A new modernity is emerging, reconfigured to an age of globalisation – understood in its economic, political and cultural aspects: an altermodern culture. Increased communication, travel and migration are affecting the way we live. Our daily lives consist of journeys in a chaotic and teeming universe. Multiculturalism and identity is being overtaken by creolisation: Artists are now starting from a globalised state of culture. This new universalism is based on translations, subtitling and generalised dubbing. Today’s art explores the bonds that text and image, time and space, weave between themselves. Artists are responding to a new globalised perception. They traverse a cultural landscape saturated with signs and create new pathways between multiple formats of expression and communication. The Tate Triennial 2009 at Tate Britain presents a collective discussion around this premise that postmodernism is coming to an end, and we are experiencing the emergence of a global altermodernity. Travel, cultural exchanges and examination of history are not merely fashionable themes, but markers of a profound evolution in our vision of the world and our way of inhabiting it. More generally, our globalised perception calls for new types of representation: our daily lives are played out against a more enormous backdrop than ever before, and depend now on trans-national entities, short or long-distance journeys in a chaotic and teeming universe. Many signs suggest that the historical period defined by postmodernism is coming to an end: multiculturalism and the discourse of identity is being overtaken by a planetary movement of creolisation; cultural relativism and deconstruction, substituted for modernist universalism, give us no weapons against the twofold threat of uniformity and mass culture and traditionalist, far-right, withdrawal. The times seem propitious for the recomposition of a modernity in the present, reconfigured according to the specific context within which we live – crucially in the age of globalisation – understood in its economic, political and cultural aspects: an altermodernity. If twentieth-century modernism was above all a western cultural phenomenon, altermodernity arises out of planetary negotiations, discussions between agents from different cultures. Stripped of a centre, it can only be polyglot. Altermodernity is characterised by translation, unlike the modernism of the twentieth century which spoke the abstract language of the colonial west, and postmodernism, which encloses artistic phenomena in origins and identities. We are entering the era of universal subtitling, of generalised dubbing. Today’s art explores the bonds that text and image weave between themselves. Artists traverse a cultural landscape saturated with signs, creating new pathways between multiple formats of expression and communication. The artist becomes ‘homo viator’, the prototype of the contemporary traveller whose passage through signs and formats refers to a contemporary experience of mobility, travel and transpassing. This evolution can be seen in the way works are made: a new type of form is appearing, the journey-form, made of lines drawn both in space and time, materialising trajectories rather than destinations. The form of the work expresses a course, a wandering, rather than a fixed space-time. Altermodern art is thus read as a hypertext; artists translate and transcode information from one format to another, and wander in geography as well as in history. This gives rise to practices which might be referred to as ‘time-specific’, in response to the ‘sitespecific’ work of the 1960s. Flight-lines, translation programmes and chains of heterogeneous elements articulate each other. Our universe becomes a territory all dimensions of which may be travelled both in time and space. Il radicante Per un'estetica della globalizzazione Nicolas Bourriaud postmedia books Parte prima Altermodernità 23 ~ Radici. Critica della ragione postmoderna 43 ~ Radicali e radicanti 59 ~ Victor Segalen e il creolo del XXI secolo Parte seconda L'estetica radicante 79 ~ Precarietà estetica e forme erranti Senza forma fissa (materiali clochard) erranza urbana Coda: estetiche revocabili 115 ~ Forme-tragitto La forma-tragitto: spedizioni e parade Forma-tragitto 2: topologia Forma-tragitto 3: Biforcazioni temporali 143 ~ Transfert Traslazioni, transcodifiche, traduzioni