasqua, poneva simbolicamente questo atto supremo
della Rivelazione alla luce della misericordia. Nello stesso orizzonte
della misericordia, Gesù viveva la
sua passione e morte, cosciente del
grande mistero di amore che si sarebbe compiuto sulla croce. Sapere
che Gesù stesso ha pregato con questo Salmo, lo rende per noi cristiani
ancora più importante e ci impegna
ad assumerne il ritornello nella nostra quotidiana preghiera di lode:
«Eterna è la sua misericordia».
8. Con lo sguardo fisso su Gesù e
il suo volto misericordioso possiamo
cogliere l’amore della SS. Trinità. La
missione che Gesù ha ricevuto dal
Padre è stata quella di rivelare il mistero dell’amore divino nella sua pienezza. «Dio è amore» (1 Gv 4, 8.16),
afferma per la prima e unica volta in
tutta la Sacra Scrittura l’evangelista
Giovanni. Questo amore è ormai reso visibile e tangibile in tutta la vita
di Gesù. La sua persona non è altro
che amore, un amore che si dona
Francesco d’Antonio, «Visitare gli ammalati» (XV secolo, Firenze, Oratorio dei Buonomini di San Martino)
gratuitamente. Le sue relazioni con
le persone che lo accostano manifestano qualcosa di unico e di irripetibile. I segni che compie, soprattutto
nei confronti dei peccatori, delle
persone povere, escluse, malate e
sofferenti, sono all’insegna della misericordia. Tutto in Lui parla di misericordia. Nulla in Lui è privo di
compassione.
Gesù, dinanzi alla moltitudine di
persone che lo seguivano, vedendo
che erano stanche e sfinite, smarrite
e senza guida, sentì fin dal profondo
del cuore una forte compassione per
loro (cfr. Mt 9, 36). In forza di questo amore compassionevole guarì i
malati che gli venivano presentati
(cfr. Mt 14, 14), e con pochi pani e
pesci sfamò grandi folle (cfr. Mt 15,
37). Ciò che muoveva Gesù in tutte
le circostanze non era altro che la
misericordia, con la quale leggeva
nel cuore dei suoi interlocutori e rispondeva al loro bisogno più vero.
Quando incontrò la vedova di Naim
che portava il suo unico figlio al sepolcro, provò grande compassione
per quel dolore immenso della madre in pianto, e le riconsegnò il figlio risuscitandolo dalla morte (cfr.
Lc 7, 15). Dopo aver liberato l’indemoniato di Gerasa, gli affida questa
missione: «Annuncia ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia
che ha avuto per te» (Mc 5, 19). Anche la vocazione di Matteo è inserita
nell’orizzonte della misericordia.
Passando dinanzi al banco delle imposte gli occhi di Gesù fissarono
quelli di Matteo. Era uno sguardo
carico di misericordia che perdonava
i peccati di quell’uomo e, vincendo
le resistenze degli altri discepoli,
scelse lui, il peccatore e pubblicano,
per diventare uno dei Dodici. San
Beda il Venerabile, commentando
questa scena del Vangelo, ha scritto
che Gesù guardò Matteo con amore
misericordioso e lo scelse: miserando
atque eligendo7. Mi ha sempre impressionato questa espressione, tanto da
farla diventare il mio motto.
9. Nelle parabole dedicate alla misericordia, Gesù rivela la natura di
Dio come quella di un Padre che
non si dà mai per vinto fino a quando non ha dissolto il peccato e vinto
il rifiuto, con la compassione e la
misericordia. Conosciamo queste parabole, tre in particolare: quelle della
pecora smarrita e della moneta perduta, e quella del padre e i due figli
(cfr. Lc 15, 1-32). In queste parabole,
Dio viene sempre presentato come
colmo di gioia, soprattutto quando
perdona. In esse troviamo il nucleo
del Vangelo e della nostra fede, perché la misericordia è presentata come la forza che tutto vince, che
riempie il cuore di amore e che consola con il perdono.
Da un’altra parabola, inoltre, ricaviamo un insegnamento per il nostro
stile di vita cristiano. Provocato dalla domanda di Pietro su quante volte fosse necessario perdonare, Gesù
rispose: «Non ti dico fino a sette
volte, ma fino a settanta volte sette»
(Mt 18, 22), e raccontò la parabola
del «servo spietato». Costui, chiamato dal padrone a restituire una
grande somma, lo supplica in ginocchio e il padrone gli condona il debito. Ma subito dopo incontra un
altro servo come lui che gli era debitore di pochi centesimi, il quale lo
supplica in ginocchio di avere pietà,
ma lui si rifiuta e lo fa imprigionare.
Allora il padrone, venuto a conoscenza del fatto, si adira molto e richiamato quel servo gli dice: «Non
dovevi anche tu aver pietà del tuo
compagno, così come io ho avuto
pietà di te?» (Mt 18, 33). E Gesù
concluse: «Così anche il Padre mio
celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio
fratello» (Mt 18, 35).
La parabola contiene un profondo
insegnamento per ciascuno di noi.
Gesù afferma che la misericordia
non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i
suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché
a noi per primi è stata usata misericordia. Il perdono delle offese diventa l’espressione più evidente
dell’amore misericordioso e per noi
cristiani è un imperativo da cui non
possiamo prescindere. Come sembra
difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la
violenza e la vendetta sono condizioni necessarie per vivere felici. Accogliamo quindi l’esortazione dell’apostolo: «Non tramonti il sole sopra la
vostra ira» (Ef 4, 26). E soprattutto
ascoltiamo la parola di Gesù che ha
posto la misericordia come un ideale
di vita e come criterio di credibilità
per la nostra fede: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7) è la beatitudine a
cui ispirarsi con particolare impegno
in questo Anno Santo.
Come si nota, la misericordia nella Sacra Scrittura è la parola-chiave
per indicare l’agire di Dio verso di
noi. Egli non si limita ad affermare
il suo amore, ma lo rende visibile e
tangibile. L’amore, d’altronde, non
potrebbe mai essere una parola
astratta. Per sua stessa natura è vita
concreta: intenzioni, atteggiamenti,
comportamenti che si verificano
nell’agire quotidiano. La misericordia di Dio è la sua responsabilità
per noi. Lui si sente responsabile,
cioè desidera il nostro bene e vuole
vederci felici, colmi di gioia e sereni.
È sulla stessa lunghezza d’onda che
si deve orientare l’amore misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli. Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati
ad essere misericordiosi noi, gli uni
verso gli altri.
10. L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia.
Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza
con cui si indirizza ai credenti; nulla
del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere
privo di misericordia. La credibilità
della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole. La Chiesa «vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia»8. Forse per tanto tempo abbiamo dimenticato di indicare e di
vivere la via della misericordia. La
tentazione, da una parte, di pretendere sempre e solo la giustizia ha
fatto dimenticare che questa è il primo passo, necessario e indispensabile, ma la Chiesa ha bisogno di andare oltre per raggiungere una meta
più alta e più significativa. Dall’altra
parte, è triste dover vedere come
l’esperienza del perdono nella nostra
cultura si faccia sempre più diradata.
Perfino la parola stessa in alcuni momenti sembra svanire. Senza la testimonianza del perdono, tuttavia, rimane solo una vita infeconda e sterile, come se si vivesse in un deserto
desolato. È giunto di nuovo per la
Chiesa il tempo di farsi carico
dell’annuncio gioioso del perdono.
È il tempo del ritorno all’essenziale
per farci carico delle debolezze e
delle difficoltà dei nostri fratelli. Il
perdono è una forza che risuscita a
vita nuova e infonde il coraggio per
guardare al futuro con speranza.
11. Non possiamo dimenticare il
grande insegnamento che san Giovanni Paolo II ha offerto con la sua
seconda Enciclica Dives in misericordia, che all’epoca giunse inaspettata
e colse molti di sorpresa per il tema
che veniva affrontato. Due espressioni in particolare desidero ricordare.
Anzitutto, il santo Papa rilevava la
dimenticanza del tema della misericordia nella cultura dei nostri giorni:
«La mentalità contemporanea, forse
più di quella dell’uomo del passato,
sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare
CONTINUA A PAGINA 13
numero 16, giovedì 16 aprile 2015
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 13
Il volto della misericordia
DA PAGINA 12
dalla vita e a distogliere dal cuore
umano l’idea stessa della misericordia. La parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio
l’uomo, il quale, grazie all’enorme
sviluppo della scienza e della tecnica, non mai prima conosciuto nella
storia, è diventato padrone ed ha
soggiogato e dominato la terra (cfr.
Gen 1, 28). Tale dominio sulla terra,
inteso talvolta unilateralmente e superficialmente, sembra che non lasci
spazio alla misericordia ... Ed è per
questo che, nell’odierna situazione
della Chiesa e del mondo, molti uomini e molti ambienti guidati da un
vivo senso di fede si rivolgono, direi,
quasi spontaneamente alla misericordia di Dio» 9.
Inoltre, san Giovanni Paolo II così
motivava l’urgenza di annunciare e
testimoniare la misericordia nel
mondo contemporaneo: «Essa è dettata dall’amore verso l’uomo, verso
tutto ciò che è umano e che, secondo l’intuizione di gran parte dei
contemporanei, è minacciato da un
pericolo immenso. Il mistero di Cristo ... mi obbliga a proclamare la
misericordia quale amore misericordioso di Dio, rivelato nello stesso
mistero di Cristo. Esso mi obbliga
anche a richiamarmi a tale misericordia e ad implorarla in questa difficile, critica fase della storia della Chiesa e del mondo» 10. Tale suo insegnamento è più che mai attuale e
merita di essere ripreso in questo
Anno Santo. Accogliamo nuovamente le sue parole: «La Chiesa vive una
vita autentica quando professa e proclama la misericordia — il più stupendo attributo del Creatore e del
Redentore — e quando accosta gli
uomini alle fonti della misericordia
del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice» 11.
12. La Chiesa ha la missione di
annunciare la misericordia di Dio,
cuore pulsante del Vangelo, che per
mezzo suo deve raggiungere il cuore
e la mente di ogni persona. La Sposa di Cristo fa suo il comportamento
del Figlio di Dio che a tutti va incontro senza escludere nessuno. Nel
nostro tempo, in cui la Chiesa è impegnata nella nuova evangelizzazione, il tema della misericordia esige
di essere riproposto con nuovo entusiasmo e con una rinnovata azione
pastorale. È determinante per la
Chiesa e per la credibilità del suo
annuncio che essa viva e testimoni
in prima persona la misericordia. Il
suo linguaggio e i suoi gesti devono
trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre.
La prima verità della Chiesa è
l’amore di Cristo. Di questo amore,
che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto,
dove la Chiesa è presente, là deve
essere evidente la misericordia del
Padre. Nelle nostre parrocchie, nelle
comunità, nelle associazioni e nei
movimenti, insomma, dovunque vi
sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia.
