Antologia SOFOCLE 5. Èdipo a Colono La trasfigurazione dell’eroe L’Edipo a Colono è il dramma che Sofocle dedica alla fase finale della vita di Edipo. Una delle caratteristiche più rilevanti di questa tragedia è il trattamento della figura dell’eroe. Edipo è ormai venuto a conoscenza di tutti i fatti che hanno determinato la sua condizione di sofferenza radicale: ha scoperto di aver ucciso il padre e di essere diventato lo sposo della propria madre. Tuttavia, questa consapevolezza delle ragioni profonde del dolore determina solo un peggioramento dell’esistenza per l’eroe, che si trova a dover sopportare il peso del male, senza che la conoscenza gli doni un minimo sollievo (come invece si verificava nel teatro di Eschilo). L’Edipo a Colono mette in scena due momenti centrali del percorso attraverso il dolore che è tipico dell’eroe sofocleo. Alla luce di tutto il male vissuto da Edipo, il coro arriva infatti ad ammettere che la morte è il destino migliore da augurarsi e, in qualche modo, da perseguire (T13). Su questa linea si pone anche la scena finale del dramma, forse tra le più suggestive del teatro attico di età classica, nella quale Edipo scompare all’interno del bosco sacro (T14). L’eroe pare così quasi dissolversi nella bellezza della natura, senza che questo passaggio sia esplicitamente rappresentato come un approdo alla morte: dinanzi al pubblico Edipo passa a un’altra dimensione, come se il percorso attraverso la sofferenza lo avesse trasfigurato. Percorso TEMATICO vol. 2, p. 379 t 13 La morte è la sorte migliore (Edipo a Colono, vv. 1211-1248) Edipo, cedendo alla richiesta di Teseo e di Antigone, ha acconsentito a incontrare il figlio Polinice. In attesa di questo incontro il coro intona un canto desolato: vi viene delineato il tema della ‘buona morte’, presentata come l’unica via per liberarsi dal dolore che l’esperienza della vita inevitabilmente comporta. metro: metri lirici prevalentemente gliconei e giambo-trochei 1215 COROS ”Osti" tou' plevono" mevrou" crh/vzei tou' metrivou parei;" zwvein, skaiosuvnan fulavsswn ejn ejmoi; katavdhlo" e[stai. ΔEpei; polla; me;n aiJ makrai; aJmevrai katevqento dh; luvpa" ejggutevrw, ta; tevrponta dΔ oujk a]n i[doi" o{pou, o{tan ti" ej" plevon pevsh/ ªstr.º [strofe] CORO Chi vuole prolungare troppo la vita, per noi è chiaramente un pazzo. I lunghi giorni portano più vicino al dolore, e il piacere neppure più si vede, quando l’esistenza ha Sofocle • Èdipo a Colono 1220 1225 1230 1235 1240 1245 tou' devonto"1: oJ dΔ ejpivkouro" ijsotevlesto", “Ai>do" o{te moi'rΔ ajnumevnaio" a[luro" a[coro" ajnapevfhne, qavnato" ej" teleutavn. Mh; fu'nai to;n a{panta nika/' lovgon: to; dΔ, ejpei; fanh/', bh'nai kei'qen o{qen per h{kei polu; deuvteron wJ" tavcista2. ÔW" eu\tΔ a]n to; nevon parh/' kouvfa" ajfrosuvna" fevron, tiv" plaga; poluvmocqo" e[xw… Tiv" ouj kamavtwn e[ni… Fovnoi, stavsei", e[ri", mavcai kai; fqovno": tov te katavmempton ejpilevlogce puvmaton ajkrate;" ajprosovmilon gh'ra" a[filon, i{na provpanta kaka; kakw'n xunoikei'. ΔEn w/| tlavmwn o{dΔ oujk ejgw; movno" pavntoqen bovreio" w{" ti" ajkta; kumatoplh;x ceimeriva klonei'tai, wJ" kai; tovnde katΔ a[kra" deinai; kumatoagei'" a\tai klonevousin ajei; xunou'sai, aiJ me;n ajpΔ ajelivou dusma'n, aiJ dΔ ajnatevllonto", aiJ dΔ ajna; mevssan ajkti'nΔ, aiJ dΔ ejnnucia'n ajpo; ÔRipa'n3. ªajnt.º ªejp.º superato i limiti del giusto1; e giunge in aiuto per tutti, quando si è svelato il destino, vuoto di imenei, di danze, di canti, la morte alla fine. [antistrofe] Non nascere è il destino migliore, il secondo, appena nati tornare subito da dove si è venuti2. Quando è passata la giovinezza con le sue lievi follie chi riesce a sottrarsi alla massa dei travagli? Quale sofferenza è assente? Sangue, discordia, liti, guerre, invidia e in ultimo la vecchiaia stessa, debole, disprezzata, senza amici, senza affetti, dove tutti i mali si radunano insieme. [epodo] Anche lui è in questo stato, non noi soltanto: come le spiagge volte a settentrione sono agitate nella tempesta, percosse dalle ondate, così quest’uomo è tutto agitato sempre dalle sventure che sono dentro di lui, terribili marosi da oriente, da occidente, da mezzogiorno, dal buio dei Monti Rifei3. (trad. di G. Paduano) 1. Tra i due poli piaceri/giovinezza e dolori/vecchiaia si instaura in questo canto una relazione oppositiva con l’annullamento totale dei primi termini e la massima espansione dei secondi, a riprova di un’infelicità sentita come assoluta e definitiva. 2. Secondo una concezione arcaica attribuita a Sileno, figura di vecchio satiro saggiamente distaccato dall’affanno- so affaccendarsi degli uomini, il non esistere sarebbe la condizione di massima felicità per l’uomo. Questa idea era comunemente diffusa in Grecia, ma la sua relazione con il tragico caso di Edipo ne rinnova profondamente l’autenticità del significato. 3. I Monti Rifei sono una mitica catena montuosa collocata nella Scizia, indicante per antonomasia il Nord. 21 22 Antologia t 14 La scomparsa di Edipo (Edipo a Colono, vv. 1579-1669) In questi versi della sezione finale della tragedia, ancora una volta, Sofocle ricorre alla figura del messaggero per annunciare al coro e al pubblico ciò che non si può rappresentare direttamente sulla scena: la morte di Edipo. In realtà, in questo caso l’eroe non è vittima di un delitto né si è tolto la vita in maniera cruenta. La sua morte coincide con una scomparsa: Edipo, all’improvviso, diventa invisibile. Il passaggio dalla vita alla morte contribuisce così a trasfigurare l’eroe, facendone l’emblema di un tragico destino di sofferenza. (Entra un messaggero) NUNZIO Cittadini, potrei dire tutto in due parole: Edipo è morto. Ma i particolari, con tutti i fatti che si sono svolti laggiù, non posso riferirli in breve. CORIFEO Dunque l’infelice è morto? NUNZIO Sì, convinciti che per un tempo senza fine ha lasciato la vita. CORIFEO In che modo? Per intervento divino? Senza soffrire? NUNZIO Proprio di questo c’è di che stupirsi. Si allontanò di qui, come ben sai in quanto eri presente, senza la guida di alcuno dei suoi: anzi era lui a guidare tutti noi. Quando raggiunse la soglia scoscesa che si sprofonda con gradini di bronzo negli abissi della terra, a uno dei molti sentieri che di lì si diramano, vicino a quella conca ove son custoditi i patti eterni sanciti un giorno fra Teseo e Piritoo1, allora, stando a mezza via fra la cavità e la pietra di Torico, fra il pero selvatico e la tomba di marmo, si pose a sedere, poi si liberò dei suoi squallidi cenci e gridò alle figlie di recargli acque correnti e libami, ove ne trovassero. Esse andarono al colle antistante di Demetra virente ed eseguirono con celerità gli ordini del padre: lo lavarono e lo adornarono di una veste, secondo l’uso. Quando ebbe la gioia di aver tutto compiuto, e ogni sua volontà era stata appagata, allora tuonò Zeus sotterraneo2. Sbigottirono le ragazze e abbracciate le ginocchia del padre non cessavano di battersi il petto e di lanciare gemiti acuti, ininterrotti. Appena udì questi amari, improvvisi singhiozzi, Edipo le abbracciò e disse loro: «Figlie mie, in questo giorno vostro padre non è più. Scompare ogni cosa di me, né più vi toccherà la pena di nutrirmi: ingrata certo, figlie mie, ma una sola parola – affetto – cancella ogni pena. Da nessuno avete ricevuto un affetto più intenso che da quest’uomo senza il quale dovrete ormai trascorrere il resto della vita». Così, tenendosi abbracciati, piangevano e singhiozzavano. Quando poi ebbero sedato i lamenti né più si udiva alcuna voce, ma regnava un silenzio assoluto, si levò verso di lui – alta e improvvisa – la luce di qualcuno. È il dio che in più modi, e insistentemente, lo chiama: «Su, Edipo, perché tardiamo a muoverci? Da troppo tempo ti fai aspettare». E lui, come si avvide che era il dio a chiamarlo, chiede che gli venga vicino il nostro sovrano; e come Teseo si accostò, disse: «Amico diletto, ti prego, da’ alle mie figlie il pegno antico della tua mano, e voi, o figlie, a lui; e prometti di non abbandonarle mai, per quanto sta in te, e di agire sempre per il loro bene con affetto sincero». Ed egli nobilmente, senza cedere a un lamento, giurò al suo ospite che avrebbe mantenuto la promessa. E fatto questo, subito Edipo toccò le figlie con le mani cieche e disse: «Figlie mie, dovete fare uno sforzo di nobiltà e allontanarvi di qui, senza pretendere di vedere o di ascoltare ciò che a voi è interdetto. Coraggio, andate subito: resti soltanto Teseo, che ha diritto a rimanere e ad assistere agli eventi». Tutti udimmo le sue parole e tutti facemmo scorta alle ragazze versando lacrime copiose; ma dopo esserci allontanati, ben presto ci voltammo e scoprimmo che lui non c’era più, in nessun luogo, mentre il no- 1. Si fa qui riferimento all’episodio mitico che vide protagonisti Teseo e Piritoo, re dei Lapiti; i due erano giunti nell’Ade per rapire Persefone. 