La «condizione Forme tradotte postmediale» Parte terza Trattato di navigazione ~ Sotto la pioggia culturale 157 (Louis Althusser, Marcel Duchamp e l'uso delle forme artistiche) Appropriazione e neoliberismo Esempio n. 1: Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta (1913) Esempio n. 2: Marcel Duchamp, LHOOQ Esempio n. 3: Marcel Duchamp, il «readymade reciproco» L’interforma ~ Il collettivismo artistico e la produzione di percorsi 171 Arte globale o arte del capitalismo Arte d’appropriazione o comunismo formale Estetica della «replica»: la defeticizzazione dell’arte ~ Post-post, o i tempi altermoderni 189 introduzione Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino Sei mesi prima, esattamente il 18 maggio, veniva inaugurata la mostra Magiciens de la terre, con il sottotitolo «Prima esposizione mondiale d’arte contemporanea» perché riuniva gli artisti di tutti i continenti: così un artista concettuale americano fiancheggiava un sacerdote voodoo haitiano, un pittore d’insegne di Kinshasa esponeva accanto a grandi nomi dell’arte europea1. A partire da quel grande mixer che fu Magiciens de la terre si può datare l’ingresso ufficiale dell’arte in quello che ormai è il nostro mondo globalizzato e privo di «grandi narrazioni». Questa improvvisa irruzione di individui provenienti da paesi allora definiti «periferici» nella sfera contemporanea corrisponde alla nascita di quella tappa del capitalismo integrale che, vent’anni più tardi, prenderà il nome di globalizzazione. D’altronde, se quella mostra poteva alimentare una certa confusione tra le figure dell’artista, del sacerdote e dell’artigiano, va da sé che le forti polemiche che suscitò erano collegate al crollo dell’alternativa simbolica rappresentata dal mondo comunista. Con la fine del bipolarismo Usa-Urss era sopraggiunta anche la fine della storia: è almeno quel che sostenne il filosofo americano Francis Fukuyama in un testo che, pubblicato poco dopo l’apertura della cortina di ferro, ebbe un’enorme eco. Riaddormentatevi, soggetti del nuovo ordine mondiale... In ogni caso, divenne evidente che la Storia non era più il valore supremo che permetteva di ordinare e gerarchizzare i segni artistici. Fino ad allora, quella dell’arte del XX secolo si profilava come una successione di invenzioni formali, una sequela di avventure individuali e collettive che trasmettevano una nuova visione dell’arte. Ma quel tempo era finito e il pensiero postmoderno, comparso durante il decennio precedente, poteva infine trionfare. Noi facciamo parte della «post-Storia»: un’era di conquiste per l’economia capitalista ormai sovrana, ove è insediata una cultura libera dal presunto «terrore» diffuso dalle avanguardie. Il modernismo? Un luogo comune umanista e universalista, una macchina coloniale dell’Occidente. Il mondo intero sarebbe diventato «contemporaneo»: bastava aspettare – come testimoniava il boom economico asiatico – che i Paesi «in ritardo» seguissero alla lettera le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale e che connettessero sulla matrice capitalista le loro «vecchie e complicate culture». Lo sviluppo della cultura urbana facilitava questo movimento: l’esplosione mondiale delle megalopoli, da Città del Messico a Shanghai, contribuì all’emergere di un vocabolario formale planetario, al punto che si potrebbe definire l’arte del nostro tempo un’arte delle metapolis, il cui paradosso risiede tuttavia nella propensione a fare della distesa desertica o della foresta vergine dei pilastri del suo immaginario... La fine della Storia assumerà la forma brulicante della città standardizzata e globalizzata? Siamo veramente così lontani dalle utopie, dalla radicalità e dalle avanguardie che hanno segnato il XX secolo? Anche se «tutti hanno detto che la fine del comunismo significava la morte dell’utopia e che ora si entrava nel modo del reale e dell’economia», ironizza Slavoj Žižek, tutto lascia pensare che, al contrario, gli anni Novanta «siano stati l’autentica esplosione dell’utopia, di un’utopia capitalista liberale che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi. Dopo l’11 settembre sappiamo che le divisioni ci sono ancora, eccome»2. La «post-Storia» è un concetto vuoto, proprio come quello di «postmodernità»; ha un senso meramente circostanziale, poiché riveste il ruolo di un software di gestione del dopo-modernismo. Il prefisso ‘post’, del quale si può assaporare