0 Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di laurea in Lingue e

Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di laurea in Lingue e letterature moderne
Tesi di Laurea Triennale in Letteratura Tedesca
GERMANIA – INGHILTERRA E RITORNO. LE FIABE DEI GRIMM: 1812 / 1823 / 1857
Relatrice:
Studente:
Prof.ssa Camilla Miglio
Alessandro Piccirillo
Matricola 1390356
Anno Accademico 2012 – 2013
0
Indice
Introduzione …………………………………………………………………………….. p. 3
1. Il contesto socio – letterario. La fiaba nel XIX secolo.
1.1
La situazione in Germania ……………………………………………… p. 6
1.2
La situazione in Inghilterra ……………………………………………. p. 10
2. I fratelli Grimm
2.1
Cenni biografici e opere principali ……………………………………. p. 13
2.2
Il rapporto con Edgar Taylor ………………………………………….. p. 16
3. Esempi commentati tratti da fiabe celebri …………………………………….. p. 24
3.1 Cenerentola
3.1.1
Versione del 1812 ………………………………………………… p. 25
3.1.2
Versione di Edgar Taylor …………………………………………. p. 28
3.1.3
Versione del 1857 ………………………………………………… p. 32
3.2 Biancaneve
3.2.1
Versione del 1812 ………………………………………………… p. 34
3.2.2
Versione di Edgar Taylor .........…………………………………… p. 38
3.2.3
Versione del 1857 ………………………………………………… p. 41
3.3 Il principe ranocchio o Enrico di ferro
3.3.1
Versione del 1812 ………………………………………………… p. 45
3.3.2
Versione di Edgar Taylor .………………………………………… p. 48
3.3.3
Versione del 1857 ………………………………………………… p. 49
1
3.4 Tremotino
3.4.1
Versione del 1812…………………………………………………. p. 53
3.4.2
Versione di Edgar Taylor………………………………………….. p. 56
3.4.3
Versione del 1857…………………………………………………. p. 58
4. Una lettura grafica delle fiabe ………………………………………………… p. 62
4.1 Cenerentola ………………………………………………………………. p. 63
4.2 Biancaneve ……………………………………………………………….. p. 65
4.3 Il principe ranocchio o Enrico di ferro …………………………………... p. 66
4.4 Tremotino ……………………………………………………………….... p. 67
Conclusioni…………………………………………………………………………….. p. 69
Appendice……………………………………………………………………………… p. 72
Bibliografia…………………………………………………………………………… p. 116
Ringraziamenti……………………………………………………………………….. p. 121
2
Introduzione
Biancaneve (Schneewittchen) e Cenerentola (Aschenputtel) sono solo due esempi, tra i più
celebri, di fiabe pubblicate dai fratelli Grimm, tanto che appare quantomeno inverosimile
che qualcuno non ne conosca la trama, se non altro per gli adattamenti cinematografici
proposti dalla Disney nel secolo scorso. Eppure, se si pongono a confronto le versioni
disneyane con le fiabe da cui sono state effettivamente tratte, si può notare come spesso
l’adattamento risulti, per così dire, “ingentilito” nella trama e nel finale così da risultare
fruibile anche a un target di giovanissimi. Nella fiaba di Cenerentola, per esempio, gli
elementi più cruenti come l’amputazione di parti del piede delle sorellastre o gli occhi
cavati1 sono prontamente rimossi nei cartoni animati. Non è dunque un caso che la critica
letteraria sottolinei ripetutamente come alcuni adattamenti tendano a “oscurare” gli
originali; “siamo eccessivamente influenzati dalla Disney”2, questa l’opinione di Antonia
Susan Byatt, scrittrice e critica inglese (tra i vari contributi, uno dei più noti è il romanzo
“Possession. A romance”, Chatto & Windus, 1990), cui fa eco Jack Zipes quando parla di
“immagini fasulle e rosee che la Disney Corporation e altri artisti e editori hanno
moltiplicato e sparso ovunque per quasi un centinaio di anni”3. È possibile individuare un
punto di origine del genere fiabesco? Se si esclude il genere della favola, che sarebbe nata
nel IX secolo a.C. in Mesopotamia e che prevedeva storie molto brevi i cui protagonisti
erano animali dall’aspetto antropomorfo4, allora il momento cruciale per la nascita del
genere fiabesco è tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo:
[…] tra 1690 e 1710 […] si incontrano tutte le condizioni che favoriscono l’istituzionalizzazione di
un genere letterario chiamato conte de fée o fairy tale (storia di fate, fiaba): redazione scritta di
racconti da parte di autori di talento, soprattutto donne; produzione, pubblicazione e diffusione delle
storie grazie a editori che dovevano ottenere l’approvazione reale; e una prevista ricezione o
audience da parte di lettori, che avrebbero a loro volta diffuso le storie e probabilmente ne avrebbero
scritte loro stessi. Una volta che gli autori francesi (e il francese era la lingua dominante dell’élite
europea) ebbero determinato la versione standard della fiaba in edizione a stampa, il genere iniziò a
fiorire in tutta Europa. Ma questo non significa che la tradizione orale di trasmissione delle fiabe e di
1
J. e W. Grimm, Fiabe, a cura di G. Cocchiara e C. Bovero, Einaudi, Torino, 2011, pp. 86 – 88.
“We are overinfluenced by Disney” nell’originale; A. S. Byatt, in Introduction to The annotated brothers
Grimm, a cura di M. Tatar, W. W. Norton & Company, 2004.
3
Jack Zipes, La fiaba irresistibile. Storia culturale e sociale di un genere, Donzelli, 2012, p. 172.
4
Ivi, p. 15.
2
3
altri tipi di storia si sia poi ridotta. L’impatto delle fiabe francesi di tipo letterario condusse a un
fruttuoso scambio tra le tradizioni orale e letteraria: scambio che continua ancor oggi.5
E ancora, secondo la teoria di Vladimir Propp:
[…] la degenerazione e laicizzazione o secolarizzazione delle storie di iniziazione religiosa condusse
a un nuovo genere, nell’alto medioevo: […] fiaba, racconto meraviglioso 6.
Appare opportuno mettere in evidenza come la fiaba non sia un genere chiaramente
circoscrivibile già a partire dal suo nome: Madame d’Aulnoy inventa il termine nel 1697,
ma è solo a partire dal 1750 che la parola “fairy tale” o “fiaba” entra a pieno titolo nel
lessico comune. Una certezza comunque esiste: le fiabe appartengono essenzialmente a una
tradizione di tipo orale; è lo stesso Zipes a ribadirlo in più occasioni nel suo interessante
studio “La fiaba irresistibile”7; ci si può però chiedere: cosa ha spinto gli uomini a narrare
e tramandare fiabe?
[…] l’obiettivo delle fiabe […] è sempre stato quello di reperire strumenti magici, straordinarie
tecniche, o creature umane o animali dotate di poteri capaci di mettere i protagonisti in grado di
trasformare tanto se stessi quanto il loro ambiente, rendendolo idoneo a una vita in pace e serenità.
Le fiabe prendono avvio da un conflitto […]. Tutti noi siamo inadatti al mondo, e in qualche modo
dobbiamo pur starci, […] e inventare o trovare […] i mezzi per soddisfare e anche risolvere,
sciogliere, desideri e istinti altrimenti in urto reciproco.8
Si tratta pertanto di un tentativo di “oggettivazione” del mondo in cui viviamo in un
“mondo altro” o, utilizzando il lessico di Zipes, antimondo per poter osservare la realtà che
ci circonda da un punto di vista critico e distaccato cercando di sbrogliare questioni
altrimenti insolubili.
[…] nella fiaba è presente una forma in cui gli eventi e il corso delle cose sono ordinati in modo da
rispecchiare in tutto e per tutto i requisiti della morale ingenua e sono pertanto <<buoni>> e
<<giusti>> secondo un giudizio emotivo assoluto. Come tale, la fiaba appare in netto contrasto con
[…] un mondo della realtà. Quest’ultimo […] è […] un mondo che, ingenuamente, giudichiamo
immorale.9
5
Ivi, pp. 235 – 236.
Ivi, p. 94. Il nome di Propp rimane legato al tentativo di “schematizzare” secondo 31 funzioni principali una
sorta di “macro – trama” che possa adattarsi a ogni tipo di Märchen. Per ulteriori approfondimenti si
confronti, per es., Vladimir Jakovlevič Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino, 1966.
7
Passim.
8
Ivi, p. 4.
9
Ivi, p. 20.
6
4
Cosa fa sì che alcune storie e motivi siano preferiti rispetto a altri e possano dunque essere
tramandati con maggiore successo? Fermo restando che un argomento dev’essere
pertinente (al contesto) e interessante10, un ruolo decisivo è giocato da quell’<<unità di
trasmissione culturale>> che Dawkins chiama meme o “replicatore”11. Sulla “memetica”
vari studiosi hanno dato il loro contributo; per Drout, il meme
<< […] è quel qualcosa che viene trasmesso quando una persona, consciamente o inconsciamente,
ne imita un’altra>>. Drout dimostra come i memi, attraverso imitazione e ripetizione, formino le
tradizioni orali e letterarie.12
La trasmissione delle storie implica perciò un processo di ripetizione di elementi ritenuti
pertinenti e condivisi(-bili) nel contesto in cui esse vengono narrate.13
La discussione che segue tenterà di dimostrare, da un lato, come la prima traduzione
inglese delle Fiabe del focolare abbia, se non influenzato i racconti stessi, perlomeno
spinto i fratelli Grimm a portare avanti quel labor limae sulla loro opera, il quale era stato
già intrapreso nel 1819 con la seconda edizione, ma che proseguirà senza sosta fino al 1857
e decreterà il successo delle Fiabe anche in Germania. Si proverà altresì a sfatare il mito
che tende a associare la Fiaba soltanto al mondo dell’infanzia mettendo a confronto le
“edizioni – cardine” di alcune fiabe che possono ormai essere ritenute “classici” del canone
letterario europeo e analizzando differenze e somiglianze sia sul piano microscopico
(lessicale) che su quello macroscopico (struttura della narrazione).
10
Ivi, p. 9.
Ivi, p. 25.
12
Ivi, p. 58.
13
Ivi, p. 93.
11
5
1. Il contesto socio – letterario. La fiaba nel XIX secolo.
1.1 La situazione in Germania
Tutti i prodotti culturali […] devono qualcosa alle priorità che sono state suggerite “oggettivamente”
al loro autore dalle questioni che erano “in gioco” […] nel suo “campo di gioco”, quando ha
elaborato quelle opere.14
Benché Bourdieu tenti di ricostruire e spiegare le dinamiche del “campo letterario”
francese, appare evidente che questo aspetto delle “questioni in gioco” sia applicabile
anche al caso dei fratelli Grimm; ne consegue dunque che, per comprendere al meglio cosa
significasse pubblicare una raccolta di fiabe nel XIX secolo in Germania, è necessario fare
luce sul contesto in cui esse furono scritte.
Nell’Europa prima della stampa […] era immensa la diversità delle lingue […]. Questi vari idiomi,
però, potevano venir <<assemblati>>, entro certi limiti, in lingue scritte di numero decisamente
inferiore. […] Ad <<assemblare>> questi volgari niente servì più del capitalismo che, all’interno dei
limiti imposti da grammatiche e sintassi, creò lingue scritte riprodotte meccanicamente e tali da
poter essere diffuse attraverso il mercato. Queste lingue scritte posero le basi per le coscienze
nazionali […], crearono un terreno comune di scambio e comunicazione al disotto del latino e al
disopra dei dialetti volgari. […] Quei lettori, legati tra loro dalla stampa, formarono […] l’embrione
della comunità immaginata nazionale. In secondo luogo, l’editoria diede una nuova fissità alla
lingua, che alla lunga aiutò a costruire quell’immagine di antichità così importante per l’idea
soggettiva di nazione. […] L’alto tedesco, l’inglese del Re […], vennero elevati a una nuova
eminenza politico – culturale. […] La convergenza del capitalismo e delle tecnologie di stampa e
della varietà delle lingue umane creò la possibilità di una nuova forma di comunità immaginata, che
nella sua morfologia essenziale pose le basi delle nazioni moderne. 15
Alla fine del XVIII secolo la Germania non esisteva ancora in quanto tale; esistevano
invece diversi piccoli Stati appartenenti al Sacro Romano Impero; l’Impero era
un mito sbiadito […], un costrutto giuridico che continuava a esistere però in alcune istituzioni. […]
Ciò non significava che l’impero fosse ormai un’entità soltanto metafisica. L’imperatore e l’impero
continuavano a rappresentare protezione e assistenza per i piccoli ordini imperiali tedeschi, per i
14
Anna Boschetti, Introduzione all’edizione italiana in Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e
struttura del campo letterario, Il Saggiatore, Milano, 2005, p. 22.
15
Benedict Anderson, Imagined communities, Verso, London, New York, 1991, trad. it di Marco Vignale,
Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996, pp. 58 – 61.
6
principati ecclesiastici, per le città imperiali, i cavalierati imperiali [Reichtsritterschaften], che
altrimenti sarebbero rimasti esposti all’ingordigia delle grandi potenze.16
Questa costellazione di Stati passò sotto la sfera d’influenza della Francia nel 180617; tale
situazione di assoggettamento è la ragione storica che indusse molti poeti e scrittori alla
ricerca di un legame con il passato:
Sotto la pressione dell’occupazione napoleonica concetti come <<patria>> e <<nazione>>
divennero parole d’ordine.18
Se l’abdicazione di Napoleone nel 1814 aveva dato nuove speranze al movimento
nazionalista e, in generale, a tutti coloro che ambivano a vedere una Germania unita,
queste stesse aspettative vennero nuovamente disattese con la Restaurazione del 1815, che
riportò i confini allo status quo ante bellum. I tentativi di rivolta furono duramente repressi
da Austria e Prussia e il ventennio che seguì fu caratterizzato da una situazione stanziale e
fondamentalmente pacifica: uno stato “idilliaco” in cui
sempre più spesso si sentiva parlare di popolo tedesco e di patria tedesca, ma generalmente solo in
funzione antifrancese e per lo più in forma poetica e vaga, un concetto culturale e linguistico che
non faceva mai riferimento alla necessità di superare il particolarismo dei singoli Stati per dissolverli
in uno Stato nazionale tedesco.19
Questo sentimento patriottico, seppure non ancora ben definito e rimasto latente per due
decenni, tornò alla luce a partire dal 1840, in concomitanza con una nuova fase
espansionista della Francia verso il Reno; tale fattore, unitamente all’aumento di
popolazione (senza che, peraltro, si fosse contestualmente verificato un incremento nella
produzione), alle crisi economica e alimentare che si verificarono nel biennio ’46-’48, fece
esplodere il malcontento e, sulla scia dei moti verificatisi un po’ in tutta Europa, anche i
Paesi di lingua tedesca scorgevano in questa protesta l’opportunità per veder finalmente
sorgere uno Stato proprio e autonomo. Tuttavia, non si era ancora giunti a un accordo
relativamente all’assetto che avrebbe dovuto avere la Germania.
Da un lato l’idea della Grande Germania, l’unificazione di tutte le regioni tedesche, Austria
compresa, sotto un imperatore Asburgo. Ad essa si opponevano i sostenitori di una soluzione
piccolo – tedesca, una federazione dei paesi tedeschi, ad esclusione dell’Austria, guidata da un
16
Hagen Schulze, Storia della Germania, Donzelli, Roma, 2010, p. 56.
Cfr. Hagen Schulze, Storia della Germania, op. cit., in particolare i capp. III e IV.
18
Ivi, p. 69.
19
Ivi, p. 72.
