Angkor. Un mondo perso nel tempo

A new modernity is emerging, reconfigured to an age of globalisation – understood in its
economic, political and cultural aspects: an altermodern culture. Increased communication, travel
and migration are affecting the way we live. Our daily lives consist of journeys in a chaotic and
teeming universe. Multiculturalism and identity is being overtaken by creolisation: Artists are
now starting from a globalised state of culture. This new universalism is based on translations,
subtitling and generalised dubbing. Today’s art explores the bonds that text and image, time and
space, weave between themselves. Artists are responding to a new globalised perception. They
traverse a cultural landscape saturated with signs and create new pathways between multiple
formats of expression and communication. The Tate Triennial 2009 at Tate Britain presents a
collective discussion around this premise that postmodernism is coming to an end, and we are
experiencing the emergence of a global altermodernity. Travel, cultural exchanges and examination
of history are not merely fashionable themes, but markers of a profound evolution in our vision
of the world and our way of inhabiting it. More generally, our globalised perception calls for new
types of representation: our daily lives are played out against a more enormous backdrop than ever
before, and depend now on trans-national entities, short or long-distance journeys in a chaotic
and teeming universe. Many signs suggest that the historical period defined by postmodernism
is coming to an end: multiculturalism and the discourse of identity is being overtaken by a
planetary movement of creolisation; cultural relativism and deconstruction, substituted for
modernist universalism, give us no weapons against the twofold threat of uniformity and mass
culture and traditionalist, far-right, withdrawal. The times seem propitious for the recomposition
of a modernity in the present, reconfigured according to the specific context within which we
live – crucially in the age of globalisation – understood in its economic, political and cultural
aspects: an altermodernity. If twentieth-century modernism was above all a western cultural
phenomenon, altermodernity arises out of planetary negotiations, discussions between agents from
different cultures. Stripped of a centre, it can only be polyglot. Altermodernity is characterised
by translation, unlike the modernism of the twentieth century which spoke the abstract language
of the colonial west, and postmodernism, which encloses artistic phenomena in origins and
identities. We are entering the era of universal subtitling, of generalised dubbing. Today’s art
explores the bonds that text and image weave between themselves. Artists traverse a cultural
landscape saturated with signs, creating new pathways between multiple formats of expression
and communication. The artist becomes ‘homo viator’, the prototype of the contemporary traveller
whose passage through signs and formats refers to a contemporary experience of mobility,
travel and transpassing. This evolution can be seen in the way works are made: a new type of
form is appearing, the journey-form, made of lines drawn both in space and time, materialising
trajectories rather than destinations. The form of the work expresses a course, a wandering,
rather than a fixed space-time. Altermodern art is thus read as a hypertext; artists translate and
transcode information from one format to another, and wander in geography as well as in history.
This gives rise to practices which might be referred to as ‘time-specific’, in response to the ‘sitespecific’ work of the 1960s. Flight-lines, translation programmes and chains of heterogeneous
elements articulate each other. Our universe becomes a territory all dimensions of which may be
travelled both in time and space.
