Copia € 1,00. Copia arretrata € 2,00 L’OSSERVATORE ROMANO EDIZIONE SETTIMANALE Unicuique suum Anno LXV, numero 16 (3.786) IN LINGUA ITALIANA Non praevalebunt Città del Vaticano Giovedì 16 aprile 2015 Bolla di indizione del giubileo straordinario Il volto della misericordia Nella solennità dell’Immacolata l’apertura della Porta santa Santi Buglioni, «Le sette opere di misericordia: accogliere i pellegrini» (XVI secolo, Pistoia, ospedale del Ceppo) Sintesi della fede cristiana È una sintesi della fede cristiana la bolla d’indizione del giubileo della misericordia voluto da Papa Francesco. E questo perché, come si legge al suo inizio, proprio la misericordia è il cuore della rivelazione che culmina in Gesù di Nazareth, volto del Padre e del suo amore, misericordiae vultus. Il documento papale è rivolto significativamente a quanti vorranno leggerlo, senza distinzione, e auspica che «a tutti, credenti e lontani, possa giungere il balsamo della misericordia come segno del regno di Dio già presente» tra gli uomini. Le date che racchiudono questo nuovo anno santo straordinario sono spiegate dal Pontefice nella luce della misericordia, dall’inizio l’8 dicembre 2015 alla conclusione il 20 novembre 2016: dunque, tra le ricorrenze liturgiche dell’Immacolata concezione e della domenica di Cristo re. Per sottolineare all’inizio del giubileo l’agire di Dio — che «non ha voluto lasciare l’umanità sola e in balia del male» ma ha preservato Maria dalla colpa originale — e con la sua conclusione indicare la signoria di Cristo, e cioè della sua misericordia, sull’intero universo. In questa cornice che richiama tutta la storia della salvezza Papa Francesco dichiara di aver scelto la data d’inizio dell’anno santo nel cinquantesimo anniversario della conclusione del Vaticano II perché la Chiesa «sente il bisogno di manCONTINUA A PAGINA 20 La misericordia è «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa». Per questo esige di essere riproposta «con nuovo entusiasmo e con una rinnovata azione pastorale» all’umanità del nostro tempo. Nasce da questa consapevolezza l’iniziativa di celebrare l’Anno santo della misericordia: un «tempo straordinario di grazia» e di «ritorno all’essenziale», lo definisce Papa Francesco nella bolla di indizione Misericordiae vultus che è stata consegnata solennemente nel corso della celebrazione di sabato pomeriggio, 11 aprile, nella basilica vaticana. «È giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono» spiega il Pontefice ribadendo che «la credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole». La bolla ricorda che il giubileo avrà inizio il prossimo 8 dicembre, cinquantesimo anniversario della conclusione del Vaticano II, con l’apertura della «porta della mi- sericordia» a San Pietro e successivamente nelle basiliche papali e anche in cattedrali, santuari o chiese particolari sparse nel mondo quale «segno visibile della comunione di tutta la Chiesa». Filo conduttore e motto dell’anno santo — che si chiuderà il 20 novembre 2016, solennità di Cristo re — sarà la parola del Signore «misericordiosi come il Padre». Tra i segni peculiari dell’esperienza giubilare la bolla indica soprattutto il pellegrinaggio, le opere di misericordia corporale e spirituale, il sacramento della penitenza, l’indulgenza. Papa Francesco annuncia inoltre che saranno inviati in tutte le diocesi i «missionari della misericordia», chiamati a predicare delle «missioni al popolo», e lancia un appello alla conversione rivolto soprattutto ai malavitosi e ai corrotti. PAGINE DA 10-11 A 15 Centenario del martirio degli armeni Sulla complementarità tra uomo e donna Senza memoria la ferita resta aperta Creatività e audacia PAGINE DA 4 A 6 Al settimo vertice delle Americhe Nuovo ordine di pace e di giustizia PAGINA 7 La vita consacrata è un esodo In cerca della via d’uscita Il Papa con il marito e la figlia di Asia Bibi, la cristiana pakistana condannata a morte PAGINE 2 E 3 PAGINE 8 E 9 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 2 giovedì 16 aprile 2015, numero 16 All’udienza generale Francesco parla della complementarità tra uomo e donna Creatività e audacia E chiede di riconoscere il ruolo femminile nella società e nella Chiesa «L’uomo e la donna devono parlarsi di più, ascoltarsi di più, conoscersi di più, volersi bene di più», perché «il legame matrimoniale e familiare è una cosa seria, e lo è per tutti, non solo per i credenti». È quanto ha raccomandato Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì mattina, 15 aprile. Proseguendo con i fedeli presenti in piazza San Pietro le riflessioni sul tema della famiglia, il Pontefice ha anche esortato a «fare molto di più in favore» delle donne. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Marc Chagall, «La creazione» (1960) La catechesi di oggi è dedicata a un aspetto centrale del tema della famiglia: quello del grande dono che Dio ha fatto all’umanità con la creazione dell’uomo e della donna e con il sacramento del matrimonio. Questa catechesi e la prossima riguardano la differenza e la complementarità tra l’uomo e la donna, che stanno al vertice della creazione divina; le due che seguiranno poi, saranno su altri temi del Matrimonio. Iniziamo con un breve commento al primo racconto della creazione, nel Libro della Genesi. Qui leggiamo che Dio, dopo aver creato l’universo e tutti gli esseri viventi, creò il capolavoro, ossia l’essere umano, che fece a propria immagine: «a immagi- In preghiera per tutti i cristiani perseguitati C’è «la preghiera per tutti i cristiani perseguitati» nel saluto che Asia Bibi ha fatto giungere al Papa tramite il marito Masih e la figlia quindicenne Esiham, che hanno partecipato all’udienza generale. La donna pakistana, arrestata nel 2009, è stata condannata a morte per la legge sulla blasfemia. «In carcere non ha perso la fede e ora stiamo cercando l’appoggio di tutti per liberarla» spiegano i familiari. In piazza San Pietro il Papa ha stretto in un abbraccio anche sei familiari delle vittime della sciagura aerea del 24 marzo sulle Alpi francesi. Da Barcellona per raccontare a Francesco il loro dolore sono venuti Marta Grasas Melich, che ha perso il marito e un figlio, insieme con Immaculada de Santiago Parera e Juan José Ansoleaga Izquierdo che hanno ricordato il loro figlio. Significativamente da Istanbul sono arrivati in piazza San Pietro «per pregare per la pace» otto rappresentanti dei dervisci rotanti del Galata Mevlevi ensemble, del maestro sheik Nail Kesova. Insieme a loro dalla Turchia sono venuti i sei frati minori francescani che da dieci anni danno vita alla fraternità internazionale nella chiesa di Santa Maria Draperis a Istanbul. «Il 27 ottobre di ogni anno facciamo sempre un incontro di preghiera per la pace con i dervisci» spiega padre Gwénolé Jeusset. «E così abbiamo deciso di venire insieme per la prima volta dal Papa, mentre domani saremo ad Assisi». Da parte loro i dervisci rimarcano «l’importanza di ogni iniziativa comune che punti a unire tutte le persone di fede». In piazza San Pietro c’era anche il coro delle suore armene dell’Immacolata Concezione. Significativa, poi, la presenza della Lega maronita, antica istituzione di laici cristiani maroniti, esponenti del mondo politico, culturale, finanziario e imprenditoriale. Francesco ha inoltre ringraziato i nove detenuti del carcere minorile di Airola, nel beneventano, che gli hanno portato «parecchi doni fatti con le loro stesse mani, nei laboratori artigianali del penitenziario, tra cui un’acquasantiera in ceramica» spiegano i volontari. È la seconda volta che una rappresentanza dei giovani detenuti di Airola incontra Francesco nella cornice dell’udienza del mercoledì, con la L’OSSERVATORE ROMANO EDIZIONE SETTIMANALE Unicuique suum IN LINGUA ITALIANA Non praevalebunt CONTINUA A PAGINA 3 GIOVANNI MARIA VIAN direttore Giuseppe Fiorentino Servizio fotografico telefono 06 698 84797 fax 06 698 84998 [email protected] www.photo.va vicedirettore Gianluca Biccini Città del Vaticano [email protected] www.osservatoreromano.va ne di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27), così dice il Libro della Genesi. E come tutti sappiamo, la differenza sessuale è presente in tante forme di vita, nella lunga scala dei viventi. Ma solo nell’uomo e nella donna essa porta in sé l’immagine e la somiglianza di Dio: il testo biblico lo ripete per ben tre volte in due versetti (26-27): uomo e donna sono immagine e somiglianza di Dio. Questo ci dice che non solo l’uomo preso a sé è immagine di Dio, non solo la donna presa a sé è immagine di Dio, ma anche l’uomo e la donna, come coppia, sono immagine di Dio. La differenza tra uomo e donna non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre ad immagine e somiglianza di Dio. L’esperienza ce lo insegna: per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna. Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda. Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione — nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede — i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna. La cultura moderna e contemporanea ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione di questa differenza. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo. Per esempio, io mi domando se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione. Per risolvere i loro problemi di relazione, l’uomo e la donna devono invece parlarsi di più, ascoltarsi di più, conoscersi di più, volersi bene di più. Devono trattarsi con rispetto e cooperare con amicizia. Con queste basi umane, sostenute dalla grazia di Dio, è possibile progettare l’unione matrimoniale e familiare per tutta la vita. Il legame matrimoniale e familiare è una cosa seria, e lo è per tutti, non solo per i coordinatore TIPO GRAFIA VATICANA EDITRICE L’OSSERVATORE ROMANO Redazione via del Pellegrino, 00120 Città del Vaticano fax +39 06 698 83 675 don Sergio Pellini S.D.B. direttore generale credenti. Vorrei esortare gli intellettuali a non disertare questo tema, come se fosse diventato secondario per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta. Dio ha affidato la terra all’alleanza dell’uomo e della donna: il suo fallimento inaridisce il mondo degli affetti e oscura il cielo della speranza. I segnali sono già preoccupanti, e li vediamo. Vorrei indicare, fra i molti, due punti che io credo debbono impegnarci con più urgenza. Il primo. È indubbio che dobbiamo fare molto di più in favore della donna, se vogliamo ridare più forza alla reciprocità fra uomini e donne. È necessario, infatti, che la donna non solo sia più ascoltata, ma che la sua voce abbia un peso reale, un’autorevolezza riconosciuta, nella società e nella Chiesa. Il modo stesso con cui Gesù ha considerato la donna in un contesto meno favorevole del nostro, perché in quei tempi la donna era proprio al secondo posto, e Gesù l’ha considerata in una maniera che dà una luce potente, che illumina una strada che porta lontano, della quale abbiamo percorso soltanto un pezzetto. Non abbiamo ancora capito in profondità quali sono le cose che ci può dare il genio femminile, le cose che la donna può dare alla società e anche a noi: la donna sa vedere le cose con altri occhi che completano il pensiero degli uomini. È una strada da percorrere con più creatività e audacia. Una seconda riflessione riguarda il tema dell’uomo e della donna creati a immagine di Dio. Mi chiedo se la crisi di fiducia collettiva in Dio, che ci fa tanto male, ci fa ammalare di rassegnazione all’incredulità e al cinismo, non sia anche connessa alla crisi dell’alleanza tra uomo e donna. In effetti il racconto biblico, con il grande affresco simbolico sul paradiso terrestre e il peccato originale, ci dice proprio che la comunione con Dio si riflette nella comunione della coppia umana e la perdita della fiducia nel Padre celeste genera divisione e conflitto tra uomo e donna. Da qui viene la grande responsabilità della Chiesa, di tutti i credenti, e anzitutto delle famiglie credenti, per riscoprire la bellezza del disegno creatore che inscrive l’immagine di Dio anche nell’alleanza tra l’uomo e la donna. La terra si riempie di armonia e di fiducia quando l’alleanza tra l’uomo e la donna è vissuta nel bene. E se l’uomo e la donna la cercano insieme tra loro e con Dio, senza dubbio la trovano. Gesù ci incoraggia esplicitamente alla testimonianza di questa bellezza che è l’immagine di Dio. Abbonamenti: Italia, Vaticano: € 58,00 (6 mesi € 29,00); Europa: € 100,00 - $ 148.00 U.S.; America Latina, Africa, Asia: € 110,00 - $ 160.00 U.S.; America del Nord, Oceania: € 162,00 - $ 240.00 U.S. Per informazioni, sottoscrizioni e rinnovi: telefono 06 698 99 480; fax 06 698 85 164; [email protected] Pubblicità Il Sole 24 Ore S.p.A. System Comunicazione Pubblicitaria Via Monte Rosa 91, 20149 Milano telefono 02.30221/3003, fax 02.30223214 [email protected] numero 16, giovedì 16 aprile 2015 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 3 Nei saluti ai gruppi di fedeli Contro ogni forma di sopruso Un invito a rifiutare «ogni forma di sopruso o di ingiustizia, in particolare contro le donne» è stato rivolto dal Papa nel saluto ai fedeli di lingua araba presenti all’udienza generale. Come di consueto, dopo la catechesi, il Pontefice si è infatti rivolto ai vari gruppi di pellegrini in piazza San Pietro. Saluto cordialmente i pellegrini venuti dalla Svizzera, dal Belgio, dalla Turchia, dal Canada e dalla Francia, in particolare i sacerdoti della Diocesi di Fréjus-Toulon con Monsignor Dominique Rey e il Seminario Sant’Ireneo di Lione. Auguro a tutti un buon pellegrinaggio nella gioia del Signore Risorto, invitandovi ad entrare nel mistero della sua infinita misericordia. Che Dio vi benedica. Saluto cordialmente i pellegrini di lingua inglese presenti a questa Udienza, specialmente quelli provenienti rispettivamente da Inghilterra, Irlanda, Danimarca, Norvegia, Cina, Indonesia, Nigeria, Canada e Stati Uniti. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore Risorto! Di cuore saluto i pellegrini provenienti dai paesi di lingua tedesca, nonché dal Belgio e dai Paesi Bassi. Un particolare benvenuto al gruppo dell’apostolato per i non vedenti dell’Arcidiocesi di Vienna, ai ministranti di Eupen e alle Suore del Divin Redentore che celebrano 25 anni di professione religiosa. Il Signore Risorto vi colmi della Sua pace e gioia. La Sua parola vivente vi guidi sul vostro cammino. Dio benedica voi e i vostri cari. Saluto i pellegrini di lingua spagnola, in particolare i gruppi provenienti da Spagna, Messico, Argentina, Ecuador e da altri Paesi dell’America latina. Cari fratelli e sorelle, quando l’uomo e la donna insieme collaborano con il piano divino, la terra si riempie di armonia e di fiducia. Dio vi benedica. Grazie mille. Carissimi pellegrini di lingua portoghese, benvenuti! Saluto cordialmente i fedeli della parrocchia di Torrão e il gruppo di sacerdoti del Portogallo. Il Signore vi benedica, perché siate dovunque per tutti faro di luce del Vangelo. Possa questo Per tutti i cristiani perseguitati DA PAGINA 2 speranza — confida il direttore dell’istituto penale Antonio Di Lauro — «che diventi un’esperienza annuale». Ad accompagnare i nove ragazzi anche il cappellano e il personale del carcere. Sempre da Airola è venuta una delegazione guidata dal sindaco Michele Napoletano per la benedizione della grande statua di san Giorgio che il 23 aprile sarà collocata nella piazza centrale del paese, «proprio davanti alla chiesa che rimase gravemente danneggiata nel terremoto del 1980, tanto da essere poi demolita». Trentacinque anni dopo, dunque, la statua del patrono sarà messa nel luogo esatto dov’era la chiesa. Il gruppo Despar ha donato al Papa un tir carico di generi alimentari di prima necessità da destinare ai poveri attraverso l’arcivescovo elemosiniere Konrad Krajewski. A Francesco è stato inoltre presentato il «chiostro della Provvidenza», segno forte di carità realizzato per il quinto centenario della diocesi di Lanciano-Ortona. «Abbiamo ristrutturato un antico monastero agostiniano, nel centro storico di Lanciano, per creare spazi per il dialogo, la formazione, ma anche per un emporio solidale, uno studio dentistico, un accompagnamento scolastico e per l’accoglienza» racconta monsignor Emidio Cipollone che nei quattro anni del suo episcopato ha visto «praticamente decuplicare, da circa quattrocento a circa quarantamila, le famiglie aiutate e sostenute dalla Caritas». Anche nella prospettiva dell’Anno santo, Francesco ha incontrato i sacerdoti della misericordia, preti diocesani che si ispirano al carisma delle Figlie di Nostra Signora della Misericordia nella loro predicazione e nel loro ministero apostolico. Sono a Roma per un incontro di formazione. Un incoraggiamento particolare il Papa lo ha rivolto a cinque famiglie veronesi impegnate in prima linea nell’educazione alla sicurezza stradale tra giovani. E Francesco ha anche incontrato due squadre di calcio: quella degli zingari ungheresi — a Roma per giocare con la rappresentativa delle guardie svizzere — e quella degli homeless argentini che ha partecipato ai mondiali di categoria ad Amsterdam. pellegrinaggio rinvigorire nei vostri cuori il sentire e il vivere con la Chiesa. La Madonna accompagni e protegga voi tutti e i vostri cari! Rivolgo un cordiale benvenuto ai fedeli di lingua araba, in particolare a quelli provenienti dal Libano e dal Medio Oriente. Dio creò l’uomo, maschio e femmina, a sua immagine, dando ad entrambi la stessa dignità e uguaglianza: lavoriamo, nella Chiesa e nella società, affinché tale uguaglianza venga rispettata, rifiutando ogni forma di sopruso o di ingiustizia, in particolare contro le donne. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga dal maligno! Saluto i pellegrini polacchi, in modo particolare tutti gli sposi. Insieme a voi rendo grazie a Dio per la gioia e per la pace delle coppie felici. Sappiamo tuttavia quante sono le famiglie e i coniugi provati dalle crisi e dalle divisioni. Le raccomando alle vostre preghiere. Confidando nella potenza di Cristo Risorto, riscoprano la forza unificante dell’alleanza sacramentale e ricostruiscano la reciproca fiducia nel perdono e nella riconciliazione. Vi benedico di cuore. Il dono di generi alimentari di prima necessità per i poveri Saluto cordialmente i superiori e i seminaristi del Seminario Maggiore di Grodno in Bielorussia, venuti in pellegrinaggio di ringraziamento per i 25 anni della sua attività. Carissimi, la visita alle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo vi ricorda che la vocazione al sacerdozio è prima di tutto un incontro personale con Cristo Risorto, il quale chiama e invia i suoi discepoli a portare a tutti il lieto annuncio della salvezza. Uniti a Lui, avrete il coraggio di testimoniare il Vangelo con franchezza e misericordia. Vi benedico con affetto. Sia lodato Gesù Cristo! Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Sono lieto di accogliere gli studenti del Claretianum in occasione dell’Anno per la vita consacrata e le Religiose del Santissimo Sacramento che ricordano i trecento anni della loro Congregazione: vi esorto a vivere sempre la vocazione religiosa con la gioia e l’entusiasmo dei discepoli del Signore Risorto, sempre fedeli al carisma di fondazione. Saluto i Sacerdoti della Misericordia, la Scuola Sottoufficiali di Viterbo, la Reale Mutua Assicurazioni e i gruppi parrocchiali, in particolare i fedeli di Cervinara e Airola. Saluto la delegazione di Arezzo che mi ha accolto qui in piazza, e che con tanta cortesia mi ha regalato la sua bandiera e il libro della sua storia. Grazie tante! Un particolare pensiero va ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. In questo tempo di Pasqua, vi incoraggio ad essere dei veri testimoni della Risurrezione, nelle vostre famiglie e nei vostri ambienti di vita: cari giovani, specialmente voi studenti della Scuola Sant’Elisabetta di Roma, ricordate che la misericordia è il dono più bello di Dio; cari ammalati, lasciatevi consolare dal Padre Celeste; e voi, cari sposi novelli, vivete il vostro amore imitando l’amore misericordioso di Gesù. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 Nel centenario dello sterminio degli armeni considerato «il primo genocidio del giovedì 16 aprile 2015, numero 16 XX secolo» Senza memoria la ferita resta aperta Il male non proviene da Dio e non deve trovare giustificazione nel suo nome «Non si può nascondere o negare il male» perché senza la memoria le ferite della storia restano aperte. Il monito di Papa Francesco è risuonato domenica mattina, 12 aprile, nella basilica vaticana durante la messa celebrata in occasione del centenario del martirio degli armeni, quello che generalmente viene considerato come «il primo genocidio del XX secolo» ha affermato il Pontefice citando il testo della dichiarazione comune firmata nel 2001 da Giovanni Paolo II e Karekin II. All’inizio della messa, durante la quale si è svolto il rito della proclamazione di san Gregorio di Narek a dottore della Chiesa, Francesco ha pronunciato il seguente saluto. Cari fratelli e sorelle armeni, cari fratelli e sorelle! In diverse occasioni ho definito questo tempo un tempo di guerra, una terza guerra mondiale “a pezzi”, in cui assistiamo quotidianamente a crimini efferati, a massacri sanguinosi e alla follia della distruzione. Purtroppo ancora oggi sentiamo il grido soffocato e trascurato di tanti nostri fratelli e sorelle inermi, che a causa della loro fede in Cristo o della loro appartenenza etnica vengono pubblicamente e atrocemente uccisi — decapitati, crocifissi, bruciati vivi —, oppure costretti ad abbandonare la loro terra. Anche oggi stiamo vivendo una sorta di genocidio causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino che esclama: «A me che importa?»; «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4, 9; Omelia a Redipuglia, 13 settembre 2014). La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come «il primo genocidio del XX secolo» (Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione Comune, Etchmiadzin, 27 settembre 2001); essa ha colpito il vostro popolo armeno — prima nazione cristiana —, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci. Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi. Le altre due furono quelle perpetrate dal nazismo e dallo stalinismo. E più recentemente altri stermini di massa, come quelli in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia. Eppure sembra che l’umanità non riesca a cessare di versare sangue innocente. Sembra che l’entusiasmo sorto alla fine della seconda guerra mondiale stia scomparendo e dissolvendosi. Pare che la famiglia umana rifiuti di imparare dai propri errori causati dalla legge del terrore; e così ancora oggi c’è chi cerca di eliminare i propri simili, con l’aiuto di alcuni e con il silenzio complice di altri che rimangono spettatori. Non abbiamo ancora imparato che «la guerra è una follia, una inutile strage» (cfr. Omelia a Redipuglia, 13 settembre 2014). Cari fedeli armeni, oggi ricordiamo con cuore trafitto dal dolore, ma colmo della speranza nel Signore Risorto, il centenario di quel tragico evento, di quell’immane e folle sterminio, che i vostri antenati hanno crudelmente patito. Ricordarli è necessario, anzi, doveroso, perché laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la ferita; nascondere o negare il male è come lasciare che una ferita continui a sanguinare senza medicarla! Vi saluto con affetto e vi ringrazio per la vostra testimonianza. Saluto e ringrazio per la sua presenza il Signor Serž Sargsyan, Presidente della Repubblica di Armenia. Saluto cordialmente anche i miei fratelli Patriarchi e Vescovi: Sua Santità Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di Tutti gli Armeni; Sua Santità Aram I, Catholicos della Grande Casa di Cilicia; Sua Beatitudine Nerses Bedros XIX, Patriarca di Cilicia degli Armeni Cattolici; e i due Catholicossati della Chiesa Apostolica Armena e il Patriarcato della Chiesa Armeno-Cattolica. Con la ferma certezza che il male non proviene mai da Dio, infinitamente Buono, e radicati nella fede, professiamo che la crudeltà non può mai essere attribuita all’opera di Dio e, per di più, non deve assolutamente trovare nel suo Santo Nome alcuna giustificazione. Viviamo insieme questa Celebrazione fissando il nostro sguardo su Gesù Cristo Risorto, Vincitore della morte e del male! Gesù colma l’abisso La malvagità umana apre voragini nel mondo Di seguito il testo dell’omelia del Papa durante la messa concelebrata da Nerses Bedros XIX Tarmouni, patriarca di Cilicia degli armeni. San Giovanni, che era presente nel Cenacolo con gli altri discepoli quella sera del primo giorno dopo il sabato, riferisce che Gesù venne in mezzo a loro, disse: «Pace a voi!», e «mostrò loro le mani e il fianco» (20, 19-20), mostrò le sue piaghe. Così essi riconobbero che non era una visione, era proprio Lui, il Signore, e furono pieni di gioia. Otto giorni dopo Gesù venne di nuovo nel Cenacolo e mostrò le piaghe a Tommaso, perché le toccasse come lui voleva, per poter credere e diventare anch’egli un testimone della Risurrezione. Anche a noi, oggi, in questa Domenica che san Giovanni Paolo II ha voluto intitolare alla Divina Misericordia, il Signore mostra, mediante il Vangelo, le sue piaghe. Sono piaghe di misericordia. È vero: le piaghe di Gesù sono piaghe di misericordia. Nelle [loro] sue piaghe noi siamo stati guariti. Gesù ci invita a guardare queste piaghe, ci invita a toccarle, come ha fatto con Tommaso, per guarire la nostra incredulità. Ci invita soprattutto ad entrare nel mistero di queste piaghe, che è il mistero del suo amore misericordioso. Attraverso di esse, come in una breccia luminosa, noi possiamo vedere tutto il mistero di Cristo e di Dio: la sua Passione, la sua vita terrena — piena di compassione per i piccoli e i malati — la sua incarnazione nel grembo di Maria. E possiamo risalire a ritroso tutta la storia della salvezza: le profezie — specialmente quella del Servo di Jahweh —, i Salmi, la Legge e l’alleanza, fino alla liberazione dall’Egitto, alla prima pasqua e al sangue degli agnelli immolati; e ancora ai Patriarchi fino ad Abramo e poi nella notte dei tempi fino ad Abele e al suo sangue che grida dalla terra. Tutto questo possiamo vedere attraverso le piaghe di Gesù Crocifisso e Risorto, e come Maria nel Magnificat possiamo riconoscere che «la sua misericordia si stende di generazione in generazione» (cfr. Lc 1, 50). Di fronte agli eventi tragici della storia umana rimaniamo a volte come schiacciati, e ci domandiamo «perché?». La malvagità umana può aprire nel mondo come delle voragini, dei grandi vuoti: vuoti di amore, vuoti di bene, vuoti di vita. E allora ci domandiamo: come possiamo colmare queste voragini? Per noi è impossibile; solo Dio può colmare questi vuoti che il male apre nei nostri cuori e nella nostra storia. È Gesù, fatto uomo e morto sulla croce, che colma l’abisso del peccato con l’abisso della sua misericordia. San Bernardo, in un suo commento al Cantico dei Cantici (Disc. 61, 35; Opera omnia 2, 150-151), si sofferma proprio sul mistero delle piaghe del Signore, usando espressioni forti, audaci, che ci fa bene riprendere oggi. Dice che «attraverso le ferite del corpo si manifesta l’arcana carità del cuore [di Cristo], si fa palese il grande mistero dell’amore, si mostrano le viscere di misericordia del nostro D io». Ecco, fratelli e sorelle, la via che Dio ci ha aperto per uscire, finalmente, dalla schiavitù del male e della morte ed entrare nella terra della vita e della pace. Questa Via è Lui, è Gesù, Crocifisso e Risorto, e sono in particolare le sue piaghe piene di misericordia. I Santi ci insegnano che il mondo si cambia a partire dalla conversione del proprio cuore, e questo avviene grazie alla misericordia di Dio. Per questo, sia davanti ai miei peccati sia davanti alle grandi tragedie del mondo, «la coscienza si turberà, ma non ne sarà scossa perché mi ricorderò delle ferite del Signore. Infatti “è stato trafitto per i nostri delitti” (Is 53, 5). Che cosa vi è di tanto mortale che non possa essere disciolto dalla morte di Cristo?» (ibid.). Tenendo lo sguardo rivolto alle piaghe di Gesù Risorto, possiamo cantare con la Chiesa: «Il suo amore è per sempre» (Sal 117, 2); la sua misericordia è eterna. E con queste parole impresse nel cuore, camminiamo sulle strade della storia, con la mano nella mano del nostro Signore e Salvatore, nostra vita e nostra speranza. numero 16, giovedì 16 aprile 2015 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 5 Il Papa ricorda che anche oggi assistiamo a massacri sanguinosi e alla follia della distruzione Dal dolore alla riconciliazione Solo con la pace le nuove generazioni possono aprirsi a un futuro migliore Al termine della messa di domenica mattina, il Pontefice ha consegnato un messaggio nelle mani dei tre patriarchi presenti — Karekin II, patriarca supremo e catholicos di tutti gli armeni, Aram I, catholicos di Cilicia, e Nerses Bedros XIX Tarmouni, patriarca di Cilicia degli armeni — e del presidente della Repubblica dell’Armenia, Serzh Sargsyan. Eccone il testo. Cari fratelli e sorelle armeni, un secolo è trascorso da quell’orribile massacro che fu un vero martirio del vostro popolo, nel quale molti innocenti morirono da confessori e martiri per il nome di Cristo (cfr. Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione comune, Etchmiadzin, 27 settembre 2001). Non vi è famiglia armena ancora oggi, che non abbia perduto in quell’evento qualcuno dei suoi cari: davvero fu quello il Metz Yeghern, il “Grande Male”, come avete chiamato quella tragedia. In questa ricorrenza provo un sentimento di forte vicinanza al vostro popolo e desidero unirmi spiritualmente alle preghiere che si levano dai vostri cuori, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità. Ci è data un’occasione propizia di pregare insieme nell’odierna celebrazione, in cui proclamiamo Dottore della Chiesa san Gregorio di Narek. Esprimo viva gratitudine per la loro presenza a Sua Santità Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di Tutti gli Armeni, a Sua Santità Aram I, Catholicos della Grande Casa di Cilicia, e a Sua Beatitudine Nerses Bedros XIX, Patriarca di Cilicia degli Armeni Cattolici. San Gregorio di Narek, monaco del X secolo, più di ogni altro ha saputo esprimere la sensibilità del vo- San Gregorio di Narek stro popolo, dando voce al grido, che diventa preghiera, di un’umanità dolente e peccatrice, oppressa dall’angoscia della propria impotenza ma illuminata dallo splendore dell’amore di Dio e aperta alla speranza del suo intervento salvifico, capace di trasformare ogni cosa. «In virtù della sua potenza, io credo con una speranza che non tentenna, in sicura attesa, rifugiandomi nelle mani del Potente ... di vedere Lui stesso, nella sua misericordia e tenerezza e nell’eredità dei Cieli» (San Gregorio di Narek, Libro delle Lamentazioni, XII). La vostra vocazione cristiana è assai antica e risale al 301, anno in cui san Gregorio l’Illuminatore guidò alla conversione e al battesimo l’Armenia, la prima tra le nazioni che nel corso dei secoli hanno abbracciato il Vangelo di Cristo. Quell’evento spirituale ha segnato in maniera indelebile il popolo armeno, la sua cultura e la sua storia, nelle quali il martirio occupa un posto preminente, come attesta in modo emblematico la testimonianza sacrificale di san Vardan e dei suoi compagni nel V secolo. Il vostro popolo, illuminato dalla luce di Cristo e con la sua grazia, ha superato tante prove e sofferenze, animato dalla speranza che deriva dalla Croce (cfr. Rm 8, 31-39). Come ebbe a dirvi san Giovanni Paolo II: «La vostra storia di sofferenza e di martirio è una perla preziosa, di cui va fiera la Chiesa universale. La fede in Cristo, redentore dell’uomo, vi ha infuso un coraggio ammirevole nel cammino, spesso tanto simile a quello della croce, sul quale avete avanzato con determinazione, nel proposito di conservare la vostra identità di popolo e di credenti» (Omelia, 21 novembre 1987). Questa fede ha accompagnato e sorretto il vostro popolo anche nel tragico evento di cento anni fa che «generalmente viene definito come il primo genocidio del XX secolo» (Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione Comune, Etchmiadzin, 27 settembre 2001). Il Papa Benedetto XV, che condannò come «inutile strage» la Prima Guerra Mondiale (AAS, IX [1917], 429), si prodigò fino all’ultimo per impedirlo, riprendendo gli sforzi di mediazione già compiuti dal Papa Leone XIII di fronte ai «funesti eventi» degli anni 1894-1896. Egli scrisse per questo al sultano Maometto V, implorando che fossero risparmiati tanti innocenti (cfr. Lettera del 10 settembre 1915) e fu ancora lui che, nel Concistoro Segreto del 6 dicembre 1915, affermò con vibrante sgomento: Miserrima Armenorum gens ad interitum prope ducitur, (AAS, VII [1915], 510). Fare memoria di quanto accaduto è doveroso non solo per il popolo armeno e per la Chiesa universale, ma per l’intera famiglia umana, perché il monito che viene da questa tragedia ci liberi dal ricadere in simili orrori, che offendono Dio e la dignità umana. Anche oggi, infatti, questi conflitti talvolta degenerano in violenze ingiustificabili, fomentate strumentalizzando le diversità etniche e religiose. Tutti coloro che sono posti a capo delle Nazioni e delle Organizzazioni internazionali sono chiamati ad opporsi a tali crimini con ferma responsabilità, senza cedere ad ambiguità e compromessi. Questa dolorosa ricorrenza diventi per tutti motivo di riflessione umile e sincera e di apertura del cuore al perdono, che è fonte di pace e di rinnovata speranza. San Gregorio di Narek, formidabile interprete dell’animo umano, sembra pronunciare per noi parole profetiche: «Io mi sono volontariamente caricato di tutte le colpe, da quelle del primo padre fino a quello dell’ultimo dei suoi discendenti, e me ne sono considerato responsabile» (Libro delle Lamentazioni, LXXII). Quanto ci colpisce questo suo sentimento di universale solidarietà! Come ci sentiamo piccoli di fronte alla grandezza delle sue invocazioni: «Ricordati, [Signore,] ... di quelli che nella stirpe umana sono nostri nemici, ma per il loro bene: compi in loro perdono e misericordia (...) Non sterminare coloro che mi mordono: trasformali! Estirpa la viziosa condotta terrena e radica quella buona in me e in loro» (ibid., LXXXIII). Dio conceda che si riprenda il cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco, e la pace sorga anche nel Nagorno Karabakh. Si tratta di popoli che, in passato, nonostante contrasti e tensioni, hanno vissuto lunghi periodi di pacifica convivenza, e persino nel turbine delle violenze hanno visto casi di solidarietà e di aiuto reciproco. Solo con questo spirito le nuove generazioni possono aprirsi a un futuro migliore e il sacrificio di molti può diventare seme di giustizia e di pace. Per noi cristiani, questo sia soprattutto un tempo forte di preghiera, affinché il sangue versato, per la forza redentrice del sacrificio di Cristo, operi il prodigio della piena unità tra i suoi discepoli. In particolare rinsaldi i legami di fraterna amicizia che già uniscono la Chiesa Cattolica e la Chiesa Armena Apostolica. La testimonianza di tanti fratelli e sorelle che, inermi, hanno sacrificato la vita per la loro fede, accomuna le diverse confessioni: è l’ecumenismo del sangue, che condusse san Giovanni Paolo II a celebrare insieme, durante il Giubileo del 2000, tutti i martiri del XX secolo. Anche la celebrazione di oggi si colloca in questo contesto spirituale ed ecclesiale. A questo evento partecipano rappresentanze delle nostre due Chiese e si uniscono spiritualmente numerosi fedeli sparsi nel mondo, in un segno che riflette sulla terra la comunione perfetta che esiste tra gli spiriti beati del cielo. Con animo fraterno, assicuro la mia vicinanza in occasione della cerimonia di canonizzazione dei martiri della Chiesa Armena Apostolica, che avrà luogo il 23 aprile prossimo nella Cattedrale di Etchmiadzin, e alle commemorazioni che si terranno ad Antelias in luglio. Affido alla Madre di Dio queste intenzioni con le parole di san Gregorio di Narek: «O purezza delle Vergini, corifea dei beati, Madre dell’edificio incrollabile della Chiesa, Genitrice del Verbo immacolato di D io, (...) rifugiandoci sotto le ali sconfinate di difesa della tua intercessione, innalziamo le nostre mani verso di te, e con indubitata speranza crediamo di essere salvati». (Panegirico alla Vergine) Dal Vaticano, 12 aprile 2015 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 6 giovedì 16 aprile 2015, numero 16 Vetrata raffigurante l’incredulità di Tommaso L’incredulità di Tommaso Nel segno dei chiodi «Nel segno dei chiodi» Tommaso «trova la prova decisiva che era amato, che era atteso, che era capito». Lo ha detto Papa Francesco commentando al Regina caeli del 12 aprile le letture della seconda domenica di Pasqua. Al termine della messa nella basilica vaticana, il Pontefice si è affacciato alla finestra dello studio del Palazzo apostolico per la recita della preghiera mariana con i fedeli presenti in piazza San Pietro. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi è l’ottavo giorno dopo la Pasqua, e il Vangelo di Giovanni ci documenta le due apparizioni di Gesù Risorto agli Apostoli riuniti nel Cenacolo: quella della sera di Pasqua, assente Tommaso, e quella dopo otto giorni, presente Tommaso. La prima volta, il Signore mostrò le ferite del suo corpo ai discepoli, fece il segno di soffiare su di loro e disse: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20, 21). Trasmette ad essi la sua stessa missione, con la forza dello Spirito Santo. Ma quella sera mancava Tommaso, il quale non volle credere alla testimonianza degli altri. “Se non vedo e non tocco le sue piaghe — disse —, io non credo” (cfr. Gv 20, 25). Otto giorni dopo — cioè proprio come oggi — Gesù ritorna a presentarsi in mezzo ai suoi e si rivolge subito a Tommaso, invitandolo a toccare le ferite delle sue mani e del suo fian- co. Viene incontro alla sua incredulità, perché, attraverso i segni della passione, possa raggiungere la pienezza della fede pasquale, cioè la fede nella risurrezione di Gesù. Tommaso è uno che non si accontenta e cerca, intende verificare di persona, compiere una propria esperienza personale. Dopo le iniziali resistenze e inquietudini, alla fine arriva anche lui a credere, pur avanzando con fatica, ma arriva alla fede. Gesù lo attende pazientemente e si offre alle difficoltà e alle insicurezze dell’ultimo arrivato. Il Signore proclama “beati” quelli che credono senza vedere (cfr. v. 29) — e la prima di questi è Maria sua Madre —, però viene incontro anche all’esigenza del discepolo incredulo: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani...» (v. 27). Al contatto salvifico con le piaghe del Risorto, Tommaso manifesta le proprie ferite, le proprie piaghe, le proprie lacerazioni, la propria umiliazione; nel segno dei chiodi trova la prova decisiva che era amato, che era atteso, che era capito. Si trova di fronte un Messia pieno di dolcezza, di misericordia, di tenerezza. Era quello il Signore che cercava, lui, nelle profondità segrete del proprio essere, perché aveva sempre saputo che era così. E quanti di noi cerchiamo nel profondo del cuore di incontrare Gesù, così come è: dolce, misericordioso, tenero! Perché noi sappiamo, nel profondo, che Lui è così. Ritrovato il contatto personale con l’amabilità e la misericordiosa pa- zienza del Cristo, Tommaso comprende il significato profondo della sua Risurrezione e, intimamente trasformato, dichiara la sua fede piena e totale in Lui esclamando: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Bella, bella espressione, questa di Tommaso! Egli ha potuto “toccare” il Mistero pasquale che manifesta pienamente l’amore salvifico di Dio, ricco di misericordia (cfr. Ef 2, 4). E come Tommaso anche tutti noi: in questa seconda Domenica di Pasqua siamo invitati a contemplare nelle piaghe del Risorto la Divina Misericordia, che supera ogni umano limite e risplende sull’oscurità del male e del peccato. Un tempo intenso e prolungato per accogliere le immense ricchezze dell’amore misericordioso di Dio sarà il prossimo Giubileo Straordinario della Misericordia, la cui Bolla di indizione ho promulgato ieri sera qui, nella Basilica di San Pietro. Quella Bolla incomincia con le parole “Misericordiae Vultus”: il Volto della Misericordia è Gesù Cristo. Teniamo lo sguardo rivolto a Lui, che sempre ci cerca, ci aspetta, ci perdona; tanto misericordioso, non si spaventa delle nostre miserie. Nelle sue piaghe ci guarisce e perdona tutti i nostri peccati. E la Vergine Madre ci aiuti ad essere misericordiosi con gli altri come Gesù lo è con noi. Al termine del Regina caeli, il Pontefice come di consueto ha salutato i gruppi presenti, rivolgendo un particolare augurio ai fedeli delle Chiese d’Oriente che celebravano la Pasqua. Cari fratelli e sorelle, rivolgo un cordiale saluto a voi fedeli di Roma e a voi venuti da tante parti del mondo. Saluto i pellegrini della diocesi di Metuchen (Stati Uniti