17
7
imperatore Hohenzollern. […] Alla fine venne […] varata una costituzione […] senza valore, di un
governo senza potere. […] L’Assemblea nazionale naufragò […] anche per il pericolo di un
radicalizzarsi della rivoluzione. […] In Prussia fu quindi sufficiente concedere una costituzione nel
novembre 1848 per dichiarare chiusa di fatto […] la rivoluzione.20
Bisognerà dunque attendere la nascita dell’Unione doganale tedesca, l’industrializzazione e
la guerra franco – prussiana nel 1870 – 71 per veder realizzata, finalmente, “l’unificazione
politica degli Stati tedeschi coinvolti nella guerra”21 e, di conseguenza, l’annessione dei
popoli della Germania del Sud alla Prussia; a reggere il nuovo ordine politico fu eletto
Guglielmo I. Se gli eventi storici che preludono alla nascita della Germania troveranno il
loro compimento solo nel 1871, è d’altra parte vero che la cultura letteraria della Romantik
può essere inscritta in un arco temporale più limitato, ovvero dagli anni ’90 del XVIII
secolo al tardo Tieck, che morì nel 185322. Tratti caratterizzanti del Romanticismo tedesco,
che pure può essere visto come una sorta di reazione al dispotismo del terrore francese,
furono non solo quelli ormai ritenuti “canonici”: sublime, fantastico, fiabesco e così via,
bensì anche una stretta collaborazione tra gli artisti, una sinfilosofia e una sinpoesia che
avrebbero trovato la loro piena espressione nella Spätromantik23. Già nel circolo di Jena e
in particolare nell’opera di Schlegel aleggiava quell’interesse sia per l’aspetto filologico
(“analizzare, decostruire e ricomporre i testi della tradizione […] nell’ottica di una loro
rifunzionalizzazione nella lotta per una nuova cultura”24), aspetto cui si dedicheranno
anche i fratelli Grimm, sia
[…] la pretesa di […] ridefinire il rapporto tra antico e moderno reinterpretandolo come una
tensione tra due termini eternamente presenti nella letteratura e rivendicare la necessità di una
letteratura compiutamente popolare e dunque coagulo della coscienza nazionale tedesca.25
Tra i grandi nomi della Frühromantik si possono annoverare, tra gli altri, Schlegel e
Novalis; a partire dal 1808 con la costituzione del circolo di Heidelberg, iniziarono a
concertare le loro idee alcune tra le figure che sarebbero poi rientrate a pieno titolo come
appartenenti al tardo Romanticismo tedesco: Clemens e Bettina Brentano, Achim von
Arnim, Fouqué, solo per citarne alcuni.
20
Ivi, pp. 81 – 82.
Ivi, p. 95.
22
Michele Cometa (a cura di), L’età classico – romantica. La cultura letteraria in Germania tra Settecento e
Ottocento, Laterza, Bari, 2009, p. 38.
23
Ibidem.
24
Ivi, p. 41.
25
Ivi, p. 42.
21
8
Comune a questa <<seconda>> koinè romantica è l’ispirazione religiosa con forti tonalità mistiche
[…]. L’opposizione a Napoleone, che l’occupazione di Berlino e di altri territori tedeschi trasformò
in un nazionalismo radicale, è il collante tra queste figure […] , propugnando una riscoperta delle
tradizioni tedesche nel mito e nella letteratura peraltro sorretta dalle sicurezze di una filologia che
ormai si consolidava come scienza accademica proprio nelle università tedesche.26
Motivazioni analoghe sono riscontrabili anche nel lavoro dei fratelli Grimm che, seppur
operassero a Kassel, fecero il possibile per risvegliare l’interesse per la letteratura popolare
e per conferire nuova vita alla tradizione culturale: questi aspetti culmineranno nella
stesura di raccolte come il Des Knaben Wunderhorn27 (1806 – 08, Arnim – Brentano), i
Kinder- und Hausmärchen28 (1812 – 15 nella loro prima edizione) e le Deutsche Sagen29
(1816-18) degli stessi Grimm.
Volkslieder, Volksbücher e Volksmärchen divengono in tal modo le coordinate non solo per lo studio
della letteratura <<nazionale>> tedesca ma una sorta di repertorio comune e condiviso per il
laboratorio del romanzo romantico, il quale […] continuava a perseguire l’utopia di una letteratura e
di una mitologia condivise dalla nazione e per questo elemento di amalgama e di comprensione
reciproca tra intellettuali e popolo.30
Il Märchen era un genere già noto in Germania, ma forma e stile erano stati differenti. Da
un lato esisteva la tradizione dei contes des fées, che aveva raggiunto il suo apice in
Francia tra la fine del XVII e i primi anni del XVIII secolo; dall’altro grande diffusione
aveva avuto la traduzione de Le mille e una notte a cura di Galland, a sua volta risalente a
un manoscritto del XIV secolo risalente alla tradizione orale siriana31; egli e altri scrittori
di racconti come Madame d’Aulnoy si rivolgevano però a un pubblico essenzialmente
adulto, avente un adeguato grado di cultura. Va comunque riconosciuto loro il merito di
aver dato un contributo non indifferente per il genere fiabesco; a loro può essere associato
un altro nome importante, quello di Charles Perrault, così come lo stesso Wieland, il cui
Dschinnistan (1786 – 1788/89) costituisce la prima, vera Sammlung di racconti fiabeschi
nell’ambito della tradizione in lingua tedesca32. A partire dalla fine del secolo la letteratura
26
Michele Cometa (a cura di), L’età classico – romantica. La cultura letteraria in Germania tra Settecento e
Ottocento, op. cit., p. 75.
27
“Il corno magico del fanciullo” nella traduzione italiana.
28
“Fiabe del focolare” nella traduzione italiana; d’ora in avanti verrà adottato l’acronimo tedesco KHM.
29
In italiano “Saghe tedesche”.
30
Ivi, p. 77.
31
Cfr. la nota a p. 39 in Fate iniziatiche e grandi maestri, postfazione a cura di Camilla Miglio in Marc
Chagall, Il flauto magico a colori, Donzelli editore, Roma, 2012.
32
Ivi, p. 40.
9
per l’infanzia inizia a rimpiazzare il fine didascalico con quello di evasione, pertanto
iniziano a proliferare i libri dedicati ai bambini i quali, però, fatta eccezione per le raccolte
di Büsching e Otmar (le quali, pure, non si focalizzano sul Märchen in sé), non
rappresentano un “sistematico tentativo di raccogliere i Märchen tradizionali”, né “mirano
a essere trascrizioni di racconti orali così come i Grimm erano intenzionati a fare”33. Le
Fiabe del focolare, cui i Grimm iniziarono a lavorare nel 1806 e che subirono
continuamente modifiche fino al 1857, vanno dunque inquadrate nel contesto di ricezione
di fiabe dalla Francia, nell’emergere di una letteratura per l’infanzia, nella raccolta del
Wunderhorn di Arnim e Brentano (a sua volta parte di quel processo di recupero di canti e
racconti della tradizione), di cui sono il “completamento ideale” e nell’inserimento di temi
e stilemi del racconto fiabesco nelle opere letterarie dell’epoca. Tenendo in considerazione
il tentativo della Germania di liberarsi dal giogo francese, appare assolutamente
comprensibile che il recupero della tradizione letteraria e la raccolta di Lieder e Märchen
siano funzionalizzati alla costruzione di una identità nazionale34.
1.2 La situazione in Inghilterra
Quando oggi si parla di Regno Unito si fa riferimento al complesso costituito dall’Irlanda
del Nord, dalla Scozia, dal Galles e dall’Inghilterra. Tra il XVIII e il XIX secolo la
situazione era ben diversa: nel 1707, con l’Act of union, era stato sancito l’accorpamento
della Scozia con l’Inghilterra e il Galles35. Se nel 1783 la madrepatria aveva dovuto
rinunciare a buona parte delle colonie americane, aveva comunque mantenuto
possedimenti in altre parti del mondo, come in India, senza contare che nel 1800 anche
l’Irlanda entrò a far parte del Regno Unito36. Si nota dunque come il Regno Unito,
probabilmente coadiuvato anche dalla sua natura insulare, non dovesse fronteggiare quei
problemi che nello stesso periodo affliggevano i popoli di lingua tedesca – o perlomeno
non nella stessa misura, considerato che all’inizio del XIX secolo aveva il controllo anche
su Canada, Nuova Zelanda, Australia, gran parte dell’Africa Centro – Settentrionale, oltre
che su India e Irlanda: tutto questo fu possibile grazie a una politica coloniale e
33
Sulla ricezione dei Grimm in Inghilterra e sul contesto in cui nasce la Fiaba tra Inghilterra e Germania nel
XVIII sec., cfr. David Blamires, The early reception of the Grimms‘ Kinder- und Hausmärchen in England,
pp. 63 – 66 (disponibile online; cfr. l’apparato bibliografico finale).
34
Ivi, p. 66.
35
Cfr. sull’argomento James O’ Driscoll, Britain for learners of English, Oxford University Press, Oxford,
2009, pp. 24 – 25.
36
Ibidem.
10
commerciale che, unita alla grande rivoluzione industriale, con miglioramenti nei trasporti,
nell’agricoltura e nella produzione, aveva cambiato il volto dell’Inghilterra, causando
spostamenti di popolazione dalle campagne ai nuovi centri urbani, mentre Londra diveniva
punto nevralgico a livello commerciale37. In un contesto di sempre crescente
industrializzazione, in cui l’aspetto naturale e genuino, e del paesaggio, e della vita stessa,
veniva minacciato dall’urbanizzazione e dal peggioramento delle condizioni di lavoro, non
stupisce che gli autori si rivolgessero sempre più a un culto della natura. Nello stesso anno
in cui l’Irlanda perdeva la propria indipendenza, Wordsworth e Coleridge pubblicavano il
Preface alle Lyrical Ballads, che sanciva ufficialmente l’avvio della stagione romantica in
ambito letterario; la natura non assumeva comunque tratti idilliaci o pastorali, bensì
appariva animata e selvatica38. Se questo era il contesto storico – letterario nella sua forma
generale, appare opportuno lecito chiedersi che ruolo avesse la fiaba nel XIX secolo.
Perrault and Madame d’Aulnoy had long been made available in English, and individual tales by
them circulated, usually anonymously, in chapbook form for children. […] In 1804 Benjamin Tabart
brought out a Collection of Popular Stories for the Nursery in four volumes, […] it is probably the
nearest thing to the KHM existing in England at the time. […] The antiquaries and scholars of
England and Scotland were primarily interested in folk traditions, legends and superstitions […], but
these were serious works that did not envisage children as their readers. […] The systematic
collection of English fairytales did not come until towards the end of the nineteenth century. This,
then, was the context for Edgar Taylor’s translation of the KHM into English.39
È dunque non prima del diciannovesimo secolo che la vera e propria fiaba compare in
Inghilterra, intesa come letteratura adatta anche e soprattutto ai bambini. Appare dunque
comprensibile che Edgar Taylor si mostri contrariato quando, nel suo Preface al primo
volume delle German Popular Stories si esprime così:
The popular tales of England have been too much neglected. They are nearly discarded from the
libraries of childhood. Philosophy is made the companion of nursery: we have lisping chemists and
leading – string mathematicians: this is the age of reason, not of imagination; and the loveliest
dreams of fairy innocence are considered as vain and frivolous. […] It is, however, probably owing
merely to accidental causes that some countries have carefully preserved their ancient stories of
fiction, while here they have been suffered to pass to oblivion or corruption, notwithstanding the
37
Ivi, pp. 25 – 26.
Paolo Bertinetti, Breve storia della letteratura inglese, Einaudi, Torino, 2004, pp. 164 – 165.
39
David Blamires, The early reception of the Grimms‘ Kinder- und Hausmärchen in England, op. cit., pp. 68
– 69.
38
11
patriotic example of a few names as Hearne, Spelman, and Le Neve, who did not disdain to turn
towards them the light of their carefully trimmed lamp, scanty and ill – furnished as it often was. 40
Ci troviamo in un’epoca in cui la ragione ha avuto la meglio sull’immaginazione,
sottolinea Taylor, che osserva come la tradizione della fiction inglese sia caduta nel
dimenticatoio a differenza di quanto avvenuto in altre realtà culturali, di cui quella di John
e William Grimm41, questa la versione anglicizzata dei nomi dei due Gebrüder, sembra il
richiamo più diretto. Non va dimenticato che, prima del XIX secolo, il confine tra realtà e
fantasia era estremamente sottile e molto spesso creature di fantasia come fate e streghe
erano ritenute tutt’altro che fittizie; proprio per questo motivo molti racconti non erano
indirizzati al giovane pubblico:
When such stories were passed on to children, in the case of middle – class homes very often by
uneducated nursemaids, they might well come across not as fanciful tales but as real life
possibilities. When belief in fairies and their tribes was finally pushed into odd country corners in
nineteenth – century Britain, it then became possible to have a splendid revival of fairy – tales, with
little idea that they might still deliberately foster ancient superstitions […].42
Superstizioni e credenze nelle fate e nelle streghe, una volta confinati agli angoli più
remoti dell’Inghilterra, permisero dunque il recupero della tradizione del fairy – tale e la
sua diffusione anche tra i ragazzi, a dispetto di quella scrupoulous fastidiousness of modern
taste, cui Taylor era così avverso43.
40
Edgar Taylor, Preface, p. IV, in Edgar Taylor, Grimms’ Fairy Tales, London Scolar Press, London, 1979.
Ivi, p. VI.
42
Nicholas Tucker, The Child and the Book. A psychological and literary exploration, Cambridge University
Press, Cambridge, 1981, p. 67.
43
Edgar Taylor, Preface, p. XI, in Edgar Taylor, Grimms’ Fairy Tales, op. cit.
41
12
2. I fratelli Grimm
2.1 Cenni biografici e opere principali
Jacob Grimm (1785 – 1863) e Wilhelm Grimm (1786 – 1859) nacquero a Hanau e, di fatto,
non videro mai la realizzazione di uno Stato unitario tedesco. Ciò non sminuisce
l’importanza del lavoro linguistico e filologico cui si dedicarono per tutta la vita. Dopo la
morte del padre, avvenuta nel 1796, vennero affidati alle cure della zia presso Kassel. Si
iscrissero alla facoltà di Legge dove fecero la conoscenza di Friedrich Carl von Savigny,
un docente che divenne loro mèntore, quasi una seconda figura paterna. Fondatore della
scuola storica del diritto, Savigny riteneva che per comprendere lo spirito delle leggi fosse
necessario entrare nella mentalità e nel linguaggio del popolo di cui esso è espressione.
Non esiste, dunque, un diritto che valga universalmente per ogni popolo o epoca; il
momento storico contingente è, dunque, imprescindibile. Questo interesse per il momento
contingente venne ripreso dai fratelli Grimm nel tentativo di comprendere un popolo sulla
base del modo di espressione e dedicando un’attenzione particolare al linguaggio.
Nel 1812 venne pubblicato il primo volume dei KHM (già preceduto da una Urfassung, un
manoscritto, nel 1810), cui fece seguito, nel 1815, il secondo volume. I Grimm vedevano
quest’opera come una prosecuzione ideale del Des Knaben Wunderhorn di Brentano e
Arnim, raccolta di Lieder volta a fornire un supporto per la costruzione di un’identità
comune44 per la nascente Germania; il lavoro dei Grimm si poneva un obiettivo analogo:
non solo donare al futuro popolo tedesco un patrimonio culturale comune, ma anche
preservare quello stesso patrimonio, quella tradizione della narrativa orale che veniva
sempre più minacciata dalla crescente urbanizzazione e industrializzazione: un tentativo,
dunque di conservare l’anima incorrotta, primigenia, di quei racconti popolari45. Nel 1819
venne redatta una seconda edizione su cui non solo si sarebbe basata anche la prima
edizione inglese46, ma che sarebbe divenuta il modello per una Kleine Ausgabe (1825),
ovvero un’edizione ridotta, contenente solo 50 fiabe. Nel corso degli anni uscirono altre
versioni delle Fiabe per un totale complessivo di sette edizioni e i racconti non subirono
modifiche soltanto sul piano numerico, ma anche a livello stilistico e nella trama. Se la
prima edizione del 1812, benché non escludesse esplicitamente dalla cerchia di lettori i più
44
Cfr. la Prefazione di G. Cocchiara in J. e W. Grimm, Fiabe, op. cit, p. IX.
Cfr. A. S. Byatt, in Introduction to The annotated brothers Grimm, op. cit, p. XXXII.