13. Vogliamo vivere questo Anno
Giubilare alla luce della parola del
Signore: Misericordiosi come il Padre.
L’evangelista riporta l’insegnamento
di Gesù che dice: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6, 36). È un programma di vita tanto impegnativo quanto
ricco di gioia e di pace. L’imperativo
di Gesù è rivolto a quanti ascoltano
la sua voce (cfr. Lc 6, 27). Per essere
capaci di misericordia, quindi, dobbiamo in primo luogo porci in ascolto della Parola di Dio. Ciò significa
recuperare il valore del silenzio per
meditare la Parola che ci viene rivolta. In questo modo è possibile contemplare la misericordia di Dio e assumerlo come proprio stile di vita.
14. Il pellegrinaggio è un segno peculiare nell’Anno Santo, perché è
icona del cammino che ogni persona
compie nella sua esistenza. La vita è
un pellegrinaggio e l’essere umano è
viator, un pellegrino che percorre
una strada fino alla meta agognata.
Anche per raggiungere la Porta Santa a Roma e in ogni altro luogo,
ognuno dovrà compiere, secondo le
proprie forze, un pellegrinaggio. Esso sarà un segno del fatto che anche
la misericordia è una meta da raggiungere e che richiede impegno e
sacrificio. Il pellegrinaggio, quindi,
sia stimolo alla conversione: attraversando la Porta Santa ci lasceremo
abbracciare dalla misericordia di Dio
e ci impegneremo ad essere misericordiosi con gli altri come il Padre
lo è con noi.
Il Signore Gesù indica le tappe
del pellegrinaggio attraverso cui è
possibile raggiungere questa meta:
«Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete
condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo,
perché con la misura con la quale
misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 37-38). Dice anzitutto di
non giudicare e di non condannare. Se
non si vuole incorrere nel giudizio
di Dio, nessuno può diventare giudice del proprio fratello. Gli uomini,
infatti, con il loro giudizio si fermano alla superficie, mentre il Padre
guarda nell’intimo. Quanto male
fanno le parole quando sono mosse
da sentimenti di gelosia e invidia!
Parlare male del fratello in sua assenza equivale a porlo in cattiva luce, a compromettere la sua reputazione e lasciarlo in balia della chiacchiera. Non giudicare e non condannare significa, in positivo, saper cogliere ciò che di buono c’è in ogni
persona e non permettere che abbia
a soffrire per il nostro giudizio parziale e la nostra presunzione di sapere tutto. Ma questo non è ancora
sufficiente per esprimere la misericordia. Gesù chiede anche di perdonare e di donare. Essere strumenti del
perdono, perché noi per primi lo abbiamo ottenuto da Dio. Essere generosi nei confronti di tutti, sapendo
che anche Dio elargisce la sua benevolenza su di noi con grande magnanimità.
Misericordiosi come il Padre, dunque, è il «motto» dell’Anno Santo.
Nella misericordia abbiamo la prova
di come Dio ama. Egli dà tutto se
stesso, per sempre, gratuitamente, e
senza nulla chiedere in cambio. Viene in nostro aiuto quando lo invochiamo. È bello che la preghiera
quotidiana della Chiesa inizi con
queste parole: «O Dio, vieni a salvarmi, Signore, vieni presto in mio
aiuto» (Sal 70, 2). L’aiuto che invochiamo è già il primo passo della
misericordia di Dio verso di noi.
Egli viene a salvarci dalla condizione
di debolezza in cui viviamo. E il suo
aiuto consiste nel farci cogliere la
sua presenza e la sua vicinanza.
Giorno per giorno, toccati dalla sua
compassione, possiamo anche noi
diventare compassionevoli verso tutti.
15. In questo Anno Santo, potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il
mondo moderno crea in maniera
drammatica. Quante situazioni di
precarietà e sofferenza sono presenti
nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che
non hanno più voce perché il loro
grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi.
In questo Giubileo ancora di più la
Chiesa sarà chiamata a curare queste
ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo
nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e
impedisce di scoprire la novità, nel
cinismo che distrugge. Apriamo i
nostri occhi per guardare le miserie
del mondo, le ferite di tanti fratelli e
sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro
grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi
perché sentano il calore della nostra
presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la
barriera di indifferenza che spesso
regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo.
È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale
e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel
cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia
divina. La predicazione di Gesù ci
presenta queste opere di misericordia
perché possiamo capire se viviamo o
no come suoi discepoli. Riscopriamo
le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da
bere agli assetati, vestire gli ignudi,
accogliere i forestieri, assistere gli
ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le
opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli
ignoranti, ammonire i peccatori,
consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le
persone moleste, pregare Dio per i
vivi e per i morti.
Non possiamo sfuggire alle parole
del Signore e in base ad esse saremo
giudicati: se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha
sete. Se avremo accolto il forestiero e
vestito chi è nudo. Se avremo avuto
tempo per stare con chi è malato e
prigioniero (cfr. Mt 25, 31-45).
Ugualmente, ci sarà chiesto se avremo aiutato ad uscire dal dubbio che
fa cadere nella paura e che spesso è
fonte di solitudine; se saremo stati
capaci di vincere l’ignoranza in cui
vivono milioni di persone, soprattutto i bambini privati dell’aiuto necessario per essere riscattati dalla povertà; se saremo stati vicini a chi è solo
e afflitto; se avremo perdonato chi ci
offende e respinto ogni forma di
rancore e di odio che porta alla violenza; se avremo avuto pazienza
sull’esempio di Dio che è tanto paziente con noi; se, infine, avremo affidato al Signore nella preghiera i
nostri fratelli e sorelle. In ognuno di
questi «più piccoli» è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di
nuovo visibile come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in
fuga... per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura. Non
dimentichiamo le parole di san Giovanni della Croce: «Alla sera della
vita, saremo giudicati sull’amore» 12.
16. Nel Vangelo di Luca troviamo
un altro aspetto importante per vivere con fede il Giubileo. Racconta
l’evangelista che Gesù, un sabato, ritornò a Nazaret e, come era solito
fare, entrò nella Sinagoga. Lo chiamarono a leggere la Scrittura e commentarla. Il passo era quello del
profeta Isaia dove sta scritto: «Lo
Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con
l’unzione e mi ha mandato a portare
ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai
ciechi la vista; a rimettere in libertà
gli oppressi, a proclamare l’anno di
misericordia del Signore» (61, 1-2).
«Un anno di misericordia»: è questo
quanto viene annunciato dal Signore
e che noi desideriamo vivere. Questo
Anno Santo porta con sé la ricchezza della missione di Gesù che risuona nelle parole del Profeta: portare
una parola e un gesto di consolazione ai poveri, annunciare la liberazione a quanti sono prigionieri delle
nuove schiavitù della società moderna, restituire la vista a chi non riesce
più a vedere perché curvo su sé stesso, e restituire dignità a quanti ne
sono stati privati. La predicazione di
Gesù si rende di nuovo visibile nelle
risposte di fede che la testimonianza
dei cristiani è chiamata ad offrire. Ci
accompagnino le parole dell’Apostolo: «Chi fa opere di misericordia, le
compia con gioia» (Rm 12, 8).
17. La Quaresima di questo Anno
Giubilare sia vissuta più intensamente come momento forte per celebrare
e sperimentare la misericordia di
Dio. Quante pagine della Sacra
Scrittura possono essere meditate
nelle settimane della Quaresima per
riscoprire il volto misericordioso del
Padre! Con le parole del profeta Michea possiamo anche noi ripetere:
Tu, o Signore, sei un Dio che toglie
l’iniquità e perdona il peccato, che
non serbi per sempre la tua ira, ma
ti compiaci di usare misericordia.
Tu, Signore, ritornerai a noi e avrai
pietà del tuo popolo. Calpesterai le
nostre colpe e getterai in fondo al
mare tutti i nostri peccati (cfr. 7, 1819).
Le pagine del profeta Isaia potranno essere meditate più concretamente in questo tempo di preghiera,
digiuno e carità: «Non è piuttosto
questo il digiuno che voglio: scioCONTINUA A PAGINA 14
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 14
Frank Wesley
«The Forgiving Father»
(1954-1958)
DA PAGINA 13
gliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli
oppressi e spezzare ogni giogo? Non
consiste forse nel dividere il pane
con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire
uno che vedi nudo, senza trascurare
i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del
Signore ti seguirà. Allora invocherai
e il Signore ti risponderà, implorerai
aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il
puntare il dito e il parlare empio, se
aprirai il tuo cuore all’affamato, se
sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua
tenebra sarà come il meriggio. Ti
guiderà sempre il Signore, ti sazierà
in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e
come una sorgente le cui acque non
inaridiscono» (58, 6-11).
L’iniziativa «24 ore per il Signore»,
da celebrarsi nel venerdì e sabato
che precedono la IV Domenica di
Quaresima, è da incrementare nelle
Diocesi. Tante persone si stanno
riavvicinando al sacramento della
Riconciliazione e tra questi molti
giovani, che in tale esperienza ritrovano spesso il cammino per ritornare
al Signore, per vivere un momento
di intensa preghiera e riscoprire il
senso della propria vita. Poniamo di
nuovo al centro con convinzione il
sacramento della Riconciliazione,
perché permette di toccare con mano la grandezza della misericordia.
Sarà per ogni penitente fonte di vera
pace interiore.
Non mi stancherò mai di insistere
perché i confessori siano un vero segno della misericordia del Padre.
Non ci si improvvisa confessori. Lo
si diventa quando, anzitutto, ci facciamo noi per primi penitenti in cerca di perdono. Non dimentichiamo
giovedì 16 aprile 2015, numero 16
Bolla di indizione del giubileo straordinario
mai che essere confessori significa
partecipare della stessa missione di
Gesù ed essere segno concreto della
continuità di un amore divino che
perdona e che salva. Ognuno di noi
ha ricevuto il dono dello Spirito
Santo per il perdono dei peccati, di
questo siamo responsabili. Nessuno
di noi è padrone del Sacramento,
ma un fedele servitore del perdono
di Dio. Ogni confessore dovrà accogliere i fedeli come il padre nella parabola del figlio prodigo: un padre
che corre incontro al figlio nonostante avesse dissipato i suoi beni. I
confessori sono chiamati a stringere
a sé quel figlio pentito che ritorna a
casa e ad esprimere la gioia per averlo ritrovato. Non si stancheranno di
andare anche verso l’altro figlio rimasto fuori e incapace di gioire, per
spiegargli che il suo giudizio severo
è ingiusto, e non ha senso dinanzi
alla misericordia del Padre che non
ha confini. Non porranno domande
impertinenti, ma come il padre della
parabola interromperanno il discorso
preparato dal figlio prodigo, perché
sapranno cogliere nel cuore di ogni
penitente l’invocazione di aiuto e la
richiesta di perdono. Insomma, i
confessori sono chiamati ad essere
sempre, dovunque, in ogni situazione e nonostante tutto, il segno del
primato della misericordia.