d’America), le Ancelle del Bambino Gesù provenienti dalla CONTINUA A PAGINA 7 Al sinodo patriarcale della Chiesa armeno-cattolica Una storia di fedeltà e di risurrezione Le celebrazioni di domenica 11 aprile sono state precedute, nella mattina di giovedì 9, dall’udienza di Papa Francesco ai membri del sinodo patriarcale della Chiesa armenocattolica. Dopo il saluto rivoltogli dal patriarca Nersos Bedros XIX Tarmouni, nella biblioteca privata del Palazzo apostolico, il Pontefice ha pronunciato il seguente discorso. Beatitudine, Eccellenze! Vi saluto fraternamente e vi ringrazio per questo incontro, che si colloca nell’imminenza della celebrazione di domenica prossima nella Basilica Vaticana. Eleveremo la preghiera del suffragio cristiano per i figli e le figlie del vostro amato popolo, che furono vittime cento anni orsono. Invocheremo la Divina Misericordia perché ci aiuti tutti, nell’amore per la verità e la giustizia, a risanare ogni ferita e ad affrettare gesti concreti di riconciliazione e di pace tra le Nazioni che ancora non riescono a giungere ad un ragionevole consenso sulla lettura di tali tristi vicende. In voi e attraverso di voi saluto i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i seminaristi e i fedeli laici della Chiesa Armeno-Cattolica: so che in tanti vi hanno accompagnato in questi giorni qui a Roma, e che molti di più saranno uniti spiritualmente a noi, dai Paesi della Diaspora, come gli Stati Uniti, l’America Latina, l’Europa, la Russia, l’Ucraina, fino alla Madrepatria. Penso con tristezza in particolare a quelle zone, come quella di Aleppo — il Vescovo mi ha detto «la città martire» — che cento anni fa furono approdo sicuro per i pochi sopravvissuti. Tali regioni, in questo ultimo periodo, hanno visto messa in pericolo la permanenza dei cristiani, non solo armeni. Il vostro popolo, che la tradizione riconosce come il primo a convertirsi al cristianesimo nel 301, ha una storia bimillenaria e custodisce un ammirevole patrimonio di spiritualità e di cultura, unito ad una capacità di risollevarsi dopo le tante persecuzioni e prove a cui è stato sottoposto. Vi invito a coltivare sempre un sentimento di riconoscenza al Signore, per essere stati capaci di mantenere la fedeltà a Lui anche nelle epoche più difficili. È importante, inoltre, chiedere a Dio il dono della sapienza del cuore: la commemorazione delle vittime di cento anni fa ci pone infatti dinanzi alle tenebre del mysterium iniquitatis. Non si capisce se non con questo atteggiamento. Come dice il Vangelo, dall’intimo del cuore dell’uomo possono scate- narsi le forze più oscure, capaci di giungere a programmare sistematicamente l’annientamento del fratello, a considerarlo un nemico, un avversario, o addirittura individuo privo della stessa dignità umana. Ma per i credenti la domanda sul male compiuto dall’uomo introduce anche al mistero della partecipazione alla Passione redentrice: non pochi figli e figlie della nazione armena furono capaci di pronunciare il nome di Cristo sino all’effusione del sangue o alla morte per inedia nell’esodo interminabile cui furono costretti. Le pagine sofferte della storia del vostro popolo continuano, in certo senso, la passione di Gesù, ma in ciascuna di esse è posto il germoglio della sua Resurrezione. Non venga meno in voi Pastori l’impegno di educare i fedeli laici a saper leggere la realtà con occhi nuovi, per giungere a dire ogni giorno: il mio popolo non è soltanto quello dei sofferenti per Cristo, ma soprattutto dei risorti in Lui. Per questo è importante fare memoria del passato, ma per attingere da esso linfa nuova per alimentare il presente con l’annuncio gioioso del Vangelo e con la testimonianza della carità. Vi incoraggio a sostenere il cammino di formazione permanente dei sacerdoti e delle persone consacrate. Essi sono i vostri primi collaboratori: la comunione tra loro e voi sarà rafforzata dall’esemplare fraternità che essi potranno scorgere in seno al Sinodo e col Patriarca. Il nostro pensiero riconoscente va in questo momento a quanti si adoperarono per recare qualche sollievo al dramma dei vostri antenati. Penso specialmente a Papa Benedetto XV che intervenne presso il Sultano Mehmet V per far cessare i massacri degli armeni. Questo Pontefice fu grande amico dell’Oriente cristiano: egli istituì la Congregazione per le Chiese Orientali e il Pontificio Istituto Orientale, e nel 1920 iscrisse Sant’Efrem il Siro tra i Dottori della Chiesa Universale. Sono lieto che questo nostro incontro avvenga alla vigilia dell’analogo gesto che domenica avrò la gioia di compiere con la grande figura di San Gregorio di Narek. Alla sua intercessione, affido specialmente il dialogo ecumenico tra la Chiesa Armeno-Cattolica e la Chiesa Armeno-Apostolica, memori del fatto che cento anni fa come oggi, il martirio e la persecuzione hanno già realizzato “l’ecumenismo del sangue”. Su di voi e sui vostri fedeli invoco ora la benedizione del Signore, mentre vi chiedo di non dimenticare di pregare per me! Grazie! L’OSSERVATORE ROMANO numero 16, giovedì 16 aprile 2015 pagina 7 Messaggio del Papa al settimo vertice delle Americhe a Panamá Nuovo ordine di pace e di giustizia La speranza di «un nuovo ordine di pace e di giustizia» che promuova «la globalizzazione della solidarietà e della fraternità» è stata espressa dal Papa in un messaggio inviato al presidente di Panamá in occasione del settimo vertice delle Americhe. Pubblichiamo di seguito una traduzione del messaggio, il cui testo originale in spagnolo è stato letto dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, durante la sessione inaugurale dei lavori svoltasi venerdì 10 aprile. All’Eccellentissimo Signor Juan Carlos Varela Rodríguez Presidente di Panamá Come ospite del VII Vertice delle Americhe, desidero farLe giungere il mio cordiale saluto e, attraverso di Lei, a tutti i Capi di Stato e di Governo, così come a tutte le delegazioni partecipanti. Allo stesso tempo, mi piacerebbe manifestare la mia vicinanza e il mio incoraggiamento affinché il dialogo sincero consegua tale mutua collaborazione che unisce gli sforzi e supera le differenze nel cammino verso il bene comune. Chiedo a Dio che, condividendo i valori comuni, si arrivi a impegni di collaborazione nell’ambito nazionale o regionale che affrontino con realismo i problemi e trasmettano speranza. Mi sento in sintonia con il tema scelto per questo Vertice: «Prosperità con equità: la sfida della cooperazione nelle Americhe». Sono convinto — e così l’ho espresso nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium — che la inequità, la ingiusta distribuzione delle ricchezze e delle risorse, è fonte di conflitti e di violenza fra i popoli, perché suppone che il progresso di alcuni si costruisca col necessario sacrificio di altri e che, per poter vivere degnamente, bisogni lottare con- tro gli altri (cfr. 52, 54). Il benessere così raggiunto è ingiusto nelle sue radici e attenta alla dignità delle persone. Ci sono «beni di prima necessità», come la terra, il lavoro e la casa, e «servizi pubblici», come la salute, l’educazione, la sicurezza, l’ambiente, dai quali nessun essere umano dovrebbe rimanere escluso. Questo desiderio — che tutti condividiamo — sfortunatamente è ancora lontano dalla realtà. Tuttora continuano ad esserci disuguaglianze ingiuste, che offendono la dignità delle persone. La grande sfida del nostro mondo è la globalizzazione della solidarietà e della fraternità al posto della globalizzazione della discriminazione e dell’indifferenza e, finché non si consegue una distribuzione equa della ricchezza, non si risolveranno i mali della nostra società (cfr. Evangelii gaudium 202). Non possiamo negare che molti paesi hanno sperimentato un forte sviluppo economico negli ultimi anni, però è altrettanto vero che altri continuano prostrati nella povertà. Regina caeli DA PAGINA 6 Croazia, le Figlie della Divina Carità, i gruppi parrocchiali di Forlì e Gravina di Puglia, e tutti i ragazzi e giovani presenti, in particolare gli alunni della scuola “Figlie di Gesù” di Modena, quelli del “Liceo Verga” di Adriano e i cresimandi di Palestrina. Saluto i pellegrini che hanno partecipato alla Santa Messa presieduta dal Cardinale Vicario di Roma nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, centro di devozione alla Divina Misericordia. Saluto le comunità neocatecumenali di Roma, che iniziano oggi una speciale missione nelle piazze della Città per pregare e dare testimonianza della fede. Rivolgo un cordiale augurio ai fedeli delle Chiese d’O riente che, secondo il loro calendario, celebrano oggi la Santa Pasqua. Mi unisco alla gioia del loro annuncio del Cristo Risorto: Christós anésti! Salutiamo i nostri fratelli di Oriente in questo giorno della loro Pasqua, con un applauso, tutti! Rivolgo anche un sentito saluto ai fedeli armeni, che sono venuti a Roma e hanno partecipato alla Santa Messa con la presenza dei miei fratelli, i tre Patriarchi, e numerosi Vescovi. Nelle settimane scorse mi sono arrivati da ogni parte del mondo tanti messaggi di auguri pasquali. Con gratitudine li ricambio a tutti. Desidero ringraziare di cuore i bambini, gli anziani, le famiglie, le diocesi, le comunità parrocchiali e religiose, gli enti e le diverse associazioni, che hanno voluto manifestarmi affetto e vicinanza. E continuate a pregare per me, per favore! A tutti voi auguro una buona domenica. Buon pranzo e arrivederci! Per di più, nelle economie emergenti, gran parte della popolazione non ha beneficiato del progresso economico generale, al punto che frequentemente si è aperto un divario maggiore tra ricchi e poveri. La teoria del «gocciolamento» e della «ricaduta favorevole» (cfr. Evangelii gaudium 54) si è rivelata sbagliata: non è sufficiente sperare che i poveri raccolgano le briciole che cadono dalla tavola dei ricchi. Sono necessarie azioni dirette a favore dei più svantaggiati, l’attenzione per i quali, come quella dei più piccoli all’interno di una famiglia, dovrebbe essere prioritaria per i governanti. La Chiesa ha sempre difeso «la promozione delle persone concrete» (Centesimus annus, 46), prendendosi cura delle loro necessità e offrendo loro possibilità di sviluppo. Mi piacerebbe anche richiamare l’attenzione sul problema dell’immigrazione. L’immensa disparità delle opportunità tra alcuni paesi e altri fa sì che molte persone si vedano obbligate ad abbandonare la propria terra, la propria famiglia, diventando facile preda del traffico delle persone e del lavoro schiavizzato, senza diritti, né accesso alla giustizia... In alcuni casi, la mancanza della cooperazione tra gli Stati lascia molte persone fuori dalla legalità e senza possibilità di far valere i propri diritti, obbligandoli a collocarsi tra quelli che approfittano degli altri o a rassegnarsi a essere vittime di abusi. Sono situazioni nelle quali non basta salvaguardare la legge per difendere i diritti fondamentali della persona, nelle quali la norma, senza pietà e misericordia, non risponde alla giustizia. A volte persino all’interno di ogni paese si creano differenze scandalose e offensive, specialmente tra le popolazioni indigene, nelle zone rurali o nelle periferie delle grandi città. Senza un’autentica difesa di queste persone contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza, lo Stato di diritto perderebbe la propria legittimità. Signor Presidente, gli sforzi per tendere ponti, canali di comunicazione, tessere relazioni, cercare l’intesa non sono mai vani. La situazione geografica di Panamá, nel centro del continente Americano, che la rende punto di incontro tra nord e sud, tra gli Oceani Pacifico e Atlantico, è sicuramente una chiamata, pro mundi beneficio, a generare un nuovo ordine di pace e di giustizia e a promuovere la solidarietà e la collaborazione rispettando la giusta autonomia di ogni nazione. Con l’augurio che la Chiesa sia anche strumento di pace e riconciliazione tra i popoli, riceva il mio più sentito e cordiale saluto. Dal Vaticano, 10 aprile 2015. FRANCESCO Udienza a responsabili di organizzazioni internazionali No alla violenza su donne e bambini Papa Francesco appoggia pienamente l’impegno per far rispettare i diritti umani violati nel mondo e si associa in particolare a quanti operano per mettere fine alla violenza sui bambini e sulle donne nel corso dei conflitti. Lo ha riferito Maria Cristina Perceval, rappresentante permanente della missione permanente di Argentina presso le Nazioni Unite, dopo l’incontro con il Pontefice avvenuto venerdì mattina, 10 aprile. Ad accompagnarla erano l’algerina Leila Zerrougui, la sierraleonese Zainab Bangura e la congolese Julienne Lusenge. Insieme hanno parlato con il Papa della cultura del rispetto, della riconciliazione, della tolleranza e della pace, ma anche della prevenzione, della protezione e della necessità che i responsabili dei crimini commessi non restino impuniti. La signora Perceval ha inoltre sottolineato come troppo spesso le vittime delle violenze nei conflitti siano i soggetti più deboli: i bambini, le donne, i poveri, le minoranze etniche e religiose. Il Pontefice ha convenuto sulla necessità che queste vittime non vengano colpevolizzate e discriminate, ma siano reintegrate nelle famiglie e nella società. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 8 giovedì 16 aprile 2015, numero 16 Francesco ricorda che la vocazione cristiana è un esodo da se stessi In cerca della via d’uscita La vocazione cristiana è un’esperienza di esodo, di uscita da se stessi e di cammino alla sequela di Cristo e al servizio dei fratelli. Lo afferma Papa Francesco nel messaggio per la cinquantaduesima giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che si celebra il prossimo 25 aprile, quarta domenica di Pasqua. L’esodo esperienza fondamentale della vocazione Cari fratelli e sorelle! La quarta Domenica di Pasqua ci presenta l’icona del Buon Pastore che conosce le sue pecore, le chiama, le nutre e le conduce. In questa Domenica, da oltre 50 anni, viviamo la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Ogni volta essa ci richiama l’importanza di pregare perché, come disse Gesù ai suoi discepoli, «il signore della messe... mandi operai nella sua messe» (Lc 10, 2). Gesù esprime questo comando nel contesto di un invio missionario: ha chiamato, oltre ai dodici apostoli, altri settantadue discepoli e li invia a due a due per la missione (Lc 10, 116). In effetti, se la Chiesa «è per sua natura missionaria» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 2), la vocazione cristiana non può che nascere all’interno di un’esperienza di missione. Così, ascoltare e seguire la voce di Cristo Buon Pastore, lasciandosi attrarre e condurre da Lui e consacrando a Lui la propria vita, significa permettere che lo Spirito Santo ci introduca in questo dinamismo missionario, suscitando in noi il desiderio e il coraggio gioioso di offrire la nostra vita e di spenderla per la causa del Regno di Dio. L’offerta della propria vita in questo atteggiamento missionario è possibile solo se siamo capaci di uscire da noi stessi. Perciò, in questa 52ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, vorrei riflettere proprio su quel particolare “esodo” che è la vocazione, o, meglio, la nostra risposta alla vocazione che Dio ci dona. Quando sentiamo la parola “esodo”, il nostro pensiero va subito agli inizi della meravigliosa storia d’amore tra Dio e il popolo dei suoi figli, una storia che passa attraverso i giorni drammatici della schiavitù in Egitto, la chiamata di Mosè, la liberazione e il cammino verso la terra promessa. Il libro dell’Esodo — il secondo libro della Bibbia —, che narra questa storia, rappresenta una parabola di tutta la storia della salvezza, e anche della dinamica fondamentale della fede cristiana. Infatti, passare dalla schiavitù dell’uomo vecchio alla vita Nadia Blarasin, «Esodo» (2008) nuova in Cristo è l’opera redentrice che avviene in noi per mezzo della fede (Ef 4, 22-24). Questo passaggio è un vero e proprio “esodo”, è il cammino dell’anima cristiana e della Chiesa intera, l’orientamento decisivo dell’esistenza rivolta al Padre. Alla radice di ogni vocazione cristiana c’è questo movimento fondamentale dell’esperienza di fede: credere vuol dire lasciare sé stessi, uscire dalla comodità e rigidità del proprio io per centrare la nostra vita in Gesù Cristo; abbandonare come Abramo la propria terra mettendosi in cammino con fiducia, sapendo che Dio indicherà la strada verso la nuova terra. Questa “uscita” non è da intendersi come un disprezzo della propria vita, del proprio sentire, della propria umanità; al contrario, chi si mette in cammino alla sequela del Cristo trova la vita in abbondanza, mettendo tutto sé stesso a disposizione di Dio e del suo Regno. Dice Gesù: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19, 29). Tutto ciò ha la sua radice profonda nell’amore. Infatti, la vocazione cristiana è anzitutto una chiamata d’amore che attrae e rimanda oltre sé stessi, decentra la persona, innesca «un esodo permanente dall’io chiuso in sé stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (Benedetto XVI, Lett. Enc. Deus Caritas est, 6). L’esperienza dell’esodo è paradigma della vita cristiana, in particolare di chi abbraccia una vocazione di speciale dedizione al servizio del Vangelo. Consiste in un atteggiamento sempre rinnovato di conversione e trasformazione, in un restare sempre in cammino, in un passare dalla morte alla vita così come celebriamo in tutta la liturgia: è il dinamismo pasquale. In fondo, dalla chiamata di Abramo a quella di Mosè, dal cammino peregrinante di Israele nel deserto alla conversione predicata dai profeti, fino al viaggio missionario di Gesù che culmina nella sua morte e risurrezione, la vocazione è sempre quell’azione di Dio che ci fa uscire dalla nostra situazione iniziale, ci libera da ogni forma di schiavitù, ci strappa dall’abitudine e dall’indifferenza e ci proietta verso la gioia della comunione con Dio e con i fratelli. Rispondere alla chiamata di Dio, dunque, è lasciare che Egli ci faccia uscire dalla nostra falsa stabilità per metterci in cammino verso Gesù Cristo, termine primo e ultimo della nostra vita e della nostra felicità. Questa dinamica dell’esodo non riguarda solo il singolo chiamato, ma l’azione missionaria ed evangelizzatrice di tutta la Chiesa. La Chiesa è davvero fedele al suo Maestro nella misura in cui è una Chiesa “in uscita”, non preoccupata di sé stessa, delle proprie strutture e delle proprie conquiste, quanto piuttosto capace di andare, di muoversi, di incontrare i figli di Dio nella loro situazione reale e di com-patire per le loro ferite. Dio esce da sé stesso in una dinamica trinitaria di amore, ascolta la miseria del suo popolo e interviene per liberarlo (Es 3, 7). A questo modo di essere e di agire è chiamata anche la Chiesa: la Chiesa che evangelizza esce incontro all’uomo, annuncia la parola liberante del Vangelo, cura con la grazia di Dio le ferite delle anime e dei corpi, solleva i poveri e i bisognosi. Cari fratelli e sorelle, questo esodo liberante verso Cristo e verso i fratelli rappresenta anche la via per la piena comprensione dell’uomo e per la crescita umana e sociale nella storia. Ascoltare e accogliere la chiamata del Signore non è una questione privata e intimista che possa confondersi con l’emozione del momento; è un impegno concreto, reale e totale che abbraccia la nostra esistenza e la pone al servizio della costruzione del Regno di Dio sulla terra. Perciò la vocazione cristiana, radicata nella contemplazione del cuore del Padre, spinge al tempo stesso all’impegno solidale a favore della liberazione dei fratelli, soprattutto dei più poveri. Il discepolo di Gesù ha il cuore aperto al suo orizzonte sconfinato, e la sua intimità con il Signore non è mai una fuga dalla vita e dal mondo ma, al contrario, «si configura essenzialmente come comunione missionaria» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 23). Questa dinamica esodale, verso Dio e verso l’uomo, riempie la vita di gioia e di significato. Vorrei dirlo soprattutto ai più giovani che, anche per la loro età e per la visione del futuro che si spalanca davanti ai loro occhi, sanno essere disponibili e generosi. A volte le incognite e le preoccupazioni per il futuro e l’incertezza che intacca la quotidianità rischiano di paralizzare questi loro slanci, di frenare i loro sogni, fino al punto di pensare che non valga la pena impegnarsi e che il Dio della fede cristiana limiti la loro libertà. Invece, cari giovani, non ci sia in voi la paura di uscire da voi stessi e di mettervi in cammino! Il Vangelo è la Parola che libera, trasforma e rende più bella la nostra vita. Quanto è bello lasciarsi sorprendere dalla chiamata di Dio, accogliere la sua Parola, mettere i passi della vostra esistenza sulle orme di Gesù, nell’adorazione del mistero divino e nella dedizione generosa agli altri! La vostra vita diventerà ogni giorno più ricca e più gioiosa! La Vergine Maria, modello di ogni vocazione, non ha temuto di pronunciare il proprio “fiat” alla chiamata del Signore. Lei ci accompagna e ci guida. Con il coraggio generoso della fede, Maria ha cantato la gioia di uscire da sé stessa e affidare a Dio i suoi progetti di vita. A lei ci rivolgiamo per essere pienamente disponibili al disegno che Dio ha su ciascuno di noi; perché cresca in noi il desiderio di uscire e di andare, con sollecitudine, verso gli altri (cfr. Lc 1, 39). La Vergine Madre ci protegga e interceda per tutti noi. Dal Vaticano, 29 marzo 2015 Domenica delle Palme L’OSSERVATORE ROMANO numero 16, giovedì 16 aprile 2015 pagina 9 Ai formatori alla vita consacrata Ripartire dalla Galilea «Non siete soltanto “maestri”; siete soprattutto testimoni della sequela di Cristo»: con queste parole Papa Francesco, dopo il saluto del cardinale João Braz de Aviz, si è rivolto ai formatori alla vita consacrata ricevuti in udienza, sabato 11 aprile, a conclusione del loro congresso internazionale. Cari fratelli e sorelle, buongiorno. M’ha detto [il Cardinale Prefetto] il vostro numero, quanti siete, e io ho detto: “Ma, con la scarsità di vocazioni che c’è, ci sono più formatori che formandi!”