46
Cfr. la voce Grimms Märchen su http://de.wikipedia.org.
45
13
giovani, era rivolta perlopiù a un pubblico di adulti dato il suo taglio “scientifico”47, a
partire dall’edizione del 1819, i fratelli Grimm (in particolar modo Wilhelm) iniziarono
quel lavoro di “limatura” che avrebbe reso i loro Märchen sempre più adatti ai bambini
della borghesia48. In questo processo di rielaborazione il Märchen sembrava assumere
sempre più un carattere künstlich, cioè “artificiale”; in realtà, anche l’aspetto primigenio
venne mantenuto e il risultato complessivo appare un ibrido tra natürlich e künstlich. In
effetti, i fratelli Grimm puntavano a mantenere, comunque, il più alto grado possibile di
fedeltà al corpus testuale di partenza; e nonostante le integrazioni o i cambiamenti
apportati, e benché sia talvolta rintracciabile una prospettiva patriarcale e maschilista49, la
purezza originaria venne preservata grazie anche al linguaggio popolare, al dialetto, ai
modi di dire, ai giochi di parole e così via50. I racconti non erano dunque frutto della
fantasia dei due autori, né è ormai più accettabile la tesi per cui queste narrazioni sarebbero
state riferite da persone appartenenti ai ceti più umili come contadini o servitori. I Märchen
venivano tramandati perlopiù dalla piccola borghesia o da persone più colte riconducibili al
ceto medio: tra i nomi più noti si possono ascrivere i Wild, gli Hassenpflug, gli
Haxthausen, senza dimenticare Dorothea Viehmann e il soldato J. F. Krause 51: pertanto,
una certa “contaminazione borghese” della versione originale era già avvenuta, a conferma
del fatto che è praticamente impossibile risalire alla forma originale di un dato racconto:
una tradizione puramente tedesca (o francese) è un’utopia52. Facendo riferimento alla tesi
di Zipes, si comprende come i Grimm
“contribuirono alla “borghesizzazione” letteraria dei racconti orali che erano appartenuti ai contadini
e alle classi inferiori, che in essi avevano trasposto i loro interessi e aspirazioni”.53
Questo non significa, naturalmente, che i Grimm tentassero di alterare il significato
profondo del patrimonio in lingua tedesca. Infatti
47
Cfr. la Prefazione di G. Cocchiara in J. e W. Grimm, Fiabe, op. cit, p. X.
Cfr. Jack Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della sovversione, A. Mondadori,
Milano, 2006, pp. 100 – 101.
49
Cfr. Jack Zipes, La fiaba irresistibile. Storia culturale e sociale di un genere, op. cit, in particolare le pp.
123, 133.
50
Cfr. sull’argomento la Prefazione di G. Cocchiara in J. e W. Grimm, Fiabe, op. cit, p. XI.
51
Cfr. A. S. Byatt, in Introduction to The annotated brothers Grimm, op. cit, p. XXXIV.
48
52
53
Ivi, p. XXXV.
Jack Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della sovversione, op. cit., p. 99.
14
“essi volevano che la ricca tradizione culturale popolare fosse usata e accettata dalle classi medie. È
per questo motivo che trascorsero la loro vita a condurre ricerche sui miti, i costumi, e la lingua del
popolo tedesco. Volevano promuovere lo sviluppo di una forte borghesia nazionale rendendo
espliciti i legami con le tradizioni e i riti sociali germanici e attingendo dal correlato folclore della
Francia e dell’Europa del Nord. Ovunque fosse possibile, cercarono di collegare le credenze e il
comportamento dei personaggi dei racconti popolari ai canoni estetici borghesi.54
I KHM giocano un ruolo significativo anche nel processo di “borghesizzazione” nella
società del XIX secolo; leggendo (o facendosi leggere) le fiabe, i bambini tendevano a
immedesimarsi nei protagonisti e a far propri quei valori che venivano tacitamente espressi
nei racconti, così da rendere accetto quel tipo di società ai giovani ragazzi che si
accingevano a farne parte55.
Persino in storie […] in cui il protagonista svantaggiato ha la meglio sull’oppressore, […] i membri
dei ceti inferiori diventano parte dell’élite dominante […] perché le classi dominanti hanno bisogno
di quei valori che erano coltivati dalla borghesia: la parsimonia, l’industriosità, la pazienza,
l’obbedienza e così via. Fondamentalmente, le strutture narrative implicano che abilità e qualità
debbano essere sviluppate e usate così che si possa competere per un posto elevato nella gerarchia
basata sulla proprietà privata, la ricchezza e il potere.56
L’ascesa nella scala sociale da un lato è possibile rendendo “atto” quelle qualità
“potenziali” insite nei ceti minori, dall’altro è funzionale all’acquisizione, da parte dei ceti
più alti, di quelle buone qualità che erano proprie di coloro che erano a un livello più basso
nella società – come si avrà modo di vedere nelle fiabe di Cenerentola e Il principe
ranocchio. Prosecuzione ideale dei KHM possono essere considerate le Deutsche Sagen57
che, pubblicate tra il 1816 e il 1818, rievocano il pur frammentario repertorio della
leggenda eroica germanica58. Se la raccolta di fiabe e saghe esprime il tentativo di fornire
un corpus letterario in cui il popolo tedesco potesse rispecchiarsi, non va sottovalutata
l’importanza dei contributi dal punto di vista linguistico – grammaticale. Nel 1819 fu
stampata la prima edizione della Deutsche Grammatik59, prima vergleichende Grammatik
(“comparata”) delle lingue germaniche; nel 1852 i due fratelli iniziarono a stilare il
54
Ibidem.
Cfr. sull’argomento Jack Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della sovversione, op.
cit., in particolare le pp. 111 – 117.
56
Ivi, p. 115.
57
Jacob und Wilhelm Grimm, Deutsche Sagen, Nicolaische Buchhandlung, Berlin, 1816.
58
Cfr. Vita e opere di Jacob e Wilhelm Grimm in J. e W. Grimm, Fiabe, op. cit, p. XVI.
59
Jacob und Wilhelm Grimm, Deutsche Grammatik, Dieterische Buchhandlung, Göttingen, 1819.
55
15
Wörterbuch der deutschen Sprache, completato postumo da altri filologi tedeschi60; di
grande rilievo anche la “Storia della lingua tedesca” (Geschichte der deutschen Sprache),
pubblicata nel 1846 sotto forma di appendice alla “Grammatica comparata della lingua
tedesca”61.
2.2 Il rapporto con Edgar Taylor
Edgar Taylor, noto per aver fornito la prima traduzione dei KHM in Inghilterra, nacque nel
1793 a Banham in Norfolk. Quinto figlio di Samuel Taylor, ebbe modo di apprendere non
solo le lingue italiana e spagnola, ma anche quella tedesca62. Nel 1823 venne pubblicata la
prima edizione inglese delle Fiabe dei Grimm: Taylor fece riferimento all’edizione tedesca
del 1819 (se si eccettua la fiaba The Frog – Prince, che venne tradotta sulla base
dell’edizione del ’12)63 e ne trasse 57 fiabe più un racconto, The nose, estrapolato dalle
note del volume del 1822; benché molti racconti siano riconducibili a singole fiabe edite
dai fratelli Grimm, alcuni di essi sono il risultato di fusioni di fiabe più brevi in un racconto
più lungo: un esempio è dato dalle versioni originali di Der junge Riese e Das tapfere
Schneiderlein, che Taylor ricombinò in un’unica fiaba, The young Giant and the Taylor64.
Impreziosita dalle illustrazioni di George Cruikshank l’edizione inglese conobbe un
immediato successo che condusse alla pubblicazione di un secondo volume nel 1826:
quest’ultimo si caratterizza per la presenza di quattro racconti tratti non dalle Fiabe del
focolare, bensì adattati da altre raccolte o fiabe in voga all’epoca, ovvero dalle opere di
Büsching, Otmar e Tieck65. Taylor, in ogni caso, non limitò il suo campo di indagine alla
letteratura per bambini: di notevole interesse il suo tentativo di familiarizzare il pubblico
inglese con la poesia lirica medievale in lingua tedesca, un obiettivo che trovò il suo
compimento nella pubblicazione dei Lays of the Minne-singers nel 1825. Taylor, che
scomparve nel 1839, pur tentando di restare fedele al testo di partenza, ove possibile adattò
60
Jacob und Wilhelm Grimm, Deutsches Wörterbuch, S. Hirzel Verlag, Leipzig, 1854.
Cfr. Vita e opere di Jacob e Wilhelm Grimm in J. e W. Grimm, Fiabe, op. cit, pp. XVI-XVII.
62
Cfr. sull’argomento Otto Hartwig, Zur ersten englischen Übersetzung der Kinder- und Hausmärchen der
61
Brüder Grimm. Mit ungedruckten Briefen von Edgar Taylor, J. u. W. Grimm, Walter Scott und G. Benecke,
Otto Harrassowitz Verlag, Leipzig, 1898.
63
64
65
David Blamires, The early reception of the Grimms‘ Kinder- und Hausmärchen in England, op. cit., p. 72.
Ivi, pp. 69 – 70.
Ivi, p. 70.
16
le fiabe perché non rimanessero (o, comunque, ne restassero il meno possibile) elementi
cruenti, personaggi spaventosi o comunque in contrasto con la Bibbia:
Taylor zealously avoided using any of the tales with a religious dimension […] The prevalence of
the Devil in the German tales caused Taylor worry, so these tales also were omitted or the Devil was
converted into a giant […]. He tended also to avoid stories that contained too much of a frightening
character […]. These horrifying details are some of the most memorable features of the KHM. […]
Taylor took pains to reduce the elements of terror and cruelty that he found in the KHM. […] The
growth of Evangelicalism and of prudery […] accounts for Taylor’s alterations of religious and
other features […]. Taylor’s interferences with the German texts can be characterized as tending to
make the stories more reassuring and less disturbing to the children whom he envisaged as readers.66
Le alterazioni compiute da Taylor, dunque, vanno lette da un lato nel tentativo di evitare di
entrare in contrasto con la pruderie e la morale dei lettori inglesi del XIX secolo, dall’altro
come una sorta di “filtro” per rendere le storie più adatte ad un pubblico di giovani lettori.
Nonostante ciò, Taylor rese noto ogni cambiamento apportato nel suo apparato di note67.
C’è sempre una lotta per l’appropriazione, l’adattamento e l’autenticità, tutte le volte che le fiabe
sono tradotte e stampate. Questo è ciò che le rende tanto interessanti, specie se ne riconosciamo la
natura conflittuale e inesplicabile.68
Tra le categorie che rivestono un ruolo importante nel processo di traduzione vale la pena
citare quella delle cosiddette authorities, di cui fino alla fine del 1600 facevano parte i
nobili o comunque i committenti, dopodiché a essi si affiancò la figura dell’editore
(publisher); non meno importante il ruolo degli experts i quali, reclutati direttamente dalle
authorities, definiscono come e cosa tradurre, sulla base del grado di accettabilità e
fruibilità del testo per la “cultura di arrivo”, ovvero la società particolare cui la traduzione è
destinata (target culture)69. L’interferenza tra due letterature è una relazione per cui una
letteratura di partenza si trova a fornire o prestare elementi a una letteratura di arrivo, a
prescindere dal fatto che il processo avvenga in modo diretto o meno: nel caso di un
influsso indiretto, si rende necessario l’intervento di una “mediazione”, come può essere la
traduzione del source text nella target literature; l’interferenza può essere unilaterale
66
Ivi, pp. 70 – 73.
Ivi, p. 69.
68
Jack Zipes, La fiaba irresistibile. Storia culturale e sociale di un genere, op. cit., p. 134.
69
Cfr. sull’argomento André Lefevere, Translation: Its Genealogy in the West in Susan Bassnett, André
Lefevere, Translation, History and Culture, Pinter Publishers, London and New York.
67
17
oppure bilaterale a seconda che lo scambio sia reciproco o meno70. Tra le leggi proposte
dalla Even – Zohar, interessante appare quella per cui
Interference occurs when a system is in need of items un- available within itself.71
Ciò significa che, nel momento di tradurre i KHM, Taylor “si appropria” di alcuni devices
che sono tipici della letteratura tedesca dell’epoca, di cui il Lied è un esempio lampante;
l’appropriazione va comunque di pari passo con la semplificazione e riduzione di
complessità degli stessi items nella source literature72. Questo è dunque l’ambiente
particolare in cui si trova a operare Taylor, la cui operazione di traduzione e adattamento
dei KHM
incontrò subito il consenso dei fratelli Grimm, come ben esemplifica
l’interessante carteggio pubblicato da O. Hartwig, di cui vale la pena riportare i passaggi
principali73.
Gentlemen
Not knowing the precise addreß74 of either of you I trust the accompanying packet to a friendly band
hoping it may reach you in safety.
It contains a copy of a little work consisting of translations (made by my friend Mr. Jardine lately a
student at Gottingen and myself) from your volume of Kinder und Hausmärchen, and we beg you
acceptance of it as a small tribute of gratitude for the information and amusement afforded us by
your entertaining work as well as by your other valuable productions.
In compiling our little volume we […] were […] compelled sometimes to conciliate local feelings
and deviate a little from strict translation; but we do believe that all these variations are recorded in
the Notes which were very hastily drawn with a view to show that our book had some little
pretensions to literary consideration though deep research was out of plan. […]
I take the opportunity of adding to the parcel a little collection of our Nursery songs some of them of
great antiquity and extensive currency. – And though the collection is done with no care it may
perhaps have some interest in your eyes. […]
70
Cfr. sull’argomento il cap. Laws of literary interference in Itamar Even – Zohar, Polysystem Studies,
disponibile online all’indirizzo http://www.tau.ac.il/~itamarez/works/books/ez-pss1990.pdf
71
Ivi, p. 69.
72
Ivi, p. 71.
73
Per avere un quadro d’insieme del carteggio nella sua versione integrale, cfr. Otto Hartwig, Zur ersten
englischen Übersetzung der Kinder- und Hausmärchen der Brüder Grimm. Mit ungedruckten Briefen von
Edgar Taylor, J. u. W. Grimm, Walter Scott und G. Benecke, op. cit.
74
Interessante notare come Taylor sostituisca la doppia “s” nella parola “address” con la “Eszet” (ß).
18
I am Gentlemen75
with the highest respect
Your obedt serv.
Edgar Taylor.
Inner Temple
London 26th June 1823
[…]
Nell’inviare la prima edizione del suo volume ai fratelli Grimm, Taylor non nasconde di
aver dovuto apportare alcune modifiche, discostandosi in più punti da una traduzione
fedele, per poter rendere il libro compatibile con le aspettative e i sentimenti del pubblico
inglese; è con gratitudine e umiltà che dona il suo volumetto ai Grimm come segno di
riconoscenza e di riconoscimento del loro valore nel campo letterario. I Grimm accolgono
l’opera di Taylor con grande piacere:
Hochgeehrter Herr,
Für die Uebersetzung der Kinder und Hausmaerchen, die uns richtig zugekommen ist, sagen wir
Ihnen den verbindlichsten Dank. […] Wenn naemlich Ihre Landsleute an dieser Art Poesie
Geschmack finden, so regt das Buch wahrscheinlich irgend jemand auf, in aehnlicher Weise eine
Sammlung dort zu veranstalten. […] Ihre Ubersetzung ist treu und liest sich gut. Sie haben hier und
da etwas abgeschnitten, oder eine Kleinigkeit geaendert, das ist bei dem Zweck, den Sie im Auge
haben, natürlich, und kann auch, da der Stoff einmal gesichert ist, weiter keinen Nachteil haben. […]
Nur haetten wir gewünscht, daß Sie auch das Bild der Frau Viehmaennin, vor dem zweiten Bande,
das an sich einen angenehmen Eindruck macht, Ihren Lesern mitgetheilt haetten. Sie haetten wohl
gerne
das
Gesicht
einer
so
klugen
deutschen
Baeuerin
einmal
angesehen.