2. Si tratta di Ade, dio degli Inferi. Sofocle • Èdipo a Colono stro sovrano, rimasto solo, teneva la mano davanti alla fronte per proteggersi la vista, come se avesse assistito a qualcosa di spaventoso, di intollerabile allo sguardo. Di lì a poco, invece, lo vediamo prostrarsi e invocare in una medesima preghiera la Terra e l’Olimpo, padre degli dèi. Di quale morte sia scomparso nessuno può dire, salvo Teseo. Non la fiammante folgore divina lo ha rapito, né un turbine sollevatosi dal mare in quell’istante, ma un inviato degli dèi; o forse la base stessa della terra, la sede oscura dei morti, si è squarciata a lui propizia. Se n’è andato senza eco di singhiozzi, senza spasimi di malattia, in un prodigio unico al mondo. Se poi qualcuno crede che sono uscito di senno, non mi curo del consenso di chi mi considera pazzo. CORIFEO Ma dove sono le figlie, e quanti fra voi lo hanno accompagnato? NUNZIO Non sono lontane, le figlie. Il suono inconfondibile dei loro singhiozzi dice che si avvicinano. (trad. di F. Ferrari) 23 24 Antologia 6. La solitudine dell’eroe N ella storia della letteratura occidentale il teatro di Sofocle è celebre per la capacità di rappresentare sulla scena la condizione di solitudine dell’uomo dinanzi al male e al terribile dolore che può talora riservare l’esistenza. Al centro dei drammi sofoclei si incontrano spesso figure eroiche il cui comportamento e la cui etica rimandano a un modello titanico: si tratta di uomini e donne decisi ad analizzare fino in fondo le ragioni del male che si trovano a vivere, nonché a persistere nella loro lotta solitaria contro il dolore. Tra queste figure spicca Aiace che, accecato da Atena, si abbandona a folli istinti omicidi; per porre rimedio al tragico errore commesso, l’eroe decide di affrontare il male in piena solitudine, e di togliersi la vita. Non da meno sul piano dell’atteggiamento titanico si dimostra Filottete: costretto a vivere un’indicibile sofferenza fisica e morale su una rupe deserta, si rivela un eroe del tutto incapace di scendere a compromessi per risolvere la propria condizione. La disperazione di Aiace Fin dalla sua prima apparizione in scena, dopo la strage di mandrie compiuta nella convinzione di fare sterminio dei Greci, Aiace si presenta pienamente consapevole del fatto che l’unica via di uscita, per lui, è la morte (T15). Tutta la tragedia ruota poi sull’attuazione di questo proposito, che si delinea fin da subito come irrinunciabile. L’eroe dimostra che la propria disperazione per la terribile colpa commessa non può risolversi se non con la morte (T16): sarà lo stesso Aiace, in completa solitudine, a togliersi la vita. Percorso TEMATICO vol. 2, p. 99 t 15 La morte, unica soluzione per il male compiuto (Aiace, vv. 348-429) Aiace è ormai consapevole della strage che ha commesso. Né Teucro né la concubina Tecmessa né i marinai del coro riescono ad addolcire la sua disperazione, che qui si esprime ora con il linguaggio delle emozioni, ora con il linguaggio della ragione; Aiace giungerà in seguito a progettare lucidamente il proprio suicidio, sbarazzandosi con l’inganno di quanti vorrebbero dissuaderlo e realizzando in solitudine il suo desiderio di morte. metro: metri lirici per Aiace, prevalentemente docmi; trimetri giambici recitati per il Corifeo e per Tecmessa AIAS 350 ΔIwv, fivloi naubavtai, movnoi ejmw'n fivlwn movnoi e[tΔ ejmmevnonte" ojrqw'/ novmw/1, ªstr. aº [strofe 1] AIACE Miei cari marinai, miei soli amici, soli fedeli al giusto costume1, guardate quale ondata vorticosa mi trascina nella tempesta di sangue. 1. Nella solitudine che circonda l’eroe caduto in disgrazia, i marinai costituiscono l’unico appiglio affettivo, ma nulla più di questo. La loro linea di giudizio si attesta su posizioni di tradizionale buon senso e la loro solidarietà, pur ma- nifesta, non scalfisce la disperazione di Aiace. Del resto, il rapporto di amicizia che Aiace manifesta ai suoi marinai punta a un unico scopo: ottenere per mano loro l’agognata morte. Sofocle • La solitudine dell’eroe COROS 355 i[desqev mΔ oi|on a[rti ku'ma foiniva" uJpo; zavlh" ajmfivdromon kuklei'tai. Oi[mΔ wJ" e[oika" ojrqa; marturei'n a[gan. Dhloi' de; tou[rgon wJ" ajfrontivstw" e[cei. AI. 360 ΔIwv, gevno" nai?a" ajrwgo;n tevcna", a{lion o}" ejpevba" eJlivsswn plavtan, sev toi sev toi movnon devdorka phmona;n ejparkevsontΔ: ajllav me sundavixon. CO. Eu[fhma fwvnei2: mh; kako;n kakw'/ didou;" a[ko" plevon to; ph'ma th'" a[th" tivqei. ªajnt. aº AI. ªstr. bº 365 TEKMHSSA AI. 370 CO. AI. 375 CO. ÔOra'/" to;n qrasuvn, to;n eujkavrdion, to;n ejn dai?oi" a[treston mavcai", ejn ajfovboi" me qhrsi; deino;n cevra"… Oi[moi gevlwto", oi|on uJbrivsqhn a[ra3. Mhv, devspotΔ Ai[a", livssomaiv sΔ, au[da tavde. Oujk ejktov"… Oujk a[yorron ejknemh'/ povda… Aijai' aijai'. «W pro;" qew'n u{peike kai; frovnhson eu\. ‘W duvsmoro", o}" ceri; me;n meqh'ka tou;" ajlavstora", ejn dΔ eJlivkessi bousi; kai; klutoi'" pesw;n aijpolivoi" ejremno;n ai|mΔ e[deusa. Tiv dh'tΔ a]n ajlgoivh" ejpΔ ejxeirgasmevnoi"… Ouj ga;r gevnoitΔ a]n tau'qΔ o{pw" oujc w|dΔ e[cein. CORIFEO Ahimè, quello che hai detto è fin troppo vero; la follia è testimoniata dai fatti. [antistrofe 1] AIACE Ahimè, amici marinai che avete guidato i vostri remi per le vie del mare, solo in voi, solo in voi io vedo difesa dai mali. Uccidetemi. CORIFEO Non dire queste cose2; non creare un altro male per voler rimediare al primo; non fare più grande la pena di questa sciagura. [strofe 2] AIACE Vedete l’eroe fiero e coraggioso, che non trema di fronte a nemici e a battaglie; ma coraggioso contro bestie innocue! Oh le risate, gli oltraggi3! TECMESSA Aiace, mio signore, non dire così, te ne supplico. AIACE Va via, vattene di qua. Ahimè! CORIFEO In nome degli dèi, cedi, sii saggio. AIACE Disgraziato che sono, mi sono lasciato sfuggire i maledetti, ho colpito buoi e capre, ho fatto scorrere il loro sangue nero. CORIFEO Perché piangere sui fatti già compiuti? Non si può fare in modo che non siano. 2. In greco «fai silenzio», con un’espressione propria del linguaggio sacrale riferita al silenzio religioso che si deve tenere durante l’esecuzione del rito. Le parole di Aiace che chiede la morte suonano empie ai marinai che non possono condivide- re il punto di vista dell’eroe. 3. La paura di essere oggetto di scherno e di derisione da parte dei nemici è uno dei valori fondanti della cosiddetta «civiltà della vergogna» (sulla quale vedi vol. 1, p. 40). 25 26 Antologia AI. 380 CO. AI. 385 CO. AI. 390 TE. AI. 395 400 405 ΔIw; pavnqΔ oJrw'n, aJpavntwn tΔ ajei; kakw'n o[rganon, tevknon Lartivou4, kakopinevstatovn tΔ a[lhma stratou', h\ pou polu;n gevlwqΔ uJfΔ hJdonh'" a[gei". Xu;n tw'/ qew'/ pa'" kai; gela'/ kwjduvretai. “Idoimi dhv nin, kaivper w|dΔ ajtwvmeno". ΔIwv moiv moi. Mhde;n mevgΔ ei[ph/": oujc oJra'/" i{nΔ ei\ kakou'… «W Zeu', progovnwn propavtwr, pw'" a]n to;n aiJmulwvtaton, ejcqro;n a[lhma, touv" te dissavrca" ojlevssa" basilh'", tevlo" qavnoimi kaujtov"… ”Otan kateuvch/ tau'qΔ, oJmou' kajmoi; qanei'n eu[cou: tiv ga;r dei' zh'n me sou' teqnhkovto"… ΔIwv, skovto", ejmo;n favo", e[rebo" w\ faennovtaton5, wJ" ejmoiv, e{lesqΔ e{lesqev mΔ oijkhvtora, e{lesqev mΔ: ou[te ga;r qew'n gevno" ou[qΔ aJmerivwn e[tΔ a[xio" blevpein tinΔ eij" o[nhsin ajnqrwvpwn6. ΔAllav mΔ aJ Dio;" ajlkivma qeo;" ojlevqrion aijkivzei. Poi' ti" ou\n fuvgh/… Poi' molw;n menw'… Eij ta; me;n fqivnei, fivloi, toioi'sdΔ oJmou' pevla", mwvrai" dΔ a[grai" proskeivmeqa, pa'" de; strato;" divpalto" a[n me ceiri; foneuvoi. ªajnt. bº ªstr. g] [antistrofe 2] AIACE Ahimè, tu che vedi ogni cosa, tu strumento sempre di tutti i mali, figlio di Laerte4, spirito maligno dell’esercito, quali immense risate farai, quale piacere! CORIFEO È opera di un dio se si ride o si piange. AIACE Vorrei vederlo, anche distrutto come sono. CORIFEO Non dire parole orgogliose; non vedi a che punto di sventura sei arrivato? AIACE O Zeus, antenato dei miei avi, come potrei uccidere quell’odioso intrigante, e i due capi, e poi morire anch’io? TECMESSA Aggiungi a questa preghiera, che anch’io muoia con te; come potrei sopravviverti? [strofe 3] AIACE Ombra, mia luce, tenebra splendente5, prendimi per tuo cittadino, prendimi, prendimi! Non sono più degno di cercare aiuto dagli dèi, né di chiederlo agli uomini6. La potente figlia di Zeus mi tormenta a morte. Dove fuggire, dove andare, dove restare? Tutto quello che fu un tempo declina, amici, accanto a queste vittime, in questa folle caccia. Tutto l’esercito alzerebbe la spada per uccidermi. 4. Aiace crede di vedere Odisseo. 5. Ossimoro di eccezionale densità tematica: il buio dell’Erebo è l’unica luce che può risplendere per Aiace. 6. La coscienza dell’impossibilità di poter ricevere aiuto da altri è una delle forme in cui si concretizza il tema tipicamente sofocleo della solitudine dell’eroe. Sofocle • La solitudine dell’eroe 410 TE. «W dustavlaina, toiavdΔ a[ndra crhvs imon fwnei'n, a} provsqen ou|to" oujk e[tlh potΔ a[n. AI. 415 420 425 ΔIwv, povroi aJlivrroqoi pavralav tΔ a[ntra kai; nevmo" ejpavktion, polu;n poluvn me darovn te dh; kateivcetΔ ajmfi; Troivan crovnon: ajllΔ oujkevti mΔ, oujk e[tΔ ajmpnoa;" e[conta: tou'tov ti" fronw'n i[stw. «W Skamavndrioi geivtone" rJoaiv7, eu[frone" ΔArgeivoi", oujkevtΔ a[ndra mh; tovndΔ i[dhtΔ, e[po" ejxerw' mevgΔ8, oion ou[tina Troiva stratou' devrcqh cqono;" molovntΔ ajpo; ÔEllanivdo": tanu'n dΔ a[timo" w|de provkeimai. CO. Ou[toi sΔ ajpeivrgein, oujqΔ o{pw" ejw' levgein e[cw, kakoi'" toioi'sde sumpeptwkovta. ªajnt. g] TECMESSA Me infelice! che un uomo grande debba dire parole che prima non avrebbe mai detto! [antistrofe 3] AIACE O vie, o grotte marine, o selve costiere, tanto tanto tempo mi avete avuto qui a combattere attorno a Troia; ma non mi avrete più; almeno non più vivo. Lo sappia chi è capace di comprendere. Rive così vicine dello Scamandro7, propizie per i Greci, non vedrete più l’uomo – dirò una parola d’orgoglio8 – quale mai Troia vide arrivare dalla Grecia. Ora qui giaccio, disonorato. CORIFEO Non sappiamo impedirti di parlare, e neppure lasciartelo fare, nella sventura in cui sei caduto. (trad. di G. Paduano) 7. Uno dei due fiumi che scorrono nella pianura di Troia, dove si svolge l’azione scenica. 8. Questo riferimento alla superbia (u{bri~) potrebbe far pensare a uno schema di colpa u{bri~-a[th di tipo eschileo; un’in- terpretazione di questo genere è però scoraggiata dalla condizione di disonore in cui giace attualmente Aiace (v. 427), dalla consapevolezza di questa condizione e soprattutto dall’ossessivo desiderio di morte, assente nella tragedia di Eschilo. 