18. Nella Quaresima di questo Anno Santo ho l’intenzione di inviare i
Missionari della Misericordia. Saranno un segno della sollecitudine materna della Chiesa per il Popolo di
Dio, perché entri in profondità nella
ricchezza di questo mistero così fondamentale per la fede. Saranno sacerdoti a cui darò l’autorità di perdonare anche i peccati che sono riservati alla Sede Apostolica, perché
sia resa evidente l’ampiezza del loro
mandato. Saranno, soprattutto, segno vivo di come il Padre accoglie
quanti sono in ricerca del suo perdono. Saranno dei missionari della misericordia perché si faranno artefici
presso tutti di un incontro carico di
umanità, sorgente di liberazione, ricco di responsabilità per superare gli
ostacoli e riprendere la vita nuova
del Battesimo. Si lasceranno condurre nella loro missione dalle parole
dell’Apostolo: «Dio ha rinchiuso
tutti nella disobbedienza, per essere
misericordioso verso tutti» (Rm 11,
32). Tutti infatti, nessuno escluso,
sono chiamati a cogliere l’appello alla misericordia. I missionari vivano
questa chiamata sapendo di poter
fissare lo sguardo su Gesù, «sommo
sacerdote misericordioso e degno di
fede» (Eb 2, 17).
Chiedo ai confratelli Vescovi di
invitare e di accogliere questi Missionari, perché siano anzitutto predicatori convincenti della misericordia.
Si organizzino nelle Diocesi delle
«missioni al popolo», in modo che
questi Missionari siano annunciatori
della gioia del perdono. Si chieda
loro di celebrare il sacramento della
Riconciliazione per il popolo, perché il tempo di grazia donato
nell’Anno Giubilare permetta a tanti
figli lontani di ritrovare il cammino
verso la casa paterna. I Pastori, specialmente durante il tempo forte della Quaresima, siano solleciti nel richiamare i fedeli ad accostarsi «al
trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia» (Eb 4, 16).
19. La parola del perdono possa
giungere a tutti e la chiamata a sperimentare la misericordia non lasci
nessuno indifferente. Il mio invito
alla conversione si rivolge con ancora più insistenza verso quelle persone che si trovano lontane dalla grazia di Dio per la loro condotta di vita. Penso in modo particolare agli
uomini e alle donne che appartengono a un gruppo criminale, qualunque esso sia. Per il vostro bene, vi
chiedo di cambiare vita. Ve lo chiedo nel nome del Figlio di Dio che,
pur combattendo il peccato, non ha
mai rifiutato nessun peccatore. Non
cadete nella terribile trappola di
pensare che la vita dipende dal denaro e che di fronte ad esso tutto il
resto diventa privo di valore e di dignità. È solo un’illusione. Non portiamo il denaro con noi nell’aldilà. Il
denaro non ci dà la vera felicità. La
violenza usata per ammassare soldi
che grondano sangue non rende potenti né immortali. Per tutti, presto o
tardi, viene il giudizio di Dio a cui
nessuno potrà sfuggire.
Lo stesso invito giunga anche alle
persone fautrici o complici di corruzione. Questa piaga putrefatta della
società è un grave peccato che grida
verso il cielo, perché mina fin dalle
fondamenta la vita personale e sociale. La corruzione impedisce di
guardare al futuro con speranza,
perché con la sua prepotenza e avidità distrugge i progetti dei deboli e
schiaccia i più poveri. È un male che
si annida nei gesti quotidiani per
estendersi poi negli scandali pubblici. La corruzione è un accanimento
nel peccato, che intende sostituire
Dio con l’illusione del denaro come
forma di potenza. È un’opera delle
tenebre, sostenuta dal sospetto e
dall’intrigo. Corruptio optimi pessima,
diceva con ragione san Gregorio
Magno, per indicare che nessuno
può sentirsi immune da questa tentazione. Per debellarla dalla vita personale e sociale sono necessarie prudenza, vigilanza, lealtà, trasparenza,
unite al coraggio della denuncia. Se
non la si combatte apertamente, presto o tardi rende complici e distrugge l’esistenza.
Questo è il momento favorevole
per cambiare vita! Questo è il tempo
di lasciarsi toccare il cuore. Davanti
al male commesso, anche a crimini
gravi, è il momento di ascoltare il
pianto delle persone innocenti depredate dei beni, della dignità, degli
affetti, della stessa vita. Rimanere
sulla via del male è solo fonte di illusione e di tristezza. La vera vita è
ben altro. Dio non si stanca di tendere la mano. È sempre disposto ad
ascoltare, e anch’io lo sono, come i
miei fratelli vescovi e sacerdoti. È
sufficiente solo accogliere l’invito alla conversione e sottoporsi alla giustizia, mentre la Chiesa offre la misericordia.
20. Non sarà inutile in questo
contesto richiamare al rapporto tra
giustizia e misericordia. Non sono due
aspetti in contrasto tra di loro, ma
due dimensioni di un’unica realtà
che si sviluppa progressivamente fino a raggiungere il suo apice nella
pienezza dell’amore. La giustizia è
un concetto fondamentale per la società civile quando, normalmente, si
fa riferimento a un ordine giuridico
attraverso il quale si applica la legge.
Per giustizia si intende anche che a
ciascuno deve essere dato ciò che gli
è dovuto. Nella Bibbia, molte volte
si fa riferimento alla giustizia divina
e a Dio come giudice. La si intende
di solito come l’osservanza integrale
della Legge e il comportamento di
ogni buon israelita conforme ai comandamenti dati da Dio. Questa visione, tuttavia, ha portato non poche volte a cadere nel legalismo, mistificando il senso originario e oscurando il valore profondo che la giustizia possiede. Per superare la prospettiva legalista, bisognerebbe ricordare che nella Sacra Scrittura la giustizia è concepita essenzialmente come un abbandonarsi fiducioso alla
volontà di Dio.
Da parte sua, Gesù parla più volte
dell’importanza della fede, piuttosto
che dell’osservanza della legge. È in
questo senso che dobbiamo comprendere le sue parole quando, trovandosi a tavola con Matteo e altri
pubblicani e peccatori, dice ai farisei
che lo contestavano: «Andate e imparate che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non
sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9, 13). Davanti alla visione di una giustizia come mera osservanza della legge, che
giudica dividendo le persone in giusti e peccatori, Gesù punta a mostrare il grande dono della misericordia
che ricerca i peccatori per offrire loro il perdono e la salvezza. Si comprende perché, a causa di questa sua
visione così liberatrice e fonte di rinnovamento, Gesù sia stato rifiutato
dai farisei e dai dottori della legge.
Questi per essere fedeli alla legge
ponevano solo pesi sulle spalle delle
persone, vanificando però la misericordia del Padre. Il richiamo all’osservanza della legge non può ostacolare l’attenzione per le necessità che
toccano la dignità delle persone.
Il richiamo che Gesù fa al testo
del profeta Osea — «voglio l’amore e
non il sacrificio» (6, 6) — è molto significativo in proposito. Gesù afferma che d’ora in avanti la regola di
vita dei suoi discepoli dovrà essere
quella che prevede il primato della
misericordia, come Lui stesso testimonia condividendo il pasto con i
peccatori. La misericordia, ancora
una volta, viene rivelata come dimensione fondamentale della missione di Gesù. Essa è una vera sfida dinanzi ai suoi interlocutori che si fermavano al rispetto formale della legge. Gesù, invece, va oltre la legge; la
sua condivisione con quelli che la
legge considerava peccatori fa comprendere fin dove arriva la sua misericordia.
Anche l’apostolo Paolo ha fatto
un percorso simile. Prima di incontrare Cristo sulla via di Damasco, la
sua vita era dedicata a perseguire in
maniera irreprensibile la giustizia
della legge (cfr. Fil 3, 6). La conversione a Cristo lo portò a ribaltare la
sua visione, a tal punto che nella
Lettera ai Galati afferma: «Abbiamo
creduto anche noi in Cristo Gesù
per essere giustificati per la fede in
Cristo e non per le opere della LegCONTINUA A PAGINA 15
numero 16, giovedì 16 aprile 2015
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 15
Il volto della misericordia
DA PAGINA 14
ge» (2, 16). La sua comprensione
della giustizia cambia radicalmente.
Paolo ora pone al primo posto la fede e non più la legge. Non è l’osservanza della legge che salva, ma la fede in Gesù Cristo, che con la sua
morte e resurrezione porta la salvezza con la misericordia che giustifica.
La giustizia di Dio diventa adesso la
liberazione per quanti sono oppressi
dalla schiavitù del peccato e di tutte
le sue conseguenze. La giustizia di
Dio è il suo perdono (cfr. Sal 51, 1116).
21. La misericordia non è contraria
alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore,
offrendogli un’ulteriore possibilità
per ravvedersi, convertirsi e credere.
L’esperienza del profeta Osea ci viene in aiuto per mostrarci il superamento della giustizia nella direzione
della misericordia. L’epoca di questo
profeta è tra le più drammatiche della storia del popolo ebraico. Il Regno è vicino alla distruzione; il popolo non è rimasto fedele all’alleanza, si è allontanato da Dio e ha perso la fede dei Padri. Secondo una
logica umana, è giusto che Dio pensi di rifiutare il popolo infedele: non
ha osservato il patto stipulato e
quindi merita la dovuta pena, cioè
l’esilio. Le parole del profeta lo attestano: «Non ritornerà al paese
d’Egitto, ma Assur sarà il suo re,
perché non hanno voluto convertirsi» (Os 11, 5). Eppure, dopo questa
reazione che si richiama alla giustizia, il profeta modifica radicalmente
il suo linguaggio e rivela il vero volto di Dio: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme
di compassione. Non darò sfogo
all’ardore della mia ira, non tornerò
a distruggere Èfraim, perché sono
Dio e non uomo; sono il Santo in
mezzo a te e non verrò da te nella
mia ira» (11, 8-9). Sant’Agostino,
quasi a commentare le parole del
profeta dice: «È più facile che Dio
trattenga l’ira più che la misericordia»13. È proprio così. L’ira di Dio
dura un istante, mentre la sua misericordia dura in eterno.
Se Dio si fermasse alla giustizia
cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il
rispetto della legge. La giustizia da
sola non basta, e l’esperienza insegna che appellarsi solo ad essa rischia di distruggerla. Per questo Dio
va oltre la giustizia con la misericordia e il perdono. Ciò non significa
svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della
conversione, perché si sperimenta la
tenerezza del perdono. Dio non rifiuta la giustizia. Egli la ingloba e
supera in un evento superiore dove
si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia. Dobbiamo prestare molta attenzione a
quanto scrive Paolo per non cadere
nello stesso errore che l’Apostolo
rimproverava ai Giudei suoi contemporanei: «Ignorando la giustizia di
Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della
Legge è Cristo, perché la giustizia
sia data a chiunque crede» (Rm 10,
3-4). Questa giustizia di Dio è la mi-
sericordia concessa a tutti come grazia in forza della morte e risurrezione di Gesù Cristo. La Croce di Cristo, dunque, è il giudizio di Dio su
tutti noi e sul mondo, perché ci offre la certezza dell’amore e della vita
nuova.