. Questo è un problema! Bisogna chiedere al Signore e fare di tutto perché vengano le vocazioni! Ringrazio il Cardinale Braz de Aviz per le parole che mi ha rivolto a nome di tutti i presenti. Ringrazio anche il Segretario e gli altri collaboratori che hanno preparato il Congresso, il primo di questo livello che si celebra nella Chiesa, proprio nell’Anno dedicato alla Vita Consacrata, con formatori e formatrici di molti Istituti di tante parti del mondo. Desideravo avere questo incontro con voi, per quello che voi siete e rappresentate in quanto educatori e formatori, e perché dietro ciascuno di voi intravedo i vostri e nostri giovani, protagonisti di un presente vissuto con passione, e promotori di un futuro animato dalla speranza; giovani che, spinti dall’amore di Dio, cercano nella Chiesa le strade per assumerlo nella propria vita. Io li sento qui presenti e rivolgo loro un pensiero affettuoso. Al vedervi così numerosi non si direbbe che ci sia crisi vocazionale! Ma in realtà c’è una indubbia diminuzione quantitativa, e questo rende ancora più urgente il compito della formazione, una formazione che plasmi davvero nel cuore dei giovani il cuore di Gesù, finché abbiano i suoi stessi sentimenti (cfr. Fil 2, 5; Vita consecrata, 65). Sono anche convinto che non c’è crisi vocazionale là dove ci sono consacrati capaci di trasmettere, con la propria testimonianza, la bellezza della consacrazione. E la testimonianza è feconda. Se non c’è una testimonianza, se non c’è coerenza, non ci saranno vocazioni. E a questa testimonianza siete chiamati. Questo è il vostro ministero, la vostra missione. Non siete soltanto “maestri”; siete soprattutto testimoni della sequela di Cristo nel vostro proprio carisma. E questo si può fare se ogni giorno si riscopre con gioia di essere discepoli di Gesù. Da qui deriva anche l’esigenza di curare sempre la vostra stessa formazione personale, a partire dall’amicizia forte con l’unico Maestro. In questi giorni della Risurrezione, la parola che nella preghiera mi risuonava spesso era la “Galilea”, “là dove tutto incominciò”, dice Pietro nel suo primo discorso. Le cose accadute a Gerusalemme ma che sono incominciate in Galilea. Anche la nostra vita è incominciata in una “Galilea”: ognuno di noi ha avuto l’esperienza della Galilea, dell’incontro con il Signore, quell’incontro che non si dimentica, ma tante volte finisce coperto da cose, dal lavoro, da inquietudini e anche da peccati e mondanità. Per dare testimonianza è necessario fare spesso il pellegrinaggio alla propria Galilea, riprendere la memoria di quell’incontro, quello stupore, e da lì ripartire. Ma se non si segue questa strada della memoria c’è il pericolo di restare lì dove ci si trova e, anche, c’è il pericolo di non sapere perché ci si trova lì. Questa è una disciplina di quelli e di quelle che vogliono dare testimonianza: andare indietro alla propria Galilea, dove ho incontrato il Signore; a quel primo stupore. È bella la vita consacrata, è uno dei tesori più preziosi della Chiesa, radicato nella vocazione battesimale. E dunque è bello esserne formatori, perché è un privilegio partecipare all’opera del Padre che forma il cuore del Figlio in coloro che lo Spirito ha chiamato. A volte si può sentire questo servizio come un peso, come se ci sottraesse a qualcosa di più importante. Ma questo è un inganno, è una tentazione. È importante la missione, ma è altrettanto importante formare alla missione, formare alla passione dell’annuncio, formare a quella passione dell’andare ovunque, in ogni periferia, per dire a tutti l’amore di Gesù Cristo, specialmente ai lontani, raccontarlo ai piccoli e ai poveri, e lasciarsi anche evangelizzare da loro. Tutto questo richiede basi solide, una struttura cristiana della personalità che oggi le stesse famiglie raramente sanno dare. E questo aumenta la vostra responsabilità. Una delle qualità del formatore è quella di avere un cuore grande per i giovani, per formare in essi cuori grandi, capaci di accogliere tutti, cuori ricchi di misericordia, pieni di tenerezza. Voi non siete solo amici e compagni di vita consacrata di coloro che vi sono affidati, ma veri padri, vere madri, capaci di chiedere e di dare loro il massimo. Generare una vita, partorire una vita religiosa. E questo è possibile soltanto per mezzo dell’amore, l’amore di padri e di madri. E non è vero che i giovani di oggi siano mediocri e non generosi; ma hanno bisogno di sperimentare che «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20, 35), che c’è grande libertà in una vita obbediente, grande fecondità in un cuore vergine, grande ricchezza nel non possedere nulla. Da qui la necessità di essere amorosamente attenti al cammino di ognuno ed evangelicamente esigenti in ogni fase del cammino formativo, a cominciare dal discernimento vocazionale, perché l’eventuale crisi di quantità non determini una ben più grave crisi di qualità. E questo è il pericolo. Il discernimento vocazionale è importante: tutti, tutte le persone che conoscono la personalità umana — siano psicologi, padri spirituali, madri spirituali — ci dicono che i giovani che inconsciamente sentono di avere qualcosa di squilibrato o qualche problema di squilibrio o di deviazione, inconsciamente cercano strutture forti che li proteggano, per proteggersi. E lì è il discernimento: sapere dire no. Ma non cacciare via: no, no. Io ti accompagno, vai, vai, vai... E come si accompagna l’entrata, accompagnare anche l’uscita, perché lui o lei trovi la strada nella vita, con l’aiuto necessario. Non con quella difesa che è pane per oggi e fame per domani. La crisi di qualità... Non so se è scritto, ma adesso mi viene da dire: guardare le qualità di tanti, tanti consacrati... Ieri a pranzo c’era un gruppetto di sacerdoti che celebrava il 60° di Ordinazione sacerdotale: quella saggezza dei vecchi... Alcuni sono un po’..., ma la maggioranza dei vecchi ha saggezza! Le suore che tutti i giorni si alzano per lavorare, le suore dell’ospedale, che sono “dottoresse in umanità”: quanto dobbiamo imparare da questa consacrazione di anni e anni!... E poi muoiono. E le suore missionarie, i consacrati missionari, che vanno là e muoiono là... Guardare i vecchi! E non solo guardarli: andare a trovarli, perché conta il quarto comandamento anche nella vita religiosa, con quegli anziani nostri. Anche questi, per una istituzione religiosa, sono una “Galilea”, perché in quelli troviamo il Signore che ci parla oggi. E quanto bene fa ai giovani mandarli da loro, che si avvicinino a questi anziani e anziane consacrati, saggi: quanto bene fa! Perché i giovani hanno il fiuto per scoprire l’autenticità: questo fa bene. La formazione iniziale, questo discernimento, è il primo passo di un processo destinato a durare tutta la vita, e il giovane va formato alla libertà umile e intelligente di lasciarsi educare da Dio Padre ogni giorno della vita, in ogni età, nella missione come nella fraternità, nell’azione come nella contemplazione. Grazie, cari formatori e formatrici, del vostro servizio umile e discreto, del tempo donato all’ascolto — l’apostolato “dell’orecchio”, ascoltare — del tempo dedicato all’accompagnamento e alla cura di ogni vostro giovane. Dio ha una virtù — se si può parlare della virtù di Dio —, una qualità, della quale non si parla tanto: è la pazienza. Lui ha pazienza. Dio sa aspettare. Anche voi, imparate questo, questo atteggiamento della pazienza, che tante volte è un po’ un martirio: aspettare... E quando ti viene una tentazione di impazienza, fermati; o di curiosità... Penso a santa Teresa di Gesù Bambino, quando una novizia incominciava a raccontare una storia e a lei piaceva sentire come era finita, e poi la novizia andava da un’altra parte, santa Teresa non diceva niente, aspettava. La pazienza è una delle virtù dei formatori. Accompagnare: in questa missione non vanno risparmiati né tempo né energie. E non bisogna scoraggiarsi quando i risultati non corrispondono alle attese. È doloroso, quando viene un ragazzo, una ragazza, dopo tre, quattro anni e dice: “Ah, io non me la sento; io ho trovato un altro amore che non è contro Dio, ma non posso, me ne vado”. È duro questo. Ma è anche il vostro martirio. E gli insuccessi, questi insuccessi dal punto di vista del formatore possono favorire il cammino di formazione continua del formatore. E se a volte potrete avere la sensazione che il vostro lavoro non sia abbastanza apprezzato, sappiate che Gesù vi segue con amore, e la Chiesa tutta vi è grata. E sempre in questa bellezza della vita consacrata: alcuni — io l’ho scritto qui, ma si vede che anche il Papa viene censurato — dicono che la vita consacrata è il paradiso in terra. No. Casomai il purgatorio! Ma andare avanti con gioia, andare avanti con gioia. Vi auguro di vivere con gioia e nella gratitudine questo ministero, con la certezza che non c’è niente di più bello nella vita dell’appartenere per sempre e con tutto il cuore a Dio, e dare la vita al servizio dei fratelli. Vi chiedo per favore di pregare per me, perché Dio mi dia anche un po’ di quella virtù che Lui ha: la pazienza. L’OSSERVATORE ROMANO numero 16, giovedì 16 aprile 2015 pagina 10/11 Rembrandt, «Il ritorno del figliol prodigo» (1668, particolare) Bolla di indizione del giubileo straordinario Il volto della misericordia MISERICORDIAE VULTUS Bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia FRANCESCO ROMA DIO VESCOVO DI SERVO DEI SERVI DI A QUANTI LEGGERANNO QUESTA LETTERA GRAZIA, MISERICORDIA E PACE 1. Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth. Il Padre, «ricco di misericordia» (Ef 2, 4), dopo aver rivelato il suo nome a Mosè come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34, 6), non ha cessato di far conoscere in vari modi e in tanti momenti della storia la sua natura divina. Nella «pienezza del tempo» (Gal 4, 4), quando tutto era disposto secondo il suo piano di salvezza, Egli mandò suo Figlio nato dalla Vergine Maria per rivelare a noi in modo definitivo il suo amore. Chi vede Lui vede il Padre (cfr. Gv 14, 9). Gesù di Nazareth con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona1 rivela la misericordia di Dio. 2. Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. È fonte di gioia, di serenità e di pace. È condizione della nostra salvezza. Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato. «Opere di misericordia» (XII secolo, battistero di Parma) 3. Ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre. È per questo che ho indetto un Giubileo Straordinario della Misericordia come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti. L’Anno Santo si aprirà l’8 dicembre 2015, solennità dell’Immacolata Concezione. Questa festa liturgica indica il modo dell’agire di Dio fin dai primordi della nostra storia. Dopo il peccato di Adamo ed Eva, Dio non ha voluto lasciare l’umanità sola e in balia del male. Per questo ha pensato e voluto Maria santa e immacolata nell’amore (cfr. Ef 1, 4), perché diventasse la Madre del Redentore dell’uomo. Dinanzi alla gravità del peccato, Dio risponde con la pienezza del perdono. La misericordia sarà sempre più grande di ogni peccato, e nessuno può porre un limite all’amore di Dio che perdona. Nella festa dell’Immacolata Concezione avrò la gioia di aprire la Porta Santa. Sarà in questa occasione una Porta della Misericordia, dove chiunque entrerà potrà sperimentare l’amore di Dio che consola, che perdona e dona speranza. La domenica successiva, la Terza di Avvento, si aprirà la Porta Santa nella Cattedrale di Roma, la Basilica di San Giovanni in Laterano. Successivamente, si aprirà la Porta Santa nelle altre Basiliche Papali. Nella stessa domenica stabilisco che in ogni Chiesa particolare, nella Cattedrale che è la Chiesa Madre per tutti i fedeli, oppure nella Concattedrale o in una chiesa di speciale significato, si apra per tutto l’Anno Santo una uguale Porta della Misericordia. A scelta dell’Ordinario, essa potrà essere aperta anche nei Santuari, mete di tanti pellegrini, che in questi luoghi sacri spesso sono toccati nel cuore dalla grazia e trovano la via della conversione. Ogni Chiesa particolare, quindi, sarà direttamente coinvolta a vivere questo Anno Santo come un momento straordinario di grazia e di rinnovamento spirituale. Il Giubileo, pertanto, sarà celebrato a Roma così come nelle Chiese particolari quale segno visibile della comunione di tutta la Chiesa. 4. Ho scelto la data dell’8 dicembre perché è carica di significato per la storia recente della Chiesa. Aprirò infatti la Porta Santa nel cinquantesimo anniversario della conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II. La Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo quell’evento. Per lei iniziava un nuovo percorso della sua storia. I Padri radunati nel Concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello Spirito, l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile. Abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo. Una nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre. Un nuovo impegno per tutti i cristiani per testimoniare con più entusiasmo e convinzione la loro fede. La Chiesa sentiva la responsabilità di essere nel mondo il segno vivo dell’amore del Padre. Tornano alla mente le parole cariche di significato che san Giovanni XXIII pronunciò all’apertura del Concilio per indicare il sentiero da seguire: «Ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore ... La Chiesa Cattolica, mentre con questo Concilio Ecumenico innalza la fiaccola della verità cattolica, vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bon- tà verso i figli da lei separati» 2. Sullo stesso orizzonte, si poneva anche il beato Paolo VI, che si esprimeva così a conclusione del Concilio: «Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità ... L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio ... Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette ... Un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità» 3. Con questi sentimenti di gratitudine per quanto la Chiesa ha ricevuto e di responsabilità per il compito che ci attende, attraverseremo la Porta Santa con piena fiducia di essere accompagnati dalla forza del Signore Risorto che continua a sostenere il nostro pellegrinaggio. Lo Spirito Santo che conduce i passi dei credenti per cooperare all’opera di salvezza operata da Cristo, sia guida e sostegno del Popolo di Dio per aiutarlo a contemplare il volto della misericordia 4. 5. L’Anno giubilare si concluderà nella solennità liturgica di Gesù Cristo Signore dell’universo, il 20 novembre 2016. In quel giorno, chiudendo la Porta Santa avremo anzitutto sentimenti di gratitudine e di ringraziamento verso la SS. Trinità per averci concesso questo tempo straordinario di grazia. Affideremo la vita della Chiesa, l’umanità intera e il cosmo immenso alla Signoria di Cristo, perché effonda la sua misericordia come la rugiada del mattino per una feconda storia da costruire con l’impegno di tutti nel prossimo futuro. Come desidero che gli anni a venire siano intrisi di misericordia per andare incontro ad ogni persona portando la bontà e la tenerezza di Dio! A tutti, credenti e lontani, possa giungere il balsamo della misericordia come segno del Regno di Dio già presente in mezzo a noi. 6. «È proprio di Dio usare misericordia e specialmente in questo si manifesta la sua onnipotenza» 5. Le parole di san Tommaso d’Aquino mostrano quanto la misericordia divina non sia affatto un segno di debolezza, ma piuttosto la qualità dell’onnipotenza di Dio. È per questo che la liturgia, in una delle collette più antiche, fa pregare dicendo: «O Dio che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono» 6. Dio sarà per sempre nella storia dell’umanità come Colui che è presente, vicino, provvidente, santo e misericordioso. «Paziente e misericordioso» è il binomio che ricorre spesso nell’Antico Testamento per descrivere la natura di Dio. Il suo essere misericordioso trova riscontro concreto in tante azioni della storia della salvezza dove la sua bontà prevale sulla punizione e la distruzione. I Salmi, in modo particolare, fanno emergere questa grandezza dell’agire divino: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia» (103, 3-4). In mo- Il rito della consegna e della lettura nella basilica vaticana Tempo di risveglio Con la consegna e la lettura, sabato pomeriggio, 11 aprile, della bolla di indizione del giubileo, il Papa ha compiuto un passo avanti verso la porta santa che aprirà l’8 dicembre. E davanti a quella porta, nell’atrio della basilica vaticana, si è fermato in preghiera all’inizio della cerimonia. Il rito è proseguito con la recita dei primi vespri della seconda domenica di Pasqua o della Divina misericordia. In dodici hanno ricevuto la bolla direttamente dalle mani del Pontefice. Monsignor Leonardo Sapienza, Risuona ancora in tutti noi il saluto di Gesù Risorto ai suoi discepoli la sera di Pasqua: «Pace a voi!» (Gv 20, 19). La pace, soprattutto in queste settimane, permane come il desiderio di tante popolazioni che subiscono la violenza inaudita della discriminazione e della morte, solo perché portano il nome cristiano. La nostra preghiera si fa ancora più intensa e diventa un grido di aiuto al Padre ricco di misericordia, perché sostenga la fede di tanti fratelli e sorelle che sono nel dolore, mentre chiediamo di convertire i nostri cuori per passare dall’indifferenza alla compassione. protonotario apostolico, ha poi letto da un pulpito in legno alcuni brani della Misericordiae vultus. Quindi si è mossa la processione verso l’interno della basilica. Il Papa ha voluto accanto a sé l’arcivescovo Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, a cui ha affidato l’organizzazione dell’anno santo. Francesco ha quindi preso posto lungo la parete sinistra della navata centrale, di fronte alla statua bronzea di San Pietro in cattedra. Ecco la sua omelia. San Paolo ci ha ricordato che siamo stati salvati nel mistero della morte e risurrezione del Signore Gesù. Lui è il Riconciliatore, che è vivo in mezzo a noi per offrire la via della riconciliazione con Dio e tra i fratelli. L’Apostolo ricorda che, nonostante le difficoltà e le sofferenze della vita, cresce tuttavia la speranza nella salvezza che l’amore di Cristo ha seminato nei nostri cuori. La misericordia di Dio si è riversata in noi rendendoci giusti, donandoci la pace. Una domanda è presente nel cuore di tanti: perché oggi un Giubileo della Misericordia? Semplicemente perché la Chiesa, in questo momento di grandi cambiamenti epocali, è chiamata ad offrire più fortemente i segni della presenza e della vicinanza di Dio. Questo non è il tempo per la distrazione, ma al contrario per rimanere vigili e risvegliare in noi la capacità di guardare all’essenziale. È il tempo per la Chiesa di ritrovare il senso della missione che il Signore le ha affidato il giorno di Pasqua: essere segno e strumento della misericordia del Padre (cfr. Gv 20, 21-23). È per questo che l’Anno Santo dovrà mantenere vivo il desiderio di saper cogliere i tanti segni CONTINUA A PAGINA 12 della tenerezza che Dio offre al mondo intero e soprattutto a quanti sono nella sofferenza, sono soli e abbandonati, e anche senza speranza di essere perdonati e di sentirsi amati dal Padre. Un Anno Santo per sentire forte in noi la gioia di essere stati ritrovati da Gesù, che come Buon Pastore è venuto a cercarci perché eravamo smarriti. Un Giubileo per percepire il calore del suo amore quando ci carica sulle spalle per riportarci alla casa del Padre. Un Anno in cui essere toccati dal Signore Gesù e trasformati dalla sua misericordia, per diventare noi pure testimoni di misericordia. Ecco perché il Giubileo: perché questo è il tempo della misericordia. È il tempo favorevole per curare le ferite, per non stancarci di incontrare quanti sono in attesa di vedere e toccare con mano i segni della vicinanza di Dio, per offrire a tutti, a tutti, la via del perdono e della riconciliazione. La Madre della Divina Misericordia apra i nostri occhi, perché comprendiamo l’impegno a cui siamo chiamati; e ci ottenga la grazia di vivere questo Giubileo della Misericordia con una testimonianza fedele e feconda. pagina 12 L’OSSERVATORE ROMANO giovedì 16 aprile 2015, numero 16 Bolla di indizione del giubileo straordinario DA PAGINA 10 do ancora più esplicito, un altro Salmo attesta i segni concreti della misericordia: «Il Signore libera i prigionieri, il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi» (146, 7-9). E da ultimo, ecco altre espressioni del Salmista: «[Il Signore] risana i cuori affranti e fascia le loro ferite. ... Il Signore sostiene i poveri, ma abbassa fino a terra i malvagi» (147, 3.6). Insomma, la misericordia di Dio non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. È veramente il caso di dire che è un amore «viscerale». Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono. 7. «Eterna è la sua misericordia»: è il ritornello che viene riportato ad ogni versetto del Salmo 136 mentre si narra la storia della rivelazione di Dio. In forza della misericordia, tutte le vicende dell’antico testamento sono cariche di un profondo valore salvifico. La misericordia rende la storia di Dio con Israele una storia di salvezza. Ripetere continuamente: «Eterna è la sua misericordia», come fa il Salmo, sembra voler spezzare il cerchio dello spazio e del tempo per inserire tutto nel mistero eterno dell’amore. È come se si volesse dire che non solo nella storia, ma per l’eternità l’uomo sarà sempre sotto lo sguardo misericordioso del Padre. Non è un caso che il popolo di Israele abbia voluto inserire questo Salmo, il «Grande hallel» come viene chiamato, nelle feste liturgiche più importanti. Prima della Passione Gesù ha pregato con questo Salmo della misericordia. Lo attesta l’evangelista Matteo quando dice che «dopo aver cantato l’inno» (26, 30), Gesù con i discepoli uscirono verso il monte degli ulivi. Mentre Egli istituiva l’Eucaristia, quale memoriale perenne di Lui e della sua Pasqua, poneva simbolicamente questo atto supremo della Rivelazione alla luce della misericordia. Nello stesso orizzonte della misericordia, Gesù viveva la sua passione e morte, cosciente del grande mistero di amore che si sarebbe compiuto sulla croce. Sapere che Gesù stesso ha pregato con questo Salmo, lo rende per noi cristiani ancora più importante e ci impegna ad assumerne il ritornello nella nostra quotidiana preghiera di lode: «Eterna è la sua misericordia». 8. Con lo sguardo fisso su Gesù e il suo volto misericordioso possiamo cogliere l’amore della SS. Trinità. La missione che Gesù ha ricevuto dal Padre è stata quella di rivelare il mistero dell’amore divino nella sua pienezza. «Dio è amore» (1 Gv 4, 8.16), afferma per la prima e unica volta in tutta la Sacra Scrittura l’evangelista Giovanni. Questo amore è ormai reso visibile e tangibile in tutta la vita di Gesù. La sua persona non è altro che amore, un amore che si dona Francesco d’Antonio, «Visitare gli ammalati» (XV secolo, Firenze, Oratorio dei Buonomini di San Martino) gratuitamente. Le sue relazioni con le persone che lo accostano manifestano qualcosa di unico e di irripetibile. I segni che compie, soprattutto nei confronti dei peccatori, delle persone povere, escluse, malate e sofferenti, sono all’insegna della misericordia. Tutto in Lui parla di misericordia. Nulla in Lui è privo di compassione. Gesù, dinanzi alla moltitudine di persone che lo seguivano, vedendo che erano stanche e sfinite, smarrite e senza guida, sentì fin dal profondo del cuore una forte compassione per loro (cfr. Mt 9, 36). In forza di questo amore compassionevole guarì i malati che gli venivano presentati (cfr. Mt 14, 14), e con pochi pani e pesci sfamò grandi folle (cfr. Mt 15, 37). Ciò che muoveva Gesù in tutte le circostanze non era altro che la misericordia, con la quale leggeva nel cuore dei suoi interlocutori e rispondeva al loro bisogno più vero. Quando incontrò la vedova di Naim che portava il suo unico figlio al sepolcro, provò grande compassione per quel dolore immenso della madre in pianto, e le riconsegnò il figlio risuscitandolo dalla morte (cfr. Lc 7, 15). Dopo aver liberato l’indemoniato di Gerasa, gli affida questa missione: «Annuncia ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te» (Mc 5, 19). Anche la vocazione di Matteo è inserita nell’orizzonte della misericordia. Passando dinanzi al banco delle imposte gli occhi di Gesù fissarono quelli di Matteo. Era uno sguardo carico di misericordia che perdonava i peccati di quell’uomo e, vincendo le resistenze degli altri discepoli, scelse lui, il peccatore e pubblicano, per diventare uno dei Dodici. San Beda il Venerabile, commentando questa scena del Vangelo, ha scritto che Gesù guardò Matteo con amore misericordioso e lo scelse: miserando atque eligendo7. Mi ha sempre impressionato questa espressione, tanto da farla diventare il mio motto. 9. Nelle parabole dedicate alla misericordia, Gesù rivela la natura di Dio come quella di un Padre che non si dà mai per vinto fino a quando non ha dissolto il peccato e vinto il rifiuto, con la compassione e la misericordia. Conosciamo queste parabole, tre in particolare: quelle della pecora smarrita e della moneta perduta, e quella del padre e i due figli (cfr. Lc 15, 1-32). In queste parabole, Dio viene sempre presentato come colmo di gioia, soprattutto quando perdona. In esse troviamo il nucleo del Vangelo e della nostra fede, perché la misericordia è presentata come la forza che tutto vince, che riempie il cuore di amore e che consola con il perdono. Da un’altra parabola, inoltre, ricaviamo un insegnamento per il nostro stile di vita cristiano. Provocato dalla domanda di Pietro su quante volte fosse necessario perdonare, Gesù rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18, 22), e raccontò la parabola del «servo spietato». Costui, chiamato dal padrone a restituire una grande somma, lo supplica in ginocchio e il padrone gli condona il debito. Ma subito dopo incontra un altro servo come lui che gli era debitore di pochi centesimi, il quale lo supplica in ginocchio di avere pietà, ma lui si rifiuta e lo fa imprigionare. Allora il padrone, venuto a conoscenza del fatto, si adira molto e richiamato quel servo gli dice: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (Mt 18, 33). E Gesù concluse: «Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello» (Mt 18, 35). La parabola contiene un profondo insegnamento per ciascuno di noi. Gesù afferma che la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia. Il perdono delle offese diventa l’espressione più evidente dell’amore misericordioso e per noi cristiani è un imperativo da cui non possiamo prescindere. Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza e la vendetta sono condizioni necessarie per vivere felici. Accogliamo quindi l’esortazione dell’apostolo: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4, 26). E soprattutto ascoltiamo la parola di Gesù che ha posto la misericordia come un ideale di vita e come criterio di credibilità per la nostra fede: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7) è la beatitudine a cui ispirarsi con particolare impegno in questo Anno Santo. Come si nota, la misericordia nella Sacra Scrittura è la parola-chiave per indicare l’agire di Dio verso di noi. Egli non si limita ad affermare il suo amore, ma lo rende visibile e tangibile. L’amore, d’altronde, non potrebbe mai essere una parola astratta. Per sua stessa natura è vita concreta: intenzioni, atteggiamenti, comportamenti che si verificano nell’agire quotidiano. La misericordia di Dio è la sua responsabilità per noi. Lui si sente responsabile, cioè desidera il nostro bene e vuole vederci felici, colmi di gioia e sereni. È sulla stessa lunghezza d’onda che si deve orientare l’amore misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli. Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere misericordiosi noi, gli uni verso gli altri. 10. L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole. La Chiesa «vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia»8. Forse per tanto tempo abbiamo dimenticato di indicare e di vivere la via della misericordia. La tentazione, da una parte, di pretendere sempre e solo la giustizia ha fatto dimenticare che questa è il primo passo, necessario e indispensabile, ma la Chiesa ha bisogno di andare oltre per raggiungere una meta più alta e più significativa. Dall’altra parte, è triste dover vedere come l’esperienza del perdono nella nostra cultura si faccia sempre più diradata. Perfino la parola stessa in alcuni momenti sembra svanire. Senza la testimonianza del perdono, tuttavia, rimane solo una vita infeconda e sterile, come se si vivesse in un deserto desolato. È giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono. È il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli. Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per guardare al futuro con speranza. 11. Non possiamo dimenticare il grande insegnamento che san Giovanni Paolo II ha offerto con la sua seconda Enciclica Dives in misericordia, che all’epoca giunse inaspettata e colse molti di sorpresa per il tema che veniva affrontato. Due espressioni in particolare desidero ricordare. Anzitutto, il santo Papa rilevava la dimenticanza del tema della misericordia nella cultura dei nostri giorni: «La mentalità contemporanea, forse più di quella dell’uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare CONTINUA A PAGINA 13 numero 16, giovedì 16 aprile 2015 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 13 Il volto della misericordia DA PAGINA 12 dalla vita e a distogliere dal cuore umano l’idea stessa della misericordia. La parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio l’uomo, il quale, grazie all’enorme sviluppo della scienza e della tecnica, non mai prima conosciuto nella storia, è diventato padrone ed ha soggiogato e dominato la terra (cfr. Gen 1, 28). Tale dominio sulla terra, inteso talvolta unilateralmente e superficialmente, sembra che non lasci spazio alla misericordia ... Ed è per questo che, nell’odierna situazione della Chiesa e del mondo, molti uomini e molti ambienti guidati da un vivo senso di fede si rivolgono, direi, quasi spontaneamente alla misericordia di Dio» 9. Inoltre, san Giovanni Paolo II così motivava l’urgenza di annunciare e testimoniare la misericordia nel mondo contemporaneo: «Essa è dettata dall’amore verso l’uomo, verso tutto ciò che è umano e che, secondo l’intuizione di gran parte dei contemporanei, è minacciato da un pericolo immenso. Il mistero di Cristo ... mi obbliga a proclamare la misericordia quale amore misericordioso di Dio, rivelato nello stesso mistero di Cristo. Esso mi obbliga anche a richiamarmi a tale misericordia e ad implorarla in questa difficile, critica fase della storia della Chiesa e del mondo» 10. Tale suo insegnamento è più che mai attuale e merita di essere ripreso in questo Anno Santo. Accogliamo nuovamente le sue parole: «La Chiesa vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia — il più stupendo attributo del Creatore e del Redentore — e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice» 11. 12. La Chiesa ha la missione di annunciare la misericordia di Dio, cuore pulsante del Vangelo, che per mezzo suo deve raggiungere il cuore e la mente di ogni persona. La Sposa di Cristo fa suo il comportamento del Figlio di Dio che a tutti va incontro senza escludere nessuno. Nel nostro tempo, in cui la Chiesa è impegnata nella nuova evangelizzazione, il tema della misericordia esige di essere riproposto con nuovo entusiasmo e con una rinnovata azione pastorale. È determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre. La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre. Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti, insomma, dovunque vi sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia. 13. Vogliamo vivere questo Anno Giubilare alla luce della parola del Signore: Misericordiosi come il Padre. L’evangelista riporta l’insegnamento di Gesù che dice: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6, 36). È un programma di vita tanto impegnativo quanto ricco di gioia e di pace. L’imperativo di Gesù è rivolto a quanti ascoltano la sua voce (cfr. Lc 6, 27). Per essere capaci di misericordia, quindi, dobbiamo in primo luogo porci in ascolto della Parola di Dio. Ciò significa recuperare il valore del silenzio per meditare la Parola che ci viene rivolta. In questo modo è possibile contemplare la misericordia di Dio e assumerlo come proprio stile di vita. 14. Il pellegrinaggio è un segno peculiare nell’Anno Santo, perché è icona del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza. La vita è un pellegrinaggio e l’essere umano è viator, un pellegrino che percorre una strada fino alla meta agognata. Anche per raggiungere la Porta Santa a Roma e in ogni altro luogo, ognuno dovrà compiere, secondo le proprie forze, un pellegrinaggio. Esso sarà un segno del fatto che anche la misericordia è una meta da raggiungere e che richiede impegno e sacrificio. Il pellegrinaggio, quindi, sia stimolo alla conversione: attraversando la Porta Santa ci lasceremo abbracciare dalla misericordia di Dio e ci impegneremo ad essere misericordiosi con gli altri come il Padre lo è con noi. Il Signore Gesù indica le tappe del pellegrinaggio attraverso cui è possibile raggiungere questa meta: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 37-38). Dice anzitutto di non giudicare e di non condannare. Se non si vuole incorrere nel giudizio di Dio, nessuno può diventare giudice del proprio fratello. Gli uomini, infatti, con il loro giudizio si fermano alla superficie, mentre il Padre guarda nell’intimo. Quanto male fanno le parole quando sono mosse da sentimenti di gelosia e invidia! Parlare male del fratello in sua assenza equivale a porlo in cattiva luce, a compromettere la sua reputazione e lasciarlo in balia della chiacchiera. Non giudicare e non condannare significa, in positivo, saper cogliere ciò che di buono c’è in ogni persona e non permettere che abbia a soffrire per il nostro giudizio parziale e la nostra presunzione di sapere tutto. Ma questo non è ancora sufficiente per esprimere la misericordia. Gesù chiede anche di perdonare e di donare. Essere strumenti del perdono, perché noi per primi lo abbiamo ottenuto da Dio. Essere generosi nei confronti di tutti, sapendo che anche Dio elargisce la sua benevolenza su di noi con grande magnanimità. Misericordiosi come il Padre, dunque, è il «motto» dell’Anno Santo. Nella misericordia abbiamo la prova di come Dio ama. Egli dà tutto se stesso, per sempre, gratuitamente, e senza nulla chiedere in cambio. Viene in nostro aiuto quando lo invochiamo. È bello che la preghiera quotidiana della Chiesa inizi con queste parole: «O Dio, vieni a salvarmi, Signore, vieni presto in mio aiuto» (Sal 70, 2). L’aiuto che invochiamo è già il primo passo della misericordia di Dio verso di noi. Egli viene a salvarci dalla condizione di debolezza in cui viviamo. E il suo aiuto consiste nel farci cogliere la sua presenza e la sua vicinanza. Giorno per giorno, toccati dalla sua compassione, possiamo anche noi diventare compassionevoli verso tutti. 15. In questo Anno Santo, potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi. In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo. È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli. Riscopriamo le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti. Non possiamo sfuggire alle parole del Signore e in base ad esse saremo giudicati: se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. Se avremo accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Se avremo avuto tempo per stare con chi è malato e prigioniero (cfr. Mt 25, 31-45). Ugualmente, ci sarà chiesto se avremo aiutato ad uscire dal dubbio che fa cadere nella paura e che spesso è fonte di solitudine; se saremo stati capaci di vincere l’ignoranza in cui vivono milioni di persone, soprattutto i bambini privati dell’aiuto necessario per essere riscattati dalla povertà; se saremo stati vicini a chi è solo e afflitto; se avremo perdonato chi ci offende e respinto ogni forma di rancore e di odio che porta alla violenza; se avremo avuto pazienza sull’esempio di Dio che è tanto paziente con noi; se, infine, avremo affidato al Signore nella preghiera i nostri fratelli e sorelle. In ognuno di questi «più piccoli» è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di nuovo visibile come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga... per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura. Non dimentichiamo le parole di san Giovanni della Croce: «Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore» 12. 16. Nel Vangelo di Luca troviamo un altro aspetto importante per vivere con fede il Giubileo. Racconta l’evangelista che Gesù, un sabato, ritornò a Nazaret e, come era solito fare, entrò nella Sinagoga. Lo chiamarono a leggere la Scrittura e commentarla. Il passo era quello del profeta Isaia dove sta scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di misericordia del Signore» (61, 1-2). «Un anno di misericordia»: è questo quanto viene annunciato dal Signore e che noi desideriamo vivere. Questo Anno Santo porta con sé la ricchezza della missione di Gesù che risuona nelle parole del Profeta: portare una parola e un gesto di consolazione ai poveri, annunciare la liberazione a quanti sono prigionieri delle nuove schiavitù della società moderna, restituire la vista a chi non riesce più a vedere perché curvo su sé stesso, e restituire dignità a quanti ne sono stati privati. La predicazione di Gesù si rende di nuovo visibile nelle risposte di fede che la testimonianza dei cristiani è chiamata ad offrire. Ci accompagnino le parole dell’Apostolo: «Chi fa opere di misericordia, le compia con gioia» (Rm 12, 8). 17. La Quaresima di questo Anno Giubilare sia vissuta più intensamente come momento forte per celebrare e sperimentare la misericordia di Dio. Quante pagine della Sacra Scrittura possono essere meditate nelle settimane della Quaresima per riscoprire il volto misericordioso del Padre! Con le parole del profeta Michea possiamo anche noi ripetere: Tu, o Signore, sei un Dio che toglie l’iniquità e perdona il peccato, che non serbi per sempre la tua ira, ma ti compiaci di usare misericordia. Tu, Signore, ritornerai a noi e avrai pietà del tuo popolo. Calpesterai le nostre colpe e getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati (cfr. 7, 1819). Le pagine del profeta Isaia potranno essere meditate più concretamente in questo tempo di preghiera, digiuno e carità: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: scioCONTINUA A PAGINA 14 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 14 Frank Wesley «The Forgiving Father» (1954-1958) DA PAGINA 13 gliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono» (58, 6-11). L’iniziativa «24 ore per il Signore», da celebrarsi nel venerdì e sabato che precedono la IV Domenica di Quaresima, è da incrementare nelle Diocesi. Tante persone si stanno riavvicinando al sacramento della Riconciliazione e tra questi molti giovani, che in tale esperienza ritrovano spesso il cammino per ritornare al Signore, per vivere un momento di intensa preghiera e riscoprire il senso della propria vita. Poniamo di nuovo al centro con convinzione il sacramento della Riconciliazione, perché permette di toccare con mano la grandezza della misericordia. Sarà per ogni penitente fonte di vera pace interiore. Non mi stancherò mai di insistere perché i confessori siano un vero segno della misericordia del Padre. Non ci si improvvisa confessori. Lo si diventa quando, anzitutto, ci facciamo noi per primi penitenti in cerca di perdono. Non dimentichiamo giovedì 16 aprile 2015, numero 16 Bolla di indizione del giubileo straordinario mai che essere confessori significa partecipare della stessa missione di Gesù ed essere segno concreto della continuità di un amore divino che perdona e che salva. Ognuno di noi ha ricevuto il dono dello Spirito Santo per il perdono dei peccati, di questo siamo responsabili. Nessuno di noi è padrone del Sacramento, ma un fedele servitore del perdono di Dio. Ogni confessore dovrà accogliere i fedeli come il padre nella parabola del figlio prodigo: un padre che corre incontro al figlio nonostante avesse dissipato i suoi beni. I confessori sono chiamati a stringere a sé quel figlio pentito che ritorna a casa e ad esprimere la gioia per averlo ritrovato. Non si stancheranno di andare anche verso l’altro figlio rimasto fuori e incapace di gioire, per spiegargli che il suo giudizio severo è ingiusto, e non ha senso dinanzi alla misericordia del Padre che non ha confini. Non porranno domande impertinenti, ma come il padre della parabola interromperanno il discorso preparato dal figlio prodigo, perché sapranno cogliere nel cuore di ogni penitente l’invocazione di aiuto e la richiesta di perdono. Insomma, i confessori sono chiamati ad essere sempre, dovunque, in ogni situazione e nonostante tutto, il segno del primato della misericordia. 