27 28 Antologia t 16 Il monologo dell’eroe prima di morire (Aiace, vv. 815-865) Prima di darsi la morte gettandosi sulla spada, Aiace pronuncia un monologo da cui emerge tutto il titanismo di questo eroe tipicamente sofocleo: si tratta di un addio alla vita e di un’invocazione agli dèi perché lo assistano in questo suo estremo gesto. Solo la morte sarà infatti capace di sollevare Aiace dal dolore provocato dalle azioni nefaste che egli stesso ha compiuto. La forza di questa scena sta anche nel fatto che, diversamente da quanto accade solitamente nel teatro del V secolo a.C., il momento della morte non viene raccontato al pubblico da una terza persona, come ad esempio un messaggero, ma è l’eroe stesso a parlare dei suoi ultimi istanti di vita. (Il Coro, diviso in due Semicori, esce dagli ingressi laterali. Escono anche il Nunzio e Tecmessa, che lascia il piccolo Eurisace nella tenda. Cambia la scena, che rappresenta ora un luogo deserto in riva al mare. Entra Aiace, pianta in terra la sua spada, con la punta rivolta verso l’alto, sul fondo della scena, dove sono folti arbusti di macchia; quindi avanza in direzione degli spettatori.) AIACE Il mio assassino è là... ritto, nel modo più tagliente – se mi è concesso ancora il tempo di riflettere –, dono di Ettore, il più aborrito per me fra gli ospiti1. Il più odioso al mio sguardo; sta conficcato nella terra nemica di Troade, da poco affilato sulla cote che rode il ferro. L’ho piantato io ben saldo con cura, perché, con me assai benigno, mi conceda sollecita morte. Così son pronto: dopo di ciò, tu per primo, o Zeus, com’è giusto, assistimi. Non ti chiederò d’ottenere un grande dono. Manda per me un nunzio che porti a Teucro la triste notizia, perché per primo egli sollevi il mio corpo caduto su questa spada intrisa di fresco sangue, ed io non sia scorto prima da qualcuno dei miei nemici e gettato in pasto a cani ed uccelli. Di questo, o Zeus, ti supplico; e insieme prego Hermes2, sotterranea guida, di addormentarmi dolcemente quando con rapido slancio, senza spasimi, su questa spada io mi apra il fianco. E invoco soccorritrici le vergini eterne che sempre vedono ogni umano travaglio, le venerande Erinni dai lunghi passi, perché sappiano come muoio infelice, per opera degli Atridi. Rapiscano esse quei miserabili e scellerati nel modo più orrendo, come ora vedono me [cadere per mia propria mano, così essi periscano sotto i colpi dei loro più cari discendenti]. Andate, o veloci Erinni della vendetta, assaporate il sangue, non risparmiate l’esercito intero! E tu, Sole, che l’alto cielo percorri sul tuo cocchio, quando vedrai la mia terra paterna, trattieni le briglie dorate e annunzia le mie sventure e la mia morte al vecchio padre e alla madre infelice che mi nutrì. Certo, la sventurata, quando apprenderà questa notizia, leverà per tutta la città un acuto gemito. Ma non giova insistere in questi vani lamenti: bisogna compiere l’opera in fretta. O Morte, Morte, vieni a guardarmi, ora; ma anche laggiù sarò con te e potrò continuare a parlarti. Invece a te, fulgore di questo giorno splendente, e a te, Sole che avanzi sul tuo carro, voglio rivolgere il mio saluto: per l’ultima volta, certo, e mai più di nuovo per l’avvenire. O luce, o sacro suolo della patria terra Salamina, o sede del focolare avito; illustre Atene, con il tuo popolo che è cresciuto con me, fonti e fiumi e pianure troiane che pure mi avete nutrito, io vi saluto, addio! Questa è l’ultima parola che Aiace vi rivolge; le altre le dirò nell’Ade ai morti. (trad. di M.P. Pattoni) 1. Aiace fa riferimento alla spada donatagli da Ettore in nome del loro legame di ospitalità. 2. Il dio Hermes è qui invocato in qualità di dio incaricato di accompagnare le anime nell’aldilà. Sofocle • La solitudine dell’eroe Il titanismo di Filottete Abbandonato dai compagni nella deserta terra di Lemno, Filottete soffre pene terribili, causate da una ferita infetta (vedi T18). L’incontro con Neottolemo, inviato da Odisseo per convincere Filottete a tornare con l’esercito acheo per vincere la guerra di Troia, consente all’eroe di avere uno scambio con qualcuno che per la prima volta gli mostra solidarietà. Filottete racconta a Neottolemo la sua condizione di sofferenza (T17); tuttavia, deciderà di non accogliere l’invito del figlio di Achille ad abbandonare l’isola deserta: rimarrà invece a fronteggiare in solitudine il destino di dolore riservatogli. t 17 Filottete narra la sua sorte sciagurata (Filottete, vv. 254-316) Nel suo incontro con Neottolemo Filottete sembra quasi costretto dagli eventi a sottrarsi, seppur brevemente, a uno stato di isolamento completo. In questo contesto matura il racconto delle sue sventure: Filottete, ferito e dolorante, è stato abbandonato dai compagni nella deserta isola di Lemno. L’eroe ripercorre tutti i momenti della propria esistenza solitaria, fatta di estremi tentativi di sopravvivenza in una natura ostile. FILOTTETE Quanto sono sventurato e inviso agli dèi, se nemmeno la notizia dello stato in cui sono è mai giunta nella mia patria né in altro luogo della Grecia! Coloro che empiamente mi abbandonarono ridono in silenzio, mentre il mio male è sempre più rigoglioso e va crescendo ogni giorno. Figlio mio, tu che avesti per padre Achille, io sono colui che forse hai sentito nominare come possessore delle armi di Eracle, il figlio di Peante, Filottete. I due comandanti1 e il re dei Cefalleni2 mi hanno indegnamente gettato qui, in questa solitudine, consumato da un male selvaggio, stroncato dal morso rabbioso di una vipera assassina. Solo, con la mia piaga, qui mi lasciarono, figlio, e partirono, nel giorno in cui dall’isola di Crise3 con le loro navi approdarono a questa terra. Con gioia, non appena mi videro dormire, dopo tanti travagli, sulla costa al riparo di una roccia, mi abbandonarono e presero il mare, lasciandomi accanto, come a un miserabile, pochi stracci e un po’ di cibo, per sostenermi appena. Possa loro toccare una sorte simile! Figlio, quale pensi che fu il mio risveglio dal sonno, dopo che essi se ne furono andati? Quali lacrime piansi, quali gemiti di angoscia levai? Vedere le navi, con le quali ero partito, tutte scomparse, e non un uomo qui nell’isola, nessuno che mi assistesse, nessuno che potesse, quando soffrivo, darmi sostegno nella mia malattia! Per quanto scrutassi tutt’intorno, non scoprivo nient’altro che dolore: questo sì, in grande abbondanza, figlio mio. Il tempo passava per me, giorno dopo giorno, e bisognava che provvedessi a tutto da solo, sotto questo misero tetto. Per la mia fame, quest’arco mi procurava il necessario, trafiggendo le alate colombe; ma ad ogni preda che la freccia, balzando dalla corda tesa, colpiva, dovevo io stesso, sciagurato, spingermi arrancando fin lì, strisciando il mio povero piede. Se avevo bisogno di procurarmi un po’ da bere, oppure di spaccare legna quando s’era sparsa la brina, come accade in inverno, dovevo trascinarmi penosamente e ingegnarmi in tutto. E poi non c’era il fuoco; ma sfregando pietra contro pietra, con fatica, feci sprizzare l’occulta scintilla: quella che mi conserva ancora in vita. L’antro che mi fa da casa mi offre, con il fuoco, tutto il necessario, tranne la guarigione dal mio male. E ora, figlio, voglio anche parlarti di quest’isola. Nessun navigante vi si accosta di sua volontà: non c’è approdo, non c’è possibilità, per chi vi sbarchi, di vendere e guadagnare, e nemmeno di trovare ospitalità. Questa non è una meta per naviganti accorti. È naturalmente accaduto che qualcuno vi approdasse suo 1. Filottete intende qui riferirsi ai due comandanti della spedizione degli Achei contro Troia: Agamennone e Menelao. 2. L’espressione «re dei Cefalleni» indica nell’Iliade Odisseo: l’isola di Cefallene, l’odierna Cefalonia, rientrava infatti, come le altre isole Ionie, all’interno del regno di Odisseo. 3. Si tratta di un’isola, vicino a Lemno, in cui si venerava la ninfa Crise. Lì Filottete fu morso da un serpente posto a custodia dell’altare della ninfa. 29 30 Antologia malgrado: casi di questo genere possono verificarsi spesso nella lunga vita di un uomo. Costoro, quando arrivano, figlio mio, a parole mi mostrano compassione, e talvolta mi danno anche, per pietà, un po’ di cibo o qualche veste. C’è però una cosa che nessuno, quando ne parlo, vuol fare: condurmi in salvo a casa; e io resto qui a consumarmi, sventurato, – questo è ormai il decimo anno – nella fame, nelle sofferenze, nutrendo il male che mi divora. Questo mi hanno fatto gli Atridi e il forte Odisseo, o figlio: possano gli dèi dell’Olimpo ripagarli un giorno con altrettante pene. (trad. di M.P. Pattoni) Guida alla lettura La storia di Filottete La narrazione che Filottete offre delle proprie vicissitudini, pur essendo sintetica, è estremamente efficace. Dopo il riferimento iniziale alla propria condizione di dolore, Filottete mostra di riconoscere il suo visitatore, Neottolemo, al quale si presenta ricordando la sua origine. Lo spettatore è poi condotto all’interno delle terribili vicende che hanno costretto Filottete a soffrire in solitudine a Lemno, a partire dalla decisione dei due Atridi di abbandonarlo ferito. Dal momento in cui Filottete si risveglia dal sonno in cui era caduto, ha inizio la sua vera e propria lotta per la sopravvivenza sull’isola: alla sofferenza per la malattia si aggiunge infatti la necessità di far fronte alle esigenze pratiche della vita, quali sopperire alla fame e alla sete, procurarsi un tetto e il STRUTTURA t 18 fuoco; difficoltà che sono ancora maggiori in un’isola inospitale, priva di approdo per i naviganti. In un luogo tanto impervio nessuno giunge per sua volontà; qualcuno può però capitarci suo malgrado, imbattendosi in tal caso in Filottete. Questi stranieri dapprima mostrano compassione, proprio come è accaduto anche a Neottolemo, ma poi si rifiutano di fornire all’eroe malato l’unico aiuto veramente gradito: ricondurlo a casa. Filottete chiude il proprio discorso con un richiamo agli Atridi e a Odisseo, responsabili della sua sofferenza. In una struttura anulare, quindi, l’eroe tratteggia con efficacia il quadro della propria esistenza sull’isola di Lemno, ponendo dinanzi agli occhi dello spettatore il dolore fisico, le difficoltà della vita pratica, e la desolazione dell’isola. Il male assale Filottete (Filottete, vv. 742-826) Filottete, durante il suo dialogo con Neottolemo, è colto da un acuto attacco di dolore procuratogli dalla ferita sempre aperta. Neottolemo cerca di trovare un modo per alleviare le sue sofferenze, ma il dolore è tale che non ci sono rimedi di sorta. Filottete si dibatte nella sofferenza e rimane una figura solitaria cui solo il sonno, frutto dello sfinimento delle sue membra, pare dare un minimo sollievo. FILOTTETE Sono perduto, figlio mio, e non potrò nascondere il mio male davanti a voi. Ahimè! Mi trafigge, mi trafigge, o me infelice, sventurato! Sono perduto, figlio: mi sento divorare, figlio. Ohimè! Ah, ah, ah, ah, ahi! Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ahi! In nome degli dèi, se hai a portata di mano una spada, figlio mio, colpisci all’estremità del piede: recidi al più presto. Non mi risparmiare la vita. Fa’ presto, figlio! NEOTTOLEMO Ma che c’è di nuovo, così all’improvviso, per cui tu gridi e gemi tanto su te stesso? FILOTTETE Lo sai, o figlio. NEOTTOLEMO Di che si tratta? FILOTTETE Lo sai, figliolo. Sofocle • La solitudine dell’eroe NEOTTOLEMO Che ti succede? Non lo so. FILOTTETE Come non lo sai? Ah, ah, ah, ah, ahi! NEOTTOLEMO Tremendo è il peso della tua malattia! FILOTTETE Sì, tremendo, indicibile! Ma abbi pietà di me. NEOTTOLEMO Che debbo fare? FILOTTETE Non m’abbandonare inorridito. Essa giunge dopo lunghi intervalli, quando forse è sazia del suo vagare altrove. NEOTTOLEMO Ah, sventurato che sei! Sì, sventurato tu mi appari, in mezzo a tutte le tue pene. Vuoi che ti aiuti e ti sorregga un poco? FILOTTETE No, questo no; ma prendi quest’arco, come mi chiedevi poco fa, finché si plachi quest’accesso del male che ora mi affligge, veglia su di esso e custodiscilo1: mi coglie il sonno, non appena il male se ne va, e non v’è modo che cessi prima. Bisogna dunque lasciarmi dormire tranquillo. Se però nel frattempo giungessero loro, in nome degli dèi, ti prego, non consegnare ad essi quest’arma, né di tua volontà né tuo malgrado, in nessun modo, se non vuoi dar la morte a te stesso e a me che sono tuo supplice. NEOTTOLEMO Quanto alla mia premura sta’ tranquillo: non sarà ceduto a nessuno, all’infuori di te e di me. Dammelo pure, e che la fortuna ci assista. FILOTTETE (Porgendo l’arco a Neottolemo.) Ecco, prendilo, figlio mio, e supplica l’Invidia che esso non sia per te fonte di molti affanni come lo fu per me e per colui che prima di me lo possedette. NEOTTOLEMO O dèi, che questo nostro voto si avveri, e possa la navigazione riuscire favorevole e rapida verso quella meta che un dio considera giusta e a cui il nostro viaggio è diretto. FILOTTETE Ma temo, figliolo, che la tua preghiera non s’adempia: di nuovo gocciola l’umore sanguinolento che scaturisce dal profondo della piaga, e mi attendo qualcosa di orribile. Ahimè! Ahi! Ahimè! O piede mio, quanto male mi farai! S’avvicina. Eccolo qui che arriva. Ahimè infelice. Ormai capite di che si tratta: non fuggite, per nessuna ragione. Ah, ah, ahi! Straniero di Cefallene2, oh, se questa mia sofferenza si attaccasse a te, trafiggendoti il petto! Ahimè! Ahi, ahi di nuovo! E voi due condottieri, Agamennone, Menelao, come vorrei che al posto mio ci foste voi a nutrire per altrettanto tempo questo male! Ahimè! O morte, morte, perché ti invoco così, sempre, giorno dopo giorno, e tu non puoi mai venire? (A Neottolemo.) Tu, o mio giovane nobile amico, prendimi dunque, e con questo rinomato fuoco di Lemno3 bruciami, o generoso! Anch’io una volta al figlio di Zeus osai rendere un tale servizio e ne ebbi in cambio queste armi che ora tu custodisci. Che dici, figlio mio? Che dici? Perché taci? Dove sei, figlio mio? NEOTTOLEMO Da tempo soffro, piangendo sulle tue sventure. FILOTTETE Suvvia, figlio mio, fatti coraggio. Questo male violento mi assale e rapido s’allontana. Ma, ti scongiuro, non lasciarmi solo. NEOTTOLEMO Non temere, resteremo qui. FILOTTETE Davvero resterai? NEOTTOLEMO Siine certo. 1. L’arco era stato un dono di Apollo a Eracle, e Filottete, che ne era entrato in possesso, considera questo oggetto così prezioso l’origine di tutte le sue sventure. 2. Lo straniero di Cefallene è Odisseo (vedi in proposito T17, nota 2). 3. L’isola di Lemno è vulcanica e Filottete si augura che il fuoco del vulcano, il monte Mosiclo, possa porre fine al suo dolore. 31 32 Antologia FILOTTETE Non pretendo di obbligarti con un giuramento, figlio. NEOTTOLEMO Senza di te non mi è lecito partire. FILOTTETE Dammi la mano in pegno. NEOTTOLEMO Eccola, resterò. FILOTTETE Ora me... là... là... NEOTTOLEMO Dove intendi dire? FILOTTETE Lassù... NEOTTOLEMO Che nuovo delirio ti prende? Perché guardi alla volta celeste, in alto? FILOTTETE Lasciami, lasciami. NEOTTOLEMO Lasciarti, dove? FILOTTETE Lasciami, ti dico! NEOTTOLEMO Non intendo lasciarti. FILOTTETE Mi ucciderai, se mi tocchi. NEOTTOLEMO Ecco, ti lascio, ora che sei un po’ più in te. FILOTTETE O terra, accoglimi nella morte, così, adesso: questo male non mi consente più di reggermi in piedi. NEOTTOLEMO (Al Coro.) Fra non molto, a quanto sembra, lo coglierà il sonno: ecco, il capo si riversa all’indietro, il sudore gli inonda tutto il corpo e un nero fiotto di sangue è sgorgato dall’estremità del piede. Lasciamolo dunque tranquillo, amici, perché s’immerga nel sonno. (Filottete cade in un sonno profondo.) (trad. di M.P. Pattoni) 33 7. La rappresentazione dei sentimenti N elle sue tragedie Sofocle mette in scena una complessa gamma di sentimenti: attraverso le vicende mitiche degli eroi scandaglia le profondità dell’animo umano, con una particolare attenzione ai momenti critici dell’esistenza, quando a prevalere sono il dolore e la sofferenza. Gli eroi, spesso soli dinanzi al destino avverso, divengono così il tramite per la rappresentazione di temi cruciali della poetica sofoclea: l’incontro tra le persone come unico momento possibile di solidarietà e di trasformazione del proprio punto di vista, come avviene per Odisseo e Aiace e per Neottolemo al cospetto di Filottete; la convinzione della centralità dell’amore, espressa con forza particolare da Antigone; la consapevolezza della profondità del dolore provocato da un destino infausto, chiara soprattutto nelle parole di Elettra e nell’Edipo re; la follia incontrollabile che coglie l’uomo per volontà degli dèi, come nel caso di Aiace. Dalla pietas all’infelicità della condizione umana Nella condizione di dolore in cui l’eroe sofocleo viene a trovarsi all’improvviso, come in un vortice che distrugge l’esistenza riducendola a pura sopravvivenza in uno stato di sofferenza, vi è un unico aspetto che può ancora portare un minimo di sollievo: la solidarietà e l’atteggiamento di pietas offerti all’eroe. Questa vicinanza tutta umana nei confronti di chi è vessato dal male è ben rappresentata nell’episodio in cui Odisseo si mostra solidale verso Aiace, che in passato era stato suo acerrimo nemico (T19). Un atteggiamento di compassione verso la sofferenza fisica e morale provata da Filottete viene mostrato anche da Neottolemo, inizialmente giunto a fare visita all’eroe allo scopo di riportarlo sul campo di battaglia a Troia: l’incontro con tanto dolore sarà però così intenso da spingere Neottolemo a mutare il proprio punto di vista (T22). Tuttavia, nonostante che la pietas verso chi soffre costituisca una possibile via d’uscita dal vortice del male, la sofferenza che coglie l’eroe è destinata a essere non solo profonda, ma anche inevitabile (T21). Oltre alla solidarietà tra gli uomini, c’è un altro sentimento che può impadronirsi dell’animo umano, determinando il corso degli eventi con la propria potenza: si tratta dell’amore, protagonista assoluto del canto solenne del coro nell’Antigone (T20). t 19 La pietas verso il nemico: Odisseo e Aiace (Aiace, vv. 1316-1420) C’è stato un duro scontro tra Agamennone, deciso a lasciare insepolto Aiace, e Teucro, intenzionato a dare degna sepoltura al fratello. L’ingresso in scena di Odisseo, acerrimo nemico di Aiace, lascerebbe a questo punto credere che la contesa sia destinata a risolversi a favore di Agamennone. Ma già nella parte iniziale della tragedia (vv. 121-126) Odisseo ha mostrato pietà per Aiace, poiché in lui vede rispecchiato il destino tragico di tutti gli uomini; verso Aiace Odisseo prova un forte senso di solidarietà che scaturisce dalla coscienza di una condizione comune, ovvero l’impossibilità di resistere agli attacchi di una sorte avversa. CORIFEO Odisseo, sei giunto in buon punto, se sei qui per comporre la contesa e non per rinfocolarla. 34 Antologia ODISSEO Che c’è? Ho sentito da lontano le grida degli Atridi sulla salma del nobile Aiace. AGAMENNONE Non abbiamo forse sentito, or ora, frasi oltraggiose da parte di quest’uomo? ODISSEO Quali? Ho comprensione per l’uomo che, aggredito, risponde a sua volta con insulti. AGAMENNONE Appunto: io l’ho insultato perché lui ha fatto così con me. ODISSEO Quale torto ti ha fatto? AGAMENNONE Dice che non lascerà insepolto questo cadavere, ma gli darà una tomba a mio dispetto. ODISSEO È possibile che un amico ti dica la verità e poi resti tuo amico come prima? AGAMENNONE Parla; se non te lo concedessi sarei pazzo; tu sei il mio migliore amico tra i Greci. ODISSEO Ascolta. In nome degli dèi, non essere tanto crudele da lasciare quest’uomo senza una tomba. Non lasciarti vincere dalla violenza e dall’odio al punto di calpestare la giustizia. Quest’uomo era il mio peggior nemico, da quando ho vinto la disputa per le armi di Achille; ma ciò nonostante, mai oserei fargli il torto di negare che fosse il più prode tra i Greci che vennero a Troia, dopo il solo Achille. Non è giusto che tu lo offenda; né l’offesa sarebbe tanto rivolta a lui quanto alle leggi divine1. Non è giusto oltraggiare dopo la morte un uomo nobile, anche se lo si odia. AGAMENNONE Tu dunque, Odisseo, lo difendi contro di me? ODISSEO Certo. L’odiavo, quando non era vergogna odiarlo. AGAMENNONE E allora non dovresti calpestarlo dopo morto? ODISSEO Figlio di Atreo, non godere di una vittoria ignobile. AGAMENNONE Non è facile per un re avere pietà. ODISSEO Ma può rendere giustizia ai buoni consigli degli amici. AGAMENNONE L’uomo nobile deve obbedire a chi ha l’autorità. ODISSEO Smetti. Quando cedi agli amici, è proprio allora che dimostri il tuo potere. AGAMENNONE Pensa chi è l’uomo che vuoi onorare. ODISSEO Un nemico, certo, ma un uomo valoroso. AGAMENNONE E che farai? Rispetterai tanto un nemico morto? ODISSEO Per me il valore conta molto più dell’inimicizia. AGAMENNONE Ecco come sono incostanti certi uomini! ODISSEO Certo è vero che molti amici diventano poi nemici. AGAMENNONE E tu amici di tal fatta li approvi? ODISSEO Non approvo i cuori inflessibili. AGAMENNONE Ci farai sembrare dei vigliacchi in questo giorno. ODISSEO No, uomini giusti davanti a tutti i Greci. AGAMENNONE Mi imponi quindi di lasciarlo seppellire? ODISSEO Sì; al punto dove lui sta arriverò anch’io un giorno2. AGAMENNONE Sempre la stessa cosa, ogni uomo pensa a se stesso. ODISSEO A chi altro dovrei pensare di più? AGAMENNONE Si dovrà dire che questa è opera tua, non mia. ODISSEO Fa come vuoi, e farai bene comunque. 