Il radicante
Per un'estetica della globalizzazione
Nicolas Bourriaud
postmedia books
Parte prima
Altermodernità
23 ~ Radici. Critica della ragione postmoderna
43 ~ Radicali e radicanti
59 ~ Victor Segalen e il creolo del XXI secolo
Parte seconda
L'estetica radicante
79 ~ Precarietà estetica e forme erranti
Senza forma fissa (materiali clochard)
erranza urbana
Coda: estetiche revocabili
115 ~ Forme-tragitto
La
forma-tragitto: spedizioni e parade
Forma-tragitto 2:
topologia
Forma-tragitto 3: Biforcazioni
temporali
143 ~ Transfert
Traslazioni,
transcodifiche, traduzioni
La «condizione
Forme
tradotte
postmediale»
Parte terza
Trattato di navigazione
~ Sotto la pioggia culturale 157
(Louis Althusser, Marcel Duchamp e l'uso delle forme artistiche)
Appropriazione e neoliberismo
Esempio n. 1: Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta (1913)
Esempio n. 2: Marcel Duchamp, LHOOQ
Esempio n. 3: Marcel Duchamp, il «readymade reciproco»
L’interforma
~ Il collettivismo artistico e la produzione di percorsi 171
Arte globale o arte del capitalismo
Arte d’appropriazione o comunismo formale
Estetica della «replica»: la defeticizzazione dell’arte
~ Post-post, o i tempi altermoderni 189
introduzione
Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino
Sei mesi prima, esattamente il 18 maggio, veniva inaugurata la mostra
Magiciens de la terre, con il sottotitolo «Prima esposizione mondiale d’arte
contemporanea» perché riuniva gli artisti di tutti i continenti: così un artista
concettuale americano fiancheggiava un sacerdote voodoo haitiano, un
pittore d’insegne di Kinshasa esponeva accanto a grandi nomi dell’arte
europea1. A partire da quel grande mixer che fu Magiciens de la terre si può
datare l’ingresso ufficiale dell’arte in quello che ormai è il nostro mondo
globalizzato e privo di «grandi narrazioni». Questa improvvisa irruzione
di individui provenienti da paesi allora definiti «periferici» nella sfera
contemporanea corrisponde alla nascita di quella tappa del capitalismo
integrale che, vent’anni più tardi, prenderà il nome di globalizzazione.
D’altronde, se quella mostra poteva alimentare una certa confusione tra
le figure dell’artista, del sacerdote e dell’artigiano, va da sé che le forti
polemiche che suscitò erano collegate al crollo dell’alternativa simbolica
rappresentata dal mondo comunista. Con la fine del bipolarismo Usa-Urss
era sopraggiunta anche la fine della storia: è almeno quel che sostenne il
filosofo americano Francis Fukuyama in un testo che, pubblicato poco dopo
l’apertura della cortina di ferro, ebbe un’enorme eco. Riaddormentatevi,
soggetti del nuovo ordine mondiale... In ogni caso, divenne evidente
che la Storia non era più il valore supremo che permetteva di ordinare e
gerarchizzare i segni artistici.
Fino ad allora, quella dell’arte del XX secolo si profilava come una
successione di invenzioni formali, una sequela di avventure individuali e
collettive che trasmettevano una nuova visione dell’arte. Ma quel tempo
era finito e il pensiero postmoderno, comparso durante il decennio
precedente, poteva infine trionfare.
Noi facciamo parte della «post-Storia»: un’era di conquiste per
l’economia capitalista ormai sovrana, ove è insediata una cultura
libera dal presunto «terrore» diffuso dalle avanguardie. Il modernismo?
Un luogo comune umanista e universalista, una macchina coloniale
dell’Occidente. Il mondo intero sarebbe diventato «contemporaneo»:
bastava aspettare – come testimoniava il boom economico asiatico – che
i Paesi «in ritardo» seguissero alla lettera le raccomandazioni del Fondo
Monetario Internazionale e che connettessero sulla matrice capitalista
le loro «vecchie e complicate culture». Lo sviluppo della cultura urbana
facilitava questo movimento: l’esplosione mondiale delle megalopoli, da
Città del Messico a Shanghai, contribuì all’emergere di un vocabolario
formale planetario, al punto che si potrebbe definire l’arte del nostro
tempo un’arte delle metapolis, il cui paradosso risiede tuttavia nella
propensione a fare della distesa desertica o della foresta vergine dei
pilastri del suo immaginario... La fine della Storia assumerà la forma
brulicante della città standardizzata e globalizzata? Siamo veramente
così lontani dalle utopie, dalla radicalità e dalle avanguardie che hanno
segnato il XX secolo? Anche se «tutti hanno detto che la fine del
comunismo significava la morte dell’utopia e che ora si entrava nel modo
del reale e dell’economia», ironizza Slavoj Žižek, tutto lascia pensare
che, al contrario, gli anni Novanta «siano stati l’autentica esplosione
dell’utopia, di un’utopia capitalista liberale che avrebbe dovuto risolvere
tutti i problemi. Dopo l’11 settembre sappiamo che le divisioni ci sono
ancora, eccome»2.