18. Nella Quaresima di questo Anno Santo ho l’intenzione di inviare i Missionari della Misericordia. Saranno un segno della sollecitudine materna della Chiesa per il Popolo di Dio, perché entri in profondità nella ricchezza di questo mistero così fondamentale per la fede. Saranno sacerdoti a cui darò l’autorità di perdonare anche i peccati che sono riservati alla Sede Apostolica, perché sia resa evidente l’ampiezza del loro mandato. Saranno, soprattutto, segno vivo di come il Padre accoglie quanti sono in ricerca del suo perdono. Saranno dei missionari della misericordia perché si faranno artefici presso tutti di un incontro carico di umanità, sorgente di liberazione, ricco di responsabilità per superare gli ostacoli e riprendere la vita nuova del Battesimo. Si lasceranno condurre nella loro missione dalle parole dell’Apostolo: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti» (Rm 11, 32). Tutti infatti, nessuno escluso, sono chiamati a cogliere l’appello alla misericordia. I missionari vivano questa chiamata sapendo di poter fissare lo sguardo su Gesù, «sommo sacerdote misericordioso e degno di fede» (Eb 2, 17). Chiedo ai confratelli Vescovi di invitare e di accogliere questi Missionari, perché siano anzitutto predicatori convincenti della misericordia. Si organizzino nelle Diocesi delle «missioni al popolo», in modo che questi Missionari siano annunciatori della gioia del perdono. Si chieda loro di celebrare il sacramento della Riconciliazione per il popolo, perché il tempo di grazia donato nell’Anno Giubilare permetta a tanti figli lontani di ritrovare il cammino verso la casa paterna. I Pastori, specialmente durante il tempo forte della Quaresima, siano solleciti nel richiamare i fedeli ad accostarsi «al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia» (Eb 4, 16). 19. La parola del perdono possa giungere a tutti e la chiamata a sperimentare la misericordia non lasci nessuno indifferente. Il mio invito alla conversione si rivolge con ancora più insistenza verso quelle persone che si trovano lontane dalla grazia di Dio per la loro condotta di vita. Penso in modo particolare agli uomini e alle donne che appartengono a un gruppo criminale, qualunque esso sia. Per il vostro bene, vi chiedo di cambiare vita. Ve lo chiedo nel nome del Figlio di Dio che, pur combattendo il peccato, non ha mai rifiutato nessun peccatore. Non cadete nella terribile trappola di pensare che la vita dipende dal denaro e che di fronte ad esso tutto il resto diventa privo di valore e di dignità. È solo un’illusione. Non portiamo il denaro con noi nell’aldilà. Il denaro non ci dà la vera felicità. La violenza usata per ammassare soldi che grondano sangue non rende potenti né immortali. Per tutti, presto o tardi, viene il giudizio di Dio a cui nessuno potrà sfuggire. Lo stesso invito giunga anche alle persone fautrici o complici di corruzione. Questa piaga putrefatta della società è un grave peccato che grida verso il cielo, perché mina fin dalle fondamenta la vita personale e sociale. La corruzione impedisce di guardare al futuro con speranza, perché con la sua prepotenza e avidità distrugge i progetti dei deboli e schiaccia i più poveri. È un male che si annida nei gesti quotidiani per estendersi poi negli scandali pubblici. La corruzione è un accanimento nel peccato, che intende sostituire Dio con l’illusione del denaro come forma di potenza. È un’opera delle tenebre, sostenuta dal sospetto e dall’intrigo. Corruptio optimi pessima, diceva con ragione san Gregorio Magno, per indicare che nessuno può sentirsi immune da questa tentazione. Per debellarla dalla vita personale e sociale sono necessarie prudenza, vigilanza, lealtà, trasparenza, unite al coraggio della denuncia. Se non la si combatte apertamente, presto o tardi rende complici e distrugge l’esistenza. Questo è il momento favorevole per cambiare vita! Questo è il tempo di lasciarsi toccare il cuore. Davanti al male commesso, anche a crimini gravi, è il momento di ascoltare il pianto delle persone innocenti depredate dei beni, della dignità, degli affetti, della stessa vita. Rimanere sulla via del male è solo fonte di illusione e di tristezza. La vera vita è ben altro. Dio non si stanca di tendere la mano. È sempre disposto ad ascoltare, e anch’io lo sono, come i miei fratelli vescovi e sacerdoti. È sufficiente solo accogliere l’invito alla conversione e sottoporsi alla giustizia, mentre la Chiesa offre la misericordia. 20. Non sarà inutile in questo contesto richiamare al rapporto tra giustizia e misericordia. Non sono due aspetti in contrasto tra di loro, ma due dimensioni di un’unica realtà che si sviluppa progressivamente fino a raggiungere il suo apice nella pienezza dell’amore. La giustizia è un concetto fondamentale per la società civile quando, normalmente, si fa riferimento a un ordine giuridico attraverso il quale si applica la legge. Per giustizia si intende anche che a ciascuno deve essere dato ciò che gli è dovuto. Nella Bibbia, molte volte si fa riferimento alla giustizia divina e a Dio come giudice. La si intende di solito come l’osservanza integrale della Legge e il comportamento di ogni buon israelita conforme ai comandamenti dati da Dio. Questa visione, tuttavia, ha portato non poche volte a cadere nel legalismo, mistificando il senso originario e oscurando il valore profondo che la giustizia possiede. Per superare la prospettiva legalista, bisognerebbe ricordare che nella Sacra Scrittura la giustizia è concepita essenzialmente come un abbandonarsi fiducioso alla volontà di Dio. Da parte sua, Gesù parla più volte dell’importanza della fede, piuttosto che dell’osservanza della legge. È in questo senso che dobbiamo comprendere le sue parole quando, trovandosi a tavola con Matteo e altri pubblicani e peccatori, dice ai farisei che lo contestavano: «Andate e imparate che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9, 13). Davanti alla visione di una giustizia come mera osservanza della legge, che giudica dividendo le persone in giusti e peccatori, Gesù punta a mostrare il grande dono della misericordia che ricerca i peccatori per offrire loro il perdono e la salvezza. Si comprende perché, a causa di questa sua visione così liberatrice e fonte di rinnovamento, Gesù sia stato rifiutato dai farisei e dai dottori della legge. Questi per essere fedeli alla legge ponevano solo pesi sulle spalle delle persone, vanificando però la misericordia del Padre. Il richiamo all’osservanza della legge non può ostacolare l’attenzione per le necessità che toccano la dignità delle persone. Il richiamo che Gesù fa al testo del profeta Osea — «voglio l’amore e non il sacrificio» (6, 6) — è molto significativo in proposito. Gesù afferma che d’ora in avanti la regola di vita dei suoi discepoli dovrà essere quella che prevede il primato della misericordia, come Lui stesso testimonia condividendo il pasto con i peccatori. La misericordia, ancora una volta, viene rivelata come dimensione fondamentale della missione di Gesù. Essa è una vera sfida dinanzi ai suoi interlocutori che si fermavano al rispetto formale della legge. Gesù, invece, va oltre la legge; la sua condivisione con quelli che la legge considerava peccatori fa comprendere fin dove arriva la sua misericordia. Anche l’apostolo Paolo ha fatto un percorso simile. Prima di incontrare Cristo sulla via di Damasco, la sua vita era dedicata a perseguire in maniera irreprensibile la giustizia della legge (cfr. Fil 3, 6). La conversione a Cristo lo portò a ribaltare la sua visione, a tal punto che nella Lettera ai Galati afferma: «Abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della LegCONTINUA A PAGINA 15 numero 16, giovedì 16 aprile 2015 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 15 Il volto della misericordia DA PAGINA 14 ge» (2, 16). La sua comprensione della giustizia cambia radicalmente. Paolo ora pone al primo posto la fede e non più la legge. Non è l’osservanza della legge che salva, ma la fede in Gesù Cristo, che con la sua morte e resurrezione porta la salvezza con la misericordia che giustifica. La giustizia di Dio diventa adesso la liberazione per quanti sono oppressi dalla schiavitù del peccato e di tutte le sue conseguenze. La giustizia di Dio è il suo perdono (cfr. Sal 51, 1116). 21. La misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi, convertirsi e credere. L’esperienza del profeta Osea ci viene in aiuto per mostrarci il superamento della giustizia nella direzione della misericordia. L’epoca di questo profeta è tra le più drammatiche della storia del popolo ebraico. Il Regno è vicino alla distruzione; il popolo non è rimasto fedele all’alleanza, si è allontanato da Dio e ha perso la fede dei Padri. Secondo una logica umana, è giusto che Dio pensi di rifiutare il popolo infedele: non ha osservato il patto stipulato e quindi merita la dovuta pena, cioè l’esilio. Le parole del profeta lo attestano: «Non ritornerà al paese d’Egitto, ma Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi» (Os 11, 5). Eppure, dopo questa reazione che si richiama alla giustizia, il profeta modifica radicalmente il suo linguaggio e rivela il vero volto di Dio: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira» (11, 8-9). Sant’Agostino, quasi a commentare le parole del profeta dice: «È più facile che Dio trattenga l’ira più che la misericordia»13. È proprio così. L’ira di Dio dura un istante, mentre la sua misericordia dura in eterno. Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge. La giustizia da sola non basta, e l’esperienza insegna che appellarsi solo ad essa rischia di distruggerla. Per questo Dio va oltre la giustizia con la misericordia e il perdono. Ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono. Dio non rifiuta la giustizia. Egli la ingloba e supera in un evento superiore dove si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia. Dobbiamo prestare molta attenzione a quanto scrive Paolo per non cadere nello stesso errore che l’Apostolo rimproverava ai Giudei suoi contemporanei: «Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede» (Rm 10, 3-4). Questa giustizia di Dio è la mi- sericordia concessa a tutti come grazia in forza della morte e risurrezione di Gesù Cristo. La Croce di Cristo, dunque, è il giudizio di Dio su tutti noi e sul mondo, perché ci offre la certezza dell’amore e della vita nuova. 22. Il Giubileo porta con sé anche il riferimento all’indulgenza. Nell’Anno Santo della Misericordia essa acquista un rilievo particolare. Il perdono di Dio per i nostri peccati non conosce confini. Nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, Dio rende evidente questo suo amore che giunge fino a distruggere il peccato degli uomini. Lasciarsi riconciliare con Dio è possibile attraverso il mistero pasquale e la mediazione della Chiesa. Dio quindi è sempre disponibile al perdono e non si stanca mai di offrirlo in maniera sempre nuova e inaspettata. Noi tutti, tuttavia, facciamo esperienza del peccato. Sappiamo di essere chiamati alla perfezione (cfr. Mt 5, 48), ma sentiamo forte il peso del peccato. Mentre percepiamo la potenza della grazia che ci trasforma, sperimentiamo anche la forza del peccato che ci condiziona. Nonostante il perdono, nella nostra vita portiamo le contraddizioni che sono la conseguenza dei nostri peccati. Nel sacramento della Riconciliazione Dio perdona i peccati, che sono davvero cancellati; eppure, l’impronta negativa che i peccati hanno lasciato nei nostri comportamenti e nei nostri pensieri rimane. La misericordia di Dio però è più forte anche di questo. Essa diventa indulgenza del Padre che attraverso la Sposa di Cristo raggiunge il peccatore perdonato e lo libera da ogni residuo della conseguenza del peccato, abilitandolo ad agire con carità, a crescere nell’amore piuttosto che ricadere nel peccato. La Chiesa vive la comunione dei Santi. Nell’Eucaristia questa comunione, che è dono di Dio, si attua come unione spirituale che lega noi credenti con i Santi e i Beati il cui numero è incalcolabile (cfr. Ap 7, 4). La loro santità viene in aiuto alla nostra fragilità, e così la Madre Chiesa è capace con la sua preghiera e la sua vita di venire incontro alla debolezza di alcuni con la santità di altri. Vivere dunque l’indulgenza nell’Anno Santo significa accostarsi alla misericordia del Padre con la certezza che il suo perdono si estende su tutta la vita del credente. Indulgenza è sperimentare la santità della Chiesa che partecipa a tutti i benefici della redenzione di Cristo, perché il perdono sia esteso fino alle estreme conseguenze a cui giunge l’amore di Dio. Viviamo intensamente il Giubileo chiedendo al Padre il perdono dei peccati e l’estensione della sua indulgenza misericordiosa. 23. La misericordia possiede una valenza che va oltre i confini della Chiesa. Essa ci relaziona all’Ebraismo e all’Islam, che la considerano uno degli attributi più qualificanti di Dio. Israele per primo ha ricevuto questa rivelazione, che permane nella storia come inizio di una ricchezza incommensurabile da offrire all’intera umanità. Come abbiamo visto, le pagine dell’Antico Testamento sono intrise di misericordia, perché narrano le opere che il Si- gnore ha compiuto a favore del suo popolo nei momenti più difficili della sua storia. L’Islam, da parte sua, tra i nomi attribuiti al Creatore pone quello di Misericordioso e Clemente. Questa invocazione è spesso sulle labbra dei fedeli musulmani, che si sentono accompagnati e sostenuti dalla misericordia nella loro quotidiana debolezza. Anch’essi credono che nessuno può limitare la misericordia divina perché le sue porte sono sempre aperte. Questo Anno Giubilare vissuto nella misericordia possa favorire l’incontro con queste religioni e con le altre nobili tradizioni religiose; ci renda più aperti al dialogo per meglio conoscerci e comprenderci; elimini ogni forma di chiusura e di disprezzo ed espella ogni forma di violenza e di discriminazione. 24. Il pensiero ora si volge alla Madre della Misericordia. La dolcezza del suo sguardo ci accompagni in questo Anno Santo, perché tutti possiamo riscoprire la gioia della tenerezza di Dio. Nessuno come Maria ha conosciuto la profondità del mistero di Dio fatto uomo. Tutto nella sua vita è stato plasmato dalla presenza della misericordia fatta carne. La Madre del Crocifisso Risorto è entrata nel santuario della misericordia divina perché ha partecipato intimamente al mistero del suo amore. Scelta per essere la Madre del Figlio di Dio, Maria è stata da sempre preparata dall’amore del Padre per essere Arca dell’Alleanza tra Dio e gli uomini. Ha custodito nel suo cuore la divina misericordia in perfetta sintonia con il suo Figlio Gesù. Il suo canto di lode, sulla soglia della casa di Elisabetta, fu dedicato alla misericordia che si estende «di generazione in generazione» (Lc 1, 50). Anche noi eravamo presenti in quelle parole profetiche della Vergine Maria. Questo ci sarà di conforto e di sostegno mentre attraverseremo la Porta Santa per sperimentare i frutti della misericordia divina. Presso la croce, Maria insieme a Giovanni, il discepolo dell’amore, è testimone delle parole di perdono che escono dalle labbra di Gesù. Il perdono supremo offerto a chi lo ha crocifisso ci mostra fin dove può arrivare la misericordia di Dio. Maria attesta che la misericordia del Figlio di Dio non conosce confini e raggiunge tutti senza escludere nessuno. Rivolgiamo a lei la preghiera antica e sempre nuova della Salve Regina, perché non si stanchi mai di rivolgere a noi i suoi occhi misericordiosi e ci renda degni di contemplare il volto della misericordia, suo Figlio Gesù. La nostra preghiera si estenda anche ai tanti Santi e Beati che hanno fatto della misericordia la loro missione di vita. In particolare il pensiero è rivolto alla grande apostola della misericordia, santa Faustina Kowalska. Lei, che fu chiamata ad entrare nelle profondità della divina misericordia, interceda per noi e ci ottenga di vivere e camminare sempre nel perdono di Dio e nell’incrollabile fiducia nel suo amore. 25. Un Anno Santo straordinario, dunque, per vivere nella vita di ogni giorno la misericordia che da sempre il Padre estende verso di noi. In questo Giubileo lasciamoci sorprendere da Dio. Lui non si stanca mai di spalancare la porta del suo cuore per ripetere che ci ama e vuole condividere con noi la sua vita. La Chiesa sente in maniera forte l’urgenza di annunciare la misericordia di Dio. La sua vita è autentica e credibile quando fa della misericordia il suo annuncio convinto. Essa sa che il suo primo compito, soprattutto in un momento come il nostro colmo di grandi speranze e forti contraddizioni, è quello di introdurre tutti nel grande mistero della misericordia di Dio, contemplando il volto di Cristo. La Chiesa è chiamata per prima ad essere testimone veritiera della misericordia professandola e vivendola come il centro della Rivelazione di Gesù Cristo. Dal cuore della Trinità, dall’intimo più profondo del mistero di Dio, sgorga e scorre senza sosta il grande fiume della misericordia. Questa fonte non potrà mai esaurirsi, per quanti siano quelli che vi si accostano. Ogni volta che ognuno ne avrà bisogno, potrà accedere ad essa, perché la misericordia di Dio è senza fine. Tanto è imperscrutabile la profondità del mistero che racchiude, tanto è inesauribile la ricchezza che da essa proviene. In questo Anno Giubilare la Chiesa si faccia eco della Parola di Dio che risuona forte e convincente come una parola e un gesto di perdono, di sostegno, di aiuto, di amore. Non si stanchi mai di offrire misericordia e sia sempre paziente nel confortare e perdonare. La Chiesa si faccia voce di ogni uomo e ogni donna e ripeta con fiducia e senza sosta: «Ricordati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre» (Sal 25, 6). Dato a Roma, presso San Pietro, l’11 aprile, Vigilia della II D omenica di Pasqua o della Divina Misericordia, dell’Anno del Signore 2015, terzo di pontificato. 1 Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 4. 2 Discorso di apertura del Conc. Ecum. Vat. II, Gaudet Mater Ecclesia, 11 ottobre 1962, 2-3. 3 Allocuzione nell’ultima sessione pubblica, 7 dicembre 1965. 4 Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Lumen Gentium, 16; Cost. past. Gaudium et spes, 15. 5 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 30, a. 4. 6 XXVI Domenica del Tempo Ordinario. Questa colletta appare già, nell’VIII secolo, tra i testi eucologici del Sacramentario Gelasiano (1198). 7 Cfr. Om. 21: CCL 122, 149-151. 8 Esort. ap. Evangelii gaudium, 24. 9 N. 2. 10 GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Dives in misericordia, 15. 11 Ibid., 13. 12 Parole di luce e di amore, 57. 13 Enarr. in Ps. 76, 11. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 16 giovedì 16 aprile 2015, numero 16 Messe a Santa Marta Il coraggio della franchezza Lunedì 13 aprile Solo lo Spirito Santo ci dà la «forza di annunziare Gesù Cristo fino alla testimonianza finale». E lo Spirito «viene da qualsiasi parte, come il vento». Nell’omelia della messa celebrata lunedì 13 aprile a Santa Marta, Papa Francesco ha affrontato il tema del «coraggio cristiano» che è una «grazia che dà lo Spirito Santo». Punto di partenza della sua riflessione è stato un brano degli Atti degli apostoli (4, 23-31). Si tratta della parte finale di un lungo racconto «che incomincia con un miracolo che fanno Pietro e Giovanni: la guarigione di quello storpio che era alla porta bella del tempio, chiedendo elemosina». Il Papa ha richiamato l’intero episodio e ha ricordato che Pietro guardò lo storpio «e gli disse: “Oro né argento ho, ma quello che ho ti do: alzati e cammina”». L’uomo guarì. La gente che vide si stupì «e lodava Dio». Allora «Pietro profittò per annunciare il Vangelo, per annunciare la buona notizia di Gesù Cristo: per annunciare Gesù Cristo». A quel punto, ha spiegato Francesco, i sacerdoti si trovarono in difficoltà: inviarono «alcuni a prendere Pietro e Giovanni», i quali si mostrarono come «gente semplice, senza istruzione». I due apostoli «sono rimasti in carcere, quella sera». Il giorno seguente i sacerdoti decisero «di proibirgli di parlare in nome di Gesù, di predicare questa dottrina». Ma loro «continuarono»; anzi Pietro — che «era quello che portava la voce dei due» — affermò: «Se sia giusto obbedire a voi invece che a Dio: noi obbediamo a Dio!». E aggiunse «quella parola che abbiamo sentito tante volte: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». Da qui il Pontefice ha ripreso il brano proposto dalla liturgia del giorno, dove si legge che i due, «rimessi in libertà», andarono a riferire alla comunità «quanto avevano detto loro i capi dei sacerdoti e gli anziani», e che tutti, a quelle parole, «insieme innalzarono la loro voce a Dio e incominciarono a pregare», ripercorrendo le tappe della storia della salvezza fino a Gesù. E «quando ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza». Proprio su quest’ultima parola — “franchezza” — si è soffermato il Pontefice rilevando come in quella preghiera comune si legga: «“E ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi” non di fuggire: “di proclamare con tutta franchezza la tua parola”». Qui emerge l’indicazione per ogni cristiano: «Possiamo dire», ha sottolineato Francesco, che «anche oggi il messaggio della Chiesa è il messaggio del cammino della franchezza, del cammino del coraggio cristiano». Quella parola infatti, ha spiegato, «si può tradurre “coraggio”, “franchezza”, “libertà di parlare”, “non avere paura di dire le cose”». È la “parresìa”. I due apostoli «dal timo- re sono passati alla franchezza, a dire le cose, con libertà». Il cerchio della riflessione del Papa si è chiuso con la rilettura del brano del Vangelo di Giovanni (3, 18), ovvero del «dialogo un po’ misterioso fra Gesù e Nicodemo, sulla “seconda nascita”». È a questo punto che il Pontefice si è chiesto: «In tutta questa storia, chi è il vero protagonista? In questo itinerario della franchezza, chi è il vero protagonista? Pietro, Giovanni, lo storpio guarito, la gente che sentiva, i sacerdoti, i soldati? Nicodemo, Gesù?». E la risposta è stata: «Il vero protagonista è proprio lo Spirito Santo. Perché è lui l’unico capace di darci questa grazia del coraggio di annunciare Gesù Cristo». È il «coraggio dell’annuncio» ciò che «ci distingue dal semplice proselitismo». Ha spiegato il Papa: «Noi non facciamo pubblicità» per avere «più “soci” nella nostra “società spirituale”». Questo «non serve, non è cristiano». Invece «quello che il cristiano fa è annunziare con coraggio; e l’annuncio di Gesù Cristo provoca, mediante lo Spirito Santo, quello stupore che ci fa andare avanti». Perciò «il vero protagonista di tutto questo è lo Spirito Santo», a tal punto che — come si legge negli Atti degli apostoli — quando i discepoli ebbero terminato la preghiera il luogo in cui erano tremò e tutti furono colmi di Spirito. È stato, ha detto Francesco, «come una nuova Pentecoste». Lo Spirito Santo è quindi il protagonista, tant’è vero che Gesù dice a Nicodemo che si può nascere di nuovo ma che «il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va. Così è chiunque è nato dallo Spirito Santo». Perciò, ha spiegato il Pontefice, «è proprio lo Spirito che ci cambia, che viene da qualsiasi parte, come il vento». E ancora: «soltanto lo Spirito è capace di cambiarci l’atteggiamento, di cambiare noi, di cambiare l’atteggiamento, di cambiare la storia della nostra vita, cambiare la nostra appartenenza, pure». Ed è lo stesso Spirito che diede la forza ai due apostoli, «uomini semplici e senza istruzione», di «annunziare Gesù Cristo fino alla testimonianza finale: il martirio». Ecco allora l’insegnamento per ogni credente: «il cammino del coraggio cristiano è una grazia che dà lo Spirito Santo». Ci sono infatti «tante strade che possiamo prendere, anche che ci danno un certo coraggio», per le quali si può dire: «Ma guarda che coraggioso, la decisione che ha preso!». Però tutto questo «è strumento di un’altra cosa più grande: lo Spirito». E «se non c’è lo Spirito, noi possiamo fare tante cose, tanto lavoro, ma non serve a niente». Per questo, ha concluso il Papa, dopo il giorno di Pasqua, «che è durato otto giorni», la Chiesa «ci prepara a ricevere lo Spirito Santo». Ora, «nella celebrazione del mistero della morte e della resurrezione di Gesù, possiamo ricordare tutta la storia di salvezza», che è anche «la nostra propria storia di salvezza», e possiamo «chiedere la grazia di ricevere lo Spirito perché ci dia il vero coraggio per annunciare Gesù Cristo». Udienza al presidente della Repubblica Slovacca Ricevuto il presidente della Repubblica di Georgia Nella mattina di giovedì 9 aprile, Papa Francesco ha ricevuto in udienza, nel Palazzo apostolico, il presidente della Repubblica Slovacca, Andrej Kiska, il quale ha successivamente avuto un incontro in Segreteria di Stato, con monsignor Antoine Camilleri, sotto-segretario per i rapporti con gli Stati. Durante i cordiali colloqui, svoltisi nella ricorrenza del venticinquesimo anniversario della ripresa delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’allora Repubblica federativa Ceca e Slovacca, avvenuta il 19 aprile 1990 e seguita dal viaggio di Giovanni Paolo II nel Paese, è stato espresso vivo compiacimento per i buoni rapporti bilaterali, suggellati dagli Accordi in vigore e dal dialogo proficuo tra la Chiesa e le autorità civili. Nel prosieguo della conversazione, ci si è soffermati sull’attuale contesto internazionale, con particolare attenzione alle sfide che interessano alcune aree del mondo, specialmente il Medio oriente, e all’importanza della tutela della dignità della persona umana. Nella mattinata di venerdì 10 aprile, Papa Francesco ha ricevuto in udienza il presidente della Repubblica di Georgia, Giorgi Margvelashvili, il quale ha successivamente avuto un incontro in Segreteria di Stato con monsignor Antoine Camilleri, sotto-segretario per i rapporti con gli Stati. I cordiali colloqui hanno permesso di apprezzare gli sviluppi delle relazioni bilaterali e di approfondire alcune tematiche di interesse comune, con particolare riferimento al positivo contributo della locale comunità cattolica nell’ambito dell’attività caritativa e dell’educazione. Nel prosieguo della conversazione, ci si è soffermati con preoccupazione sulle tensioni che interessano la regione e, nel rilevare l’importanza del pieno rispetto della legalità internazionale, è stato espresso l’auspicio che ogni soluzione sia ricercata attraverso il negoziato pacifico tra le Parti interessate. Infine, non si è mancato di far cenno a quanto è stato recentemente compiuto dalla Georgia circa il proprio ruolo nel continente europeo. numero 16, giovedì 16 aprile 2015 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 17 Armonia, povertà, pazienza Martedì 14 aprile Tre grazie da chiedere per le comunità cristiane: l’armonia, la povertà e la pazienza. Continuando la riflessione sul racconto del colloquio notturno tra Gesù e Nicodemo — al centro della liturgia della parola — Papa Francesco ha dedicato l’omelia della messa celebrata a Santa Marta martedì 14 aprile al tema della «rinascita», che per la Chiesa significa «rinascere nello Spirito». Il vescovo di Roma si è riallacciato alle letture del giorno precedente, ricordando che esse invitavano a «riflettere su una delle tante trasformazioni» che lo Spirito opera: quella di dare «coraggio», trasformando l’uomo «da codardo e timoroso» a «coraggioso, con un coraggio forte per annunciare Gesù, senza paura». Dalla singola persona il Papa è passato a considerare «cosa fa lo Spirito in una comunità». Rileggendo il brano degli Atti degli apostoli (4, 32-37) che descrive le prime comunità cristiane, sembra quasi di trovarsi di fronte a una descrizione di un mondo ideale: «Tutti erano amici, tutti mettevano tutto in comune, nessuno litigava». Un racconto, ha spiegato Francesco, che «è come un riassunto, come se la vita si fermasse un po’ e lo Spirito di Dio ci facesse intravedere cosa potrebbe fare in una comunità, come si potrebbe trasformare una comunità: una comunità diocesana, una comunità parrocchiale, religiosa, una comunità famigliare». In questa descrizione il Pontefice ha evidenziato due segni caratteristici della «rinascita in una comunità». Innanzitutto l’armonia: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola». Chi rinasce dallo Spirito, cioè, ha la «grazia dell’unità, dell’armonia». Lo Spirito Santo, infatti, è «l’unico che può darci l’armonia» perché «lui anche è l’armonia fra il Padre e il Figlio». C’è poi un secondo segno, ed è quello del «bene Henry Ossawa Tanner, «Studio per Gesù e Nicodemo» (1899) comune». Si legge nella scrittura: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso, nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva». A questo punto il Papa ha sottolineato come questi due aspetti siano solo «un passo» nel cammino della comunità rinata. Questa infatti comincia a vivere anche dei «problemi». Ad esempio c’è il caso «del matrimonio di Anania e Saffira», i quali, entrati nella comunità, «hanno cercato di truffare la comunità». Un’esperienza negativa che si può ricondurre ai nostri giorni: è simile, ha spiegato Francesco, ai «padroni dei benefattori che si avvicinano alla Chiesa, entrano per aiutarla e usare la Chiesa per i propri affari». Vi sono, poi, anche «le persecuzioni» che, del resto, erano state «annun- Le credenziali dell’ambasciatore d’Italia ciate da Gesù»: a questo riguardo il Pontefice ha richiamato «l’ultima delle beatitudini di Matteo: “Beati quando vi insulteranno, vi perseguiteranno a causa di me... Rallegratevi”». E ha ricordato anche che Gesù «promette tante cose belle, la pace, l’abbondanza: “Avrete cento volte in più con le persecuzioni”». Tutto questo si ritrova «nella prima comunità rinata dallo Spirito Santo», alla quale Pietro spiega: «Fratelli non meravigliatevi di queste persecuzioni, questo incendio che è scoppiato fra voi». Nell’«immagine dell’incendio», ha chiosato il Pontefice, ritroviamo quella del «fuoco che purifica l’oro», ovvero: l’«oro di una comunità rinata dallo Spirito Santo viene purificato delle difficoltà, delle persecuzioni». È a questo punto che il Papa ha introdotto un terzo elemento importante, ricordando il «consiglio di Gesù» dato a chi si trova «in mezzo alle difficoltà, alle persecuzioni: “Abbiate pazienza, perché con la pazienza salverete le vostre vite, le vostre anime”». Occorre cioè «la pazienza nel sopportare: sopportare i problemi, sopportare le difficoltà, sopportare le maldicenze, le calunnie, sopportare le malattie, sopportare il dolore della perdita di un figlio di una moglie, di un marito, di una mamma, di un papà... la pazienza». Ecco quindi i tre elementi: una comunità cristiana «fa vedere che è rinata nello Spirito Santo, quando è una comunità che cerca l’armonia» e non la divisione interna, «quando cerca la povertà», e «non l’accumulo di ricchezze — le ricchezze, infatti, «sono per il servizio» — e quando ha pazienza, cioè quando «non si arrabbia subito davanti alle difficoltà e si sente offesa», perché «il servo di Jahvè, Gesù, è paziente». Alla luce di quanto detto, il Papa ha concluso la sua riflessione esortando tutti, «in questa seconda settimana di Pasqua» durante la quale si celebrano i misteri pasquali, a «pensare alle nostre comunità», siano esse diocesane, parrocchiali, famigliari o di altro tipo, per chiedere tre grazie: quella «dell’armonia, che è più dell’unità», quella «della povertà» — che non significa «della miseria»: infatti, ha specificato Francesco, chi ha qualche possesso «devo gestirlo bene per il bene comune e con generosità» — e infine quella «della pazienza». Dobbiamo infatti capire che non soltanto «ognuno di noi» ha ricevuto la grazia di «rinascere nello Spirito», ma che questa grazia è anche per «le nostre comunità». Per l’account @Pontifex su Twitter Venti milioni di follower Nella mattina di sabato 11 aprile, Papa Francesco ha ricevuto in udienza sua eccellenza il signor Daniele Mancini, nuovo ambasciatore d’Italia per la presentazione delle lettere con cui viene accreditato presso la Santa Sede. @Pontifex ha superato i venti milioni di follower. L’account con cui il Papa è presente su Twitter ha raggiunto il significativo traguardo domenica 12 aprile, verso le 17.30. La cifra record è il risultato della somma di quanti seguono i “cinguettii” di Francesco in nove differenti lingue: spagnolo, con oltre otto milioni e mezzo di seguaci; inglese, quasi sei milioni; italiano, oltre due milioni e mezzo; portoghese, circa un milione e mezzo; polacco, più di quattrocentomila; francese, 364.000; latino, 340.000; tedesco, 257.000; e arabo, 196.000. Creato nel dicembre 2012, @Pontifex aveva superato i dieci milioni di follower nell’ottobre 2013. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 18 Per riflettere sulla Scrittura NOSTRE INFORMAZIONI Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Ambatondrazaka (Madagascar), presentata da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Antoine Scopelliti, O.SS.T., in conformità al canone 401 § 1 del Codice di Diritto Canonico. Provvista di Chiesa Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Ambatondrazaka (Madagascar) Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Jean de Dieu Raoelison, finora Vescovo titolare di Corniculana e Ausiliare di Antananarivo. «The good Shepherd» (arte africana) Domenica 26 aprile, IV di Pasqua Solo per amore di LEONARD O SAPIENZA Oggi, domenica del buon pastore, Gesù si presenta come il pastore perfetto, il modello dei pastori. Il pastore al quale importa delle pecore a lui affidate. Dire a qualcuno “tu mi importi”, significa dirgli “ti amo”. Tu sei importante per me! E per te sono disposto a dare la vita. Gesù lo ripete ben cinque volte. Ricordandoci che «più si dona il proprio cuore, meno ci si impoverisce» (Vladimir Ghika). Ma questo ideale è alto. Troppo alto. Cosa fare? Lo eliminiamo perché non riusciamo a raggiungerlo? Ma l’uomo è nato per fare cose grandi. Per essere un campione, cioè un santo. Bisogna puntare in alto. Non è il celibato a scoraggiare quanti vogliono scegliere di seguire la vocazione sacerdotale o religiosa. Così come non è il vincolo matrimoniale a rovinare la relazione tra due innamorati. È questione di amore. L’amore basta a se stesso. Solo chi ama è felice e sa donare gioia. L’amore vero pretende di essere totale. Si diventa pastori, sull’esempio di Gesù, solo perché si è innamorati di Dio e delle anime. Ma Gesù parla di “mercenari”, gente a cui non importa delle pecore. Le cronache ci hanno raccontato più volte Atti 4, 8-12: In nessun altro di scandali a causa di sacerdoti indegni. Che hanno tra- c’è salvezza. dito il patto di amore. Ma Salmo 117: La pietra scartata questo fango non basta ad dai costruttori è diventata offuscare la bellezza della pietra d’angolo. vocazione sacerdotale. Come 1 Giovanni 3, 1-2: Vedremo il naufragio dell’amore in Dio così come egli è. qualche famiglia non può far Giovanni 10, 11-18: Il buon diminuire l’ideale dell’amore pastore dà la propria vita tra gli sposi. per le pecore. C’è bisogno della preghiera di tutti, perché chi ha volontariamente e generosamente deciso di servire Cristo, non perda di vista l’ideale, nonostante debolezze e difficoltà. C’è bisogno della preghiera, perché meritiamo vocazioni che siano solamente e totalmente innamorate di Cristo e della Chiesa. Che scelgano di servire per amore, solo per amore. Nell’invitarvi ad essere vicini a tutti i sacerdoti con la vostra preghiera, vi leggo una pagina che faccio totalmente mia. La rileggo nei momenti di stanchezza. È la predica di padre Felice nel capitolo 36 dei Promessi sposi. «Per me, e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servire Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempiuto un sì grande ministero. Se la pigrizia, l’indocilità della carne ci ha reso meno attenti alle vostre necessità, meno pronti alle vostre chiamate; se una ingiusta impazienza, se un colpevole tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta quell’umiltà che si conveniva, se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandalo; perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi benedica!» (Alessandro Manzoni). giovedì 16 aprile 2015, numero 16 Nomina di Vescovo Ausiliare Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare di Mendoza (Argentina) il Reverendo Dante Gustavo Braida, Vicario Generale della Diocesi di Reconquista, assegnandogli la sede titolare di Tanudaia. (11 aprile 2015) Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’Arcidiocesi di Taunggyi (Myanmar), presentata da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Matthias U Shwe, in conformità al canone 401 § 2 del Codice di Diritto Canonico, e ha nominato Amministratore Apostolico sede vacante et ad nutum Sanctae Sedis di Taunggyi Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Basilio Athai, Vescovo Ausiliare della medesima Arcidiocesi. (12 aprile 2015) Il Santo Padre ha annoverato tra i Membri dei Dicasteri della Curia Romana i seguenti Eminentissimi Signori Cardinali, creati e pubblicati nel Concistoro del 14 febbraio 2015: 1) nel Consiglio di Cardinali e Vescovi della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato l’Eminentissimo Signor Cardinale Dominique Mamberti, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica; 2) nella Congregazione per la Dottrina della Fede l’Eminentissimo Signor Cardinale Ricardo Blázquez Pérez, Arcivescovo di Valladolid (Spagna); 3) nella Congregazione per le Chiese Orientali gli Eminentissimi Signori Cardinali: Berhaneyesus Demerew Souraphiel, Arcivescovo di Addis Abeba (Etiopia); Edoardo Menichelli, Arcivescovo di Ancona-Osimo (Italia); 4) nella Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti l’Eminentissimo Signor Cardinale Dominique Mamberti, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica; 5) nella Congregazione delle Cause dei Santi l’Eminentissimo Signor Cardinale Dominique Mamberti, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica; 6) nella Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli gli Eminentissimi Signori Cardinali: John Atcherley Dew, Arcivescovo di Wellington (Nuova Zelanda); Pierre Nguyên Văn Nhon, Arcivescovo di Hà Nôi (Viêt Nam); Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, Arcivescovo di Bangkok (Thailandia); Arlindo Gomes Furtado, Vescovo di Santiago de Cabo Verde (Capo Verde); Soane Patita Paini Mafi, Vescovo di Tonga (Tonga); 7) nella Congregazione per il Clero gli Eminentissimi Signori Cardinali: Manuel José Macário do Nascimento Clemente, Patriarca di Lisboa (Portogallo); Alberto Suárez Inda, Arcivescovo di Morelia (Messico); 8) nella Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica gli Eminentissimi Signori Cardinali: Charles Maung Bo, Arcivescovo di Yangon (Myanmar); Daniel Fernando Sturla Berhouet, Arcivescovo di Montevideo (Uruguay); 9) nella Congregazione per l’Educazione Cattolica l’Eminentissimo Signor Cardinale José Luis Lacunza Maestrojuán, Vescovo di David (Panamá); 10) nel Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani l’Eminentissimo Signor Cardinale John Atcherley Dew, Arcivescovo di Wellington (Nuova Zelanda); 11) nel Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace gli Eminentissimi Signori Cardinali: Pierre Nguyên Văn Nhon, Arcivescovo di Hà Nôi (Viêt Nam); Alberto Suárez Inda, Arcivescovo di Morelia (Messico); 12) nel Pontificio Consiglio «Cor Unum» gli Eminentissimi Signori Cardinali: Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento (Italia); Arlindo Gomes