1. Nella questione della sepoltura di Aiace si intrecciano un motivo tipico dell’etica omerica, per cui l’eroe merita degna sepoltura (è la linea di Teucro e, al negativo, quella di Menelao e Agamennone), e uno più propriamente sofocleo, incarnato da Odisseo, secondo il quale la sepoltura va compiuta per rispetto delle leggi divine. È evidente lo scarto che Sofocle ha voluto marcare tra il comportamento di Atena, ispirato a un modello arcaico di divinità, e le leggi divine invocate da Odisseo, depurate dagli aspetti più crudi del divino e poste in sintonia con il senso della pietas umanamente intesa. 2. Un processo mentale simile a questo aveva indotto Achille ad aver pietà di Priamo nel XXIV libro dell’Iliade, quando la figura del vecchio re disperato aveva evocato in lui il ricordo del padre. Tuttavia, l’etica guerriera aveva continuato poi a regolarsi su un principio di ostilità prolungato anche dopo la morte, come mostrano i celebri versi di Alceo: «Ora bisogna ubriacarsi: [...] Mirsilo è morto» (fr. 332 Voigt; vedi vol. 1, p. 384). È questa la linea sulla quale Agamennone vorrebbe modellare il proprio comportamento. Sofocle • La rappresentazione dei sentimenti AGAMENNONE Sappi che a te farei concessioni anche maggiori di questa, ma costui nella terra e nell’Ade mi sarà sempre odioso. Puoi fare ciò che desideri. (Esce) CORO È davvero stolto, Odisseo, chi non riconosce in te un saggio. ODISSEO E ora voglio dire a Teucro che quanto un tempo gli sono stato nemico, altrettanto ora voglio essere suo amico. Desidero partecipare alla sepoltura di Aiace e collaborare con voi e non tralasciare nessuno degli onori che si debbono agli eroi. TEUCRO Nobilissimo Odisseo, non posso che approvare le tue parole. Hai smentito felicemente le mie aspettative3; tu eri il suo più aspro nemico eppure tu solo l’hai difeso e non hai osato venire tu, vivo, a fare oltraggio ad un morto, come volevano fare Agamennone, impazzito per l’odio, e suo fratello, abbandonandolo senza onore e senza tomba. Il padre degli dèi, l’Erinni che ha lunga memoria, la giustizia infallibile possano colpire quegli uomini malvagi, com’essi volevano colpire indegnamente Aiace. Però te, figlio di Laerte, non posso farti partecipare a questo rito; temo di fare cosa sgradita al morto. Ma ad ogni altra cosa puoi partecipare con noi e se vuoi portare qualcuno dei tuoi soldati, ne saremo lieti. Io compirò tutto il resto. Ma voglio dirti che sei stato molto generoso con noi. ODISSEO Avrei voluto farlo; ma se a te dispiace, me ne vado. Capisco la tua posizione. (Esce). TEUCRO Basta; già troppo tempo è trascorso. Scavate una fossa profonda, presto; altri mettano sul fuoco un tripode alto per le abluzioni rituali. Una schiera di soldati porti fuori dalla tenda la sua armatura. E tu, Eurisace, aiutami per quanto puoi a sollevarlo, con affetto. Dalle vene ancora calde sgorga il sangue nero. Orsù, tutti quelli che gli erano amici, si affrettino a rendergli onore; fu uomo eccellente in ogni cosa, e nessuno fu migliore di lui. CORO Molte cose conoscono gli uomini, quando l’hanno vedute; ma prima di vederle nessuno è profeta del futuro; nessuno sa qual è il suo destino4. (Escono) (trad. di G. Paduano) 3. Le parole di Teucro riflettono qui il sentimento comune degli spettatori. L’intervento di Odisseo costituisce un caso notevole di tradimento delle attese; Sofocle impiega questo espediente per dare risalto a un tema fortemente innovativo: la pietas tra nemici di antica tradizione epica. 4. Queste parole finali ricordano un topos ampiamente dif- t 20 fuso nella Grecia antica. Tuttavia, appaiono anche come un commento efficace della vicenda appena terminata e come l’espressione dello smarrimento dei marinai di Aiace, i quali, incapaci di interpretare più nel profondo l’accaduto, adottano un punto di vista ispirato al buon senso e al sapere popolare. La potenza dell’amore (Antigone, vv. 781-800) Ormai le due distinte posizioni di Antigone (che è decisa a seppellire il fratello Polinice secondo le leggi del gevno~ e secondo i principi basilari del diritto di natura) e di Creonte (che si mostra rispettoso solo della ragion di Stato) sono chiare al pubblico, dinanzi al quale il coro dispiega all’improvviso questo canto sulla potenza dell’amore. Come se la dinamica degli eventi tragici si interrompesse per un breve istante, il coro domina sulla scena e costringe a focalizzare l’attenzione sulla centralità dell’amore, invincibile in battaglia e capace di rapire ogni uomo, al di là delle leggi imposte dagli Stati. metro: metri lirici (gliconei e ferecratei) COROS “Erw" ajnivkate mavcan, “Erw", o}" ejn kthvmasi pivptei", o}" ejn malakai'" pareiai'" ªstr. aº CORO [strofe 1] Eros, in battaglia invincibile, Eros, tu che sulle bestie ti slanci e vigili sulle tenere guance 35 36 Antologia 785 790 795 800 neavnido" ejnnuceuvei", foita/'" dΔ uJperpovntio" e[n tΔ ajgronovmoi" aujlai'": kaiv sΔ ou[tΔ ajqanavtwn fuvximo" oujdei;" ou[qΔ aJmerivwn sev gΔ ajnqrwvpwn, oJ dΔ e[cwn mevmhnen. Su; kai; dikaivwn ajdivkou" frevna" paraspa/'" ejpi; lwvba/: su; kai; tovde nei'ko" ajndrw'n xuvnaimon e[cei" taravxa": nika/' dΔ ejnargh;" blefavrwn i{mero" eujlevktrou nuvmfa", tw'n megavlwn pavredro" ejn ajrcai'" qesmw'n: a[maco" ga;r ejmpaivzei qeo;" ΔAfrodivta. ªajnt. aº della vergine, tu che valichi il mare e penetri fra rustici tuguri: non dio immortale, non essere umano, creatura d’un giorno, fuggire ti può. E delira chi ti possiede. Tu anche il cuore dei giusti a ingiustizia, a rovina travii; tu anche questa discordia fra consanguinei hai acceso. Nato dagli occhi della vergine leggiadra, luminoso trionfa il desiderio, potere assiso fra le grandi leggi del mondo. Irresistibilmente ci ammalia la dea Afrodite. t 21 [antistrofe 1] (trad. di F. Ferrari) Il canto dell’infelicità umana (Edipo re, vv. 1186-1222) Edipo è infine giunto a conoscenza della terribile verità che lo riguarda: è figlio di Laio e Giocasta; la sua sposa è, dunque, sua madre. A scena vuota, il coro intona un canto di profonda mestizia che si effonde in un’amara riflessione sull’inevitabile infelicità che incombe su ogni uomo. [strofe 1] CORO Generazioni di uomini, vi conto una dopo l’altra, tutte uguali, tutte viventi nel nulla1. Quale uomo ottiene più che l’illusione della felicità? E dopo l’illusione viene il 1. L’idea del carattere effimero ed evanescente della felicità umana è una concezione tradizionale nella cultura greca, più volte ribadita in letteratura; ma nessuno l’ha mai rappresentata con l’incisiva profondità di Sofocle, che in tal modo intese anche rispondere all’ottimismo razionalistico dei sofisti e dell’ideologia democratica dell’Atene contemporanea. Sofocle • La rappresentazione dei sentimenti declino. Abbiamo davanti a noi l’esempio del tuo destino, infelicissimo Edipo, e dunque non diremo felice nessuno degli uomini. [antistrofe 1] Tu che con mire superbe possedesti ogni più splendida prosperità, tu che uccidesti la vergine profetica dagli artigli ricurvi2, e ti levasti come un baluardo contro la morte, in difesa della nostra città. Da allora sei chiamato nostro signore e onorato più di ogni altro, regnando sulla grande Tebe. [strofe 2] Ma ora, a quel che sentiamo, chi è più sventurato di te3? Chi nella vicenda della sua esistenza vive angosce e travagli più selvaggi? Nobile Edipo, dunque lo stesso rifugio è bastato alle nozze del padre e del figlio? Come il solco arato da tuo padre poté sopportare anche te, per tanto tempo in silenzio? [antistrofe 2] Tuo malgrado, ti ha colto il tempo4 che tutto vede e di queste nozze orribili ti punisce come padre e come figlio. Figlio di Laio5, vorremmo non averti mai visto; e piangiamo su di te, gridando dalle nostre labbra i più tristi lamenti. Eppure, se si deve dire la verità, grazie a te abbiamo avuto respiro, grazie a te abbiamo potuto dormire. (trad. di G. Paduano) 2. La Sfinge, che seminava morte e terrore alle porte di Tebe. 3. Lo schema del rovesciamento su cui è organizzato l’Edipo re è ora pienamente realizzato: nell’arco di poche ore Edipo è diventato, da uomo più felice della città, l’essere più infelice del mondo. t 22 4. Tradizionalmente, nella cultura greca il tempo è un’entità divina che vede tutto, porta alla luce la verità e assegna pene e (rari) premi alle azioni degli uomini. 5. Ora che la verità è palesata, il coro chiama Edipo per quello che è, cioè figlio di Laio, con tutti gli orribili sottintesi che questo comporta. L’incontro con l’altro e il cambiamento delle convinzioni: la conversione di Neottolemo (Filottete, vv. 865-974) Neottolemo si è guadagnato la fiducia di Filottete e si è impegnato a portarlo via da Lemno. Prima di recarsi alla nave, Filottete ha però avuto una crisi di dolore e ha consegnato l’arco a Neottolemo. Il compito di cui Neottolemo era stato incaricato da Odisseo sembrerebbe dunque raggiunto; ma l’incontro con Filottete ha profondamente mutato il giovane, che decide di confessare il suo vero progetto: portare l’eroe a Troia dagli odiati Greci. Filottete chiede immediatamente la restituzione dell’arco e al rifiuto di Neottolemo si abbandona al disperato compianto di se stesso. NEOTTOLEMO Tacete e state attenti: ora muove gli occhi, e solleva la testa. FILOTTETE Oh, la luce dopo il sonno! Oh, vedere oltre ogni speranza accanto a me la guardia degli amici! Non avrei mai osato sperare che tu sopportassi con tanta pietà le mie disgrazie, e restassi qui a porgermi aiuto. Certo tanto coraggio non l’hanno avuto gli Atridi, i grandi comandanti. Ma la tua natura è nobile e nobile la tua origine, e ti ha reso agevole tollerare i gemiti e gli odori. Ora, poiché sembra che ci sia una pausa, un riposo dai dolori, aiutami a rimettermi in piedi; così, quando la stanchezza sarà passata potremo andare subito alla nave e non ritardare più la partenza. NEOTTOLEMO Sono contento di vederti, come non speravo più, libero dal dolore, che vivi e respiri. Considerando la tua malattia, il tuo aspetto era quello di un morto. Ora risol- 37 38 Antologia levati; o, se preferisci, i miei uomini ti porteranno; non hanno paura della fatica, se decidiamo di fare in questo modo. FILOTTETE Grazie. Aiutami a sollevarmi, come hai detto, e non dare ai tuoi uomini questo compito; non voglio che siano oppressi dal cattivo odore prima del necessario. Per loro sarà già duro abbastanza stare assieme a me, sulla nave. NEOTTOLEMO Va bene; ora alzati e appoggiati a me. FILOTTETE Non preoccuparti; l’abitudine mi terrà in piedi. NEOTTOLEMO Ahimè! E ora, che devo fare1? FILOTTETE Che