La «post-Storia» è un concetto vuoto, proprio come quello di
«postmodernità»; ha un senso meramente circostanziale, poiché riveste il
ruolo di un software di gestione del dopo-modernismo. Il prefisso ‘post’,
del quale si può assaporare l’ambiguità, in fondo non è servito ad altro
che a federare le varie versioni di questo dopo, da un post-strutturalismo
critico fino a opzioni chiaramente passatiste3. Quanto alla celeberrima
«ibridazione culturale», nozione tipicamente postmoderna, si è rivelata una
macchina per dissolvere qualsiasi autentica singolarità dietro la maschera
di un’ideologia «multiculturalista»; una macchina per cancellare l’origine
degli elementi «tipici» e «autentici», che propaga al tronco della tecnosfera
occidentale. La presunta diversità culturale, preservata sotto la campana
di vetro del «patrimonio dell’umanità», si rivela essere il riflesso speculare
della standardizzazione generale degli immaginari e delle forme: più l’arte
contemporanea integra in sé vocabolari plastici eterogenei, provenienti
da molteplici tradizioni visive non-occidentali, più chiaramente appaiono
i tratti distintivi di una cultura unica e globalizzata. Il «dialogo fra le
culture» dei discorsi ufficiali non deriva forse da una visione del mondo
come catena di parchi naturali protetti? È quell’umanismo animale che
Alain Badiou definisce come un umanismo senza alcun progetto, se non
quello di proteggere gli ecosistemi esistenti: «Bisogna vivere nel nostro
“villaggio planetario”», scrive, «lasciar fare alla natura, affermare ovunque
i diritti naturali. Le cose hanno una loro natura che bisogna rispettare.
[...] L’economia di mercato, per esempio, è naturale: basta trovare il suo
equilibrio, tra un ahimé inevitabile numero di ricchi e la massa di poveri, allo
stesso modo in cui bisogna rispettare l’equilibrio tra i ricci e le lumache»4.
Le differenze culturali, mummificate in uno sciroppo compassionevole,
saranno così salvaguardate nel villaggio globale, probabilmente al fine di
arricchire i parchi a tema che il turismo culturale si regalerà.
Dobbiamo rimpiangere l’universalismo modernista? Non più. È inutile
tornare qui sul colonialismo (inconscio o meno) che gli è consustanziale,
sulla sua propensione a paragonare le differenze con i passatismi e a
imporre ovunque le sue norme, il suo racconto storico e i suoi concetti
come se fossero «naturali» e quindi condivisibili da tutti. Nel modello
modernista, spiega Thomas McEvilley, la Storia non è altro che una «linea
unica che progredisce sulla pagina del tempo, attorniata dagli ampi vuoti
antistorici della natura e del mondo non sviluppato»5. Le culture nonoccidentali? Non-storiche, quindi inconsistenti. I feticci baulé? Privi
di autore, emanazione di una tribù indifferenziata, legna da ardere nella
caldaia del Progresso. A partire dagli anni Ottanta numerosi critici si sono
adoperati per decostruire questo discorso.
Radici
Critica della ragione postmoderna
Per il pensiero estetico contemporaneo, la «dimensione critica»
dell’arte rappresenta il criterio di giudizio più diffuso. Leggendo cataloghi
e riviste d’arte, ci rendiamo conto che diffondono meccanicamente questa
ideologia del sospetto ed ergono il coefficiente «critico» delle opere a
criterio che permette di distinguere fra interessante e insignificante: si
ha l’impressione che le opere stesse non siano più valutate ma scelte
su una catena destinata a calibrarle. Queste buone calibrazioni sono
pubblicamente note: regnavano già alla fine del XIX secolo, altra epoca
in cui l’accademismo privilegiava il soggetto (che non va confuso con il
contenuto) a scapito della forma (che non si riassume nel piacere retinico).