l’ambiguità, in fondo non è servito ad altro che a federare le varie versioni di questo dopo, da un post-strutturalismo critico fino a opzioni chiaramente passatiste3. Quanto alla celeberrima «ibridazione culturale», nozione tipicamente postmoderna, si è rivelata una macchina per dissolvere qualsiasi autentica singolarità dietro la maschera di un’ideologia «multiculturalista»; una macchina per cancellare l’origine degli elementi «tipici» e «autentici», che propaga al tronco della tecnosfera occidentale. La presunta diversità culturale, preservata sotto la campana di vetro del «patrimonio dell’umanità», si rivela essere il riflesso speculare della standardizzazione generale degli immaginari e delle forme: più l’arte contemporanea integra in sé vocabolari plastici eterogenei, provenienti da molteplici tradizioni visive non-occidentali, più chiaramente appaiono i tratti distintivi di una cultura unica e globalizzata. Il «dialogo fra le culture» dei discorsi ufficiali non deriva forse da una visione del mondo come catena di parchi naturali protetti? È quell’umanismo animale che Alain Badiou definisce come un umanismo senza alcun progetto, se non quello di proteggere gli ecosistemi esistenti: «Bisogna vivere nel nostro “villaggio planetario”», scrive, «lasciar fare alla natura, affermare ovunque i diritti naturali. Le cose hanno una loro natura che bisogna rispettare. [...] L’economia di mercato, per esempio, è naturale: basta trovare il suo equilibrio, tra un ahimé inevitabile numero di ricchi e la massa di poveri, allo stesso modo in cui bisogna rispettare l’equilibrio tra i ricci e le lumache»4. Le differenze culturali, mummificate in uno sciroppo compassionevole, saranno così salvaguardate nel villaggio globale, probabilmente al fine di arricchire i parchi a tema che il turismo culturale si regalerà. Dobbiamo rimpiangere l’universalismo modernista? Non più. È inutile tornare qui sul colonialismo (inconscio o meno) che gli è consustanziale, sulla sua propensione a paragonare le differenze con i passatismi e a imporre ovunque le sue norme, il suo racconto storico e i suoi concetti come se fossero «naturali» e quindi condivisibili da tutti. Nel modello modernista, spiega Thomas McEvilley, la Storia non è altro che una «linea unica che progredisce sulla pagina del tempo, attorniata dagli ampi vuoti antistorici della natura e del mondo non sviluppato»5. Le culture nonoccidentali? Non-storiche, quindi inconsistenti. I feticci baulé? Privi di autore, emanazione di una tribù indifferenziata, legna da ardere nella caldaia del Progresso. A partire dagli anni Ottanta numerosi critici si sono adoperati per decostruire questo discorso. Radici Critica della ragione postmoderna Per il pensiero estetico contemporaneo, la «dimensione critica» dell’arte rappresenta il criterio di giudizio più diffuso. Leggendo cataloghi e riviste d’arte, ci rendiamo conto che diffondono meccanicamente questa ideologia del sospetto ed ergono il coefficiente «critico» delle opere a criterio che permette di distinguere fra interessante e insignificante: si ha l’impressione che le opere stesse non siano più valutate ma scelte su una catena destinata a calibrarle. Queste buone calibrazioni sono pubblicamente note: regnavano già alla fine del XIX secolo, altra epoca in cui l’accademismo privilegiava il soggetto (che non va confuso con il contenuto) a scapito della forma (che non si riassume nel piacere retinico). I tempi postmoderni vedono di nuovo delle opere ostentare sentimenti edificanti dietro l’apparenza di una «dimensione critica», delle immagini che si sdoganano dalla loro indigenza formale facendosi scudo con uno statuto minoritario o militante, dei discorsi estetici che esaltano la differenza e il «multiculturale» senza troppo sapere il perché. Le numerose teorie estetiche scaturite dalla nebulosa del postcolonialismo culturale si sono arenate nell’elaborare una critica dell’ideologia modernista che non conduce a un relativismo assoluto o all’impilamento degli «essenzialismi». Nella loro versione dogmatica queste teorie giungono ad annullare ogni possibilità di dialogo fra individui che non condividono la medesima storia o la stessa «identità culturale». Il rischio non va sottovalutato: a forza di caricature, l’ideologia comparatista sottesa agli studi postcoloniali prepara un’atomizzazione completa dei riferimenti e dei criteri di giudizio estetici. Se sono