Furtado, Vescovo di Santiago de Cabo Verde (Capo Verde); Soane Patita Paini Mafi, Vescovo di Tonga (Tonga); 13) nel Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti gli Eminentissimi Signori Cardinali: Berhaneyesus Demerew Souraphiel, Arcivescovo di Addis Abeba (Etiopia); Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento (Italia); 14) nel Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari l’Eminentissimo Signor Cardinale Edoardo Menichelli, Arcivescovo di Ancona-Osimo (Italia); 15) nel Pontificio Consiglio della Cultura gli Eminentissimi Signori Cardinali: Charles Maung Bo, Arcivescovo di Yangon (Myanmar); Ricardo Blázquez Pérez, Arcivescovo di Valladolid (Spagna); José Luis Lacunza Maestrojuán, Vescovo di David (Panamá); 16) nel Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali gli Eminentissimi Signori Cardinali: Manuel José Macário do Nascimento Clemente, Patriarca di Lisboa (Portogallo); Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, Arcivescovo di Bangkok (Thailandia); 17) nel Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione l’Eminentissimo Signor Cardinale Daniel Fernando Sturla Berhouet, Arcivescovo di Montevideo (Uruguay). Il Santo Padre ha nominato Nunzio Apostolico in Madagascar il Reverendo Monsignore Paolo Rocco Gualtieri, Consigliere di Nunziatura, elevandolo in pari tempo alla sede titolare di Sagona, con dignità di Arcivescovo. Nomina di Visitatore Apostolico Il Santo Padre ha nominato Visitatore Apostolico per i fedeli maroniti in Bulgaria, Grecia e Romania Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor François Eid, Vescovo emerito del Cairo dei Maroniti e Procuratore del Patriarca Maronita presso la Santa Sede. (13 aprile 2015) Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’Arcieparchia di Petra e Filadelfia dei Greco-Melkiti (Giordania), presentata da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Yasser Rasmi Hanna AlAyyash, in conformità al canone 210 § 1 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. Il Santo Padre ha nominato Segretario della Sezione Amministrativa della Segreteria per l’Economia il Reverendo Monsignore CONTINUA A PAGINA 19 L’OSSERVATORE ROMANO numero 16, giovedì 16 aprile 2015 pagina 19 Cordoglio del Pontefice per la morte del cardinale Tucci I lavori del Consiglio di cardinali È morto a Roma martedì sera, 14 aprile, dopo una lunga malattia, il cardinale gesuita Roberto Tucci, per molti anni direttore della «Civiltà Cattolica» e della Radio Vaticana e organizzatore dei viaggi di Giovanni Paolo II. Il porporato italiano, che avrebbe compiuto 94 anni domenica prossima, era stato ricoverato alcune settimane fa nella clinica romana Pio XI per problemi respiratori. Il decesso è avvenuto verso le 21.40 nell’infermeria della comunità gesuita di via dei Penitenzieri. Nato a Napoli il 19 aprile 1921, era stato ordinato sacerdote il 24 agosto 1950. Nel concistoro del 21 febbraio 2001 Papa Wojtyła lo aveva creato cardinale diacono di Sant’Ignazio di Loyola a Campo Marzio. Esattamente dieci anni dopo, il 21 febbraio 2011, aveva optato per l’ordine dei preti, mantenendo la stessa diaconia, elevata pro hac vice a titolo presbiterale. Venerdì pomeriggio, 17 aprile, nella basilica vaticana le esequie celebrate dal cardinale decano, con il rito dell’Ultima commendatio e della valedictio presieduto dal Papa. Il quale, appresa la notizia, ha inviato un telegramma di cordoglio al preposito generale della Compagnia di Gesù. Ho appreso la notizia della dipartita del venerato cardinale Roberto Tucci, membro della Compagnia di Gesù e desidero esprimere sentimenti di vivo cordoglio a lei, all’intero istituto, ai familiari e a quanti hanno conosciuto e stimato il compianto porporato. Ricordo con animo grato la preziosa collaborazione da lui prestata per tanti decenni alla Santa Sede come direttore della «Civiltà Cattolica», perito al concilio Vaticano secondo, direttore generale della Radio Vaticana e specialmente come organizzatore delle visite papali fuori d’Italia. Egli lascia il ricordo di una vita operosa e dinamica, spesa nell’adesione coerente e generosa alla propria vocazione quale religioso attento alle necessità degli altri e pastore fedele al Vangelo e alla Chiesa, sull’esempio di sant’Ignazio. Innalzo fervide preghiere di suffragio perché il Signore lo accolga nel gaudio e nella pace eterna, ed invio a lei e ai confratelli gesuiti la confortatrice Nostre Informazioni di FERDINAND O CANCELLI i entra nello spazio silenzioso con qualche esitazione dopo aver oltrepassato il portone di legno sormontato dalle antiche insegne tra cui spicca il corvo di Riccardo II e Guglielmo V di Corbières che sono per sempre legati, con Gerardo I, alla fondazione della certosa nel 1295. Uno spazio dopo l’altro, un silenzio dopo S Provvista di Chiesa Nomina di Vescovo Ausiliare Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Belo Horizonte (Brasile) il Reverendo Edson José Oriolo dos Santos, finora Parroco della Cattedrale di Pouso Alegre, assegnandogli la Sede titolare di Segia. (15 aprile 2015) PP. Analogo telegramma è stato inviato dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin. Tra i monaci Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Taubaté (Brasile), presentata da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Carmo João Rhoden, S.C.I., in conformità al canone 401 § 1 del Codice di Diritto Canonico. Il Santo Padre ha nominato Vescovo della Diocesi di Taubaté (Brasile) Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Wilson Luís Angotti Filho, finora Vescovo titolare di Tabe e Ausiliare dell’Arcidiocesi di Belo Horizonte. FRANCISCUS In memoria di Charles Journet DA PAGINA 18 Luigi Mistò, finora Segretario dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. In pari tempo, Sua Santità ha nominato Segretario della medesima Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica il Reverendo Monsignore Mauro Rivella. (14 aprile 2015) Benedizione apostolica, segno della mia intensa partecipazione alla comune mestizia. l’altro, la luce del sole che gioca con le ombre di ambienti vastissimi: seguo il priore che mi spiega con poche parole la struttura dell’ultimo monastero certosino attivo in Svizzera, la Valsainte. «Vuole vedere dove riposa il cardinale Journet?» mi chiede con un sorriso leggero. Valichiamo anche l’ultimo portoncino e penetriamo nel cuore più intimo di questo scrigno di preghiere, ci accoglie una piccola selva di croci di legno scuro che sembrano più sbocciate che infisse nel verde incolto del prato. «Ecco, è questa» mi dice il priore. Ci raccogliamo insieme in preghiera per qualche minuto in compagnia di un vento leggero che qui nella Gruyère mi dicono annunciare il bel tempo. La croce del cardinale è uguale alle altre, introvabile se non ne si conosce con esattezza la posizione. Era il 18 aprile di quarant’anni fa: il cardinale Charles Journet, uno dei teologi più noti del suo tempo, aveva scelto di riposare tra i monaci che aveva tanto amato e questi lo avevano accolto col loro stile sobrio ed essenziale, gli avevano promesso un pezzettino di quella terra nella quale riposano molti di loro in attesa del giorno glorioso per il quale hanno speso e ancor oggi spendono la loro vita. Da dove ricavava la sua energia quest’uomo dal volto allegro e ascetico che tanto affascinava i seminaristi del suo tempo con le sue splendide lezioni di ecclesiologia? In che modo il fine teologo Journet riusciva a «divulgare e non volgarizzare» come soleva dire spesso, temi anche complessi? La lettura della corrispondenza con il filosofo Maritain, anch’egli regolare ospite alla certosa della Valsainte, ci aiuta a capirlo. La spiritualità certosina profonda, gioiosamente silenziosa e solidamente radicata in Dio sotto il costante sguardo di Maria è stata senza dubbio la chiave di volta di molte sue meditazioni. Quando si spense all’ospedale cantonale di Friburgo il 15 aprile 1975 i monaci mantennero la promessa e lo accolsero tra di loro. «Sono stato quattro giorni alla Valsainte — scriveva a Jacques Maritain il 4 agosto 1932 dal seminario di Friburgo —. È sempre la regola di San Bruno e il silenzio pieno di Dio». Quella regola e quel silenzio sono stati il suo motore più intimo e ancor oggi la figura del cardinale Charles Journet è vivissima tra i suoi amici monaci e tra coloro che pregano per la beatificazione di questo grande amico di Dio. La riforma dei media vaticani e la questione della responsabilità nella Chiesa in materia di abusi, sono due dei temi approfonditi nel corso della nona riunione di Papa Francesco con il Consiglio di cardinali, apertasi lunedì 13 aprile. In vista della conclusione dei lavori, nel pomeriggio di mercoledì 15, ne ha parlato il direttore della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, in un briefing con i giornalisti accreditati. Ricordando che a tutti gli incontri, tranne a quello di mercoledì mattina, è stato presente il Pontefice, Lombardi ha sottolineato che per la maggior parte del tempo i porporati si sono occupati del tema generale della riforma della Curia romana, soffermandosi su considerazioni metodologiche, per poter pervenire entro il 2016 a un punto significativo nella preparazione della nuova costituzione apostolica. Quindi ha riferito che uno spazio consistente è stato ritagliato per la rilettura, a cura del vescovo segretario, degli oltre sessanta interventi fatti durante il Concistoro del febbraio scorso. In particolare si è parlato di principi generali e del consolidamento della linea che conduce verso la nascita di due grandi dicasteri: uno per la carità, la giustizia e la pace; e uno per i laici, la famiglia e la vita. Successivamente il direttore della Sala stampa si è soffermato sulla riforma dei media. Concluso il lavoro del comitato referente, guidato nei mesi scorsi da lord Chris Patten, dovrebbe nascere ora una seconda commissione che definirà la ristrutturazione dell’apparato informativo. Base della riflessione sarà il rapporto finale che il comitato ha consegnato al Papa e ai suoi collaboratori, «nel quale c’è un piano ancora piuttosto ampio e generale, non con decisioni operative particolari», ha detto Lombardi. Di conseguenza è stato chiesto al Pontefice di nominare una commissione, incaricata di articolare e studiare bene i passi all’attuazione, la quale lavorerà in continuità con il comitato che ha preparato il rapporto. Quanto al tema della accountability, Lombardi ha riferito che è stato proposto alla discussione dal cardinale Sean O’Malley, arcivescovo di Boston e membro del Consiglio di cardinali, rispondendo a un’attesa della Pontificia commissione per la tutela dei minori, da lui presieduta. Si tratta di «come affrontare, con quali procedure e competenze, i casi non tanto di abuso, sul quale già ci sono le norme, ma i casi di abuso di ufficio, omissione, responsabilità, in particolare da parte di persone che abbiano responsabilità: sacerdoti, vescovi, superiori religiosi o altri», ha concluso il direttore della Sala stampa, puntualizzando che «non c’è un progetto preciso o un documento, ma il tema è stato posto esplicitamente sul tavolo e vi è l’intenzione di trovare le vie per procedere» in tale direzione. Fissato infine il calendario delle prossime riunioni, che si terranno dall’8 al 10 giugno, dal 14 al 16 settembre e dal 10 al 12 dicembre. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 20 giovedì 16 aprile 2015, numero 16 Ian McEwan e la crisi della secolarizzazione La vita degli altri di LUCETTA SCARAFFIA a crisi della secolarizzazione, che prende per molte persone la forma di un forte senso di solitudine e di una perdita di senso della vita, oggi è percepita e narrata — in certi casi quasi gridata — dalla letteratura. Mentre due scrittori francesi di grande successo — Michel L Sintesi della fede cristiana DA PAGINA 1 tenere vivo» il concilio, definito l’inizio di un nuovo percorso. Allora si avvertì «l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile», come già nel 1950 aveva detto Montini a Jean Guitton: «Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?». E dei Papi del concilio il loro successore ricorda nella bolla le parole che collocano il Vaticano II in questa chiave di lettura antica e sempre nuova: «Ora la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia» e così «mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati» disse Giovanni XXIII aprendo il Vaticano II. Concluso nel segno suggestivo dell’«antica storia del samaritano», presentata da Paolo VI come paradigma della sua spiritualità. A mezzo secolo dalla conclusione della più grande assemblea cristiana mai celebrata, Papa Francesco la ricorda come «nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre». E usa un’immagine che richiama il titolo (Abbattere i bastioni) e il senso di un piccolo libro di Hans Urs von Balthasar pubblicato nel 1952: «Abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo» e «testimoniare con più entusiasmo e coraggio» la fede in Cristo, unico Signore. Ecco allora il tempo favorevole per tornare all’essenziale e trasformare ogni comunità cristiana in «un’oasi di misericordia», sgretolando l’indifferenza, praticando le opere di misericordia corporale e spirituale, riscoprendo la bellezza della confessione e cambiando vita, aperti all’incontro con donne e uomini delle altre religioni. Come pellegrini in cammino verso la meta a cui ognuno, forse anche inconsapevolmente, aspira. Senza paura di farsi «sorprendere da Dio». g.m.v. Houellebecq ed Emmanuel Carrère — raccontano nella loro ultima opera due casi di ritorno alla fede cattolica falliti, lo scrittore inglese Ian McEwan urla — letteralmente — la sua angoscia in un bellissimo romanzo, La ballata di Adam Henry (Torino, Einaudi, 2014, pagine 208, euro 20). Il caso è quello classico, una questione biogiuridica di quelle che cominciano a ripresentarsi con sempre maggiore frequenza, e che impongono la scelta fra scienza e religione. Un ragazzo — ancora per poco minorenne — sta morendo di leucemia. Una trasfusione potrebbe salvargli la vita, permettendo la prosecuzione della terapia, ma i genitori la rifiutano per motivi religiosi. Chiamata a decidere della sorte del ragazzo, Adam, è una magistrata in carriera, tanto appassionata del suo lavoro da rinunciare alla maternità e trascurare il suo matrimonio. Il caso del ragazzo si snoda contemporaneamente alla crisi matrimoniale che lei sta vivendo, e che apre una crepa improvvisa nella sua tranquilla vita di donna benestante e affermata. Si svolge anche contemporaneamente alla sua normale attività di giudice che si occupa di diritto di famiglia, che vede sfilare davanti ai suoi occhi sempre più numerose crisi matrimoniali che la mettono di fronte «alla perversa assurdità delle coppie in fase di divorzio». La sua recente impressione era che le separazioni avessero registrato «un picco delle proporzioni di un’onda anoma- la, che aveva travolto intere famiglie, disperso proprietà e sogni luminosi, annegato chiunque non fosse provvisto di un poderoso istinto di sopravvivenza. Promesse d’amore abiurate o riscritte, compagni un tempo sereni che si trasformavano in astuti combattenti acquattati dietro i rispettivi avvocati, senza badare ai costi». Accanto a questa disfatta, il problema di Adam è la sua famiglia unita e amorosa, che aveva ritrovato un senso alla vita e al matrimonio grazie alla conversione a una setta religiosa, i Testimoni di Geova. Salvare la vita del giovane a tutti i costi significa, per il ragazzo e per i suoi familiari, mettere in dubbio questo forte riferimento esistenziale. Non si tratta di superstizione o tanto meno di circonvenzione da parte degli anziani della setta, ma della fedeltà a chi ha risposto a un bisogno profondo: questo la giudice lo capisce benissimo, e quindi le è chiaro che non bastano le ragioni scientifiche per trovare una sentenza che imponga di scardinare questa convinzione. Proprio per quello vuole incontrare personalmente il ragazzo, e si reca in ospedale, dove trova un punto di contatto profondo con lui — poeta e aspirante musicista — attraverso la musica e la poesia. Sono la musica, e le strofe cantate insieme, che rivelano al ragazzo stesso la sua voglia di vivere, e a lei la ragione per cui deve obbligarlo alla trasfusione. Edward Hopper, «Chair Car» (1965, particolare) Nell’inquietudine che lo insegue dopo la guarigione, Adam cercherà insistentemente delle risposte dalla giudice che, salvandolo, ai suoi occhi si è resa interamente responsabile della sua vita. La donna, pur affascinata dal giovane, che riapre nel suo cuore la ferita della maternità negata, fugge da questa responsabilità. Anche perché lei stessa non saprebbe quale risposta dare a una domanda di senso così esigente e profonda. Si tratta di un romanzo denso di spessore morale: da una parte, l’autore mette in luce il peso che porta chi prende importanti decisioni sulla vita degli altri, cioè decisioni nel campo della bioetica. Dall’altra, rivela il dramma di una società che sa solo distruggere la fede, ma poi non ha risposte da dare alle vere domande che l’esistere come esseri umani ci pone. Per educare alla pace Quei bambini di Tangeri di ZOUHIR LOUASSINI rano gli inizi degli anni Settanta in una Tangeri piena di vita e di speranza. Non avevo compiuto ancora otto anni. I ricordi di quel periodo mi arrivano annebbiati e confusi. Qualcosa, però, è tuttora chiarissima: le mie paure, che erano tante. Mi spaventava il buio, per esempio. Più tardi ho capito che non era certo, quella, una paura originale. E non era niente, se la paragono all’ansia che sentivo, allora, ogni volta che passavo vicino alla cattedrale. Mi toccava farlo quasi tutti i giorni perché si trovava sulla strada che mi portava a scuola. Lì i maestri di “educazione religiosa” mi insegnavano che i cristiani, in quanto infedeli, erano condannati all’inferno. La loro colpa? Aver “falsificato” le parole di Dio. Ricordo quanto fossi triste per il destino che aspettava i miei amici Jesús e Miguel, amichetti cristiani che vivevano vicino a casa mia, compagni quasi quotidiani dei miei giochi. Certo, mi consolavo con l’illusione che, crescendo, i due fratelli spagnoli sarebbero giunti anche loro — magari col mio aiuto — a conoscere la “verità”. E Tutti questi ricordi si sono ripresentati, vivissimi, davanti a un articolo di Hani Naqshabandi, pubblicato su «Elaph» il 7 aprile scorso. Le sue sono accuse chiarissime nei confronti di chi insegna l’odio nelle scuole usando la religione. Era ora! Quello che abbiamo visto a Garissa, in Kenya, dove centocinquanta ragazzi sono stati uccisi solo perché cristiani, è anche la conseguenza dell’educazione fornita nelle scuole. Basta leggere i programmi scolastici in quasi tutti i Paesi musulmani per rendersi conto che siamo davanti a un problema serio che bisogna affrontare, subito e con coraggio. Già da bambini i musulmani conoscono il cristianesimo solo dal punto di vista degli fuqaha, interpreti del Corano; e questi, come scrive Naqshabandi, «sanno del cristianesimo e delle altre religioni quello che sanno della teoria della relatività. Ossia nulla». Ma questo non ha loro impedito «di dirci che i cristiani sono degli infedeli e noi gli abbiamo creduto. Ci hanno detto che i cristiani sono il popolo dell’inferno, che il paradiso è monopolio nostro e noi li abbiamo assecondati. Ci hanno detto che i cristiani sono i nemici di Allah e dell’islam e noi abbiamo detto: “Che Dio li maledica”». Più chiaro di così! È vero anche che qualche Paese arabo musulmano ha avviato alcune riforme. I risultati però ci dimostrano che si è trattato di tentativi del tutto fallimentari. Il coraggio, oggi, sta nell’ammetterlo e nel cercare di affrontare subito le cause di tali fallimenti. Ed è ovvio che bisogna iniziare proprio dalla scuola, cambiando i programmi esistenti con altri che insegnino rispetto e stima verso le altre religioni. Bisogna farlo per il bene d’una grande fede come l’islam, che deve liberarsi dalle vere e proprie catene rappresentate da interpretazioni appartenenti ad altre epoche. Il poeta siriano Adonis, all’ultima Fiera del libro al Cairo, nel febbraio scorso, ha detto: «Non c’è un islam vero e un islam falso: ci sono soltanto musulmani moderati e musulmani estremisti, a seconda delle loro letture e interpretazioni del testo sacro. Ma l’islam è uno solo». Si parva licet componere magnis: anche in nome di quel bambino di Tangeri e dei suoi piccoli amici, tocca a noi, adesso, decidere con chi parlare e con chi costruire il futuro.
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