I tempi postmoderni vedono di nuovo delle opere ostentare sentimenti
edificanti dietro l’apparenza di una «dimensione critica», delle immagini
che si sdoganano dalla loro indigenza formale facendosi scudo con
uno statuto minoritario o militante, dei discorsi estetici che esaltano la
differenza e il «multiculturale» senza troppo sapere il perché.
Le
numerose
teorie
estetiche
scaturite
dalla
nebulosa
del
postcolonialismo culturale si sono arenate nell’elaborare una critica
dell’ideologia modernista che non conduce a un relativismo assoluto
o all’impilamento degli «essenzialismi». Nella loro versione dogmatica
queste teorie giungono ad annullare ogni possibilità di dialogo fra individui
che non condividono la medesima storia o la stessa «identità culturale». Il
rischio non va sottovalutato: a forza di caricature, l’ideologia comparatista
sottesa agli studi postcoloniali prepara un’atomizzazione completa dei
riferimenti e dei criteri di giudizio estetici.
Se sono un maschio bianco occidentale, come potrei, ad esempio,
esercitare un giudizio critico sull’opera di una donna nera camerunense
senza rischiare di «imporle» inopportunamente una visione delle cose
intrisa di eurocentrismo? Un eterosessuale può criticare l’opera di un
artista gay senza sostenere il punto di vista «dominante»? Ora, anche
se il sospetto di eurocentrismo o fallocentrismo è eretto a norma critica,
la nozione di periferia resta intatta: il «centro» è designato, la filosofia
dell’Illuminismo convocata sul banco degli imputati. Ma qual è il capo
d’accusa? Homi Bhabha presenta la teoria postcoloniale come un atto di
rifiuto della visione «binaria e gerarchica» che caratterizza l’universalismo
occidentale1. Gayatri Spivak, figura di spicco dei «subaltern studies»,
intende deoccidentalizzare i concetti stessi attraverso i quali l’alienazione
è oggi pensata. Questi lavori sono stati salutari, ma è sui loro effetti
perversi che mi voglio qui soffermare: essi trasformano la Ragione
scaturita dall’Illuminismo in uno strano oggetto, che pare onnipresente e
al contempo vilipeso, continuamente decostruito ma intoccabile. Jacques
Lacan gli accorderebbe lo statuto di un oggetto (a), cioè un oggetto che
non esiste se non in quanto ombra, centro vuoto, visibile unicamente
grazie alle sue anamorfosi. Questo totem modernista presenta quindi
una strana analogia col Capitale, al tempo stesso bandito e considerato
intoccabile, decostruito senza sosta ma lasciato intatto.
«Il postmodernismo», scrivono Toni Negri e Michael Hardt, «è la
logica operativa del capitale globale», poiché fornisce «un’eccellente
descrizione [...] dello schema ideale del consumo di merci», attraverso
nozioni come differenza, molteplicità delle culture, mélange e diversità2.
Le teorie postmoderne, proseguono Negri e Hardt, potrebbero dunque
essere considerate i pendant omotetici dei fondamentalismi religiosi:
le prime attirano i «vincitori» della globalizzazione, i secondi attirano i
«perdenti». Qui si ritrova ancora quel binarismo (sradicamento cool o reradicamento identitario) da cui è urgente tirarsi fuori con mezzi scaturiti
dalla cultura moderna. Lavorare alla ricomposizione di una modernità – il
cui compito strategico consisterebbe nell’occuparsi della disgregazione
del postmodernismo – significa innanzitutto inventare lo strumento teorico
che permetta di lottare contro tutto ciò che, nel pensiero postmoderno,
accompagna obiettivamente il movimento di standardizzazione inerente
la mondializzazione. Si tratta di identificare questi valori e di strapparli sia
agli schemi binari e gerarchici del modernismo di ieri, sia alle regressioni
fondamentaliste d’ogni ordine. Si tratta di aprire una regione intellettuale
ed estetica nella quale le opere contemporanee possano essere giudicate
secondo gli stessi criteri; in breve, uno spazio di discussione.