un maschio bianco occidentale, come potrei, ad esempio, esercitare un giudizio critico sull’opera di una donna nera camerunense senza rischiare di «imporle» inopportunamente una visione delle cose intrisa di eurocentrismo? Un eterosessuale può criticare l’opera di un artista gay senza sostenere il punto di vista «dominante»? Ora, anche se il sospetto di eurocentrismo o fallocentrismo è eretto a norma critica, la nozione di periferia resta intatta: il «centro» è designato, la filosofia dell’Illuminismo convocata sul banco degli imputati. Ma qual è il capo d’accusa? Homi Bhabha presenta la teoria postcoloniale come un atto di rifiuto della visione «binaria e gerarchica» che caratterizza l’universalismo occidentale1. Gayatri Spivak, figura di spicco dei «subaltern studies», intende deoccidentalizzare i concetti stessi attraverso i quali l’alienazione è oggi pensata. Questi lavori sono stati salutari, ma è sui loro effetti perversi che mi voglio qui soffermare: essi trasformano la Ragione scaturita dall’Illuminismo in uno strano oggetto, che pare onnipresente e al contempo vilipeso, continuamente decostruito ma intoccabile. Jacques Lacan gli accorderebbe lo statuto di un oggetto (a), cioè un oggetto che non esiste se non in quanto ombra, centro vuoto, visibile unicamente grazie alle sue anamorfosi. Questo totem modernista presenta quindi una strana analogia col Capitale, al tempo stesso bandito e considerato intoccabile, decostruito senza sosta ma lasciato intatto. «Il postmodernismo», scrivono Toni Negri e Michael Hardt, «è la logica operativa del capitale globale», poiché fornisce «un’eccellente descrizione [...] dello schema ideale del consumo di merci», attraverso nozioni come differenza, molteplicità delle culture, mélange e diversità2. Le teorie postmoderne, proseguono Negri e Hardt, potrebbero dunque essere considerate i pendant omotetici dei fondamentalismi religiosi: le prime attirano i «vincitori» della globalizzazione, i secondi attirano i «perdenti». Qui si ritrova ancora quel binarismo (sradicamento cool o reradicamento identitario) da cui è urgente tirarsi fuori con mezzi scaturiti dalla cultura moderna. Lavorare alla ricomposizione di una modernità – il cui compito strategico consisterebbe nell’occuparsi della disgregazione del postmodernismo – significa innanzitutto inventare lo strumento teorico che permetta di lottare contro tutto ciò che, nel pensiero postmoderno, accompagna obiettivamente il movimento di standardizzazione inerente la mondializzazione. Si tratta di identificare questi valori e di strapparli sia agli schemi binari e gerarchici del modernismo di ieri, sia alle regressioni fondamentaliste d’ogni ordine. Si tratta di aprire una regione intellettuale ed estetica nella quale le opere contemporanee possano essere giudicate secondo gli stessi criteri; in breve, uno spazio di discussione. Nell’attesa, assistiamo all’emergere di una sorta di cortesia estetica postmoderna, un’attitudine che consiste nel rifiutarsi di formulare il benché minimo giudizio critico per paura di urtare la suscettibilità dell’Altro. Certo, questa versione eccessiva del multiculturalismo si fonda su buoni sentimenti, cioè sulla volontà di «riconoscimento» dell’altro (Charles Taylor). L’effetto perverso risiede nel fatto che si giunge a considerare implicitamente gli artisti non-occidentali come invitati coi quali bisogna essere educati, e non come veri e propri attori della scena culturale. Cosa c’è di più sprezzante e paternalista di questi discorsi che immediatamente escludono che un artista congolese o laotiano possa misurarsi con Jasper Johns o Mike Kelley in uno spazio teorico comune ed essere oggetto degli stessi criteri di valutazione estetica? Nel discorso postmoderno il «riconoscimento dell’altro» equivale troppo spesso a incrostare la sua immagine in un catalogo delle differenze. Umanismo animale? Il presunto «rispetto dell’Altro» genera in ogni caso un colonialismo all’inverso, tanto cortese e apparentemente benevolo quanto il precedente fu brutale e negatore. In Benvenuti nel deserto del reale, Slavoj Žižek cita un’intervista di Alain Badiou nella quale quest’ultimo ricorda che non c’è «rispetto dell’altro» che valga, ad esempio, per un resistente impegnato nella lotta antinazista nel 1942, e nemmeno «quando si devono giudicare le opere di un “artista” di dubbio valore»3... Dunque, questa nozione di rispetto o «riconoscimento