Vielleicht ist Ihnen auch unsere Sammlung von „Deutsche Sagen“ zu Gesicht gekommen, von
welcher zwei Baende in Berlin erschienen sind, welchen noch ein dritter folgen sollte […] : sollte
nicht auch in England etwas der Art können zu Stande gebracht werden? […]
Für die beigelegte Sammlung von Kinderliedern sind wir Ihnen sehr verbunden; durch Ihre Zusaetze
und Verbesserungen hat sie einen doppelten Werth erhalten. Sie war uns unbekannt und wir haben
manches darin gefunden, was auch bei uns üblich ist, aber auch manches eigentümliche und hübsche
75
Così nel testo originale; assente la virgola, appare comunque chiaro che si tratta di una forma di vocativo.
19
[…]76
Stück.
Ew. Wohlgebornen
ergebenste D. D.
Jacob und Wilhelm Grimm.
Caßel 25t Juni (sic!)77
1823.
I Grimm si mostrano dunque riconoscenti nei confronti di Taylor e lo rassicurano riguardo
ai suoi scrupoli per aver apportato qualche modifica qua e là: è vero, dicono i due fratelli,
qualche modifica c’è stata, ma si tratta di piccolezze e perciò assolutamente comprensibili e
prive di conseguenze, visto che il materiale originario è già stato messo al sicuro. L’unico
motivo di contestazione è l’assenza di un’illustrazione della saggia (klug) signora Dorothea
Viehmann, una delle principali protagoniste che narrarono i racconti ai Grimm78. Dopo
averlo invitato a compiere un’operazione analoga con le Saghe tedesche, lo ringraziano per
la raccolta di Kinderlieder, che non conoscevano. A questa lettera fa seguito la replica di
Edgar Taylor, che giunge però solo tre anni dopo:
Sirs,
[…] I am almost afraid I come too late, though in truth I had hoped long e’er this to have been
enabled to revive the subject in the manner I wished, namely in presenting you with the second
volume, which I have prepared by myself and which I at length enclose. – I am afraid you will still
think me sacrificing too much to the public taste, but in truth I began the work leß as an antiquarian
Man as one who meant to amuse, […] I have been obliged to take two or three stories from other
collections to make up my volume of the characters I wished. […] I have some inclination to publish
a volume or two of the popular stories of the middle ages in various countries of Europe, selecting
those which are best known and most worth preserving in each – of course all translated and to a
certain extent therefore a little retold. – I mean in this collection to take what we called here
“Chapbooks”, and what you call Folks – books; many of which are as you are aware the romances of
76
Si noti come qui, come anche negli stessi Märchen, siano presenti forme di arcaismo, in particolare le
vocali ä, ö, ü sono scritte nella loro forma estesa, rispettivamente ae, oe, ue, mentre parole come Teil e
mitgeteilt vedono l’aggiunta di una h tra la dentale e la vocale: Theil e mitgetheilt.
77
Trattasi con ogni probabilità di un refuso ortografico, dove sembra legittimo supporre che Juli sia stato
erroneamente sostituito con Juni.
78
Cfr. http://de.wikipedia.org/wiki/Dorothea_Viehmann.
20
older times abridged – of course they would generally be longer than what come within the claß of
child’s stories. […]
I ought to apologize for intruding upon you at so much length and am Your very obed. serv.
Edgar Taylor
Temple,
London 24 Jan. 1826
A tre anni di distanza, Taylor invia ai Grimm il secondo volume della sua versione delle
Fiabe, esprimendo al contempo l’intenzione di dare alle stampe uno o due volumi relativi a
storie di epoca medievale, opportunamente tradotte e riadattate. Celere la risposta di
Wilhelm Grimm:
Cassel in Hessen. 4t Aug.
1826.
Ich benutze die Gelegenheit die sich darbietet, Ihnen, hochgeehrtester Herr, unsern aufrichtigen
Dank für die Übersetzung des zweiten Bandes der Märchen zu sagen, welche wir im Frühjahr richtig
empfangen haben. Er schließt sich ganz dem ersten an und der Ausdruck scheint mir, wie dort,
natürlich und angemessen. Die Auswahl ist Ihrem Plane gemäß, und die radierten Blätter sind leicht
und geistreich behandelt. Während der Zeit ist auch von uns eine Auswahl der Märchen, als kleine,
nur 50 Stück enthaltende Ausgabe bei Reimer in Berlin erschienen, sieben Bilder dabei nach
Zeichnungen meines Jüngern Bruders, sind zwar in einer andern weniger humoristischen Manier,
aber doch wie mir däucht, ganz artig. Ich nenne Ihnen diese Ausgabe bloß weil darin von einigen
Märchen ein neuer und besserer Text ist geliefert worden.
Ew. Wohlgebornen
ergebenster Dr
Dr Wilhelm Grimm
Secretär der Kurfürstlichen Bibliothec.
Il secondo volume conferma il successo già avuto con il primo: i Grimm ne sono
riconoscenti, definiscono lo stile come genuino e appropriato e anche le incisioni
incontrano il loro pieno apprezzamento. Nel frattempo, precisa Wilhelm, è stata pubblicata
anche una selezione di 50 fiabe: chiaro riferimento, questo, alla Kleine Ausgabe del 1825,
in cui alcuni testi sono stati rinnovati e migliorati. Questi i punti salienti dello scambio
21
epistolare tra i Grimm e Taylor; ma il successo di quest’ultimo non si esaurisce qui, se è
vero che un autore della portata di Walter Scott, che collaborò alla stesura della prima
traduzione inglese79, gli si rivolge in questi termini:
Edinbg 16 January 1823
Sir.
I have to return my best thanks for the very acceptable present your goodness has made me in your
interesting volume of German tales and traditions. I have often wished to see such a work
undertaken by a gentleman of taste sufficient to adapt the simplicity of the German narrative to our
own, which you have done so successfully. When my family were at the happy age of being auditors
of fairy tales I have very often endeavoured to translate to them in such an ex tempore manner as I
could and I was always gratified by the pleasure which the German fictions seemed to convey. […]
In a great number of them tales I can perfectly remember the nursery stories of my childhood, some
of them distinctly and others like the memory of a dream. Should you ever think of enlargening your
very interesting notes I would with pleasure forward to you such of the tales as I remember […]
There is also a sort of wild fairy interest in them which makes me think them fully better adapted to
awaken the imagination and soften the heart of childhood than the good – boy stories which have
been in later years composed for them. In the latter case […] the moral always consists in good
moral conduct … being crowned with temporal success. […] In a word I think the selfish tendencies
will be soon enough acquired in this arithmetical age and that to make the higher class of character
our old wild fiction like our own simple music will have more effect in awakening the fancy and
elevating the disposition than the colder and more elevated compositions of more clever author and
composers. […]
Your Obliged Servant
Walter Scott.80
Non solo Scott loda il lavoro di Taylor, ma lo pone addirittura a un livello superiore a
quello della tradizione inglese dei racconti per ragazzi, la cui morale sembra non poggiare
su solide basi, dal momento che essa si riferisce sempre ad una giusta condotta: le Fiabe di
Taylor sono destinate, nella visione di Scott, a avere la meglio in quest’epoca razionale:
forse una citazione dello stesso Taylor quando, nel suo Preface al primo volume, parla di
79
Edgar Taylor, Grimms’ Fairy Tales, op. cit.
Per il testo integrale, cfr. Otto Hartwig, Zur ersten englischen Übersetzung der Kinder- und Hausmärchen
der Brüder Grimm. Mit ungedruckten Briefen von Edgar Taylor, J. u. W. Grimm, Walter Scott und G.
Benecke, op. cit.
80
22
una age of reason? Sia come sia, sulla base del carteggio ivi pubblicato si può in ogni caso
presumere che il successo dell’edizione inglese, dove le illustrazioni di Cruikshank hanno
sicuramente giocato un ruolo importante, sia stata una motivazione sufficiente per i fratelli
Grimm a procedere con il complesso lavoro di revisione e rielaborazione dei Märchen sino
al 1857, anno in cui fu pubblicata l’ultima edizione. Come già rilevato, sono proprio i
Grimm a elogiare l’opera di Taylor e nella lettera del 4 Agosto 1826 Wilhelm Grimm
mette Taylor a conoscenza della recente pubblicazione di una Kleine Ausgabe, in cui è
presente una selezione di cinquanta racconti accompagnati da sette illustrazioni di Jacob.
“Ich nenne Ihnen diese Ausgabe bloß weil darin von einigen Märchen ein neuer und
besserer Text ist geliefert worden”, scrive Wilhelm a Taylor: “Le cito questa edizione
proprio perché alcuni racconti in essa contenuti sono stati rinnovati e migliorati nel
testo”81; si tratta di una frase che lascia comprendere come i Grimm abbiano apprezzato la
traduzione di Taylor e abbiano tratto dal successo della sua opera un incoraggiamento nella
prosecuzione di quel labor limae che avrebbe portato al successo anche l’edizione tedesca.
81
L’avverbio bloß può significare anche “solamente, semplicemente”, ma in questo caso sembra preferibile
l’accezione di “proprio”, in quanto rafforzativo dell’argomentazione che segue.
23
3. Esempi commentati tratti da fiabe celebri
Si è visto come il contesto storico e socio – letterario abbia avuto un influsso fondamentale
nella stesura e creazione di opere il cui obiettivo principale è quello di far sì che il nascente
Volk tedesco possa identificarsi in un patrimonio culturale comune e di mantenerne vivo il
sentimento patriottico; si è altresì sottolineato come proprio in questo ambito fioriscano gli
studi filologici e, parimenti, l’interesse per la storia e la parentela tra le lingue, aspetti che
mirano al recupero e alla diffusione del suddetto patrimonio culturale, e linguistico, e
letterario. La premessa sul piano teorico è stata dunque necessaria per un’analisi
metanarrativa di alcuni tra i testi più rinomati della raccolta dei KHM per evidenziarne
analogie e differenze sia sul piano microscopico (lessicale) che su quello macroscopico
(scene e trama). Tale analisi, dopo una sommaria introduzione filologica relativa
all’origine del nome e alla tradizione dei singoli racconti, prenderà in considerazione i poli
cronologici più significativi per la comprensione dell’evoluzione dei Märchen stessi: 1812
e 1857, rispettivamente gli anni della prima e dell’ultima edizione tedesca. Verrà
contestualmente presa in esame la prima edizione inglese del 1823, che va in ogni caso
ricondotta all’edizione dei Grimm del ’19, sulla quale è fondata.
Per le versioni integrali dei testi delle fiabe si rimanda all’appendice; per le citazioni
presenti nel testo si confronti l’apparato bibliografico finale. Di seguito sono comunque
riportate, per completezza, le edizioni adottate nel corso dell’analisi.
_Brüder Grimm, Kinder- und Haus-Märchen Band 1, Große Ausgabe,
Realschulbuchhandlung, Berlin, 1812.
_Brüder Grimm, Kinder- und Haus-Märchen Band 1, Große Ausgabe, G. Reimar, Berlin,
1819
_Brüder Grimm, Kinder- und Haus-Märchen Band 1, Große Ausgabe, Dieterich,
Göttingen, 1857.
_Edgar Taylor, George Cruikshank, Grimms’ Fairy Tales, Volume One, London Scolar
Press, London, 1979
_Edgar Taylor, George Cruikshank, Grimms’ Fairy Tales, Volume Two, London Scolar
Press, London, 1979
24
3.1 Cenerentola
Adrian Ludwig Richter, Aschenputtel
(immagine tratta da http://www.deutschstunden.de)
3.1.1 Versione del 1812
Secondo quanto riportato nell’appendice al primo volume, il personaggio di Cenerentola
trova vari corrispondenti non solo nella tradizione germanica (cfr., tra gli altri, l’alto –
tedesco Aschenbrödel, oppure il danese Askeftis), ma anche in quella slava (Kopciuszek, in
una versione polacca non pervenuta)82, senza contare che le traduzioni di una versione
italiana di Giambattista Basile (Zezolla) e di quella francese di Charles Perrault (Cendrillon
et la petite pantoufle de verre) erano già diffuse in Germania nel momento in cui i Grimm
si accingevano a proporre la loro versione83.
Aschenputtel, questo il titolo della fiaba nella versione dei Grimm, si apre con la
descrizione di un ameno focolare domestico il cui equilibrio viene alterato dalla scoperta
82
Cfr. Anhang Band 1 in http://de.wikisource.org/wiki/Aschenputtel_(1812).
Silvia Zagarese, I Grimm celati nella Cenerentola Disney, tesi di laurea discussa alla facoltà di Lettere,
Filosofia, Scienze Umanistiche e Studi Orientali, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, A. A.
2011/2012.
83
25
della malattia della madre di Cenerentola. La donna, prima di morire, chiede alla figlia di
piantare un alberello che potrà utilizzare in caso di necessità, a condizione di rimanere
buona e devota (“nur bleib fromm und gut”). Poco tempo dopo il padre si risposa; la
matrigna e le sorellastre non fanno altro che vessare la povera Cenerentola e saranno
proprio loro a darle questo nomignolo in virtù del fatto che è costretta a vivere
letteralmente tra cenere e polvere:
Und weil es da immer in Asche und Staub herumwühlte und schmutzig aussah, gaben sie ihm den
Namen Aschenputtel.
Significativo il fatto che fin quasi alla fine della fiaba Cenerentola sia ripetutamente
caratterizzata dal genere neutro, con costante riferimento alle espressioni iniziali, einziges
Töchterlein o anche liebes Kind, rispettivamente l’unica figlioletta o la cara bambina:
espressioni, queste, che necessitano una resa al femminile in italiano, mentre in tedesco
l’utilizzo del neutro potrebbe da un lato richiamare una chiara componente di fragilità della
ragazza, dall’altro sembrerebbe voler risaltare il suo essere quasi un “oggetto” (per giunta
scomodo) agli occhi della matrigna e delle sorellastre.
Un giorno viene diffusa la notizia che, per tre sere consecutive, si terrà un gran ballo nel
palazzo del re, così che il principe possa trovare una consorte adatta; alla festa sono
invitate anche le sorellastre che, con fare sprezzante e sarcastico (“spottisch”) domandano
alla ragazza di unirsi a loro; Cenerentola rifiuta, sostenendo di non avere alcun vestito da
indossare; al danno si aggiunge la beffa, poiché Cenerentola è costretta a trascorrere la
serata separando un mucchio di lenticchie e facendo attenzione a gettare via quelle cattive.
Tuttavia Cenerentola riceve un aiuto inaspettato: due colombe bianche (che fungeranno da
aiutanti e consiglieri per il resto della narrazione) si offrono di aiutarla nel dividere le
lenticchie buone da quelle cattive:
Die schlechten ins Kröpfchen,
die guten ins Töpfchen
<<Quelle buone nel pentolino, quelle cattive all’uccellino>>84: in pieno stile fiabesco,
questa è una delle formule che ricorrerà nella fiaba insieme all’onomatopeico Pick, pick,
pick, che richiama l’atto del beccare degli uccelli. Terminato il lavoro, le colombe invitano
84
Traduzione mia, volta a mantenere la rima originale; letteralmente Kröpfchen sta a indicare il gozzo, la
gola degli uccelli. Clara Bovero traduce Kröpfchen con “gozzino” (cfr. J. e W. Grimm, Fiabe, op. cit., p. 84).
26
Cenerentola a salire sulla piccionaia per ammirare lo sfavillare di luci della festa che si sta
tenendo a palazzo. La piccionaia viene però abbattuta il giorno successivo su ordine delle
sorellastre che, scoperta la piccola “trasgressione” di Cenerentola, vogliono impedirle
ulteriori fonti di distrazione. Una scena analoga si ha la sera successiva ma stavolta le
colombe, oltre a aiutare Cenerentola, le suggeriscono il modo per poter andare alla festa:
chiedendo aiuto all’alberello piantato subito dopo la scomparsa della madre, Cenerentola
ottiene un vestito adatto a ballare.
Bäumlein rüttel und schüttel dich,
wirf schöne Kleider herab für mich!