Nell’attesa, assistiamo all’emergere di una sorta di cortesia estetica
postmoderna, un’attitudine che consiste nel rifiutarsi di formulare il benché
minimo giudizio critico per paura di urtare la suscettibilità dell’Altro.
Certo, questa versione eccessiva del multiculturalismo si fonda su buoni
sentimenti, cioè sulla volontà di «riconoscimento» dell’altro (Charles
Taylor). L’effetto perverso risiede nel fatto che si giunge a considerare
implicitamente gli artisti non-occidentali come invitati coi quali bisogna
essere educati, e non come veri e propri attori della scena culturale. Cosa
c’è di più sprezzante e paternalista di questi discorsi che immediatamente
escludono che un artista congolese o laotiano possa misurarsi con Jasper
Johns o Mike Kelley in uno spazio teorico comune ed essere oggetto
degli stessi criteri di valutazione estetica? Nel discorso postmoderno il
«riconoscimento dell’altro» equivale troppo spesso a incrostare la sua
immagine in un catalogo delle differenze. Umanismo animale? Il presunto
«rispetto dell’Altro» genera in ogni caso un colonialismo all’inverso, tanto
cortese e apparentemente benevolo quanto il precedente fu brutale e
negatore. In Benvenuti nel deserto del reale, Slavoj Žižek cita un’intervista
di Alain Badiou nella quale quest’ultimo ricorda che non c’è «rispetto
dell’altro» che valga, ad esempio, per un resistente impegnato nella lotta
antinazista nel 1942, e nemmeno «quando si devono giudicare le opere
di un “artista” di dubbio valore»3... Dunque, questa nozione di rispetto o
«riconoscimento dell’Altro» non rappresenta affatto «l’assioma etico più
elementare», come si potrebbe credere leggendo Charles Taylor. Al di là di
una coesistenza pacifica e sterile di culture reificate (il multiculturalismo),
bisogna passare alla cooperazione fra culture ugualmente critiche della
propria identità, cioè accedere allo stadio della traduzione.
La posta in gioco è colossale: si tratta di permettere la riscrittura della
Storia «ufficiale» a profitto di racconti plurali, regolando d’altro canto un
possibile dialogo fra queste differenti versioni della Storia. In caso contrario
il movimento di uniformazione culturale non potrà che amplificarsi dietro
la rassicurante maschera di un pensiero del «riconoscimento dell’Altro»,
dove quest’ultimo diventa una specie da proteggere.
1. Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura,
trad. it. di A. Perri, Meltemi, Roma 2001.
2. Michael Hardt e Toni Negri, Impero,
trad. it. di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano
2003, p. 148.
3. Cit. in Slavoj Žižek, Benvenuti nel
deserto del reale, trad. it. di P. Vereni,
Meltemi, Roma 2002, p. 73.
4. Gayatri Spivak, In Other Worlds,
Methuen, New York 1987, p. 205.
5. Jean-Hubert Martin (éd. par), Partages
d’exotismes, Réunion des Musées
Nationaux, Lyon 2000, p. 124.
6. Cfr. Hal Foster, Il ritorno del reale, op.
cit., pp. 177-184.
7. In italiano nel testo. [N.d.T.]
11. Judith Butler, Corpi che contano,
trad. it. di S. Capelli, Feltrinelli, Milano
1996, p. 177.
12. Walter Benjamin, L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, trad. it. di E. Filippini, Einaudi,
Torino 19912, p. 22.