22. Il Giubileo porta con sé anche
il riferimento all’indulgenza. Nell’Anno Santo della Misericordia essa acquista un rilievo particolare. Il perdono di Dio per i nostri peccati non
conosce confini. Nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, Dio rende
evidente questo suo amore che giunge fino a distruggere il peccato degli
uomini. Lasciarsi riconciliare con
Dio è possibile attraverso il mistero
pasquale e la mediazione della Chiesa. Dio quindi è sempre disponibile
al perdono e non si stanca mai di
offrirlo in maniera sempre nuova e
inaspettata. Noi tutti, tuttavia, facciamo esperienza del peccato. Sappiamo di essere chiamati alla perfezione (cfr. Mt 5, 48), ma sentiamo
forte il peso del peccato. Mentre
percepiamo la potenza della grazia
che ci trasforma, sperimentiamo anche la forza del peccato che ci condiziona. Nonostante il perdono, nella nostra vita portiamo le contraddizioni che sono la conseguenza dei
nostri peccati. Nel sacramento della
Riconciliazione Dio perdona i peccati, che sono davvero cancellati; eppure, l’impronta negativa che i peccati hanno lasciato nei nostri comportamenti e nei nostri pensieri rimane. La misericordia di Dio però è
più forte anche di questo. Essa diventa indulgenza del Padre che attraverso la Sposa di Cristo raggiunge il
peccatore perdonato e lo libera da
ogni residuo della conseguenza del
peccato, abilitandolo ad agire con
carità, a crescere nell’amore piuttosto
che ricadere nel peccato.
La Chiesa vive la comunione dei
Santi. Nell’Eucaristia questa comunione, che è dono di Dio, si attua
come unione spirituale che lega noi
credenti con i Santi e i Beati il cui
numero è incalcolabile (cfr. Ap 7, 4).
La loro santità viene in aiuto alla
nostra fragilità, e così la Madre
Chiesa è capace con la sua preghiera
e la sua vita di venire incontro alla
debolezza di alcuni con la santità di
altri. Vivere dunque l’indulgenza
nell’Anno Santo significa accostarsi
alla misericordia del Padre con la
certezza che il suo perdono si estende su tutta la vita del credente. Indulgenza è sperimentare la santità
della Chiesa che partecipa a tutti i
benefici della redenzione di Cristo,
perché il perdono sia esteso fino alle
estreme conseguenze a cui giunge
l’amore di Dio. Viviamo intensamente il Giubileo chiedendo al Padre il
perdono dei peccati e l’estensione
della sua indulgenza misericordiosa.
23. La misericordia possiede una
valenza che va oltre i confini della
Chiesa. Essa ci relaziona all’Ebraismo e all’Islam, che la considerano
uno degli attributi più qualificanti di
Dio. Israele per primo ha ricevuto
questa rivelazione, che permane nella storia come inizio di una ricchezza incommensurabile da offrire
all’intera umanità. Come abbiamo
visto, le pagine dell’Antico Testamento sono intrise di misericordia,
perché narrano le opere che il Si-
gnore ha compiuto a favore del suo
popolo nei momenti più difficili della sua storia. L’Islam, da parte sua,
tra i nomi attribuiti al Creatore pone
quello di Misericordioso e Clemente.
Questa invocazione è spesso sulle
labbra dei fedeli musulmani, che si
sentono accompagnati e sostenuti
dalla misericordia nella loro quotidiana debolezza. Anch’essi credono
che nessuno può limitare la misericordia divina perché le sue porte sono sempre aperte.
Questo Anno Giubilare vissuto
nella misericordia possa favorire l’incontro con queste religioni e con le
altre nobili tradizioni religiose; ci
renda più aperti al dialogo per meglio conoscerci e comprenderci; elimini ogni forma di chiusura e di disprezzo ed espella ogni forma di
violenza e di discriminazione.
24. Il pensiero ora si volge alla
Madre della Misericordia. La dolcezza del suo sguardo ci accompagni
in questo Anno Santo, perché tutti
possiamo riscoprire la gioia della tenerezza di Dio. Nessuno come Maria ha conosciuto la profondità del
mistero di Dio fatto uomo. Tutto
nella sua vita è stato plasmato dalla
presenza della misericordia fatta carne. La Madre del Crocifisso Risorto
è entrata nel santuario della misericordia divina perché ha partecipato
intimamente al mistero del suo amore.
Scelta per essere la Madre del Figlio di Dio, Maria è stata da sempre
preparata dall’amore del Padre per
essere Arca dell’Alleanza tra Dio e gli
uomini. Ha custodito nel suo cuore
la divina misericordia in perfetta sintonia con il suo Figlio Gesù. Il suo
canto di lode, sulla soglia della casa
di Elisabetta, fu dedicato alla misericordia che si estende «di generazione in generazione» (Lc 1, 50). Anche
noi eravamo presenti in quelle parole profetiche della Vergine Maria.
Questo ci sarà di conforto e di sostegno mentre attraverseremo la Porta
Santa per sperimentare i frutti della
misericordia divina.
Presso la croce, Maria insieme a
Giovanni, il discepolo dell’amore, è
testimone delle parole di perdono
che escono dalle labbra di Gesù. Il
perdono supremo offerto a chi lo ha
crocifisso ci mostra fin dove può arrivare la misericordia di Dio. Maria
attesta che la misericordia del Figlio
di Dio non conosce confini e raggiunge tutti senza escludere nessuno.
Rivolgiamo a lei la preghiera antica
e sempre nuova della Salve Regina,
perché non si stanchi mai di rivolgere a noi i suoi occhi misericordiosi e
ci renda degni di contemplare il volto della misericordia, suo Figlio Gesù.
La nostra preghiera si estenda anche ai tanti Santi e Beati che hanno
fatto della misericordia la loro missione di vita. In particolare il pensiero è rivolto alla grande apostola della misericordia, santa Faustina Kowalska. Lei, che fu chiamata ad entrare nelle profondità della divina
misericordia, interceda per noi e ci
ottenga di vivere e camminare sempre nel perdono di Dio e nell’incrollabile fiducia nel suo amore.
25. Un Anno Santo straordinario,
dunque, per vivere nella vita di ogni
giorno la misericordia che da sempre
il Padre estende verso di noi. In
questo Giubileo lasciamoci sorprendere da Dio. Lui non si stanca mai
di spalancare la porta del suo cuore
per ripetere che ci ama e vuole condividere con noi la sua vita. La
Chiesa sente in maniera forte l’urgenza di annunciare la misericordia
di Dio. La sua vita è autentica e credibile quando fa della misericordia il
suo annuncio convinto. Essa sa che
il suo primo compito, soprattutto in
un momento come il nostro colmo
di grandi speranze e forti contraddizioni, è quello di introdurre tutti nel
grande mistero della misericordia di
Dio, contemplando il volto di Cristo. La Chiesa è chiamata per prima
ad essere testimone veritiera della
misericordia professandola e vivendola come il centro della Rivelazione
di Gesù Cristo. Dal cuore della Trinità, dall’intimo più profondo del
mistero di Dio, sgorga e scorre senza
sosta il grande fiume della misericordia. Questa fonte non potrà mai
esaurirsi, per quanti siano quelli che
vi si accostano. Ogni volta che
ognuno ne avrà bisogno, potrà accedere ad essa, perché la misericordia
di Dio è senza fine. Tanto è imperscrutabile la profondità del mistero
che racchiude, tanto è inesauribile la
ricchezza che da essa proviene.
In questo Anno Giubilare la Chiesa si faccia eco della Parola di Dio
che risuona forte e convincente come una parola e un gesto di perdono, di sostegno, di aiuto, di amore.
Non si stanchi mai di offrire misericordia e sia sempre paziente nel confortare e perdonare. La Chiesa si
faccia voce di ogni uomo e ogni
donna e ripeta con fiducia e senza
sosta: «Ricordati, Signore, della tua
misericordia e del tuo amore, che è
da sempre» (Sal 25, 6).
Dato a Roma, presso San Pietro,
l’11 aprile, Vigilia della II D omenica
di Pasqua o della Divina
Misericordia, dell’Anno del Signore
2015,
terzo di pontificato.
1 Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost.
dogm. Dei Verbum, 4.
2 Discorso di apertura del Conc.
Ecum. Vat. II, Gaudet Mater Ecclesia,
11 ottobre 1962, 2-3.
3 Allocuzione nell’ultima sessione
pubblica, 7 dicembre 1965.
4 Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost.
dogm. Lumen Gentium, 16; Cost. past. Gaudium et spes, 15.
5
TOMMASO D’AQUINO, Summa
Theologiae, II-II, q. 30, a. 4.
6 XXVI Domenica del Tempo Ordinario. Questa colletta appare già,
nell’VIII secolo, tra i testi eucologici
del Sacramentario Gelasiano (1198).
7 Cfr. Om. 21: CCL 122, 149-151.
8 Esort. ap. Evangelii gaudium, 24.
9 N. 2.
10 GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc.
Dives in misericordia, 15.
11 Ibid., 13.
12 Parole di luce e di amore, 57.
13 Enarr. in Ps. 76, 11.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 16
giovedì 16 aprile 2015, numero 16
Messe a Santa Marta
Il coraggio della franchezza
Lunedì 13 aprile
Solo lo Spirito Santo ci dà la «forza
di annunziare Gesù Cristo fino alla
testimonianza finale». E lo Spirito
«viene da qualsiasi parte, come il
vento». Nell’omelia della messa celebrata lunedì 13 aprile a Santa Marta,
Papa Francesco ha affrontato il tema
del «coraggio cristiano» che è una
«grazia che dà lo Spirito Santo».
Punto di partenza della sua riflessione è stato un brano degli Atti degli apostoli (4, 23-31). Si tratta della
parte finale di un lungo racconto
«che incomincia con un miracolo
che fanno Pietro e Giovanni: la guarigione di quello storpio che era alla
porta bella del tempio, chiedendo
elemosina». Il Papa ha richiamato
l’intero episodio e ha ricordato che
Pietro guardò lo storpio «e gli disse:
“Oro né argento ho, ma quello che
ho ti do: alzati e cammina”». L’uomo guarì. La gente che vide si stupì
«e lodava Dio». Allora «Pietro profittò per annunciare il Vangelo, per
annunciare la buona notizia di Gesù
Cristo: per annunciare Gesù Cristo».
A quel punto, ha spiegato Francesco, i sacerdoti si trovarono in difficoltà: inviarono «alcuni a prendere
Pietro e Giovanni», i quali si mostrarono come «gente semplice, senza istruzione». I due apostoli «sono
rimasti in carcere, quella sera». Il
giorno seguente i sacerdoti decisero
«di proibirgli di parlare in nome di
Gesù, di predicare questa dottrina».