c’è, figlio mio? Dove mirano queste tue parole? NEOTTOLEMO Non so cosa dire; è un discorso senza via d’uscita. FILOTTETE Senza via d’uscita? Non dire così, figlio mio. NEOTTOLEMO Mi trovo ormai a questo punto d’angoscia. FILOTTETE Non sarà che il fastidio della mia malattia ti ha colpito al punto da non portarmi più con te? NEOTTOLEMO Tutto è fastidio, quando un uomo tradisce la propria natura e fa ciò che non deve2. FILOTTETE Ma tu non fai, non dici nulla che sia indegno di tuo padre, se aiuti un uomo onesto. NEOTTOLEMO Apparirò un malvagio: ecco ciò che mi tormenta, e non da ora. FILOTTETE Non certo per le tue azioni; sono le tue parole che mi fanno paura. NEOTTOLEMO O Zeus, che debbo fare? Comportarmi male una seconda volta, nascondere la verità, dire parole che fanno vergogna? FILOTTETE Se non intendo male, quest’uomo pensa di tradirmi e di andarsene lasciandomi qua. NEOTTOLEMO Lasciarti... questo no. Ma ciò che mi tormenta da tempo è se non ti faccio del male a portarti via piuttosto. FILOTTETE Che dici, figlio mio? Non ti capisco davvero. NEOTTOLEMO Non ti nasconderò più nulla: devi andare a Troia, dall’esercito greco, dagli Atridi. FILOTTETE Ahimè, che hai detto? NEOTTOLEMO Non lamentarti; stammi a sentire, prima. FILOTTETE Stare a sentire cosa? Che pensi di fare di me? NEOTTOLEMO Guarirti, prima di tutto, poi andare con te a Troia, e distruggerla. FILOTTETE Questo pensi di fare davvero? NEOTTOLEMO Questo impone la necessità. Non ti irritare. FILOTTETE Sono morto, sono tradito. Che hai fatto, straniero? Restituiscimi l’arco, subito3. NEOTTOLEMO Non posso. L’utile e il dovere m’impongono di ubbidire ai miei capi. FILOTTETE Tu fuoco, tu spavento, tu artefice di un’arte maligna... che cosa hai fatto, come mi hai ingannato! Non hai vergogna4, sciagurato, a vedermi supplice dinanzi a te? Mi hai tolto la vita, togliendomi le armi. Ridammele, ti prego, ridammele, ti supplico, figlio mio; per gli dèi dei tuoi padri, non togliermi la vita. Ahimè, non parla più, guarda altro1. Il dubbio su come agire è il motivo-guida di questa scena per quanto riguarda l’ethos di Neottolemo, lacerato da un conflitto interiore tra valori esterni (l’obbedienza a Odisseo e la gloria futura) e valori interni (la pietas e il rispetto della propria natura). La scelta cadrà su questi ultimi e il personaggio di Neottolemo andrà a costituire una delle figure forti del cosiddetto umanesimo sofocleo. 2. Il tema del tradimento di se stessi è centrale nella tragedia. All’attivismo di Odisseo si contrappone il conflitto interiore di Neottolemo; il giovane vive un processo di maturazione che lo consegna alla vita adulta, qui rappresentata dalla scelta defi- nitiva di discostarsi da Odisseo e di agire nel pieno rispetto della propria natura. 3. Svelato l’inganno, Neottolemo è tornato uno straniero agli occhi di Filottete, che ignora quanto di vero e quanto di falso vi fosse nei suoi precedenti discorsi. Il rapido giro di pensieri di Filottete non può che giungere immediatamente all’arco, fonte unica di sopravvivenza. 4. Filottete tocca un tasto delicato: con riluttanza Neottolemo ha messo da parte la sua aijscuvnh quando ha aderito al progetto di Odisseo, ed è ancora la vergogna a trattenerlo ora dal reiterare l’inganno. Sofocle • La rappresentazione dei sentimenti ve, non vuole cedere5. Porti e promontori di questa terra, rocce scoscese, belve montane, a voi presenze quotidiane nella mia vita, levo il mio pianto; non so a chi altro parlare. Cosa mi ha fatto il figlio di Achille! Aveva giurato di riportarmi a casa, e mi porta a Troia; mi ha dato la mano, ha ricevuto dalla mia le armi sacre del figlio di Zeus e le vuole portare ai Greci. Mi porta via a forza, come avesse preso un prigioniero valido, e non sa che uccide un morto, un’ombra, un filo di fumo. No, quand’ero padrone delle mie forze non mi avrebbe preso; ma neanche così mi avrebbe preso se non fosse ricorso all’inganno. Ora sono tradito. Che devo fare? Restituiscimele, torna in te. Che dici? Continui a tacere? Sono morto. Roccia dalle due porte, torno di nuovo da te, ma nudo, senza più mezzi di vita. Deperirò là dentro da solo e non ucciderò più con le mie frecce gli uccelli del cielo e le bestie dei monti; povero me, sarò io, morto, a servire da cibo alle bestie di cui mi nutrivo6; e mi daranno la caccia quelle a cui davo la caccia, sconterò morte con morte, per causa di un uomo che sembrava non conoscere il male. Maledetto! ma no, no... non prima di sapere se puoi cambiare idea; se no, ti auguro di morire malamente! CORIFEO Che facciamo, signore? Dipende da te soltanto metterci in mare; e da te anche dipende dar retta alle parole di quest’uomo7. NEOTTOLEMO Mi è presa una pietà terribile per lui. Non da ora, da molto tempo8. FILOTTETE In nome degli dèi, figlio mio, dà retta a questa tua pietà, non esporti al biasimo degli uomini per avermi tradito. NEOTTOLEMO Ahimè, che fare? Vorrei non essere mai partito da Sciro; tale è il peso di questo momento. FILOTTETE Tu non sei malvagio; ma se ti lasci guidare dai malvagi, puoi arrivare a compiere cose vergognose. Lasciale fare a quelli che le fanno per loro natura; ridammi le mie armi, e poi vattene via. NEOTTOLEMO (Al Coro) Che facciamo? (trad. di G. Paduano) 5. Le parole di Filottete costituiscono una cosiddetta «didascalia interna», in quanto descrivono l’atteggiamento che deve qui assumere il personaggio di Neottolemo. Costui, guardando altrove assorto nel suo dubitare, interrompe qualsiasi relazione con Filottete, costretto a ripiegare, in assenza di un interlocutore, in una dimensione prevalentemente autoespressiva. 6. L’inerzia di Neottolemo, al quale Filottete aveva affidato le sue residue speranze, vale come annichilimento definitivo dell’eroe, destinato a essere preda degli animali che un tempo lui stesso cacciava. Il topos epico-eroico del cadavere esposto a cani e uccelli è qui aggiornato nella direzio- ne del degrado dell’eroe, il cui cadavere verrà dilaniato non come conseguenza di una morte eroica, ma a seguito di una misera consunzione. 7. L’indecisione di Neottolemo si riverbera nel coro e tutta l’azione appare sospesa e priva di sbocchi. Sarà l’intervento esterno di Odisseo, fermamente determinato nel suo progetto, a rimettere in moto gli eventi. 8. La profonda pietas (oi\kto~ deinov~), qui espressamente manifestata da Neottolemo, è il punto culminante di un processo di solidarietà, che Neottolemo ha instaurato con Filottete fin dal primo incontro, e costituisce il punto di scissione fondamentale di Neottolemo dall’«impietoso» Odisseo. 39 40 Antologia Gli eroi nella rete del ‘tragico’ Una volta che il male si impadronisce dell’esistenza dell’eroe, per volere divino o comunque per circostanze che non possono essere in alcun modo previste né controllate dal singolo, si innesca un meccanismo ‘tragico’ inevitabile e ineludibile. Un esempio di tale meccanismo è costituito dall’episodio iniziale dell’Aiace (T23) in cui l’eroe, colto da improvvisa follia indotta dall’intervento divino, si macchia di una tremenda strage che non gli consentirà più di tornare a una condizione di equilibrio e serenità d’animo. Analogamente Elettra (T24), sottoposta a una sofferenza inarrestabile, non potrà che abbandonarsi a un canto spiegato in cui si presenta come donna dal dolore inconsolabile. t 23 La follia cruenta di Aiace (Aiace, vv. 1-133) La scena iniziale dell’Aiace si svolge nell’accampamento degli Achei a Troia. Aiace Telamonio, uno dei più fidati amici di Achille, è colto da follia improvvisa. Alla morte di Achille, infatti, Aiace vede negarsi dai compagni la consegna delle armi dell’amico, che vengono invece affidate a Odisseo. Da qui nasce per Aiace l’istinto di lanciarsi contro i propri compagni. Atena, tuttavia, lo acceca e l’eroe, invece di infierire sugli Achei, massacra i loro buoi e montoni. ATENA Ti ho sempre visto, figlio di Laerte1, in atteggiamento di chi caccia, pronto a cogliere un’opportunità contro i tuoi nemici; ed ora, davanti alla tenda di Aiace, sul mare, qui dove egli occupa la posizione estrema2, ti scorgo intento già da tempo a seguire ed esaminare le sue orme recenti, per capire se si trova o no nella tenda. E ben ti guida il tuo passo dal fiuto sottile, come di cagna lacena3; l’uomo, infatti, è da poco rientrato, col capo madido di sudore e le mani cruente. Non hai più alcun motivo di spiar dentro a questa porta. Dimmi piuttosto perché ti sei preso questa cura: io so, e da me potrai apprendere ogni cosa. ODISSEO O voce di Atena, la dea a me più cara, come distinta, sebbene non ti possa scorgere, io intendo la tua voce, e l’accolgo nel mio cuore quale bronzeo squillo di tromba tirrena! Sì, anche questa volta hai colto nel segno: mi aggiro in cerca di un nemico, di Aiace portatore di scudo4, di lui, e di nessun altro, seguo da tempo le tracce. Un gesto inconcepibile egli ha compiuto contro di noi questa notte, se pure è stato lui l’autore del fatto: nulla infatti sappiamo di chiaro, ma vaghiamo nel dubbio; ed io, spontaneamente, mi sono sobbarcato la fatica di questa ricerca. Poco fa abbiamo trovato ucciso tutto il bestiame, trucidato da mano d’uomo insieme con i guardiani stessi. Tutti ne attribuiscono la colpa a lui. Anzi, un testimone che lo vide percorrere da solo la pianura, a grandi balzi, con in pugno la spada intrisa di fresco sangue, mi ha riferito il fatto, precisandone i particolari. Subito mi lancio sulle sue tracce: alcune le identifico, ma per altre rimango perplesso, e non so comprendere a chi appartengano. Sei giunta a proposito: in tutto, nel passato come nel futuro, io mi lascio guidare dalla tua mano. ATENA Lo so, Odisseo, e da tempo mi sono messa sui tuoi passi, vigile custode alla tua caccia. ODISSEO Dunque, amata signora, la mia fatica non è vana? ATENA Sì, poiché questo è opera sua. ODISSEO E a che scopo egli spinse così la mano insana? ATENA Era gravato dall’ira per le armi di Achille. 1. Atena si rivolge a Odisseo. 2. Secondo la tradizione riportata anche nell’Iliade (8,223-225; 11,5-9), le tende di Aiace e di Achille si trovavano alle due estremità dell’accampamento degli Achei, rispettivamente a est e a ovest, in modo da occupare le posizioni più esposte agli attac- chi dei nemici. 3. Si tratta delle cagne della Laconia, note per la loro abilità nella caccia. 