13. Il passo citato da Bourriaud non
compare nell’edizione italiana. Lo
abbiamo perciò tratto dalla traduzione
francese: L’œuvre d’art à l’ère de sa
reproductibilité technique, trad. fr. di
M. de Gandillac, in Id., Essais, DenoëlGonthier, Paris 1983, vol. II, p. 104.
[N.d.T.]
14. Walter Benjamin, L’opera d’arte..., op.
cit., p. 36.
8. Jean-Paul Sartre, Taccuini della
strana guerra, trad. it. di P.-A. Claudel,
Acquaviva, Acquaviva delle Fonti (BA)
2002, vol. I, pp. 270.
15. Ibid., p. 34.
9. Claude Lévi-Strauss, Razza e storia,
trad. it. di P. Caruso, in Id., Razza e storia.
Razza e cultura, Einaudi, Torino 2002, p. 42.
18. Ibid., p. 25. [N.d.T.]
10. Trad. it. di C. Cignetti, Einaudi, Torino
2007. [N.d.T.]
16. Ibid., p. 32.
17. Ibid., p. 34.
Radicali e radicanti
Per meglio cogliere la posta in gioco in questo movimento di
scollamento delle identità e dei segni, è importante tornare sul
modernismo ossessionato dalla passione per la radicalità. Sfrondare,
epurare, eliminare, sottrarre, far ritorno a un principio primo: tale fu il
denominatore comune di tutte le avanguardie del XX secolo. L’inconscio
per il surrealismo, la nozione di scelta per il readymade duchampiano, la
situazione vissuta per l’Internazionale Situazionista, l’assioma «arte =
vita» per il movimento Fluxus, il piano del quadro per il monocromo...
Sono altrettanti principi a partire dai quali si dispiega, nell’arte
moderna, una metafisica della radice. Tornare al punto di partenza per
ricominciare dall’inizio e fondare un nuovo linguaggio sgombro dalle
scorie. Alain Badiou paragona questa passione per la «sottrazione» a un
lavoro di epurazione, senza obliterare le sinistre connotazioni politiche
del termine: nel modernismo, scrive, si manifesta sempre una «passione
del cominciamento», cioè la necessità di fare il vuoto, tabula rasa
come condizione preliminare di un discorso che inaugura e getta i semi
dell’avvenire: la radice. Se «la forza si acquista mediante l’epurazione
della forma»1, allora il Quadrato bianco su fondo bianco di Kazimir
Malevič è «un simbolo della distruzione della pittura»2. Questo perpetuo
ritorno all’origine operato dalle avanguardie implica che, nel regime
radicale dell’arte, il nuovo diventi un criterio estetico in sé, fondato su
un’antecedenza, sullo stabilimento di una genealogia all’interno della
quale si distribuiranno ulteriormente una gerarchia e dei valori.
Trattato di navigazione
Trattato di navigazione
Esempio n. 1: Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta (1913)
L’invenzione del readymade rappresenta un tale punto di svolta nella
storia dell’arte che la sua eredità è colossale. A partire da questo gesto
estremo, che consiste nel presentare come opera d’arte un normale
oggetto di consumo, tutto il campo lessicale delle arti plastiche si trova
«potenziato» da questa nuova possibilità: significare con l’ausilio non
di un segno, bensì della realtà stessa4. Ma questa incredibile fortuna
estetica e critica, se la si slega dall’opera monumentale e magistrale di
Duchamp, non ha nulla a che vedere con l’ideologia del suo tempo? Non
funziona, in ultima istanza, con carburante ideologico?
Marcel Duchamp non ha mai utilizzato il termine ‘appropriazione’.
Per alludere al processo del readymade manipolava nozioni e termini
che non appartengono al registro della proprietà o dell’appropriazione,
parola di cui spiegheremo più avanti ragione e contesto della comparsa.