Ma loro «continuarono»; anzi Pietro
— che «era quello che portava la voce dei due» — affermò: «Se sia giusto obbedire a voi invece che a Dio:
noi obbediamo a Dio!». E aggiunse
«quella parola che abbiamo sentito
tante volte: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato».
Da qui il Pontefice ha ripreso il
brano proposto dalla liturgia del
giorno, dove si legge che i due, «rimessi in libertà», andarono a riferire
alla comunità «quanto avevano detto loro i capi dei sacerdoti e gli anziani», e che tutti, a quelle parole,
«insieme innalzarono la loro voce a
Dio e incominciarono a pregare», ripercorrendo le tappe della storia
della salvezza fino a Gesù. E «quando ebbero terminato la preghiera, il
luogo in cui erano radunati tremò e
tutti furono colmati di Spirito Santo
e proclamavano la parola di Dio con
franchezza».
Proprio su quest’ultima parola —
“franchezza” — si è soffermato il
Pontefice rilevando come in quella
preghiera comune si legga: «“E ora,
Signore, volgi lo sguardo alle loro
minacce e concedi ai tuoi servi” non
di fuggire: “di proclamare con tutta
franchezza la tua parola”». Qui
emerge l’indicazione per ogni cristiano: «Possiamo dire», ha sottolineato
Francesco, che «anche oggi il messaggio della Chiesa è il messaggio
del cammino della franchezza, del
cammino del coraggio cristiano».
Quella parola infatti, ha spiegato,
«si può tradurre “coraggio”, “franchezza”, “libertà di parlare”, “non
avere paura di dire le cose”». È la
“parresìa”. I due apostoli «dal timo-
re sono passati alla franchezza, a dire le cose, con libertà».
Il cerchio della riflessione del Papa si è chiuso con la rilettura del
brano del Vangelo di Giovanni (3, 18), ovvero del «dialogo un po’ misterioso fra Gesù e Nicodemo, sulla
“seconda nascita”». È a questo punto che il Pontefice si è chiesto: «In
tutta questa storia, chi è il vero protagonista? In questo itinerario della
franchezza, chi è il vero protagonista? Pietro, Giovanni, lo storpio
guarito, la gente che sentiva, i sacerdoti, i soldati? Nicodemo, Gesù?».
E la risposta è stata: «Il vero protagonista è proprio lo Spirito Santo.
Perché è lui l’unico capace di darci
questa grazia del coraggio di annunciare Gesù Cristo».
È il «coraggio dell’annuncio» ciò
che «ci distingue dal semplice proselitismo». Ha spiegato il Papa: «Noi
non facciamo pubblicità» per avere
«più “soci” nella nostra “società spirituale”». Questo «non serve, non è
cristiano». Invece «quello che il cristiano fa è annunziare con coraggio;
e l’annuncio di Gesù Cristo provoca,
mediante lo Spirito Santo, quello
stupore che ci fa andare avanti».
Perciò «il vero protagonista di tutto
questo è lo Spirito Santo», a tal
punto che — come si legge negli Atti
degli apostoli — quando i discepoli
ebbero terminato la preghiera il luogo in cui erano tremò e tutti furono
colmi di Spirito. È stato, ha detto
Francesco, «come una nuova Pentecoste».
Lo Spirito Santo è quindi il protagonista, tant’è vero che Gesù dice a
Nicodemo che si può nascere di
nuovo ma che «il vento soffia dove
vuole e ne senti la voce, ma non sai
da dove viene né dove va. Così è
chiunque è nato dallo Spirito Santo». Perciò, ha spiegato il Pontefice,
«è proprio lo Spirito che ci cambia,
che viene da qualsiasi parte, come il
vento». E ancora: «soltanto lo Spirito è capace di cambiarci l’atteggiamento, di cambiare noi, di cambiare
l’atteggiamento, di cambiare la storia
della nostra vita, cambiare la nostra
appartenenza, pure». Ed è lo stesso
Spirito che diede la forza ai due
apostoli, «uomini semplici e senza
istruzione», di «annunziare Gesù
Cristo fino alla testimonianza finale:
il martirio».
Ecco allora l’insegnamento per
ogni credente: «il cammino del coraggio cristiano è una grazia che dà
lo Spirito Santo». Ci sono infatti
«tante strade che possiamo prendere, anche che ci danno un certo coraggio», per le quali si può dire:
«Ma guarda che coraggioso, la decisione che ha preso!». Però tutto
questo «è strumento di un’altra cosa
più grande: lo Spirito». E «se non
c’è lo Spirito, noi possiamo fare tante cose, tanto lavoro, ma non serve a
niente».
Per questo, ha concluso il Papa,
dopo il giorno di Pasqua, «che è durato otto giorni», la Chiesa «ci prepara a ricevere lo Spirito Santo».
Ora, «nella celebrazione del mistero
della morte e della resurrezione di
Gesù, possiamo ricordare tutta la
storia di salvezza», che è anche «la
nostra propria storia di salvezza», e
possiamo «chiedere la grazia di
ricevere lo Spirito perché ci dia il vero coraggio per annunciare Gesù
Cristo».
Udienza al presidente
della Repubblica Slovacca
Ricevuto il presidente
della Repubblica di Georgia
Nella mattina di giovedì 9 aprile, Papa Francesco ha ricevuto in
udienza, nel Palazzo
apostolico, il presidente della Repubblica
Slovacca, Andrej Kiska, il quale ha successivamente avuto un incontro in Segreteria di
Stato, con monsignor
Antoine Camilleri, sotto-segretario per i rapporti con gli Stati.
Durante i cordiali
colloqui, svoltisi nella
ricorrenza del venticinquesimo anniversario
della ripresa delle relazioni diplomatiche tra
la Santa Sede e l’allora Repubblica federativa Ceca e Slovacca, avvenuta il
19 aprile 1990 e seguita dal viaggio di Giovanni Paolo II nel Paese, è stato
espresso vivo compiacimento per i buoni rapporti bilaterali, suggellati dagli Accordi in vigore e dal dialogo proficuo tra la Chiesa e le autorità civili.
Nel prosieguo della conversazione, ci si è soffermati sull’attuale contesto
internazionale, con particolare attenzione alle sfide che interessano alcune
aree del mondo, specialmente il Medio oriente, e all’importanza della tutela della dignità della persona umana.
Nella mattinata di venerdì 10 aprile, Papa
Francesco ha ricevuto
in udienza il presidente
della Repubblica di
Georgia, Giorgi Margvelashvili, il quale ha
successivamente avuto
un incontro in Segreteria di Stato con monsignor Antoine Camilleri, sotto-segretario per i
rapporti con gli Stati.
I cordiali colloqui
hanno permesso di apprezzare gli sviluppi
delle relazioni bilaterali
e di approfondire alcune tematiche di interesse comune, con particolare riferimento al positivo contributo della locale comunità cattolica
nell’ambito dell’attività caritativa e dell’educazione.
Nel prosieguo della conversazione, ci si è soffermati con preoccupazione
sulle tensioni che interessano la regione e, nel rilevare l’importanza del
pieno rispetto della legalità internazionale, è stato espresso l’auspicio che
ogni soluzione sia ricercata attraverso il negoziato pacifico tra le Parti
interessate. Infine, non si è mancato di far cenno a quanto è stato recentemente compiuto dalla Georgia circa il proprio ruolo nel continente europeo.
numero 16, giovedì 16 aprile 2015
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 17
Armonia, povertà, pazienza
Martedì 14 aprile
Tre grazie da chiedere per le comunità cristiane: l’armonia, la povertà e
la pazienza. Continuando la riflessione sul racconto del colloquio notturno tra Gesù e Nicodemo — al
centro della liturgia della parola —
Papa Francesco ha dedicato l’omelia
della messa celebrata a Santa Marta
martedì 14 aprile al tema della «rinascita», che per la Chiesa significa
«rinascere nello Spirito».
Il vescovo di Roma si è riallacciato alle letture del giorno precedente,
ricordando che esse invitavano a «riflettere su una delle tante trasformazioni» che lo Spirito opera: quella di
dare «coraggio», trasformando l’uomo «da codardo e timoroso» a «coraggioso, con un coraggio forte per
annunciare Gesù, senza paura». Dalla singola persona il Papa è passato
a considerare «cosa fa lo Spirito in
una comunità».
Rileggendo il brano degli Atti degli apostoli (4, 32-37) che descrive le
prime comunità cristiane, sembra
quasi di trovarsi di fronte a una descrizione di un mondo ideale: «Tutti
erano amici, tutti mettevano tutto in
comune, nessuno litigava». Un racconto, ha spiegato Francesco, che «è
come un riassunto, come se la vita si
fermasse un po’ e lo Spirito di Dio
ci facesse intravedere cosa potrebbe
fare in una comunità, come si potrebbe trasformare una comunità:
una comunità diocesana, una comunità parrocchiale, religiosa, una comunità famigliare».
In questa descrizione il Pontefice
ha evidenziato due segni caratteristici
della «rinascita in una comunità».
Innanzitutto l’armonia: «La moltitudine di coloro che erano diventati
credenti aveva un cuore solo e
un’anima sola». Chi rinasce dallo
Spirito, cioè, ha la «grazia dell’unità,
dell’armonia». Lo Spirito Santo, infatti, è «l’unico che può darci l’armonia» perché «lui anche è l’armonia
fra il Padre e il Figlio». C’è poi un
secondo segno, ed è quello del «bene
Henry Ossawa Tanner, «Studio per Gesù e Nicodemo» (1899)
comune». Si legge nella scrittura:
«Nessuno infatti tra loro era bisognoso, nessuno considerava sua proprietà
quello che gli apparteneva».
A questo punto il Papa ha sottolineato come questi due aspetti siano
solo «un passo» nel cammino della
comunità rinata. Questa infatti comincia a vivere anche dei «problemi». Ad esempio c’è il caso «del
matrimonio di Anania e Saffira», i
quali, entrati nella comunità, «hanno cercato di truffare la comunità».
Un’esperienza negativa che si può
ricondurre ai nostri giorni: è simile,
ha spiegato Francesco, ai «padroni
dei benefattori che si avvicinano alla
Chiesa, entrano per aiutarla e usare
la Chiesa per i propri affari». Vi sono, poi, anche «le persecuzioni»
che, del resto, erano state «annun-
Le credenziali
dell’ambasciatore d’Italia
ciate da Gesù»: a questo riguardo il
Pontefice ha richiamato «l’ultima
delle beatitudini di Matteo: “Beati
quando vi insulteranno, vi perseguiteranno a causa di me... Rallegratevi”». E ha ricordato anche che Gesù
«promette tante cose belle, la pace,
l’abbondanza: “Avrete cento volte in
più con le persecuzioni”».