“Alberello, agitati e scuotiti, mandami giù dei bei vestiti!”: ecco pronto un magnifico abito
d’argento, con cui Cenerentola si reca al ballo, trasportata da una elegante carrozza: non
solo il principe, ma tutti gli invitati (eccetto le sorellastre, naturalmente) sono colpiti dalla
sua bellezza. Allo scoccare della mezzanotte, tuttavia, Cenerentola deve lasciare il palazzo
(questa la condizione imposta dalle due colombe) e fugge senza lasciar tracce e senza che
nessuno sappia la sua identità. Torna a casa e restituisce l’abito all’albero; la formula è
simile alla precedente, con una lieve variazione:
Bäumlein rüttel und schüttel dich,
nimm die Kleider wieder für dich!
“Alberello, agitati e scuotiti, riprenditi i vestiti!”. Cenerentola si lascia però sfuggire,
davanti alle sorellastre, di aver visto passare la carrozza della misteriosa fanciulla che
aveva preso parte alla festa; le due sorellastre, per la terza volta, le affidano l’ingrato
compito di selezione dei legumi. La scena che segue è la stessa della precedente, ma
stavolta il vestito è d’oro e la carrozza ancora più sfarzosa. Cenerentola prende
nuovamente parte al ballo e, per la seconda volta, appena giunge la mezzanotte, è costretta
a abbandonare la festa in tutta fretta. Stavolta, però, il principe ha previdentemente lasciato
cospargere la scalinata di pece per rallentare la fuga di Cenerentola e la scarpetta d’oro di
Cenerentola vi resta impigliata. Il principe decide così di utilizzarla per ritrovare
Cenerentola: fa annunciare che, colei cui la scarpetta calzerà alla perfezione, diventerà la
sua consorte. Naturalmente le sorellastre non vogliono lasciarsi sfuggire un’occasione del
genere e, nonostante la scarpetta sia troppo stretta per loro, su suggerimento della matrigna
decidono di amputarsi una parte del piede perché si adatti alla misura della scarpetta. Ma
27
l’inganno dura poco: per ben due volte le colombe (che avevano già aiutato Cenerentola
nella selezione dei legumi) mettono in guardia il principe:
Rucke di guck, rucke di guck!
Blut ist im Schuck: (Schuh)
Der Schuck ist zu klein,
Die rechte Braut sitzt noch daheim!
La scarpa è ovviamente troppo piccola e le tracce di sangue divengono ben presto evidenti,
così che il principe capisce di essere stato imbrogliato. A questo punto, nonostante le
resistenze della matrigna, il principe decide di lasciar provare la scarpetta anche a
Cenerentola: non c’è più alcun dubbio, è lei la principessa. Festose, le colombe
annunciano:
Rucke di guck, rucke di guck!
Kein Blut im Schuck:
Der Schuck ist nicht zu klein,
Die rechte Braut, die führt er heim!
Niente sangue nella scarpetta, la misura è quella giusta. Il principe può portare la vera
sposa a palazzo.
3.1.2 Versione di Edgar Taylor
La traduzione della fiaba di Cenerentola viene pubblicata per la prima volta nel secondo
volume delle fiabe di Taylor, ossia nel 1826; ma preso atto del fatto che lo scrittore inglese
si basa anche qui sull’edizione dei Grimm del ’19, essa può essere comunque messa sullo
stesso piano delle traduzioni in inglese pubblicate nel ’23. Nella nota a fine volume si
sottolinea come la storia di Cenerentola abbia dei paralleli – tra i molti – non solo in Hesse,
ma anche nel Pentamerone di Giambattista Basile, raccolta di fiabe in lingua napoletana,
dove appare sotto il nome di “Cennerentola”85.
Il prologo, seppur più sintetico, è analogo a quella dei Grimm del 1812. Tuttavia, quando
la madre sta per andarsene, non viene menzionato l’albero magico, che comparirà soltanto
in una scena successiva, assente nell’originale del ’12 (ma già presente nel ’19). Infatti il
85
Edgar Taylor, Grimms’ Fairy Tales, Volume Two, op. cit., p. 247.
28
padre di Cenerentola decide di recarsi a una fiera e chiede alle sorellastre e alla figlia che
cosa desiderino in dono.
“Fine clothes,” said the first: “Pearls and diamonds,” cried the second. “Now child,” said he to his
own daughter, “what will you have?” “The first sprig, dear father, that rubs against your hat on your
way home,” said she.
Il padre porta perciò in dono a Cenerentola un ramoscello di nocciolo, che la ragazza
prontamente pianta presso la tomba della madre, lasciandolo crescere con le proprie
lacrime; è proprio sull’albero che trova la sua dimora un uccellino, che diverrà amico di
Cenerentola. Quando le sorellastre sono invitate al ballo a palazzo, notiamo che, a partire
dall’edizione tedesca del ’19, Cenerentola assume una parte più attiva: mentre nella
versione del 1812 erano le sorellastre a chiederle, con fare sprezzante e derisorio, di unirsi
a loro per la festa (“Aschenputtel, du gingst wohl gern mit auf den Ball?”), stavolta è lei in
persona a implorarle di lasciarla venire con loro:
[…] When all was done she could not help crying, for she thought to herself, she should have liked
to go to the dance too; and at last she begged her mother very hard to let her go.
In un primo momento la matrigna rifiuta di assecondare questa richiesta, per poi
prometterle di accontentarla se, in un tempo massimo di due ore, avrà separato dal mucchio
di cenere una ciotola di piselli: mentre questo “patto” compare già nel ’19, risulta
mancante il Lied immediatamente successivo, con cui Cenerentola invoca l’aiuto degli
uccellini in giardino:
Hither, hither, through the sky,
Turtle – doves and linnets, fly!
Blackbird, thrush, and chaffinch gay,
Hither, hither, haste away!
One and all, come help me quick,
Haste ye86, haste ye, - pick, pick, pick!
Tortore, colombe e fanelli si precipitano in aiuto della povera ragazza e con molta solerzia
la aiutano a portare a termine il compito in un’ora di tempo; in ogni caso nell’edizione
inglese non viene associato alcun Lied agli uccellini (“Die schlechten ins Kröpfchen, die
86
Arcaismo per you; altre forme “obsolete” come thy in luogo di your sono presenti un po’ in tutto il testo.
29
guten ins Töpfchen”). La matrigna decide di non tenere fede al patto e insiste perché
Cenerentola separi altri legumi dalla cenere: se riuscirà anche questa volta, allora avrà il
permesso di accompagnarle al ballo. Per la seconda volta, gli uccellini aiutano Cenerentola
e in mezz’ora tutto il lavoro è terminato; la matrigna, però, non vuole sapere e se ne va alla
festa con le sorellastre, lasciando Cenerentola da sola a casa. A questo punto la ragazza
decide di ricorrere all’alberello magico:
Shake, shake, hazle – tree,
Gold and silver over me!
Subito l’amico uccellino (già comparso nella scena precedente ma assente nell’originale) le
porta un sontuoso vestito d’oro e d’argento e Cenerentola può finalmente recarsi a palazzo.
La descrizione del ballo ricalca senza particolari differenze la versione del 1812; dal
momento in cui Cenerentola si mette in fuga, la narrazione ricalca l’edizione del ’19: il
principe la insegue fino a casa; la ragazza si nasconde nella piccionaia e, quando arriva il
padre di lei, il principe gli chiede aiuto per trovarla; ma Cenerentola riesce a cambiarsi
d’abito e a tornare al suo giaciglio accanto al camino senza farsi vedere; nel frattempo
l’uccellino mette da parte il vestito elegante. Il giorno successivo si ha una sequenza
analoga: Cenerentola va al ballo di nascosto e senza che nessuno la riconosca; ancora una
volta il principe tenta di inseguirla e stavolta Cenerentola si nasconde sopra un pero (che
nell’edizione tedesca è descritto come “ein schöner, großer Birnbaum voll herrlichem
Obst”: bello, grande e colmo di frutti magnifici). All’arrivo del padre, l’albero viene
abbattuto ma Cenerentola è riuscita ancora una volta a non farsi scoprire. Alla terza sera,
gli eventi si ripetono come il giorno precedente; ma stavolta, mentre fugge, Cenerentola
perde una scarpetta lungo la scalinata (nell’edizione del ’19 il principe aveva fatto
cospargere di pece le scale, proprio lì la scarpetta rimane impigliata) e il principe decide di
tenerla per poter risalire alla ragazza che la indossava. Da qui in poi la narrazione prosegue
come nel testo di partenza, ma c’è una lieve divergenza nel momento in cui il principe
porta con sé prima l’una, poi l’altra sorellastra, convinto che la scarpetta appartenga a una
di loro. In questo caso, l’inganno viene svelato da una colombella posata su un ramo del
nocciolo di Cenerentola; mentre la carrozza col principe passa accanto all’albero, ecco
l’uccellino cantare, per ben due volte:
30
“Back again! back again! look to the shoe!
The shoe is too small, and not made for you!
Prince! prince! look again for thy bride,
For she’s not the true one that sits by your side”
Altra differenza è data dal fatto che, quando il principe chiede di lasciar provare la
scarpetta anche a Cenerentola, non si rivolge alla madre come nell’originale, bensì al
padre, il quale, con malcelata diffidenza (“I am sure she cannot be the bride”) tenta di
dissuadere il principe dal suo proposito. Quest’ultimo, naturalmente, convoca Cenerentola,
cui la scarpetta si adatta alla perfezione.
“Home! home! look at the shoe!
Princess! The shoe was made for you!
Prince! Prince! Take home thy bride,
For she is the true one that sits by thy side!”
Questo il trionfale canto della colomba che va a posarsi sulla spalla destra di Cenerentola e
prosegue con lei nel cammino verso casa: ulteriore elemento di novità, questo, rispetto al
finale del 1812 a cui vanno aggiunti da un lato la totale assenza delle carrozze (e relativi
cocchieri) che accompagnano Cenerentola al ballo, dall’altro il “limite orario” della
mezzanotte che, nel racconto di Taylor, diventa una generica late hour of the night. In parte
differente il finale nell’edizione del ’19 in cui, da un lato, sono due le colombe che si
posano sulle spalle di Cenerentola, dall’altro viene inserita una scena completamente
inedita, che va a chiudere la storia:
Als die Hochzeit mit dem Königssohn sollte gehalten werden, kamen die falschen Schwestern,
wollten sich einschmeicheln und Theil an seinem Glück nehmen. Als es nun zur Kirche ging, war
die älteste zur rechten, die jüngste zur linken Seite, da pickten die Tauben einer jeden das eine Aug
aus, hernach als sie heraus ging war die älteste zur linken und die jüngste zur rechten, da pickten die
Tauben einer jeden das andere Auge aus und waren sie also für ihre Bosheit und Falschheit mit
Blindheit auf ihr Lebtag gestraft.
Volendo prendere parte al matrimonio di Cenerentola, le due sorellastre ricevono la
punizione che meritano: le colombe beccano via prima l’uno, poi l’altro occhio a ciascuna
delle due; così che sono costrette alla cecità per tutto il resto della loro vita. Un finale così
cruento non sarebbe stato ammissibile per Taylor.
31
3.1.3 Versione del 1857
Se si esclude il nome della protagonista, che nel titolo appare come Aschenbuttel, nella sua
versione finale la storia di Cenerentola appare sostanzialmente immutata fino al momento
in cui a Cenerentola viene affidato il compito di separare i legumi dalla cenere. Al
momento di invocare le colombe e gli altri uccelli del cielo, risulta integralmente soppresso
il Lied già presente nella versione di Taylor del ’23 e sostituito da un paio di versi, già
pronunciati dalle colombe, ora da Cenerentola stessa (in ordine invertito):
die guten ins Töpfchen
die schlechten ins Kröpfchen.
Quando tutti sono ormai andati al ballo, Cenerentola si reca presso il nocciolo e grida:
Bäumchen, rüttel und schüttel dich
wirf Gold und Silber über mich
Se si pone attenzione alla forma del Lied, si nota come esso riprenda fedelmente quello già
presente nel ’19 e in Taylor, discostandosi dall’originale per il riferimento all’idea di
ricchezza in generale (“Gold und Silber”) anziché alla necessità di un abito elegante (“Wirf
schöne Kleider herab für mich”). Con un’intraprendenza già manifesta nella versione di
Taylor (seppure riportata come sorrowfully), Cenerentola conferma il ruolo più attivo già
conquistato nel ’19, mentre nella versione del ’12 erano le colombe a suggerirle di salire
sulla piccionaia per poter assistere, da lontano, allo sfavillio delle luci del palazzo regale e
solo in un secondo momento le consigliano di recarsi in prima persona al ballo. A questo
punto, quando il principe segue Cenerentola fino a casa, la narrazione diverge almeno in
parte da quanto riportato sia nella prima versione che in quella di Taylor: se si esclude la
soppressione del Lied con cui Cenerentola restituisce l’abito all’alberello (già assente nel
’23), stavolta è il padre in persona a abbattere la piccionaia per vedere se dentro vi sia
nascosta la figlia – cfr. quanto narrato nell’edizione del ’19 (mentre nel ’12 erano state le
sorellastre a chiedere di demolirla, con il solo scopo di impedire a Cenerentola di compiere
un’ulteriore “trasgressione”, ovvero di salire nuovamente sulla piccionaia); nella versione
di Taylor, inoltre, viene soltanto sfondata la porta d’accesso (“But when they had broken
open the door they found no one within”). Proseguendo nella narrazione, si nota che la
storia tende a riprendere in modo sostanzialmente immutato le versioni del ’19/’23 e,
32
contestualmente, si differenzia in alcuni punti dalla versione del ’12. Oltre al fatto che,
neppure stavolta viene fatto riferimento alla carrozza, ai cocchieri e al termine orario della
mezzanotte, quando il principe decide di trovare la proprietaria della scarpetta,
nell’originale l’annuncio è collettivo: der Prinz
ließ bekannt machen, welcher der Goldene Pantoffel passe, die solle seine Gemahlin werden.
Sarebbe divenuta sua sposa colei, il cui piede si adattasse alla scarpetta d’oro. Nelle
versioni successive, d’altra parte, egli si rivolge direttamente alla famiglia di Cenerentola,
in particolare in questa versione del ’57 si rivolge direttamente al padre di lei, affermando
“Keine andere soll meine Gemahlin werden als die, an deren Fuß dieser goldene Schuh paßt”
Differente anche la motivazione che la matrigna fornisce alle sorellastre quando consiglia
loro di tagliar via una parte del piede perché la scarpetta possa andar loro bene. Se nel ’12
le incoraggia dicendo che il dolore passerà presto (“[…] Es thut ein bischen weh, was
schadet das aber, es vergeht bald und eine von euch wird Königin”), nelle versioni
successive assicura loro che, una volta che una delle due sarà regina, non dovrà più andare
a piedi ( “When you are queen you will not care about toes, you will not want to go on
foot” / “Wann du Königin bist, so brauchst du nicht mehr zu Fuß zu gehen”). Quando il
principe realizza di essere stato ingannato dalle sorellastre e decide dunque di lasciar
provare anche a Cenerentola la scarpetta, la rimostranza non proviene dalla matrigna, come
nel ’12, bensì dal padre stesso di Cenerentola il quale, alla richiesta del principe se non vi
sia un’altra ragazza cui lasciar provare den goldenen Pantoffel, risponde
“Nein, […] nur von meiner verstorbenen Frau ist noch ein kleines verbuttetes Aschenputtel da: dass
kann unmöglich die Braut sein”
con l’articolo indeterminativo che sembra voler rimarcare la condizione di “oggetto” di
Cenerentola, che pure appare più intraprendente rispetto al 1812. Il finale riprende quello
dell’edizione tedesca del ’19, risultando dunque più esteso e meno “idilliaco” rispetto
all’edizione del ’23 di Taylor.