4. L’eroe viene così indicato anche nell’Iliade (ad esempio 7,219; 11,485; 17,128). Sofocle • La rappresentazione dei sentimenti ODISSEO Ma perché è piombato con tale impeto contro il bestiame? ATENA Credendo di immergere la mano nel vostro sangue. ODISSEO Questo suo proposito era dunque rivolto agli Argivi? ATENA E l’avrebbe attuato, se io non avessi provveduto. ODISSEO Ma con quale ardire, con quale furia dell’animo? ATENA Di notte, solo, furtivo, si diresse contro di voi. ODISSEO E riuscì ad arrivarci? Raggiunse la sua mèta? ATENA Già si trovava alle porte dei due comandanti. ODISSEO E come trattenne la mano, avida di sangue? ATENA Io l’ho fermato, gettandogli sugli occhi le ingannevoli immagini di una gioia funesta, e l’ho deviato sulle vostre mandrie, sul bottino sorvegliato dai pastori, ancora confuso e indiviso. Là egli, avventatosi sulle prede, fece massacro del bestiame dalle molte corna, roteando intorno la spada e trucidando, e credeva di uccidere di sua mano ora i due Atridi, avendoli in suo potere, ora l’uno o l’altro dei capi greci, piombando loro addosso. E mentre l’uomo infuriava nel morbo della follia, io lo incitavo, lo sospingevo in funesti lacci. Quando poi fu sazio di tale strage, stretti in catene i buoi ancora vivi e tutte le pecore, li trascinò nella sua tenda, rendendoli uomini e non preda dalle belle corna; e ora là dentro infierisce su di loro, così legati insieme. Mostrerò anche a te questo suo male in piena luce, perché, dopo aver visto, tu lo possa annunziare a tutti gli Argivi. Rimani lì senza paura, e non considerare quest’uomo un pericolo per te: io infatti stornerò la luce dei suoi occhi dalla vista di te. (Rivolgendosi verso la tenda.) O tu che costringi nei ceppi le mani dei prigionieri, accorri al mio richiamo! Dico a te, Aiace: esci davanti alla tua dimora! ODISSEO Che fai, Atena? Non chiamarlo fuori! ATENA Non te ne starai in silenzio? Vuoi mostrarti un vile? ODISSEO No, in nome degli dèi, basti solo che egli rimanga dentro! ATENA Che cosa temi che accada? Costui prima non era un uomo? ODISSEO Sì, e mio nemico; e tale anche oggi rimane. ATENA Ridere dei nemici non è forse il bel riso? ODISSEO A me basta che egli resti nella sua dimora. ATENA Ti fa paura vederti davanti un folle? ODISSEO Se fosse in senno, non lo eviterei per timore. ATENA Ma nemmeno ora hai motivo di temere: non ti vedrà, per quanto tu gli sia vicino. ODISSEO E come, se vede con gli stessi occhi di prima? ATENA Li offuscherò anche se continueranno a vedere. ODISSEO Tutto può accadere, quando un dio usa le sue arti. ATENA Sta’ dunque in silenzio e rimani dove sei. ODISSEO Rimango, ma vorrei essere lontano. ATENA (Ad alta voce.) Aiace! Per la seconda volta ti chiamo. Così poco pensiero ti dai della tua alleata? (Aiace esce dalla tenda con in mano una sferza intrisa di sangue.) AIACE Salve, Atena, salve, figlia di Zeus! Quanto prezioso è stato il tuo aiuto! In ringraziamento di questa caccia ti offrirò spoglie d’oro massiccio. ATENA Sagge parole. Ma dimmi: hai bene immerso la tua spada nel sangue dei soldati argivi? AIACE Sì, posso vantarmene, e non lo nego! ATENA Anche sugli Atridi hai vibrato la tua mano? AIACE In tal modo che mai più, lo so, oltraggeranno Aiace. ATENA Dunque sono morti, se ho ben inteso le tue parole. AIACE Morti: ed ora vengano a prendersi le mie armi! ATENA Bene. E il figlio di Laerte? Che sorte gli hai riservato? Ti è sfuggito? 41 42 Antologia AIACE Mi hai chiesto dov’è quella scaltra volpe? ATENA Appunto. Parlo di Odisseo, del tuo rivale. AIACE Siede lì dentro in catene, o mia signora, prigioniero a me graditissimo. Ancora non voglio che muoia. ATENA Cosa intendi fargli prima? Che altro vuoi ricavare da lui? AIACE Prima, legato a una colonna del mio tetto… ATENA Qual pena darai a quell’infelice? AIACE ...perisca sotto i colpi di sferza, col dorso insanguinato. ATENA Oh no, non torturarlo così, povero sventurato! AIACE Sono disposto ad appagarti in ogni altro desiderio, Atena, ma egli avrà la punizione che ho detto, e non diversa. ATENA Ebbene, poiché è tuo piacere farlo, battilo pure, non risparmiare nulla di quanto hai in mente. AIACE Vado a compiere l’opera. Questo soltanto ti chiedo: di assistermi alleata sempre, come ora. (Aiace rientra nella tenda.) ATENA Vedi, Odisseo, quanto è grande la potenza degli dèi? Quale uomo avresti potuto trovare più accorto di costui o più valente al momento d’agire? ODISSEO Io non ne conosco nessuno. Ma nonostante mi sia nemico, ho pietà di quell’infelice, per la tremenda sciagura a cui si trova aggiogato: nella sorte di lui trovo riflessa anche la mia. Vedo che noi, quanti viviamo, null’altro siamo se non fantasmi o vana ombra. ATENA Quanto hai visto ti insegni dunque a non proferire mai contro gli dèi alcuna parola arrogante e a non sollevarti ad orgoglio, se più di altri sei potente per braccio o per vastità di ricchezza: un giorno solo basta a piegare tutte le cose umane e ad innalzarle di nuovo. Gli dèi amano gli uomini saggi e odiano i malvagi. (Escono Atena e Odisseo. Fa il suo ingresso il Coro formato da marinai di Salamina.) (trad. di M.P. Pattoni) Guida alla lettura La follia e i suoi sintomi La rappresentazione della follia dell’eroe nel prologo dell’Aiace avviene per bocca di Atena e Odisseo. L’atteggiamento di Aiace è presentato non solo come il frutto dell’accecamento da parte di Atena, ma anche come una vera e propria malattia. Ciò emerge con particolare evidenza dalle parole di Atena, che narra di Aiace colto nel «morbo della follia» (maniavs in novsoi", v. 59), nel «male» da mettere in piena evidenza (thvnde perifanh` novson, v. 66). Una simile modalità di rappresentare la follia come una malattia, con sintomi ben riconoscibili sul piano fisico oltre che mentale, è sviluppata ancor più nel dettaglio nell’Eracle di Euripide. La descrizione della pazzia dell’eroe (vv. 833-842; 867-871) comprende qui il riferimento alla camminata traballante, alla schiuma alla bocca, agli occhi roteanti e allo scuotimento della testa, tutti sintomi fisici che accom- TEMI E MOTIVI pagnano l’ottenebramento della mente. Questo quadro della follia tratteggiato dai poeti tragici ha da sempre richiamato alla mente dei critici un confronto diretto con la letteratura medica, e in particolare con l’operetta Il morbo sacro del corpus ippocratico (vedi vol. 2, Il corpus ippocratico, T1-T2): in questo trattato, infatti, alcune reazioni fisiche simili a quelle che nei tragici erano connesse alla follia degli eroi sono attribuite allo stato patologico dell’epilessia. Gli eroi sofoclei ed euripidei, quindi, nel momento in cui si ottenebra la loro razionalità, cadono in uno stato paragonabile a una vera e propria malattia con sintomi ben riconoscibili: si intravede qui un processo di lento, ma inesorabile allontanamento dalla spiegazione della follia come fenomeno esclusivamente dettato dall’intervento divino, e si cominciano a riconoscere cause e conseguenze della follia tutte interne al piano fisiologico della natura umana. Sofocle • La rappresentazione dei sentimenti t 24 Il dolore inconsolabile di Elettra (Elettra, vv. 86-136) Elettra, pensando di non poter più rivedere il fratello Oreste, unica speranza per trovare scampo dalle sofferenze del presente, si abbandona a un canto in cui descrive tutti gli aspetti del proprio dolore: la sua casa è stata in passato sede di orribili delitti e il presente è dominato dalle continue angherie della madre Clitemestra e dell’amante di lei, Egisto. Il canto è così dominato dalle lacrime e dal lamento di Elettra, cui neppure l’intervento e il tentativo consolatorio del coro portano alcun giovamento. ELETTRA O luce pura, o etere che avvolgi la terra, quanti miei canti di lamento hai udito, quanti colpi inferti al petto sanguinante quando l’oscura notte si dissolve. L’odioso mio giaciglio conosce ormai le lunghe veglie notturne in questa lugubre casa, sa bene quanto piango l’infelice mio padre, che su terra straniera il cruento Ares non accolse ospite: mia madre e il suo compagno di letto, Egisto, come una quercia i boscaioli, con la scure rossa di sangue gli spaccarono il capo. E nessun compianto di donna ti è rivolto, padre, se non da me, per questa tua morte così misera e indegna. Ma io no, non cesserò dal mio pianto e dagli amari gemiti fin quando vedrò i fulgidi raggi degli astri e questa luce del giorno; non cesserò, come usignolo che ha perduto i figli1, di far risuonare su tutti, davanti a queste soglie paterne, l’eco del mio grido di dolore. O dimora di Ade e di Persefone, o sotterraneo Hermes, e tu, potente Maledizione2, 1. Il poeta fa qui riferimento al mito di Procne e Filomela. Tereo, re di Daulide, sposa Procne e poi seduce la sorella di lei, Filomela, usandole violenza. Per evitare che la fanciulla riveli l’aggressione subita, Tereo le taglia la lingua. Filomela, tuttavia, intessendo un arazzo, riesce a comunicare alla sorella la sua tragedia. A questo punto, Filomela e Procne, per vendicarsi, uccidono Iti, figlio della stessa Procne e di Tereo, e lo servono in pasto al padre. Tereo, dopo aver compreso l’accaduto, vuole uccidere moglie e cognata. La catena del male, tuttavia, è spezzata dagli dèi che trasformano i tre personaggi in uccelli (Procne in usignolo, Filomela in rondine e Tereo in upupa). 2. Si tratta qui della personificazione della maledizione, invocata insieme alle divinità ctonie Ade e Persefone, e a Hermes, messaggero degli dèi nonché divinità addetta ad accompagnare le anime dei morti nell’aldilà. 43 44 Antologia o Erinni3, venerande figlie degli dèi, voi che vedete le morti senza giustizia, i talami usurpati, venite, aiutatemi, vendicate l’eccidio di nostro padre, e fate che mio fratello torni: non posso più reggere, da sola, il peso del dolore che mi piega. (Entra il Coro, formato da nobili donne di Micene.) CORO O figlia di scelleratissima madre, Elettra, perché ti consumi in questo eterno, insaziabile pianto per Agamennone, che un tempo lontano cadde nell’inganno più empio, ordito dalla tua subdola madre, e fu colpito a tradimento da perfide mani? Possa perire chi ha compiuto ciò, se mi è lecito pronunciare questo augurio! ELETTRA O figlie di nobile sangue, siete venute a dare conforto alle mie pene. Lo so, lo comprendo bene: nulla mi sfugge. Ma non voglio cessare di piangere il mio padre sventurato. E voi, che mi ricambiate la grazia di un affetto totale, lasciatemi a questa follia, ahimè, vi supplico. (trad. di M.P. Pattoni) 3. Le Erinni sono le divinità deputate alla vendetta dei delitti di sangue. 