Tutto questo si ritrova «nella prima comunità rinata dallo Spirito
Santo», alla quale Pietro spiega:
«Fratelli non meravigliatevi di queste persecuzioni, questo incendio che
è scoppiato fra voi». Nell’«immagine dell’incendio», ha chiosato il
Pontefice, ritroviamo quella del
«fuoco che purifica l’oro», ovvero:
l’«oro di una comunità rinata dallo
Spirito Santo viene purificato delle
difficoltà, delle persecuzioni».
È a questo punto che il Papa ha
introdotto un terzo elemento importante, ricordando il «consiglio di
Gesù» dato a chi si trova «in mezzo
alle difficoltà, alle persecuzioni: “Abbiate pazienza, perché con la pazienza salverete le vostre vite, le vostre
anime”». Occorre cioè «la pazienza
nel sopportare: sopportare i problemi, sopportare le difficoltà, sopportare le maldicenze, le calunnie, sopportare le malattie, sopportare il dolore della perdita di un figlio di una
moglie, di un marito, di una mamma, di un papà... la pazienza».
Ecco quindi i tre elementi: una
comunità cristiana «fa vedere che è
rinata nello Spirito Santo, quando è
una comunità che cerca l’armonia» e
non la divisione interna, «quando
cerca la povertà», e «non l’accumulo
di ricchezze — le ricchezze, infatti,
«sono per il servizio» — e quando
ha pazienza, cioè quando «non si arrabbia subito davanti alle difficoltà e
si sente offesa», perché «il servo di
Jahvè, Gesù, è paziente».
Alla luce di quanto detto, il Papa
ha concluso la sua riflessione esortando tutti, «in questa seconda settimana di Pasqua» durante la quale si
celebrano i misteri pasquali, a «pensare alle nostre comunità», siano esse diocesane, parrocchiali, famigliari
o di altro tipo, per chiedere tre grazie: quella «dell’armonia, che è più
dell’unità», quella «della povertà» —
che non significa «della miseria»: infatti, ha specificato Francesco, chi ha
qualche possesso «devo gestirlo bene per il bene comune e con generosità» — e infine quella «della pazienza». Dobbiamo infatti capire che
non soltanto «ognuno di noi» ha ricevuto la grazia di «rinascere nello
Spirito», ma che questa grazia è anche per «le nostre comunità».
Per l’account @Pontifex su Twitter
Venti milioni di follower
Nella mattina di sabato 11 aprile, Papa Francesco ha ricevuto in udienza
sua eccellenza il signor Daniele Mancini, nuovo ambasciatore d’Italia
per la presentazione delle lettere con cui viene accreditato presso la Santa Sede.
@Pontifex ha superato i venti milioni di follower. L’account con cui il Papa
è presente su Twitter ha raggiunto il significativo traguardo domenica 12
aprile, verso le 17.30. La cifra record è il risultato della somma di quanti seguono i “cinguettii” di Francesco in nove differenti lingue: spagnolo, con oltre otto milioni e mezzo di seguaci; inglese, quasi sei milioni; italiano, oltre
due milioni e mezzo; portoghese, circa un milione e mezzo; polacco, più di
quattrocentomila; francese, 364.000; latino, 340.000; tedesco, 257.000; e arabo, 196.000. Creato nel dicembre 2012, @Pontifex aveva superato i dieci milioni di follower nell’ottobre 2013.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 18
Per riflettere
sulla Scrittura
NOSTRE INFORMAZIONI
Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al
governo pastorale della Diocesi di Ambatondrazaka (Madagascar), presentata da Sua
Eccellenza Reverendissima Monsignor Antoine Scopelliti, O.SS.T., in conformità al canone 401 § 1 del Codice di Diritto Canonico.
Provvista di Chiesa
Il Santo Padre ha nominato Vescovo di
Ambatondrazaka (Madagascar) Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Jean de
Dieu Raoelison, finora Vescovo titolare di
Corniculana e Ausiliare di Antananarivo.
«The good Shepherd» (arte africana)
Domenica 26 aprile,
IV
di Pasqua
Solo per amore
di LEONARD O SAPIENZA
Oggi, domenica del buon pastore, Gesù si presenta come
il pastore perfetto, il modello dei pastori. Il pastore al
quale importa delle pecore a lui affidate.
Dire a qualcuno “tu mi importi”, significa dirgli “ti
amo”. Tu sei importante per me! E per te sono disposto a
dare la vita. Gesù lo ripete ben cinque volte. Ricordandoci che «più si dona il proprio cuore, meno ci si impoverisce» (Vladimir Ghika).
Ma questo ideale è alto. Troppo alto. Cosa fare? Lo eliminiamo perché non riusciamo a raggiungerlo? Ma l’uomo è nato per fare cose grandi. Per essere un campione,
cioè un santo.
Bisogna puntare in alto. Non è il celibato a scoraggiare
quanti vogliono scegliere di seguire la vocazione sacerdotale o religiosa. Così come non è il vincolo matrimoniale
a rovinare la relazione tra due innamorati.
È questione di amore. L’amore basta a se stesso. Solo
chi ama è felice e sa donare gioia. L’amore vero pretende
di essere totale. Si diventa pastori, sull’esempio di Gesù,
solo perché si è innamorati di Dio e delle anime.
Ma Gesù parla di “mercenari”, gente a cui non importa
delle pecore. Le cronache ci
hanno raccontato più volte
Atti 4, 8-12: In nessun altro
di scandali a causa di sacerdoti indegni. Che hanno tra- c’è salvezza.
dito il patto di amore. Ma Salmo 117: La pietra scartata
questo fango non basta ad dai costruttori è diventata
offuscare la bellezza della pietra d’angolo.
vocazione sacerdotale. Come 1 Giovanni 3, 1-2: Vedremo
il naufragio dell’amore in Dio così come egli è.
qualche famiglia non può far Giovanni 10, 11-18: Il buon
diminuire l’ideale dell’amore pastore dà la propria vita
tra gli sposi.
per le pecore.
C’è bisogno della preghiera di tutti, perché chi ha volontariamente e generosamente deciso di servire Cristo,
non perda di vista l’ideale, nonostante debolezze e difficoltà.
C’è bisogno della preghiera, perché meritiamo vocazioni
che siano solamente e totalmente innamorate di Cristo e
della Chiesa. Che scelgano di servire per amore, solo per
amore.
Nell’invitarvi ad essere vicini a tutti i sacerdoti con la
vostra preghiera, vi leggo una pagina che faccio totalmente mia. La rileggo nei momenti di stanchezza. È la predica di padre Felice nel capitolo 36 dei Promessi sposi.
«Per me, e per tutti i miei compagni, che, senza alcun
nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servire
Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempiuto un sì grande ministero. Se
la pigrizia, l’indocilità della carne ci ha reso meno attenti
alle vostre necessità, meno pronti alle vostre chiamate; se
una ingiusta impazienza, se un colpevole tedio ci ha fatti
qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e
severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta
quell’umiltà che si conveniva, se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandalo;
perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi
benedica!» (Alessandro Manzoni).
giovedì 16 aprile 2015, numero 16
Nomina di Vescovo Ausiliare
Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare di Mendoza (Argentina) il Reverendo
Dante Gustavo Braida, Vicario Generale
della Diocesi di Reconquista, assegnandogli
la sede titolare di Tanudaia.
(11 aprile 2015)
Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al
governo pastorale dell’Arcidiocesi di Taunggyi (Myanmar), presentata da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Matthias U
Shwe, in conformità al canone 401 § 2 del
Codice di Diritto Canonico, e ha nominato
Amministratore Apostolico sede vacante et ad
nutum Sanctae Sedis di Taunggyi Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Basilio
Athai, Vescovo Ausiliare della medesima Arcidiocesi.
(12 aprile 2015)
Il Santo Padre ha annoverato tra i Membri dei Dicasteri della Curia Romana i seguenti Eminentissimi Signori Cardinali,
creati e pubblicati nel Concistoro del 14 febbraio 2015:
1) nel Consiglio di Cardinali e Vescovi
della Sezione per i Rapporti con gli Stati
della Segreteria di Stato l’Eminentissimo Signor Cardinale Dominique Mamberti, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura
Apostolica;
2) nella Congregazione per la Dottrina
della Fede l’Eminentissimo Signor Cardinale
Ricardo Blázquez Pérez, Arcivescovo di Valladolid (Spagna);
3) nella Congregazione per le Chiese
Orientali gli Eminentissimi Signori Cardinali: Berhaneyesus Demerew Souraphiel, Arcivescovo di Addis Abeba (Etiopia); Edoardo
Menichelli, Arcivescovo di Ancona-Osimo
(Italia);
4) nella Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti l’Eminentissimo Signor Cardinale Dominique Mamberti, Prefetto del Supremo Tribunale della
Segnatura Apostolica;
5) nella Congregazione delle Cause dei
Santi l’Eminentissimo Signor Cardinale Dominique Mamberti, Prefetto del Supremo
Tribunale della Segnatura Apostolica;
6) nella Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli gli Eminentissimi Signori
Cardinali: John Atcherley Dew, Arcivescovo
di Wellington (Nuova Zelanda); Pierre Nguyên Văn Nhon, Arcivescovo di Hà Nôi (Viêt
Nam); Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, Arcivescovo di Bangkok (Thailandia);
Arlindo Gomes Furtado, Vescovo di Santiago de Cabo Verde (Capo Verde); Soane Patita Paini Mafi, Vescovo di Tonga (Tonga);
7) nella Congregazione per il Clero gli
Eminentissimi Signori Cardinali: Manuel José Macário do Nascimento Clemente, Patriarca di Lisboa (Portogallo); Alberto Suárez Inda, Arcivescovo di Morelia (Messico);
8) nella Congregazione per gli Istituti di
Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica gli Eminentissimi Signori Cardinali:
Charles Maung Bo, Arcivescovo di Yangon
(Myanmar); Daniel Fernando Sturla Berhouet, Arcivescovo di Montevideo (Uruguay);
9) nella Congregazione per l’Educazione
Cattolica l’Eminentissimo Signor Cardinale
José Luis Lacunza Maestrojuán, Vescovo di
David (Panamá);
10) nel Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani l’Eminentissimo Signor Cardinale John Atcherley Dew,
Arcivescovo di Wellington (Nuova Zelanda);
11) nel Pontificio Consiglio della Giustizia
e della Pace gli Eminentissimi Signori Cardinali: Pierre Nguyên Văn Nhon, Arcivescovo di Hà Nôi (Viêt Nam); Alberto Suárez
Inda, Arcivescovo di Morelia (Messico);
12) nel Pontificio Consiglio «Cor Unum»
gli Eminentissimi Signori Cardinali: Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento
(Italia); Arlindo Gomes Furtado, Vescovo di
Santiago de Cabo Verde (Capo Verde); Soane Patita Paini Mafi, Vescovo di Tonga
(Tonga);
13) nel Pontificio Consiglio della Pastorale
per i Migranti e gli Itineranti gli Eminentissimi Signori Cardinali: Berhaneyesus Demerew Souraphiel, Arcivescovo di Addis Abeba
(Etiopia); Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento (Italia);
14) nel Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari l’Eminentissimo Signor Cardinale Edoardo Menichelli, Arcivescovo di
Ancona-Osimo (Italia);
15) nel Pontificio Consiglio della Cultura
gli Eminentissimi Signori Cardinali: Charles
Maung Bo, Arcivescovo di Yangon (Myanmar); Ricardo Blázquez Pérez, Arcivescovo
di Valladolid (Spagna); José Luis Lacunza
Maestrojuán, Vescovo di David (Panamá);
16) nel Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali gli Eminentissimi Signori
Cardinali: Manuel José Macário do Nascimento Clemente, Patriarca di Lisboa (Portogallo); Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, Arcivescovo di Bangkok (Thailandia);
17) nel Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione l’Eminentissimo Signor Cardinale Daniel Fernando Sturla Berhouet, Arcivescovo di Montevideo (Uruguay).