33
3.2 Biancaneve
Adrian Ludwig Richter, Schneewittchen
(immagine tratta da http://www.goethezeitportal.de)
3.2.1 Versione del 1812
Nell’appendice al primo volume, i fratelli Grimm riportano sinteticamente tre diverse
versioni del racconto di Sneewittchen (anche noto, inizialmente, come Schneeweißchen,
altrove modificato in Schliwitchen). Se in un primo tempo la fiaba di Biancaneve
corrispondeva con quella del Ginepro, in un’altra versione la regina, mentre è sulla slitta
col re, si trova a sbucciare una mela e accidentalmente il coltello le provoca un piccolo
taglio. In un incipit differente un conte e una contessa esprimono il desiderio di avere una
figlia bianca come la neve, dai capelli neri come i corvi e dalle guance rosse come le pozze
di sangue accanto cui si trovano a passare. Quando Biancaneve nasce, la madre – a
differenza del padre – non la vede di buon occhio e, con la scusa di farle cercare un guanto
che ha lasciato appositamente cadere, ordina al cocchiere di abbandonarla (in una variante
il pretesto è quello di farle cogliere un mazzetto di rose e mentre la ragazza è distratta la
madre si allontana e la lascia da sola); Biancaneve poi giungerà da sola alla dimora dei
nani. Esiste, infine, una terza versione del racconto, che ricorda sorprendentemente
l’incipit di Cenerentola, in cui un re decide di risposarsi dopo la perdita della prima moglie
34
e avrà tre figlie con la nuova donna; quest’ultima, non tollerando la bellezza di
Biancaneve, non perde occasione per vessarla; decide addirittura di mandarla in una grotta
dove vivono dei nani che uccidono ogni fanciulla che si trovi da quelle parti. Biancaneve
rischia dapprima di morire, ma i nani decidono di risparmiarle la vita. A questo punto la
regina chiede a Specchio (Spiegel in tedesco), che è il nome del cane di Biancaneve
rimasto al castello con la matrigna:
Spiegel unter der Bank,
sieh in dieses Land, sieh in jenes Land:
wer ist die schönste in Engelland?
Engelland designa l’Inghilterra, come si nota confrontando la versione odierna: England. Il
cane risponde che Biancaneve supera in bellezza la regina e le sue tre figlie:
Sneewittchen ist schöner bei seinen sieben Zwergen, als die Frau Königin mit ihren drei Töchtern
La regina riesce dunque a avvelenarla con un laccio, adducendo come giustificazione che è
rimasta sola dopo che un cavaliere ha rapito le sue tre figlie, puntando dunque sulla
compassione di Biancaneve. Salvata una prima volta dai nani, la fanciulla viene
nuovamente ingannata dalla matrigna che le stringe un copricapo intorno alla testa; ma
ancora una volta l’intervento dei nani è tempestivo e Biancaneve si salva. Alla terza visita,
la regina si presenta con una mela di cui una metà risulta avvelenata, proprio quella che
causerà la (temporanea) morte di Biancaneve. Fatta eccezione per la bara, che non è di
cristallo ma d’argento, l’epilogo va convergendo con quello che sarà presente nella prima
versione dei fratelli Grimm. La versione del 1812 ci presenta dunque una placida scena
invernale, in cui i fiocchi di neve “cadevano come piume dal cielo, mentre una bella regina
cuciva seduta accanto a una finestra dalla cornice d’ebano di colore nero”. Nel cucire si
punge un dito e tre gocce di sangue tingono di rosso la neve: dal sangue, dalla neve e dalla
cornice nero ebano la regina si ispira per chiamare la figlia “Biancaneve” (Sneewittchen). È
interessante notare come anche questa fiaba offra uno spunto eziologico che spieghi
l’origine del nome della protagonista, in questo caso Biancaneve, ma il ragionamento è
applicabile anche alla fiaba di Cenerentola (Aschenputtel). La regina è subito dipinta come
una donna vanitosa e consapevole della sua bellezza, tanto da compiacersi nel domandare
al suo specchio:
35
Spieglein, Spieglein an der Wand:
wer ist die schönste Frau in dem ganzen Land?
Questa formula è poi divenuta celebre anche nella resa in lingua italiana: “Specchio,
specchio delle mie brame (lett. “Specchietto, specchietto alla parete”), chi è la più bella del
reame?”. Per tutta risposta lo specchio replica:
Ihr, Frau Königin, seyd die schönste Frau im Land
Ma Biancaneve cresce e giunta all’età di sette anni supera in bellezza la madre. Per questo
motivo lo specchio, all’ennesima richiesta della regina, risponde:
Frau Königin, Ihr seyd die schönste hier,
aber Sneewittchen ist noch tausendmal schöner als Ihr!
Con una citazione intertestuale che richiama ancora una volta la fiaba di Aschenputtel, la
regina viene descritta come blaß vor Neid, ovvero “verde d’invidia”. Ordina perciò a un
cacciatore di condurre Biancaneve nel bosco e di ucciderla: come prova della sua morte
dovrà portarle i polmoni e il fegato, che mangerà. Tuttavia il cacciatore si impietosisce alle
suppliche di Biancaneve e la lascia fuggire nel bosco, contando sul fatto che in ogni caso
saranno gli animali selvatici a ucciderla: come “pegno sostitutivo” da portare alla regina
reca con sé gli organi di un cinghiale, che la regina prontamente cuoce e mangia: una scena
dal sapore cannibalistico, che sarà rimossa nell’edizione inglese. Cenerentola è riuscita a
scampare alla morte, ma vaga nel bosco mutterseelig allein: un’espressione interessante, in
cui la Seligkeit può essere associata alla Bliss inglese e che nel complesso potrebbe
rendersi in italiano come “priva della gioia dell’affetto materno”. Dopo tanto camminare,
Biancaneve giunge a una casetta (Häuschen) in cui abitano sette nani i quali, tornati a casa
dopo il duro lavoro in miniera, scoprono che Biancaneve ha assaggiato e degustato un po’
tutte le loro pietanze e ha provato tutti i loro lettini. Sia nella scena in cui Biancaneve entra
nella casetta, sia in quella successiva, in cui i nani scoprono che qualcuno si è introdotto
nella
loro
dimora,
si
può
notare
un
frequentissimo
utilizzo
di
diminutivi,
grammaticalmente resi con i suffissi –chen, –lein, oppure accompagnati dall’aggettivo
klein: Gäblein (forchettine), Gemüschen (verdurina), Betterlein (bicchierini) sono solo
alcuni della lunga lista di nomignoli con cui sono descritti gli oggetti della casa dei nani.
Quando Biancaneve si sveglia, i nani le chiedono chi sia e da dove venga e lei racconta
tutto l’accaduto; le permettono di rimanere presso di loro, a patto che si occupi di
36
mantenere la casa ordinata e che non faccia entrare nessuno in loro assenza. La scena si
sposta dunque sulla regina la quale, convinta che Biancaneve sia morta, fa la consueta
domanda allo specchio, che inaspettatamente risponde:
Frau Königin, Ihr seyd die schönste hier:
aber Sneewittchen, über den sieben Bergen ist
noch tausendmal schöner als Ihr!
Travestitasi da robivecchi e camuffato il volto, la regina si presenta alla casetta dei nani e
offre una cintura di seta colorata a Biancaneve, offrendosi di allacciargliela; la regina
stringe sempre più finché a Biancaneve manca il respiro e cade a terra “come morta”.
Quando i nani tornano, scoprono quanto è accaduto e, tagliando via la cintura, fanno sì che
Biancaneve possa tornare a respirare: la ammoniscono pertanto intimandole di non far più
entrare nessuno in futuro. Ma la regina vuole eccellere per bellezza a tutti i costi e, quando
lo specchio le risponde
Frau Königin, Ihr seyd die schönste hier:
aber Sneewittchen, über den sieben Zwergelchen
ist tausendmal schöner als Ihr!
si risolve a recarsi nuovamente presso la dimora dei nanetti per eliminare Biancaneve.
Stavolta decide di utilizzare un pettine avvelenato e la ragazza, ingannata dal fatto che la
regina abbia assunto un aspetto del tutto diverso rispetto alla volta precedente e rapita dal
luccichio dell’oggetto, non si fa scrupoli a lasciar entrare la robivecchi. Non appena posato
sui capelli, Biancaneve cade a terra “morta” (qui il termine di paragone è assente). Ancora
una volta i nani arrivano al momento giusto e salvano Biancaneve che da allora in poi, lo
promette, non permetterà più a nessuno di entrare in casa. Nonostante ciò, all’ennesima
risposta dello specchio, la regina scopre l’inganno e stavolta è assolutamente determinata a
uccidere la ragazza, costi quel che costi: prepara una mela, per metà avvelenata, che offre a
Biancaneve. All’inizio esita, “Ich darf
87
keinen Menschen einlassen, die Zwerge haben
mirs bei Leibe verboten”; ma la vecchia la rassicura mangiando una metà della mela,
ovviamente quella non velenosa. A questo punto Biancaneve non sa più resistere (quasi un
richiamo all’episodio biblico di Adamo e Eva), dà un morso alla mela e cade a terra
“morta”. Lo specchio stavolta pronuncia le parole che la regina vuol sentirsi dire:
87
Corsivo mio per evidenziare la differenza con la versione inglese.
37
Ihr, Frau Königin, seyd die schönste Frau im Land!
Stavolta ogni tentativo compiuto dai nani si rivela infruttuoso: pongono Biancaneve in una
bara e la piangono per tre giorni consecutivi. Dal momento che la fanciulla ha un colorito
ancora vivo, benché esanime, i nani decidono di trasferirla in un feretro di cristallo e di
incidere il suo nome e la sua origine a caratteri d’oro, sorvegliandola a turno. Ancora una
volta tutto si alterna tra il piano di realtà e quello dell’apparenza: una volta Biancaneve
cade come/sembra morta, quella successiva cade morta. Molto tempo dopo arriva un
principe che chiede di pernottare e, dopo aver scorto Biancaneve, implora i nani di cedergli
la bara; dopo molte suppliche i nani si impietosiscono e gliela donano. Da quel giorno il
principe inizia a vegliare Biancaneve senza poter distogliere non solo lo sguardo, ma
neppure il pensiero. I servi del principe sono costretti a trascinare avanti e indietro la bara e
uno di essi, giunto al limite della sopportazione, colpisce la fanciulla alla schiena con un
ceppo di legno; quello che doveva essere un gesto di sfogo si trasforma però in un atto di
eroismo perché il colpo fa fuoriuscire il boccone avvelenato dalla gola di Biancaneve che
torna in vita. Viene annunciato il matrimonio tra il principe e Biancaneve, cui viene
invitata anche l’empia madre (gottlose Mutter) di Biancaneve, ancora ignara che la figlia
sia salva. Quando lo specchio le svela la verità, è comunque costretta a recarsi alle nozze.
A questo punto deve indossare delle calzature in ferro arroventato e non le è concesso
smettere bis sie sich zu todt getanzt hatte, cioè deve danzare fino alla morte.
3.2.2 Versione di Edgar Taylor
Nella prima edizione inglese di Snow – Drop una prima, importante differenza, che
compare già nell’edizione tedesca del 1819, si ha quando viene raccontato di come la
regina muoia e il re sposi un’altra donna, la quale diviene la nuova regina e matrigna di
Biancaneve: è un particolare che sembra ricollegarsi alla trama di Cenerentola e, anche in
questo caso, il personaggio della matrigna è del tutto negativo. Probabilmente questo shift
si è reso necessario per evitare di concentrare la crudeltà sulla sola figura della madre
naturale, il che sarebbe potuto divenire elemento di disturbo per i giovani lettori. La regina
pone dunque la fatidica domanda allo specchio:
“Tell me, glass, tell me true!
Of all the ladies in the land,
38
Who is the fairest? tell me who?”
Il quale, prontamente, risponde: “Thou88, queen, art fairest in the land”. Il punto di svolta
si ha quando Biancaneve arriva ai sette anni e diviene “as bright as the day” nonché “fairer
than the queen herself”. Quando ciò avviene, lo specchio non può esimersi dal confessare:
“Thou, queen, may’st fair and beauteous be,
But Snow – drop is lovelier fair than thee!”
Altro punto di divergenza è costituito dalla scena in cui, per la prima volta, la regina cerca
di sbarazzarsi di Biancaneve: infatti, chi ha il compito di uccidere la bambina non è un
cacciatore, come nelle edizioni del ’12/’19, bensì one of her servants. Completamente
soppressa è non solo la richiesta della regina di avere polmoni e fegato di Biancaneve
come prova della sua uccisione, ma anche tutti i dettagli annessi: viene genericamente
detto che il cacciatore, toltosi un peso dal cuore, la abbandona al suo destino, certo che non
avrebbe avuto scampo tra gli animali del bosco; non c’è alcun riferimento all’uccisione del
cinghiale, al prelevamento dei suoi organi e alla “macabra degustazione” degli stessi da
parte della regina. Anche quest’operazione sembra finalizzata a ridurre particolari
eccessivamente cruenti o che comunque potrebbero urtare la sensibilità dei bambini. Sino
al momento in cui rientrano a casa i nani la narrazione aderisce alla versione del 1812;
quando però inizia la sequenza di domande che i nani si pongono, una volta appurato che
qualcuno è entrato nella loro casetta, non c’è traccia dei diminutivi (–chen e –lein in
tedesco) che evocavano un’idea di innocente tenerezza nella versione originale 89. Altra
piccola differenza si nota nella settima domanda, in cui il nano non si chiede chi abbia
bevuto dal suo bicchiere, ma chi abbia bevuto il suo vino: uno shift dal contenitore al
contenuto. I nani permettono a Biancaneve di restare presso di loro, e non appena la regina
interpella lo specchio, “which always spoke the truth”, questo rivela come stanno davvero
le cose:
“Thou, queen, art the fairest in all this land;
But over the hills, in the greenwood shade,
Where the seven dwarfs their dwelling have made,
88
Uno dei molti arcaismi che caratterizzano lo stile di Taylor; cfr. anche l’uso di ye nella fiaba di
Aschenputtel.
89
Probabilmente uno dei modi più efficaci di ottenere una traduzione fedele sarebbe stato quello di
accompagnare i sostantivi con un aggettivo come little o tiny, come già avviene quando si descrive la casa dei
nanetti per la prima volta.
39
There Snow – drop is hiding her head, and she
Is lovelier far, O queen! than thee.”
Si nota subito come il Lied nella versione inglese, caratterizzato da uno stile arcaicizzante
che sembra richiamare il linguaggio shakespeariano, abbia una forma leggermente più
estesa di quello che compare nella prima versione tedesca, in cui ci si riferiva
genericamente a “Sneewittchen, über den sieben Bergen” – Biancaneve sui sette monti –
mentre ora la descrizione è arricchita di dettagli e lo specchio rivela il nascondiglio di
Biancaneve: nel Lied inglese è dunque trasposta ciò che nella versione tedesca era una
deduzione della regina: “Se l’unica casetta sui monti è abitata dai nani, allora Biancaneve
deve aver trovato rifugio lì”. Nel momento in cui, dopo che la regina ha compiuto il suo
primo misfatto, i nani rientrano e trovano Biancaneve priva di sensi, è lo stesso narratore a
intervenire e a lasciar immedesimare i lettori con il loro sconforto: “I need not say how
grieved they were to see their faithful Snow – drop stretched upon the ground motionless,
as if she were quite dead”. Un’altra differenza interessante si ha quando, per la seconda
volta, la regina – camuffata – tenta di convincere Biancaneve a lasciarla entrare: se nella
versione tedesca Biancaneve argomenta il suo (iniziale) rifiuto con “Ich darf
90
niemand
hereinlassen”, nella versione di che ne dà Taylor la fanciulla afferma “I dare 91 not let any
one in”. Nel primo caso il rifiuto esprime una volontà altrui: “Non posso perché non mi è
permesso” (questa, infatti, l’accezione primaria del verbo dürfen); nel secondo caso,
invece, esprime una volontà interiore (benché derivante da una fonte esterna): “Non posso
perché non ne ho il coraggio”. Analogamente avviene nella scena in cui la regina offre la
mela avvelenata, in cui viene però esplicitata la volontà dei nanetti: “die Zwerge haben
mirs bei Leibe verboten/the dwarfs have told me not”. Ma la regina sa essere persuasiva e
Biancaneve, dato un morso alla mela, cade a terra morta. Lo specchio può ora dire:
“Thou, queen, art the fairest of all the fair.”