Nel quadro di una problematica della produzione che si riferisce
continuamente al processo pittorico per prenderlo in contropiede (il
discorso sul readymade si posiziona volentieri in reazione alle forme
d’arte tradizionali), Duchamp insisteva così in primo luogo sull’idea
di scelta, in opposizione a quella di fabbricazione: «Quando realizzi un
quadro ordinario», spiegava, «c’è sempre una scelta: scegli i colori, scegli
la tela, scegli il soggetto, scegli tutto. Non c’è arte; essenzialmente è una
scelta. Con il readymade è la stessa cosa. È la scelta di un oggetto»5.
Ora, l’atto di scegliere non è affatto sinonimo di quello di appropriarsi,
anche se Duchamp fa cominciare il regno del readymade nel momento in
cui il pittore utilizza colori già pronti, in tubetto.
L’appropriazione, nelle sue connotazioni aggressive, implica una
concorrenza, una disputa in merito a un territorio che potrebbe
appartenere indifferentemente all’uno o all’altro dei belligeranti.
Sapendo che il readymade implica il «dare una nuova idea» a un
oggetto, cioè sottrarlo al suo territorio, alla sua origine, la nozione
di appropriazione non ha qui alcun senso. Di essenza immateriale,
il readymade non ha d’altronde alcuna importanza fisica: una volta
distrutto può essere rimpiazzato o meno. Non ha proprietari.
Secondo punto teorico, che dipende dal primo: la nozione di
indifferenza. La bellezza d’indifferenza che Duchamp difende prende in
Postproduction
Come l'arte riprogramma il mondo
Nicolas Bourriaud
postmedia 2004
96 pp. 51 illustrazioni
isbn 9788874900169 (ed. cartacea)
isbn 9788874900688 (eBook)
Nell’epoca dell’informazione immateriale
e rizomatica di internet, degli scenari del
gusto disegnati dagli esperti di marketing,
del consumo spettacolare, “gli artisti
programmano le forme più che comporle”,
sostiene il critico e curatore francese Nicolas
Bourriaud, che nel suo Postproduction ha
individuato con tempismo il fenomeno.
L’assunto alla base delle strategie di
‘postproduzione’ è che sia impossibile (o
impraticabile) produrre alcunché di nuovo, e
che generare singolarità nel caos di oggetti,
riferimenti, nomi, che ci circonda voglia dire
anzitutto rigenerarne un possibile valore d’uso.
Se la questione artistica fondamentale non è
più “che fare di nuovo”, ma “che fare con quel
che abbiamo a disposizione”, i processi di cui
parla Bourriaud designano “una zona di attività”
in cui vengono elaborati protocolli alternativi
per rappresentazioni e strutture narrative già
esistenti: “imparare a servirsi delle forme vuol
dire anzitutto sapere come farle proprie e
abitarle”, passando da una cultura del consumo
a una cultura dell’attività, da un atteggiamento
passivo a una forma di resistenza basata
sulla riattivazione di potenziali negati o
marginalizzati.
Stefano Chiodi / Alias / agosto 2005
Basti pensare a quanto sia oramai
fondamentale il concetto di postproduzione
nella musica e nell’industria cinematografica (e
da qui si può agilmente risalire alla centralità
del montaggio nel cinema dell’avanguardia
russa, e ancora al ruolo basilare svolto dal
collage nelle arti visive a partire dagli anni
’10 del XX secolo). Ancor più immediata è
l’attinenza della questione relazionale in
qualsivoglia studio a carattere sociologico e
politologico. Innestati tuttavia nel campo della
critica d’arte, questi due concetti riescono
– grazie ovviamente anche all’arguzia di
Bourriaud – a fungere da sollecitatori, anzi
addirittura da parassiti che, con il loro impatto
disorganizzante e disorientante, permettono di
riesaminare con un’ottica almeno parzialmente
inedita quel mondo dell’arte che può apparire,
sotto certi aspetti teorici fondamentali,
piuttosto monolitico dopo l’ultima ondata
profondamente rivoluzionaria, quella delle
“avanguardie storiche”.
Marco Enrico Giacomelli / D'Ars n.205 / 2011