Il Santo Padre ha nominato Nunzio Apostolico in Madagascar il Reverendo Monsignore Paolo Rocco Gualtieri, Consigliere di
Nunziatura, elevandolo in pari tempo alla
sede titolare di Sagona, con dignità di Arcivescovo.
Nomina di Visitatore Apostolico
Il Santo Padre ha nominato Visitatore
Apostolico per i fedeli maroniti in Bulgaria,
Grecia e Romania Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor François Eid, Vescovo
emerito del Cairo dei Maroniti e Procuratore
del Patriarca Maronita presso la Santa Sede.
(13 aprile 2015)
Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al
governo pastorale dell’Arcieparchia di Petra
e Filadelfia dei Greco-Melkiti (Giordania),
presentata da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Yasser Rasmi Hanna AlAyyash, in conformità al canone 210 § 1 del
Codice dei Canoni delle Chiese Orientali.
Il Santo Padre ha nominato Segretario
della Sezione Amministrativa della Segreteria per l’Economia il Reverendo Monsignore
CONTINUA A PAGINA 19
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 16, giovedì 16 aprile 2015
pagina 19
Cordoglio del Pontefice
per la morte del cardinale Tucci
I lavori
del Consiglio
di cardinali
È morto a Roma martedì sera, 14 aprile, dopo una lunga malattia, il cardinale
gesuita Roberto Tucci, per molti anni direttore della «Civiltà Cattolica» e
della Radio Vaticana e organizzatore dei viaggi di Giovanni Paolo II.
Il porporato italiano, che avrebbe compiuto 94 anni domenica prossima, era stato
ricoverato alcune settimane fa nella clinica romana Pio XI per problemi
respiratori. Il decesso è avvenuto verso le 21.40 nell’infermeria della comunità
gesuita di via dei Penitenzieri. Nato a Napoli il 19 aprile 1921, era stato
ordinato sacerdote il 24 agosto 1950. Nel concistoro del 21 febbraio 2001 Papa
Wojtyła lo aveva creato cardinale diacono di Sant’Ignazio di Loyola a Campo
Marzio. Esattamente dieci anni dopo, il 21 febbraio 2011, aveva optato
per l’ordine dei preti, mantenendo la stessa diaconia, elevata pro hac vice
a titolo presbiterale. Venerdì pomeriggio, 17 aprile, nella basilica vaticana
le esequie celebrate dal cardinale decano, con il rito dell’Ultima commendatio e
della valedictio presieduto dal Papa. Il quale, appresa la notizia, ha inviato
un telegramma di cordoglio al preposito generale della Compagnia di Gesù.
Ho appreso la notizia della dipartita
del venerato cardinale Roberto Tucci, membro della Compagnia di Gesù e desidero esprimere sentimenti
di vivo cordoglio a lei, all’intero istituto, ai familiari e a quanti hanno
conosciuto e stimato il compianto
porporato. Ricordo con animo grato
la preziosa collaborazione da lui
prestata per tanti decenni alla Santa
Sede come direttore della «Civiltà
Cattolica», perito al concilio Vaticano secondo, direttore generale della
Radio Vaticana e specialmente come
organizzatore delle visite papali fuori d’Italia. Egli lascia il ricordo di
una vita operosa e dinamica, spesa
nell’adesione coerente e generosa alla propria vocazione quale religioso
attento alle necessità degli altri e pastore fedele al Vangelo e alla Chiesa,
sull’esempio di sant’Ignazio. Innalzo
fervide preghiere di suffragio perché
il Signore lo accolga nel gaudio e
nella pace eterna, ed invio a lei e ai
confratelli gesuiti la confortatrice
Nostre
Informazioni
di FERDINAND O CANCELLI
i entra nello spazio silenzioso
con qualche esitazione dopo aver
oltrepassato il portone di legno
sormontato dalle antiche insegne tra
cui spicca il corvo di Riccardo II e Guglielmo V di Corbières che sono per
sempre legati, con Gerardo I, alla fondazione della certosa nel 1295. Uno
spazio dopo l’altro, un silenzio dopo
S
Provvista di Chiesa
Nomina di Vescovo
Ausiliare
Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Belo Horizonte
(Brasile) il Reverendo Edson
José Oriolo dos Santos, finora Parroco della Cattedrale di Pouso Alegre, assegnandogli la Sede titolare di
Segia.
(15 aprile 2015)
PP.
Analogo telegramma è stato inviato
dal cardinale segretario di Stato,
Pietro Parolin.
Tra i monaci
Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Taubaté (Brasile), presentata da
Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Carmo João
Rhoden, S.C.I., in conformità
al canone 401 § 1 del Codice
di Diritto Canonico.
Il Santo Padre ha nominato Vescovo della Diocesi di
Taubaté (Brasile) Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Wilson Luís Angotti
Filho, finora Vescovo titolare
di Tabe e Ausiliare dell’Arcidiocesi di Belo Horizonte.
FRANCISCUS
In memoria di Charles Journet
DA PAGINA 18
Luigi Mistò, finora Segretario dell’Amministrazione del
Patrimonio della Sede Apostolica.
In pari tempo, Sua Santità
ha nominato Segretario della
medesima Amministrazione
del Patrimonio della Sede
Apostolica
il
Reverendo
Monsignore Mauro Rivella.
(14 aprile 2015)
Benedizione apostolica, segno della
mia intensa partecipazione alla comune mestizia.
l’altro, la luce del sole che gioca con le
ombre di ambienti vastissimi: seguo il
priore che mi spiega con poche parole
la struttura dell’ultimo monastero certosino attivo in Svizzera, la Valsainte.
«Vuole vedere dove riposa il cardinale
Journet?» mi chiede con un sorriso
leggero. Valichiamo anche l’ultimo
portoncino e penetriamo nel cuore più
intimo di questo scrigno di preghiere,
ci accoglie una piccola selva di croci di
legno scuro che sembrano più sbocciate che infisse nel verde incolto del prato. «Ecco, è questa» mi dice il priore.
Ci raccogliamo insieme in preghiera
per qualche minuto in compagnia di
un vento leggero che qui nella Gruyère
mi dicono annunciare il bel tempo. La
croce del cardinale è uguale alle altre,
introvabile se non ne si conosce con
esattezza la posizione. Era il 18 aprile
di quarant’anni fa: il cardinale Charles
Journet, uno dei teologi più noti del
suo tempo, aveva scelto di riposare tra
i monaci che aveva tanto amato e questi lo avevano accolto col loro stile sobrio ed essenziale, gli avevano promesso un pezzettino di quella terra nella
quale riposano molti di loro in attesa
del giorno glorioso per il quale hanno
speso e ancor oggi spendono la loro
vita. Da dove ricavava la sua energia
quest’uomo dal volto allegro e ascetico
che tanto affascinava i seminaristi del
suo tempo con le sue splendide lezioni
di ecclesiologia? In che modo il fine
teologo Journet riusciva a «divulgare e
non volgarizzare» come soleva dire
spesso, temi anche complessi? La
lettura della corrispondenza con il
filosofo Maritain, anch’egli regolare
ospite alla certosa della Valsainte, ci
aiuta a capirlo. La spiritualità certosina
profonda, gioiosamente silenziosa e
solidamente radicata in Dio sotto il
costante sguardo di Maria è stata
senza dubbio la chiave di volta di
molte sue meditazioni. Quando si
spense all’ospedale cantonale di Friburgo il 15 aprile 1975 i monaci mantennero la promessa e lo accolsero tra
di loro.
«Sono stato quattro giorni alla Valsainte — scriveva a Jacques Maritain il
4 agosto 1932 dal seminario di Friburgo —. È sempre la regola di San Bruno
e il silenzio pieno di Dio». Quella regola e quel silenzio sono stati il suo
motore più intimo e ancor oggi la figura del cardinale Charles Journet è
vivissima tra i suoi amici monaci e tra
coloro che pregano per la beatificazione di questo grande amico di Dio.
La riforma dei media vaticani e la
questione della responsabilità nella
Chiesa in materia di abusi, sono
due dei temi approfonditi nel corso
della nona riunione di Papa Francesco con il Consiglio di cardinali,
apertasi lunedì 13 aprile. In vista
della conclusione dei lavori, nel
pomeriggio di mercoledì 15, ne ha
parlato il direttore della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, in un briefing con i
giornalisti accreditati. Ricordando
che a tutti gli incontri, tranne a
quello di mercoledì mattina, è stato
presente il Pontefice, Lombardi ha
sottolineato che per la maggior
parte del tempo i porporati si sono
occupati del tema generale della riforma della Curia romana, soffermandosi su considerazioni metodologiche, per poter pervenire entro il
2016 a un punto significativo nella
preparazione della nuova costituzione apostolica. Quindi ha riferito
che uno spazio consistente è stato
ritagliato per la rilettura, a cura del
vescovo segretario, degli oltre sessanta interventi fatti durante il
Concistoro del febbraio scorso. In
particolare si è parlato di principi
generali e del consolidamento della
linea che conduce verso la nascita
di due grandi dicasteri: uno per la
carità, la giustizia e la pace; e uno
per i laici, la famiglia e la vita.
Successivamente il direttore della
Sala stampa si è soffermato sulla riforma dei media. Concluso il lavoro
del comitato referente, guidato nei
mesi scorsi da lord Chris Patten,
dovrebbe nascere ora una seconda
commissione che definirà la ristrutturazione dell’apparato informativo.
Base della riflessione sarà il rapporto finale che il comitato ha consegnato al Papa e ai suoi collaboratori, «nel quale c’è un piano ancora
piuttosto ampio e generale, non con
decisioni operative particolari», ha
detto Lombardi. Di conseguenza è
stato chiesto al Pontefice di nominare una commissione, incaricata di
articolare e studiare bene i passi
all’attuazione, la quale lavorerà in
continuità con il comitato che ha
preparato il rapporto.