“Nun hab ich Ruhe” sprach sie, “da ich wieder die schönste im Lande bin, und
Sneewittchen wird diesmal wohl todt bleiben”: la regina può aver pace perché certa che
stavolta Biancaneve sia morta davvero – così recita la prima edizione tedesca;
nell’edizione inglese si legge invece un’espressione equivalente a quella tedesca del ’19:
“And then her envious heart was glad, and as happy as such a heart could be”. Segue poi
90
91
Corsivo mio.
Corsivo mio.
40
una breve scena non contemplata nella versione tedesca del ’12, in cui si descrive come il
feretro venga trasportato sulla collina, sorvegliato a turno dai nani; a compiangere
Biancaneve arrivano anche una civetta, un corvo e una colomba. Quando i nani, mossi a
pietà, decidono di donare la bara di cristallo al principe, questi la solleva e, nel compiere il
movimento, fa sì che il pezzo di mela fuoriesca dalla gola di Biancaneve – diversamente
nella versione del ’12, in cui è uno dei servi del principe a colpire intenzionalmente alla
schiena Biancaneve, mentre nel ’19 i servi inciampano in un cespuglio e il movimento
permette l’uscita della mela avvelenata; essi salvano, senza volerlo, la vita di Biancaneve,
così come accade nel ’12, seppur in modo più “brutale”. Allo stesso modo, nell’edizione
del ’12 risulta assente il breve scambio di battute tra il principe e Biancaneve:
[…] Snow – drop awoke and said: “Where am I?” And the prince answered, “Thou art safe with
me”. Then he told her all that happened, and said, “I love you better than all the world: come with
me to my father’s palace, and you shall be my wife.”
La regina viene invitata al matrimonio e, piena di sé, chiede allo specchio chi sia la più
bella del reame. Lo specchio risponde:
Thou, lady, art loveliest here, I ween;
But lovelier far is the new – made queen.
Benché in collera, decide di prendere parte al matrimonio in ogni caso; ma appena realizza
che la nuova regina altri non è che Biancaneve, va su tutte le furie al punto da ammalarsi e
morire. Non c’è spazio per la descrizione della “danza della morte” cui la regina è costretta
a sottoporsi; il lieto fine è, pertanto, assicurato:
[…] Snow – drop and the prince lived and reigned happily over that land many many years.
3.2.3 Versione del 1857
Nell’edizione del ’57 la storia di Biancaneve, a livello macroscopico, tende a riallacciarsi a
quella originale, fatte salve le differenze già evidenziate nella traduzione di Taylor, che
aderiscono e si ritrovano in gran parte già nell’edizione tedesca del ’19. In effetti, i
mutamenti si riscontrano perlopiù a livello microscopico e lessicale. Quando la madre di
Biancaneve viene a mancare, la nuova regina, oltre che stolz (orgogliosa), è definita come
übermütig (insolente, arrogante). Altra sottile differenza si ha nella battuta che pronuncia
lo specchio, “Ihr seid die schönste im Land”, dove il seyd originale è rimpiazzato dalla
forma moderna, seid. Differente è anche il modo in cui viene espresso il sentimento di
41
invidia della regina: non più “blaß” (“pallida”), ma “gelb und grün vor Neid”,
letteralmente “(gialla e) verde d’invidia”. Si nota anche un incremento a livello di termini
di paragone, già presenti nell’edizione del ’19 (ma non presenti in Taylor): Biancaneve è
“so schön, wie der klare Tag”, la regina cova nel cuore un’invidia e una superbia che
crescono “wie ein Unkraut”, come un’erba maligna; quando il cacciatore lascia fuggire
Biancaneve, è come se si fosse tolto un peso dal cuore: “als wär ein Stein von seinem
Herzen gewälzt” e nella sua corsa disperata Biancaneve “lief so lange nur die Füße noch
forten konnten”, “fin quando i piedi riuscissero a sostenerla”. Nella scena nel bosco si parla
di come “die wilden Thiere sprangen an ihm vorbei, aber sie thaten ihm nichts”, cioè gli
animali feroci le saltano accanto ma non le fanno alcun male. Un richiamo (intenzionale?)
al suo nome si ha nel definire “schneeweiße”, “bianche come la neve”, le lenzuola dei letti
dei nani, dove Biancaneve, raccomandatasi a Dio (“befahl sich Gott”), si addormenta. In
questa versione si conosce anche in cosa consiste il lavoro dei nani: “Die in den Bergen
nach Erz hackten und gruben […] Morgens giengen sie in die Berge und suchten Erz und
Gold”, ovvero vanno in miniera alla ricerca di oro e bronzo. Nel momento in cui arriva la
regina camuffata da anziana, Biancaneve la ritiene liebe e erliche Frau: “cara e sincera”.
La regina costringe Biancaneve a indossare un nastro “aus bunter Seide” (“di seta
colorata”, non più giallo, blu e rosso come nel ’12; buntig nel ’19) che la fa cadere a terra
come morta.
“Nun bist du die schönste gewesen” sprach sie, und eilte hinaus.92
“Ormai sei stata la più bella”, le dice con fare sprezzante mentre si affretta a uscire. Vale la
pena osservare che stavolta, come nel ’19, quando la regina è davanti allo specchio e pone
la consueta domanda, non viene definita “die Königin”, bensì “das böse Weib”, ossia “una
donna malvagia” la quale, alla risposta dello specchio, decide di dare il colpo di grazia a
Biancaneve “mit Hexenkünsten”, cioè con arti magiche che non venivano affatto
menzionate nelle versioni del ’12/’19. Quando Biancaneve afferma di non avere il
permesso di lasciarla entrare, lei risponde “Das Ansehen wird dir doch erlaubt sein”:
“guardare ti sarà pur concesso!”; ormai sappiamo che il pettine è avvelenato e che fa
cadere Biancaneve a terra priva di sensi (“ohne Besinnung”) e come morta (“wie todt”,
mentre nell’originale non c’è il termine di paragone, ma semplicemente “war todt”). La
92
„Nun ists aus mit deiner Schönheit,“ sprach das böse Weib und ging fort. – così si legge nell’edizione del
’19, ovvero “è finito il tempo della tua bellezza”.
42
“boshaftes Weib” esclama fiera di sé: “Du Ausbund von Schönheit, […] jetzt ists um dich
geschehen”93 – “emblema di bellezza, ormai è finita per te”. Questo ciò che crede la regina,
fin quando lo specchio non le conferma, per l’ennesima volta:
Frau Königin, ihr seid die schönste hier,
aber Sneewittchen über den Bergen
bei den sieben Zwergen
ist doch noch tausendmal schöner als ihr
“Biancaneve è ancora certamente più bella di lei” – questo fa infuriare la regina che se ne
va “in eine ganz verborgene einsame Kammer, wo niemand hinkam, und machte einen
giftigen giftigen Apfel”; ancora una volta ricorre alle arti magiche nel suo covo segreto e
isolato, dove prepara una mela velenosissima – da notare l’utilizzo raddoppiato
dell’aggettivo come forma del superlativo, frequente nelle fiabe anche il “doppio verbo”
che denota ripetitività e ciclicità (cfr. l’uso del verbo laufen quando Biancaneve è sola nel
bosco). La regina offre la mela a Biancaneve, che rifiuta (assente il “bei Liebe” originale),
ma la regina – sarcastica – le domanda se per caso abbia paura che sia avvelenata –
“Fürchtest du dich vor Gift?” – e quando Biancaneve, lasciatasi convincere, morde la mela
(va osservato, anche in rapporto agli altri artifici della regina, l’uso di una terminologia che
denota lo stato di tentazione di Biancaneve: “sich bethören lassen”, lasciarsi incantare,
“anlustern”, bramare, “nicht länger widerstehen können”, non poter più resistere), la
regina
betrachtete es […] mit grausigen Blicken und lachte überlaut, und sprach „weiß wie Schnee, roth
wie Blut, schwarz wie Ebenholz! diesmal können dich die Zwerge nicht wieder erwecken.“
94
[…]
Da hatte ihr neidisches Herz Ruhe, so gut ein neidisches Herz Ruhe haben kann.
La regina la osserva con sguardo atroce e, convinta che ormai i nani non potranno più
salvarla, il suo cuore invidioso conosce la quiete, “per quanto un cuore invidioso possa
averla”. Stavolta sembra non esserci nulla da fare: “das liebe Kind war todt und blieb todt”
– ma i nani vogliono renderle ormaggio e si rifiutano di seppellire la fanciulla nella “nera
terra”: “Das können wir nicht in die schwarze Erde versenken”; di qui la decisione di porla
in una bara di cristallo e di scrivere a caratteri d’oro il suo nome, nonché che fosse “figlia
di re” (“daß es Königstochter wäre”, mentre nella versione del ’12 si parla genericamente
93
94
„Nun wirst du liegen bleiben“ sprach sie und ging fort nell’edizione del ’19: “Stavolta rimarrai a terra”.
„Diesmal wird dich niemand erwecken[,]“ nell’edizione del ’19: “Stavolta nessuno ti risveglierà”.
43
di “Abstammung”). Se si eccettuano piccole differenze terminologiche (es. “Mitleiden
empfinden” anziché “mitleidig sein”), la vera, grande differenza non solo rispetto alla
prima edizione, ma anche a quella di Taylor, è il modo in cui la mela avvelenata fuoriesce
dalla gola di Biancaneve. Nel ’12 i servi erano costretti a trasportare il feretro tutt’intorno
alla stanza; uno di loro, non potendone più di faticare così tanto, estrae Biancaneve dalla
bara e, preso dalla rabbia, le assesta un colpo alla schiena che causa la fuoriuscita del
boccone avvelenato, restituendo la vita alla fanciulla; in Taylor, molto più semplicemente
uno dei servi, nel sollevare la bara per la prima volta, compie un movimento tale per cui la
mela esce dalla gola di Biancaneve; nel ’19/’57 accade che, nel momento in cui i servi
stanno portando il feretro sulle spalle, essi inciampino in un cespuglio e il sobbalzo che ne
segue permette alla mela di uscire; a quel punto è Biancaneve a sollevare il coperchio (es
“hob den Deckel vom Sarg in die höhe”) e a rivolgersi al principe:
“Ach Gott, wo bin ich?” rief es. Der Königssohn sagte voll Freude „du bist bei mir,“ und erzählte
was sich zugetragen hatte und sprach „ich habe dich lieber als alles auf der Welt; komm mit mir in
meines Vaters Schloß, du sollst meine Gemahlin werden.“
Non appena la regina apprende la verità, “da stieß das böse Weib einen Fluch aus” – lancia
un’imprecazione; dapprima riluttante a andare (“Sie wollte zuerst gar nicht auf die
Hochzeit kommen”), alla fine accetta. Stavolta le pantofole roventi le vengono portate con
un paio di tenaglie (Eiserne Pantoffeln “wurden mit Zangen herein getragen”) e, senza
fermarsi, deve ballare fino alla morte.
44
3.3 Il principe ranocchio o Enrico di ferro
Bernhard Wenig, eine Szene aus dem Froschkönig oder der eiserne Heinrich
(immagine tratta da http://commons.wikimedia.org)
3.3.1 Versione del 1812
Nell’appendice i Grimm chiariscono come questa fiaba sia una delle più belle e antiche,
nota anche con il nome di Von dem eisernen Heinrich, dal nome del fedele servitore che,
addolorato, si era fatto mettere il cuore in catene. I Grimm citano molteplici riferimenti
intertestuali in saghe e frammenti, ma il più rilevante sembra essere il “Brunnen von der
Welt End”; infatti la “Fontana del mondo” è un elemento riscontrabile in varie saghe e in
questo specifico frammento si parla di una donna mandata dalla sua matrigna a attingere
acqua da questo pozzo. La fanciulla vi arriva dopo varie peripezie e subito emerge un
ranocchio che la costringe a diventare la sua consorte, altrimenti sarà fatta a pezzi. La
donna accetta e puntualmente il ranocchio si presenta alla porta, pronunciando questo Lied:
Open the door, my hinny, my hart,
open the door, mine ain wee thing;
and mind the words that you and I spak
down in the meadow, at the well – spring!
45
Una volta entrato le si rivolge così:
Take me up on your knee, my dearie,
take me up your knee, my dearie,
and mind the words that you and I spak
at the cauld well sae weary
Una volta spezzato l’incantesimo, il principe rivela la sua vera forma. I Grimm prendono le
distanze, invece, da un racconto analogo a opera di Madame D’Aulnoy, “La grenouille
bienfaisante”, “ein schlechtes Märchen, hat auch gar keine Aehnlichkeit mit dem
unsrigen”.
La versione dei Grimm del ’12 descrive dunque una fanciulla, figlia di re, il cui nome non
viene specificato e il cui passatempo preferito è giocare con una palla d’oro, “ihr liebstes
Spielwerk”. Accade però, un giorno, che nel lanciare in alto la palla, la fanciulla non riesca
a riprenderla, ma essa vada a cadere nella fonte presso cui la ragazza sta giocando. La fonte
è così profonda che non se ne vede il fondo e la ragazza inizia a piangere e lamentarsi,
affermando che darebbe tutto ciò che di prezioso ha per riaverla. A questo punto emerge
dall’acqua un ranocchio, che dapprima chiede alla ragazza perché sia tanto afflitta e, dopo
essere stato apostrofato come “ripugnante” (“du garstiger Frosch”), propone alla fanciulla
di accettarlo come suo compagno e di condividere con lui il suo piattino d’oro e dormire
nel suo lettino (“Ich soll neben dir sitzen und von deinem goldnen Tellerlein essen und in
deinem Bettlein schlafen”) – un uso dei diminutivi che, nello stesso lessico adottato, si
ricollega sorprendentemente a Schneewittchen, in particolare alla scena in cui sono descritti
gli oggetti “in miniatura” della casetta dei nani. Dopo averle dunque proposto tutto questo,
se la ragazza accetterà, allora andrà a riprenderle la sua palla d’oro. La fanciulla pensa
bene di potersi disfare subito del ranocchio e, convinta che dovrà in ogni caso rimanere in
acqua, promette di assecondare la sua richiesta (“Der muß doch in seinem Wasser bleiben,
vielleicht aber kann er mir meine Kugel holen, da will ich nur ja sagen”). Ma appena
riavuta la propria palla, la ragazza è così entusiasta da dimenticarsi del povero ranocchio e
da ignorare i suoi richiami: “Warte, Königstochter, und nimm mich mit, wie du
versprochen hast”. Il giorno successivo, mentre la ragazza è a tavola, sente dei rumori sulla
scalinata di marmo “Plitsch, platsch!” e trova alla porta il ranocchio, che le chiede di
aprirgli. Notando la figlia visibilmente sconvolta, il re le domanda di cosa abbia paura e la
ragazza riferisce di quanto accaduto e della promessa del giorno precedente, giustificandosi
con “Ich glaubte aber nimmermehr, daß er aus seinem Wasser heraus könnte”: chi avrebbe
46
mai immaginato che il ranocchio potesse uscire dall’acqua? Per la seconda volta il
ranocchio bussa e dice (“rief”):
Königstochter, jüngste,
mach mir auf,
weiß du nicht was gestern
du zu mir gesagt
bei dem kühlen Brunnenwasser?
Königstochter, jüngste,
mach mir auf.
Il re rimane fermo nella sua decisione: ogni promessa è debito. Perciò la fanciulla deve,
suo malgrado, far sedere il ranocchio accanto a lei e condividere la propria cena con lui.