dell’Altro» non rappresenta affatto «l’assioma etico più elementare», come si potrebbe credere leggendo Charles Taylor. Al di là di una coesistenza pacifica e sterile di culture reificate (il multiculturalismo), bisogna passare alla cooperazione fra culture ugualmente critiche della propria identità, cioè accedere allo stadio della traduzione. La posta in gioco è colossale: si tratta di permettere la riscrittura della Storia «ufficiale» a profitto di racconti plurali, regolando d’altro canto un possibile dialogo fra queste differenti versioni della Storia. In caso contrario il movimento di uniformazione culturale non potrà che amplificarsi dietro la rassicurante maschera di un pensiero del «riconoscimento dell’Altro», dove quest’ultimo diventa una specie da proteggere. 1. Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura, trad. it. di A. Perri, Meltemi, Roma 2001. 2. Michael Hardt e Toni Negri, Impero, trad. it. di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2003, p. 148. 3. Cit. in Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, trad. it. di P. Vereni, Meltemi, Roma 2002, p. 73. 4. Gayatri Spivak, In Other Worlds, Methuen, New York 1987, p. 205. 5. Jean-Hubert Martin (éd. par), Partages d’exotismes, Réunion des Musées Nationaux, Lyon 2000, p. 124. 6. Cfr. Hal Foster, Il ritorno del reale, op. cit., pp. 177-184. 7. In italiano nel testo. [N.d.T.] 11. Judith Butler, Corpi che contano, trad. it. di S. Capelli, Feltrinelli, Milano 1996, p. 177. 12. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 19912, p. 22. 13. Il passo citato da Bourriaud non compare nell’edizione italiana. Lo abbiamo perciò tratto dalla traduzione francese: L’œuvre d’art à l’ère de sa reproductibilité technique, trad. fr. di M. de Gandillac, in Id., Essais, DenoëlGonthier, Paris 1983, vol. II, p. 104. [N.d.T.] 14. Walter Benjamin, L’opera d’arte..., op. cit., p. 36. 8. Jean-Paul Sartre, Taccuini della strana guerra, trad. it. di P.-A. Claudel, Acquaviva, Acquaviva delle Fonti (BA) 2002, vol. I, pp. 270. 15. Ibid., p. 34. 9. Claude Lévi-Strauss, Razza e storia, trad. it. di P. Caruso, in Id., Razza e storia. Razza e cultura, Einaudi, Torino 2002, p. 42. 18. Ibid., p. 25. [N.d.T.] 10. Trad. it. di C. Cignetti, Einaudi, Torino 2007. [N.d.T.] 16. Ibid., p. 32. 17. Ibid., p. 34. Radicali e radicanti Per meglio cogliere la posta in gioco in questo movimento di scollamento delle identità e dei segni, è importante tornare sul modernismo ossessionato dalla passione per la radicalità. Sfrondare, epurare, eliminare, sottrarre, far ritorno a un principio primo: tale fu il denominatore comune di tutte le avanguardie del XX secolo. L’inconscio per il surrealismo, la nozione di scelta per il readymade duchampiano, la situazione vissuta per l’Internazionale Situazionista, l’assioma «arte = vita» per il movimento Fluxus, il piano del quadro per il monocromo... Sono altrettanti principi a partire dai quali si dispiega, nell’arte moderna, una metafisica della radice. Tornare al punto di partenza per ricominciare dall’inizio e fondare un nuovo linguaggio sgombro dalle scorie. Alain Badiou paragona questa passione per la «sottrazione» a un lavoro di epurazione, senza obliterare le sinistre connotazioni politiche del termine: nel modernismo, scrive, si manifesta sempre una «passione del cominciamento», cioè la necessità di fare il vuoto, tabula rasa come condizione preliminare di un discorso che inaugura e getta i semi dell’avvenire: la radice. Se «la forza si acquista mediante l’epurazione della forma»1, allora il Quadrato bianco su fondo bianco di Kazimir Malevič è «un simbolo della distruzione della pittura»2. Questo perpetuo ritorno all’origine operato dalle avanguardie implica che, nel regime radicale dell’arte, il nuovo diventi un criterio estetico in sé, fondato su un’antecedenza, sullo stabilimento di una genealogia all’interno della quale si distribuiranno ulteriormente una gerarchia e dei valori. Trattato di navigazione Trattato di navigazione Esempio n. 1: Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta (1913) L’invenzione del readymade rappresenta un tale punto di svolta nella storia dell’arte che la sua eredità è colossale. A partire da questo gesto estremo, che consiste nel presentare come opera d’arte un normale oggetto di consumo, tutto il campo lessicale delle arti plastiche si trova «potenziato» da questa nuova possibilità: significare con l’ausilio non di un segno, bensì della realtà stessa4. Ma questa incredibile fortuna estetica e critica, se la si slega dall’opera monumentale e magistrale di Duchamp, non ha nulla a che vedere con l’ideologia del suo tempo? Non funziona, in ultima istanza, con carburante ideologico? Marcel Duchamp non ha mai utilizzato il termine ‘appropriazione’. Per alludere al processo del readymade manipolava nozioni e termini che non appartengono al registro della proprietà o dell’appropriazione, parola di cui spiegheremo più avanti ragione e contesto della comparsa. Nel quadro di una problematica della produzione che si riferisce continuamente al processo pittorico per prenderlo in contropiede (il discorso sul readymade si posiziona volentieri in reazione alle forme d’arte tradizionali), Duchamp insisteva così in primo luogo sull’idea di scelta, in opposizione a quella di fabbricazione: «Quando realizzi un quadro ordinario», spiegava, «c’è sempre una scelta: scegli i colori, scegli la tela, scegli il soggetto, scegli tutto. Non c’è arte; essenzialmente è una scelta. Con il readymade è la stessa cosa. È la scelta di un oggetto»5. Ora, l’atto di scegliere non è affatto sinonimo di quello di appropriarsi, anche se Duchamp fa cominciare il regno del readymade nel momento in cui il pittore utilizza colori già pronti, in tubetto. L’appropriazione, nelle sue connotazioni aggressive, implica una concorrenza, una disputa in merito a un territorio che potrebbe appartenere indifferentemente all’uno o all’altro dei belligeranti. Sapendo che il readymade implica il «dare una nuova idea» a un oggetto, cioè sottrarlo al suo territorio, alla sua origine, la nozione di appropriazione non ha qui alcun senso. Di essenza immateriale, il readymade non ha d’altronde alcuna importanza fisica: una volta distrutto può essere rimpiazzato o meno. Non ha proprietari. Secondo punto teorico, che dipende dal primo: la nozione di indifferenza. La bellezza d’indifferenza che Duchamp difende prende in Postproduction Come l'arte riprogramma il mondo Nicolas Bourriaud postmedia 2004 96 pp. 51 illustrazioni isbn 9788874900169 (ed. cartacea) isbn 9788874900688 (eBook) Nell’epoca dell’informazione immateriale e rizomatica di internet, degli scenari del gusto disegnati dagli esperti di marketing, del consumo spettacolare, “gli artisti programmano le forme più che comporle”, sostiene il critico e curatore francese Nicolas Bourriaud, che nel suo Postproduction ha individuato con tempismo il fenomeno. L’assunto alla base delle strategie di ‘postproduzione’ è che sia impossibile (o impraticabile) produrre alcunché di nuovo, e che generare singolarità nel caos di oggetti, riferimenti, nomi, che ci circonda voglia dire anzitutto rigenerarne un possibile valore d’uso. Se la questione artistica fondamentale non è più “che fare di nuovo”, ma “che fare con quel che abbiamo a disposizione”, i processi di cui parla Bourriaud designano “una zona di attività” in cui vengono elaborati protocolli alternativi per rappresentazioni e strutture narrative già esistenti: “imparare a servirsi delle forme vuol dire anzitutto sapere come farle proprie e abitarle”, passando da una cultura del consumo a una cultura dell’attività, da un atteggiamento passivo a una forma di resistenza basata sulla riattivazione di potenziali negati o marginalizzati. Stefano Chiodi / Alias / agosto 2005 Basti pensare a quanto sia oramai fondamentale il concetto di postproduzione nella musica e nell’industria cinematografica (e da qui si può agilmente risalire alla centralità del montaggio nel cinema dell’avanguardia russa, e ancora al ruolo basilare svolto dal collage nelle arti visive a partire dagli anni ’10 del XX secolo). Ancor più immediata è l’attinenza della questione relazionale in qualsivoglia studio a carattere sociologico e politologico. Innestati tuttavia nel campo della critica d’arte, questi due concetti riescono – grazie ovviamente anche all’arguzia di Bourriaud – a fungere da sollecitatori, anzi addirittura da parassiti che, con il loro impatto disorganizzante e disorientante, permettono di riesaminare con un’ottica almeno parzialmente inedita quel mondo dell’arte che può apparire, sotto certi aspetti teorici fondamentali, piuttosto monolitico dopo l’ultima ondata profondamente rivoluzionaria, quella delle “avanguardie storiche”. Marco Enrico Giacomelli / D'Ars n.205 / 2011
© Copyright 2024 ExpyDoc