45 8. Il dramma satiresco I cercatori di orme Questo dramma satiresco mette in scena le vicende dei satiri che, ingaggiati da Apollo, si mettono alla ricerca delle vacche che sono state rubate al dio. Il mondo dei satiri è caratterizzato sia da elementi legati alla natura e alla dimensione animalesca sia da vizi e difetti tutti propri dell’uomo, come l’ingordigia e la vigliaccheria; nella sezione dell’opera a noi nota Sofocle presta inoltre particolare attenzione al tema della musica (T25). t 25 L’invenzione della lira e il terrore dei satiri (I cercatori di orme, vv. 115-206) Nel brano riportato qui di seguito la caccia scatenata dai satiri al ladro delle vacche di Apollo giunge a compimento. I cacciatori, però, diventano essi stessi preda, venendo colti dal terrore all’ascolto degli strani suoni provenienti dalla grotta dove si cela il dio-bambino-ladro Hermes: il suono della lira, di cui Hermes è appunto l’inventore, suscita infatti nei satiri, che sono abituati al suono dell’aulo, una reazione di paura. metro: trimetri giambici (con qualche extra metrum); vv. 176-202 versi lirici (lacunosi) 120 125 COROS ΔAllΔ aujta; mh;n i[c≥ªnh teº cwj s≥tivbo~ tavde keivnwn ejnargh` t ≥w`n bªoºw`n maqei`n pavra. “Ea mavla: palinstrafh` toi n≥a≥i≥; ma; D≥iv≥a≥ ta≥; b≥hv≥m≥a≥t ≥a≥ eij~ tou[mpalin devdorken1: aujta; dΔ ei[s ide. Tiv ejsti; toutiv… Tiv~ oJ trovco~ tou` tavgmatªo~… Eij≥~≥ toujpivsw ta; provsqen h[llaktai, ta; dΔ au\ ejnantivΔ ajllhvloisi sumb≥ªeblhºmevna: deino;~ kukhsmo;~ ei\cªe to;n bohºlavthn. SILHNOS TivnΔ au\ tevcnhn su; thvnªdΔ a[rΔ ejxºh`ure~, tivnΔ au\, provspaion w|de keklimªevno~º kunhgetei`n pro;~ gh`2… Tiv~ uJmw`n oJ trovpo~… Oujci; manqavnw3: CORIFEO Ma le orme, le impronte sono chiaramente delle vacche. Non ci si può sbagliare. Ma bada: per Zeus, qui le orme vanno all’indietro, alla rovescia 1; guardale, su! Che vuole dire? Come sono disposte? Quelle davanti sono volte all’indietro; le altre sono confuse, opposte le une alle altre. Questo mandriano doveva avere il capogiro! SILENO Che cosa state combinando, che state cercando piegati verso terra2? Che modi sono questi? Non capisco3. State acquattati giù come un riccio nella macchia – e scor- 1. Rispetto all’Inno omerico a Hermes il furto delle vacche e l’invenzione della lira appaiono in ordine invertito. Sofocle vuole insistere sul fatto che il rinvenimento della preda si configura come un’esperienza spaventosa causata da quello che alle orecchie dei satiri risulta un suono ignoto. 2. L’intervento di Sileno avviene subito dopo che i satiri han- no udito il suono della lira e questo spiega la loro bizzarra posizione acquattata; questa posizione lascia disorientato Sileno che non ne capisce il significato e la attribuisce alla natura bestiale dei satiri. 3. Lo stupore di Sileno fa da contrappunto comico alla strana posizione assunta dai satiri atterriti. 46 Antologia 130 COROS SI. 135 140 145 150 CO. SI. CO. SI. CO. SI. CO. SI. ªejºci`no~ w{~ ti~ ejn lovcmhÛ kei`sai peswvn, ªh[º t ≥i~ pivqhko~≥ kuvbdΔ ajpoqumaivnei~ tiniv. ªTºiv ≥ tau`ta… Pou` gh≥ `~ ejmavqetΔ… ΔEn po≥ªivºwÛ tovpwÛ… SªhºmhvnatΔ: o≥uj g≥a;r i[dri~ eijmi; tou` trovpou. ’U≥ ªu|º u≥} u≥|. T≥ªiv........º t ≥ivna fobh`Û… TivnΔ eijsora`~Û … T≥ªiv........ºi~… Tiv pote bakceuvei~ e[cwn… Aª.........º. kevrcnªoº~ iJmeivreiª~º maqei`n tªiv........º õsigÕa`tΔ, w\ prõo; tou`Õ ª.......º atoi… Sªnon plus 9 litt.º Tª..........ºnap≥onos≥ª...ºe≥i ≥s≥ecwn. “Aªkoue dhv. Kal≥w`~ ajkouvsªomΔ oujdenºo;~ fwnh;n kluvwn. ΔEmªoºi; piqou`. ΔEmª.º di≥s≥v ª.........º. w`~ ojnhvsete. “Akouson aujto≥;~≥ n≥u≥`ªn, pavº te≥r≥, crovnon tina; õoÕi{w Û põlÕagevnte~ ejnõqavdΔÕ ejxenivsmeqa yovfwÛ, to;n oujdeªi;º~ p≥ªwvpoºtΔ h[kousen brotw`n. Tiv moi yªovºfon… Fobª...º. kaª.º deimaivnete mavlqh~ a[nagna swvªmaºtΔ ejkmemagmevna kavkista qhrw`n ojnq≥ª..ºn ªpºa≥vshÛ skiaÛ` fovbon blevponte~, pavnªtaº deimatouvmenoi, a[neura kajk≥ovmista kajne≥ ªleºuvqera diakonou`'nte~, sw≥vmatΔ eijªsºidªeºi≥n≥` movnon ka≥ªi; gºl≥w`≥'ssa kaªi;º f≥avlhte~4. Eij dev pou devhÛ, p≥i ≥s≥t ≥oi; lovgoisin o[nte~ e[rga feuvgete, toiou≥`ªdºe patrov~, w\ kavkista qhrivwn, ou| povllΔ ejfΔ h{bh~ mnhvmatΔ ajndreiva~ u{po [col. VI] reggiate come scimmie a testa in giù. Che vuol dire? Dove l’avete imparata, questa? Dove? Ditemelo; non ho mai saputo che si facesse così. CORO Uh! uh! SILENO [...] Ma cos’è questa paura? Che avete visto? [...] Che pazzia vi ha preso? [...] CORIFEO [...] SILENO [...] CORIFEO Ascolta. SILENO Posso ascoltare finché volete, ma non si sente nulla. CORIFEO Dammi retta. SILENO [...] CORIFEO Padre, sta a sentire un momento questo rumore che ci ha colpiti, sbalorditi: nessun uomo l’ha mai sentito. SILENO Ma che rumore! [...] Avete paura, sporche canaglie impastate di burro, bestiacce [...] che vedete terrori in ogni ombra, vigliacchi senza nerbo, servi sfaticati e incapaci – non siete altro che corpo, lingua e uccello4; e al momento del bisogno, siete fidati a parole e scansafatiche nei fatti! Eppure, bestie maledette, siete figli di un padre che in giovinezza ha lasciato tante memorie del suo valore, di imprese com- 4. I cori satireschi indossavano il fallo (qui indicato dal termine favlhte~) e l’accenno di Sileno a questo attributo ha l’effetto di demistificare la finzione teatrale, raffigurando i satiri per quello che essi sono veramente, creature di natura bestiale. Allo stesso effetto mira anche l’insistenza con cui Sileno rammenta ai satiri la loro natura animale: vedi, per esempio, il v. 153 w\ kav k ista qhriv w n . Sofocle • Il dramma satiresco 155 160 165 170 175 180 kªeºi`'tai parΔ oi[koi~ numfikoi`'~5 hjskhmevna, oujk eij~ fugh;n klivnonto~, ouj deilªoºumevnou, oujde; yovfoisi tw`'n ojreitrovfwn botw`'n ªpºthvssonto~, ajllΔ aªijcºmai`'s in ejxeiªrºgasmevnou ªa}º nu`'n uJfΔ uJmw`'n lavmªprΔ ajºp≥orrupaivnetai ªyºovfwÛ newvrei kovlakªiº poimevnwn pªoºqevn. ª..º. h fobei`'sqe pai`'de~ w}~ pri;n eijs idei`'n, plou`'ton de; cªrºusovfanton ejxafivet≥ e, o}n Qoi`'bo~ uJmi`'n ei\pe kªajºnedevxato, kai; th;n ejleuqevrwsin h}n kathvÛnes≥en uJmi`'n te kajmoiv: tau`'tΔ ajf≥evnte~ eu{dete. Eij mh; Δnanosthvsante~ ejxicneuvseªte ta;~ bou`'~ o{phÛ beba`'s i kai; to;n boukovloªn, klaivonte~ aujth`'Û deiliva Û yofhvªsºete. CO. Pavter, parw;n aujtov~ me sumpodhgevteªi, i{nΔ eu\ kateivdhÛ~ ei[ tiv~ ejsti deiliva: gnwvsh≥ªiº ga;r aujtov~, a]n parh`'Û~, oujde;n levgwªn. SI. ΔEgw; paªrºw;n aujtov~ se pros≥bibw`' lovgwÛ, kun≥o≥rtiko;≥n suvrigma diakalouvmenªo~. ΔAllΔ ei|Δ ªejºfivstw trizuvgh~ oi{mou bavs in: ejgw; dΔ ejn ªe[ºr≥g≥oi~ parmevnwn sΔ ajpeuqunw`'. »U u| u|, y y, a\ a\. LevgΔ o{ ti ponei`'~. CO. Tiv mavthn uJpevklage~, uJpevkrige~, uJpov mΔ i[de~… “Ece≥tai ejn prwvtwÛ tiv~ o{de tropª e[cei. ΔElhvluqen, ejlhvlªuqen. ΔEmo;~ ei\, ajnavgou. DeutevrwÛ tiv~ o{de . ª....º. th~ [col. VII] piute negli antri delle Ninfe5, e non ha mai avuto paura, non è mai scappato, non si è mai nascosto per i rumori delle fiere montane, ma ha combattuto con coraggio splendide battaglie: e ora voi mi rovinate tutto per un suono strano, una ruffianeria di qualche pastore. [...] Avete paura prima ancora di vedere, come bambini, e rinunciate alla ricchezza, al premio promesso da Febo, alla libertà che ha garantito a me ed a voi. Ma a voi non ve ne importa niente! Dormite! Ma se non tornate subito a cercare dove sono finite le vacche e il mandriano, me la pagherete la vostra vigliaccheria; ve li faccio fare io, i rumori strani! CORIFEO Padre, vieni con noi, stacci vicino: così vedrai se siamo vigliacchi, e ti renderai conto di dire sciocchezze. SILENO Sono qui, vi spronerò a parole e chiamandovi col fischio, come si fa coi cani. Coraggio; occupate gli incroci dei sentieri. Vi starò accanto e cercherò di mettervi sulla giusta via. CORO Oh, oh, oh! Che fai? Perché strepiti, perché sbraiti, e mi guardi di sottecchi? Che modo [...] è questo, voi della prima fila? Ecco; ci siamo, sei preso. Sei in mia mano; 5. Il topos epico della rievocazione delle imprese eroiche finisce in quello paradossale e satiresco delle prestazioni erotiche. Il coraggio di Sileno – indicato con un termine proprio dell’eroismo epico (vedi, per esempio, al v. 154 ajndreiva) – si rivela non sul campo di battaglia, ma nei luoghi tipici della mitografia erotica, vale a dire negli antri delle ninfe (vedi, per esempio, Hymn. Hom. ad Ven. 262). 47 48 Antologia 185 190 195 200 205 SI. CO. SI. CO. SI. oJ Drav≥ki~, oJ Gravpi~, ªnon plus 6 litt.º ªOºujriva~, Oujriva~, a≥d≥ª......ºkei~ parevbh~∑ Mequ ªnon plus 11 litt.º o{ ti potefereª.........º. i ≥ª.ºn e[pocon e[cei ti ªnon plus 13 litt.º stivbo~ oJdene . ªnon plus 12 litt.º Stravti≥o≥~≥, Stravt ≥ ªio~ ........º uª≥ ..º deu`'rΔ e{pou∑ tª.ºdr≥ª º e[ni bªoºu`'~, e[ni pono≥ª mh; meqh`'Û krª.ºki.ª o≥ujc≥i; kalªo;ºn ejpidª o{de gΔ ajgaqo;~ oJ Treª kata; novmon e{petaªi ejfevpou, ejfevpou m . ª ojppopoi`'∑ a\ miarev, ge≥ª h\ tavcΔ oJpovtan ajpivhªi~ ajpeleuvqero~ w]n ol.ª ajlla; mh; paraplakª e[pªiºqΔ ªe[ºpecΔ ei[s iqΔ i[qi≥ª tª.ºde plavgion e[com≥ªen pa≥vter, tiv si≥gaÛ'~… Mw`'n ajlhqªe;~ ei[pomen… Oujªk eºijsakoªuveºi~… «H kekwvfhªsai “E≥a6≥ Tiv e[≥s≥t ≥i≥n… Ouj menw`'. MevnΔ, eªijº qevlei~. Oujk e[stin. ΔAllΔ aujto;~ su; tau`'≥q≥õΔ o{phÛ qevlei~Õ [col. VIII] arrenditi! [...] Dracide, Grapide, Uria! [...] Padre, perché taci? Visto che avevamo ragione? Lo senti ora il rumore, o sei diventato sordo [...]? SILENO Ah6! CORIFEO Che c’è? SILENO Io qui non resto, di sicuro. CORIFEO Resta, per favore. SILENO Neanche per idea. Voi fate come vi pare. (trad. di G. Paduano) 6. Efficace realizzazione comica dello schema di rovesciamento. All’ascolto del suono della lira, il disprezzo per la codardia dei satiri si trasforma repentinamente in una vigliaccheria anche più grave, visto che Sileno manifesta l’irrefrenabile proposito di non trattenersi un attimo di più in quel luogo. Sulla viltà che subentra a un comportamento vanaglorioso vedi Euripide, Ciclope 228 ss., a riprova di un percorso etico-psicologico da dramma satiresco.
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