Quanto al tema della accountability, Lombardi ha riferito che è stato proposto alla discussione dal
cardinale Sean O’Malley, arcivescovo di Boston e membro del Consiglio di cardinali, rispondendo a
un’attesa della Pontificia commissione per la tutela dei minori, da
lui presieduta. Si tratta di «come
affrontare, con quali procedure e
competenze, i casi non tanto di
abuso, sul quale già ci sono le norme, ma i casi di abuso di ufficio,
omissione, responsabilità, in particolare da parte di persone che abbiano responsabilità: sacerdoti, vescovi, superiori religiosi o altri», ha
concluso il direttore della Sala
stampa, puntualizzando che «non
c’è un progetto preciso o un documento, ma il tema è stato posto
esplicitamente sul tavolo e vi è l’intenzione di trovare le vie per procedere» in tale direzione.
Fissato infine il calendario delle
prossime riunioni, che si terranno
dall’8 al 10 giugno, dal 14 al 16 settembre e dal 10 al 12 dicembre.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 20
giovedì 16 aprile 2015, numero 16
Ian McEwan e la crisi della secolarizzazione
La vita degli altri
di LUCETTA SCARAFFIA
a crisi della secolarizzazione,
che prende per molte persone
la forma di un forte senso di
solitudine e di una perdita di senso
della vita, oggi è percepita e narrata
— in certi casi quasi gridata — dalla
letteratura. Mentre due scrittori francesi di grande successo — Michel
L
Sintesi
della fede
cristiana
DA PAGINA 1
tenere vivo» il concilio, definito
l’inizio di un nuovo percorso. Allora si avvertì «l’esigenza di parlare
di Dio agli uomini del loro tempo
in un modo più comprensibile»,
come già nel 1950 aveva detto
Montini a Jean Guitton: «Cosa
serve dire quello che è vero, se gli
uomini del nostro tempo non ci capiscono?».
E dei Papi del concilio il loro
successore ricorda nella bolla le
parole che collocano il Vaticano II
in questa chiave di lettura antica e
sempre nuova: «Ora la sposa di
Cristo preferisce usare la medicina
della misericordia» e così «mostrarsi madre amorevolissima di
tutti, benigna, paziente, mossa da
misericordia e da bontà verso i figli da lei separati» disse Giovanni
XXIII aprendo il Vaticano II. Concluso
nel
segno
suggestivo
dell’«antica storia del samaritano»,
presentata da Paolo VI come paradigma della sua spiritualità.
A mezzo secolo dalla conclusione della più grande assemblea cristiana mai celebrata, Papa Francesco la ricorda come «nuova tappa
dell’evangelizzazione di sempre».
E usa un’immagine che richiama il
titolo (Abbattere i bastioni) e il senso di un piccolo libro di Hans Urs
von Balthasar pubblicato nel 1952:
«Abbattute le muraglie che per
troppo tempo avevano rinchiuso
la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo» e «testimoniare con più entusiasmo e coraggio» la fede in Cristo, unico Signore.
Ecco allora il tempo favorevole
per tornare all’essenziale e trasformare ogni comunità cristiana in
«un’oasi di misericordia», sgretolando l’indifferenza, praticando le
opere di misericordia corporale e
spirituale, riscoprendo la bellezza
della confessione e cambiando vita,
aperti all’incontro con donne e uomini delle altre religioni. Come
pellegrini in cammino verso la meta a cui ognuno, forse anche inconsapevolmente, aspira. Senza paura
di farsi «sorprendere da Dio».
g.m.v.
Houellebecq ed Emmanuel Carrère
— raccontano nella loro ultima opera
due casi di ritorno alla fede cattolica
falliti, lo scrittore inglese Ian McEwan urla — letteralmente — la sua
angoscia in un bellissimo romanzo,
La ballata di Adam Henry (Torino,
Einaudi, 2014, pagine 208, euro 20).
Il caso è quello classico, una questione biogiuridica di quelle che cominciano a ripresentarsi con sempre
maggiore frequenza, e che impongono la scelta fra scienza e religione.
Un ragazzo — ancora per poco minorenne — sta morendo di leucemia.
Una trasfusione potrebbe salvargli la
vita, permettendo la prosecuzione
della terapia, ma i genitori la rifiutano per motivi religiosi. Chiamata a
decidere della sorte del ragazzo,
Adam, è una magistrata in carriera,
tanto appassionata del suo lavoro da
rinunciare alla maternità e trascurare
il suo matrimonio.
Il caso del ragazzo si snoda contemporaneamente alla crisi matrimoniale che lei sta vivendo, e che apre
una crepa improvvisa nella sua tranquilla vita di donna benestante e affermata. Si svolge anche contemporaneamente alla sua normale attività
di giudice che si occupa di diritto di
famiglia, che vede sfilare davanti ai
suoi occhi sempre più numerose crisi
matrimoniali che la mettono di fronte «alla perversa assurdità delle coppie in fase di divorzio». La sua recente impressione era che le separazioni avessero registrato «un picco
delle proporzioni di un’onda anoma-
la, che aveva travolto intere famiglie,
disperso proprietà e sogni luminosi,
annegato chiunque non fosse provvisto di un poderoso istinto di sopravvivenza. Promesse d’amore abiurate
o riscritte, compagni un tempo sereni che si trasformavano in astuti
combattenti acquattati dietro i rispettivi avvocati, senza badare ai costi».
Accanto a questa disfatta, il problema di Adam è la sua famiglia
unita e amorosa, che aveva ritrovato
un senso alla vita e al matrimonio
grazie alla conversione a una setta
religiosa, i Testimoni di Geova. Salvare la vita del giovane a tutti i costi
significa, per il ragazzo e per i suoi
familiari, mettere in dubbio questo
forte riferimento esistenziale.
Non si tratta di superstizione o
tanto meno di circonvenzione da
parte degli anziani della setta, ma
della fedeltà a chi ha risposto a un
bisogno profondo: questo la giudice
lo capisce benissimo, e quindi le è
chiaro che non bastano le ragioni
scientifiche per trovare una sentenza
che imponga di scardinare questa
convinzione. Proprio per quello vuole incontrare personalmente il ragazzo, e si reca in ospedale, dove trova
un punto di contatto profondo con
lui — poeta e aspirante musicista —
attraverso la musica e la poesia. Sono la musica, e le strofe cantate insieme, che rivelano al ragazzo stesso
la sua voglia di vivere, e a lei la ragione per cui deve obbligarlo alla
trasfusione.
Edward Hopper, «Chair Car»
(1965, particolare)
Nell’inquietudine che lo insegue
dopo la guarigione, Adam cercherà
insistentemente delle risposte dalla
giudice che, salvandolo, ai suoi occhi si è resa interamente responsabile
della sua vita. La donna, pur affascinata dal giovane, che riapre nel suo
cuore la ferita della maternità negata, fugge da questa responsabilità.
Anche perché lei stessa non saprebbe quale risposta dare a una domanda di senso così esigente e profonda.
Si tratta di un romanzo denso di
spessore morale: da una parte, l’autore mette in luce il peso che porta
chi prende importanti decisioni sulla
vita degli altri, cioè decisioni nel
campo della bioetica. Dall’altra, rivela il dramma di una società che sa
solo distruggere la fede, ma poi non
ha risposte da dare alle vere domande che l’esistere come esseri umani ci
pone.
Per educare alla pace
Quei bambini di Tangeri
di ZOUHIR LOUASSINI
rano gli inizi degli anni Settanta in una Tangeri piena di
vita e di speranza. Non avevo
compiuto ancora otto anni. I ricordi
di quel periodo mi arrivano annebbiati e confusi. Qualcosa, però, è
tuttora chiarissima: le mie paure, che
erano tante. Mi spaventava il buio,
per esempio. Più tardi ho capito che
non era certo, quella, una paura originale. E non era niente, se la paragono all’ansia che sentivo, allora,
ogni volta che passavo vicino alla
cattedrale.
Mi toccava farlo quasi tutti i giorni perché si trovava sulla strada che
mi portava a scuola. Lì i maestri di
“educazione religiosa” mi insegnavano che i cristiani, in quanto infedeli,
erano condannati all’inferno. La loro
colpa? Aver “falsificato” le parole di
Dio. Ricordo quanto fossi triste per
il destino che aspettava i miei amici
Jesús e Miguel, amichetti cristiani
che vivevano vicino a casa mia, compagni quasi quotidiani dei miei giochi. Certo, mi consolavo con l’illusione che, crescendo, i due fratelli
spagnoli sarebbero giunti anche loro
— magari col mio aiuto — a conoscere la “verità”.
E
Tutti questi ricordi si sono ripresentati, vivissimi, davanti a un articolo di Hani Naqshabandi, pubblicato su «Elaph» il 7 aprile scorso.
Le sue sono accuse chiarissime nei
confronti di chi insegna l’odio nelle
scuole usando la religione. Era ora!
Quello che abbiamo visto a Garissa,
in Kenya, dove centocinquanta ragazzi sono stati uccisi solo perché
cristiani, è anche la conseguenza
dell’educazione fornita nelle scuole.
Basta leggere i programmi scolastici in quasi tutti i Paesi musulmani
per rendersi conto che siamo davanti
a un problema serio che bisogna affrontare, subito e con coraggio. Già
da bambini i musulmani conoscono
il cristianesimo solo dal punto di vista degli fuqaha, interpreti del Corano; e questi, come scrive Naqshabandi, «sanno del cristianesimo e delle
altre religioni quello che sanno della
teoria della relatività. Ossia nulla».
Ma questo non ha loro impedito «di
dirci che i cristiani sono degli infedeli e noi gli abbiamo creduto. Ci
hanno detto che i cristiani sono il
popolo dell’inferno, che il paradiso è
monopolio nostro e noi li abbiamo
assecondati. Ci hanno detto che i
cristiani sono i nemici di Allah e
dell’islam e noi abbiamo detto: “Che
Dio li maledica”». Più chiaro di così!
È vero anche che qualche Paese
arabo musulmano ha avviato alcune
riforme. I risultati però ci dimostrano che si è trattato di tentativi del
tutto fallimentari. Il coraggio, oggi,
sta nell’ammetterlo e nel cercare di
affrontare subito le cause di tali fallimenti. Ed è ovvio che bisogna iniziare proprio dalla scuola, cambiando i programmi esistenti con altri
che insegnino rispetto e stima verso
le altre religioni. Bisogna farlo per il
bene d’una grande fede come
l’islam, che deve liberarsi dalle vere
e proprie catene rappresentate da interpretazioni appartenenti ad altre
epoche.
Il poeta siriano Adonis, all’ultima
Fiera del libro al Cairo, nel febbraio
scorso, ha detto: «Non c’è un islam
vero e un islam falso: ci sono soltanto musulmani moderati e musulmani
estremisti, a seconda delle loro letture e interpretazioni del testo sacro.
Ma l’islam è uno solo». Si parva licet componere magnis: anche in nome
di quel bambino di Tangeri e dei
suoi piccoli amici, tocca a noi, adesso, decidere con chi parlare e con
chi costruire il futuro.