Quando il ranocchio afferma di voler andare a dormire nel suo letto perché stanco, la
principessa dapprima mostra il proprio disappunto al padre, ma questi non vuole sentire
ragioni. A questo punto, in preda all’ira, la ragazza afferra il ranocchio e lo scaglia –
“bratsch!” alla parete della stanza; tuttavia l’animaletto si trasforma in un bel principe, e
solo a questo punto la principessa decide di mantenere la promessa: “Sie schliefen vergnügt
zusammen ein”. Il mattino successivo arriva una sontuosa carrozza a condurre i due
giovani a palazzo e fa la sua comparsa un personaggio di nome Enrico, che si scopre essere
il fedele servitore del principe. In analogia con quanto avviene per Aschenputtel e
Schneewittchen, anche in questo caso il principio eziologico chiarifica il titolo della fiaba:
per evitare che il suo cuore scoppiasse di dolore nel sapere il principe trasformato in
ranocchio, il fedele servitore si era cinto il petto con tre catene di ferro. Mentre il principe e
la neo – principessa sono nella carrozza si sente un frastuono assordante, ragion per cui il
principe domanda:
“Heinrich, der Wagen bricht!” –
“Nein Herr, der Wagen nicht,
es ist ein Band von meinem Herzen,
das da lag in großen Schmerzen,
als ihr in dem Brunnen saßt,
als ihr eine Fretsche (Frosch) was’t“ (wart)
47
Egli è infatti convinto che la carrozza stia andando in pezzi, in realtà Enrico spiega come
sia saltata via una catena con cui era avvinto il suo petto. In sequenza (“Noch einmal und
noch einmal”), sapendo che il suo signore è stato liberato dall’incantesimo e, dunque, è
felice, saltano via anche la seconda e la terza catena.
3.3.2 Versione di Edgar Taylor
Nella versione inglese del ’23 la scena iniziale viene contestualizzata in un preciso
momento della giornata: la principessa si reca alla fonte “one fine evening”. La narrazione
ricalca in modo sostanziale la versione dei Grimm del ’12 (si ricordi che questa fiaba
costituisce un’eccezione, in quanto Taylor non ne riprende l’edizione dei Grimm del ’19,
bensì basa la propria traduzione sulla prima versione95); una piccola differenza è data dal
modo in cui la principessa ragiona tra sé e sé, promettendo al ranocchio quanto chiede: “He
can never get out of the well”, “Non riuscirà mai a uscire dal pozzo”, mentre nell’originale
lo stesso ragionamento è affidato a una deduzione (“Der muß doch in seinem Wasser
bleiben”). Il giorno successivo, mentre la principessa è a cena, si sente un rumore di passi
(“tap – tap”). Qui è possibile notare un punto di divergenza con l’originale: il ranocchio
non “rief”, ma “knocked gently at the door, and said”:
“Open the door, my princess dear,
Open the door to thy true love here!
And mind the words that thou and I said
By the fountain cool in the greenwood shade.”
Si può osservare come questo Lied sia assente nell’originale, dove il ranocchio si limita a
esclamare “Mach mir auf!” mentre qui assume una connotazione quasi da “gentiluomo”:
significativo a questo proposito l’avverbio gently. Il medesimo Lied è ripetuto quando il
ranocchio bussa per la seconda volta e la principessa deve tener fede ai patti. È a questo
punto che la storia vede l’inserimento di scene del tutto nuove. Il primo elemento di novità
è dato dal fatto che la principessa non lanci il ranocchio contro la parete, ma si rassegni sin
da subito a lasciarlo dormire con lei:
And the princess took him up in her little hand and put him upon the pillow of her own little bed,
where he slept all night long. As soon as it was light he jumped up, hopped down stairs, and went
out of the house. “Now,” thought the princess, “he is gone, and I shall be troubled with him no
95
Cfr. David Blamires, The early reception of the Grimms‘ Kinder- und Hausmärchen in England, op. cit., p.
72.
48
more.”
But she was mistaken; for when night came again, she heard the same tapping at the door, and when
she opened it, the frog came in and slept upon her pillow as before till the morning broke; and the
third night he did the same: but when the princess awoke on the following morning, she was
astonished to see, instead of the frog, a handsome prince gazing on her with the most beautiful eyes
that ever were seen, and standing at the head of her bed.
Si tratta di una scena completamente assente nell’originale del ’12, in cui ogni elemento di
rabbia e disgusto da parte della principessa è rimpiazzato da una tacita arrendevolezza;
interessante notare come la trasformazione in principe giunga solo alla terza notte (topos
del 3 come “numero magico” nell’ambito del fiabesco; cfr. anche le volte che Cenerentola
prende parte al ballo, anche solo osservandolo da lontano, o che la regina tenta di uccidere
Biancaneve). Il principe spiega dunque come tutto fosse frutto di un incantesimo che
poteva essere spezzato solo quando una principessa consentisse a lasciarlo dormire con lei
per tre notti.
“You,” said the prince, “have broken this cruel charm, and now I have nothing to wish for but that
you should go with me into my father’s kingdom, where I will marry you, and love you as long as
you live.”
La principessa non può che esprimere il proprio consenso; il finale converge con quello
proposto dai Grimm nel ’12, ma in questo caso non c’è alcun riferimento, salvo un breve
cenno al suo personaggio, alla storia del fedele Enrico, né alla scena (e relativo Lied) delle
catene che si spezzano; è lo stesso Taylor a ribadirlo nelle note al primo volume,
affermando di aver rimosso il sottotitolo “Der eiserne Heinrich”96, il che comporta una
sorta di declassamento da co – protagonista a semplice “comparsa”. Taylor spiega inoltre
come il motivo del “cuore in catene” sia una metafora che compare in molti cantori di
Minnesang (“Minnesänger/Minnesingers”), riportata come “stahelhart” da Heinrich von
Sax97.
3.3.3 Versione del 1857
Già nell’apertura, la versione del 1857 presenta al lettore una scena completamente inedita.
Di seguito il prologo:
96
97
Edgar Taylor, George Cruikshank, Grimms’ Fairy Tales, London Scolar Press, 1979, op. cit., p. 239.
Ibidem.
49
In den alten Zeiten, wo das Wünschen noch geholfen hat, lebte ein König, dessen Töchter waren alle
schön, aber die jüngste war so schön, daß die Sonne selber, die doch so vieles gesehen hat, sich
verwunderte so oft sie ihr ins Gesicht schien. Nahe bei dem Schlosse des Königs lag ein großer
dunkler Wald, und in dem Walde unter einer alten Linde war ein Brunnen: wenn nun der Tag recht
heiß war, so ging das Königskind hinaus in den Wald und setzte sich an den Rand des kühlen
Brunnens: und wenn sie Langeweile hatte, so nahm sie eine goldene Kugel, warf sie in die Höhe und
fieng sie wieder; und das war ihr liebstes Spielwerk.
Sin da subito si viene immersi in un’aura magica; traducendo più o meno liberamente
l’incipit, si potrebbe rendere l’espressione come “Tanto tempo fa, quando tutto poteva
accadere98, viveva un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che
il sole stesso, che pure aveva visto moltissime cose, si meravigliava ogni volta che le
splendeva sul viso”99. Nel momento in cui la principessa perde la palla e comincia a
lamentarsi, ecco che
rief ihr jemand zu „was hast du vor, Königstochter, du schreist ja daß sich ein Stein erbarmen
möchte.“ Sie sah sich um, woher die Stimme käme, da erblickte sie einen Frosch, der seinen dicken
häßlichen Kopf aus dem Wasser streckte. „Ach, du bists, alter Wasserpatscher“ […]. „Sei still und
weine nicht, […] ich kann wohl Rath schaffen, aber was gibst du mir, wenn ich dein Spielwerk
wieder heraufhole?“
Subito vengono alla luce due punti di distacco rispetto alla versione originale: in primo
luogo il fatto che il ranocchio non venga subito identificato; prima la principessa si sente
chiamare da qualcuno che le chiede cos’abbia da gridare, “i suoi strilli farebbero
commuovere un macigno”, e solo dopo essersi guardata intorno la principessa vede un
“alter Wasserpatscher” (“vecchio sciaguattone” traduce Clara Bovero, in cui il verbo
patschen, “sguazzare”, è qui associato alla figura del ranocchio) che protende la testa fuori
dall’acqua. Il ranocchio – e questa è la seconda differenza rispetto al testo originale – per
prima cosa le intima di far silenzio e di non piangere; dopodiché la porta a fargli la
promessa, asserendo di poterla aiutare a recuperare il suo giocattolo, ma chiedendole
contestualmente cosa è disposta a dargli in cambio. Tutto ciò che propone la principessa –
pietre preziose, perle, vestiti, addirittura la corona d’oro – non rientra tra i desideri del
98
Sulla resa dell’espressione “Als das Wünschen noch geholfen hat“, cfr. l’omonima voce su
http://universal_lexikon.deacademic.com.
99
Clara Bovero traduce questo passaggio come: “Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a
qualcosa, c’era un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che
pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto”; cfr. J. e W. Grimm, Fiabe, a
cura di G. Cocchiara e C. Bovero, op. cit., p. 5.
50
ranocchio: questi vuole essere suo “Geselle und Spielkamerad”. La principessa accetta e in
men che non si dica (“über ein Weilchen”) il ranocchio le restituisce la palla; ma la
principessa corre via, lasciandosi alle spalle il ranocchio che la invoca a gran voce.
„Warte, warte, […] ich kann nicht so laufen wie du“. Aber was half ihm daß er ihr sein quack
quack! so laut nachschrie als er konnte! sie hörte nicht darauf, eilte nach Haus und hatte bald den
armen Frosch vergessen, der wieder in seinen Brunnen hinab steigen mußte.
Il ranocchio, che non può correre velocemente come la principessa, tenta di chiamarla più
forte che più, ma invano. Il giorno successivo la principessa, a tavola con gli altri
cortigiani, sente qualcosa strisciare (“da kam, plitsch platsch, plitsch platsch, etwas die
Marmortreppe herauf gekrochen”) per le scale e bussare alla porta. Nella versione del ’57,
analogamente a quella del ’12, non viene inserito alcun Lied che accompagni il primo
tentativo del ranocchio di farsi aprire, a differenza di quanto accade in Taylor. Il re,
notando che la figlia è chiaramente in stato di agitazione, pronuncia una frase che non
viene menzionata nel ’12: “Steht etwa ein Riese vor der Thür und will dich holen?” – “Per
caso alla porta c’è un gigante che vuol portarti via?”, le chiede con un pizzico di ironia.
“Es ist kein Riese, sondern ein garstiger Frosch”: non si tratta di un gigante, ma di un
ranocchio ripugnante il quale, bussato per la seconda volta, intona il Lied, che appare
sostanzialmente uguale a quello del ‘12. La fanciulla è costretta a mantenere la sua
promessa, e mentre il ranocchio mangia di gusto, lei quasi non riesce a mandar giù nulla –
particolare non riportato nell’edizione del ‘12 (“Der Frosch ließ sichs gut schmecken, aber
ihr blieb fast jedes Bißlein im Halse”). Parimenti assente è il monito del padre che,
all’ennesima esitazione della figlia, la rimprovera dicendo “Wer dir geholfen hat, als du in
der Noth wars, den sollst du hernach nicht verachten”: non bisogna disprezzare chi ci ha
dato una mano nel momento del bisogno.
Da packte sie ihn mit zwei Fingern, trug ihn hinauf und setzte ihn in eine Ecke. Als sie aber im Bett
lag, kam er gekrochen und sprach „ich bin müde, ich will schlafen so gut wie du: heb mich herauf,
oder ich sags deinem Vater.“ Da ward sie erst bitterböse, holte ihn herauf und warf ihn aus allen
Kräften wider die Wand, „nun wirst du Ruhe haben, du garstiger Frosch.“
In questo breve passo è possibile osservare alcune differenze rispetto sia all’edizione
originale, sia a quella di Taylor. La principessa non scaraventa subito il ranocchio contro la
parete, ma lo solleva con due dita e lo pone in un angolo. La principessa si mette dunque a
dormire e viene disturbata dal ranocchio che vuole riposarsi accanto a lei e la ricatta
51
dicendo che, se rifiuterà, andrà a riferire tutto al padre;allora la ragazza, in preda all’ira, lo
prende e lo lancia più forte che può contro il muro: “Nun wirst du Ruhe haben, du
garstiger Frosch” – “Ora avrai pace, brutto ranocchio”, un sottile scarto semantico rispetto
all’edizione originale, in cui affermava “da nun wirst du mich in Ruh lassen, du garstiger
Frosch!”, “Ora mi lascerai in pace, brutto ranocchio!”, come se stavolta la fanciulla si
sbarazzasse di ogni colpa dicendo (con crudele sarcasmo) che era il ranocchio a non aver
pace, e non lei che non aveva mantenuto la promessa. Con grande sorpresa della
principessa, il ranocchio torna al suo aspetto di principe e, “nach ihres Vaters Willen”,
anche compagno di vita: nell’edizione del ’12 il riferimento al consenso del padre è del
tutto assente, così come mancante è il riferimento alle “Goldene Ketten” con cui sono
bardati i cavalli della carrozza. Dopo la storia di Enrico (assente in Taylor) e il Lied
(invariato rispetto all’originale) che va di pari passo con lo spezzarsi delle catene, la storia
si conclude con il lieto fine.
52
3.4 Tremotino
George Cruikshank, Rumpelstiltskin
(immagine tratta dalle German Popular Stories, vol. 1)
3.4.1 Versione del 1812
Come riportato nella prima appendice, il protagonista che dà il nome alla storia è noto
anche come Rumpenstinzchen nella tradizione. Questo nomignolo curioso sta a indicare un
Rumpelnder Kobold
100
, letteralmente un “goblin strepitante”, ove il suffisso –chen è il
formante per il diminutivo (cfr. la traduzione italiana: Tremotino). Il riferimento più antico
a questo personaggio, noto anche come Poppart o Pophart, si trova nel Gargantua di John
Fischart (1577). In un’altra versione viene consegnato del lino a una fanciulla che, nel
filarlo, non ne ottiene altro che fili d’oro per tre giorni consecutivi. Arriva un omino che le
promette di aiutarla in cambio del primo figlio che avrà da un principe. In questo caso a
aiutare la ragazza è una serva che, recatasi di notte nel bosco, vede prima l’omino
cavalcare tutt’intorno al fuoco un grosso cucchiaio e poi uscire dalla finestra volando sullo
100
Cfr. http://www.duden.de/rechtschreibung/Rumpelstilzchen.
53
stesso cucchiaio. I Grimm riferiscono anche come in molti racconti tedeschi compaiano
mugnai e figlie di mugnai, tra questi Fenia e Menia, che sono in grado di macinare
qualunque cosa venga loro chiesta; altri temi frequenti sono la richiesta di bambini e la
filatura dell’oro, che può essere un rimando al duro lavoro affidato a alcune giovani donne
povere; a questo proposito viene riportato un Lied in antico danese:
Nu er min sorg saa mangefold,
som Jomfruer, de spinde guld.
Nell’appendice al volume secondo viene riportata un’ulteriore versione del racconto: una
fanciulla si reca in un giardino dove crescono ciliegie, “bekommt ein Gelüsten” (quasi un
richiamo alla tentazione di Biancaneve nel vedere la mela) e ne mangia; a quel punto un
uomo tutto nero viene fuori dalla terra e pretende il figlio della ragazza come “compenso”
per le ciliegie rubate; l’unico modo per evitarlo è che la fanciulla indovini il suo nome. La
ragazza lo vede ballare in una grotta, ove sono appesi cucchiai su ogni lato e scopre che
l’uomo si chiama Fleder Flitz. Altro racconto cui i Grimm fanno riferimento è una
versione francese nota come Ricdinricdon.
All’inizio della storia, nella prima edizione che i Grimm pubblicano, un povero mugnaio
porta sua figlia, una fanciulla molto bella, dal re; il mugnaio asserisce che la figlia è in
grado di trasformare la paglia in oro. Il re decide di metterla alla prova chiedendogli di
trasformare tutta la paglia contenuta in una stanza in oro nell’arco di una notte; nel caso
non ci riesca, dovrà morire. Proprio quando la ragazza è disperata perché non sa come
trarsi d’impaccio, compare un piccolo ometto (“klein Männlein”) che le propone “Was
giebst du mir, daß ich alles zu Gold mache?” – “Che mi dai in cambio, se trasformo tutto
in oro?”. La ragazza le cede la propria collana e l’omino esegue il compito. Quando il
mattino successivo il re arriva e trova tutto quell’oro, il cuore gli diventa ancora più
bramoso (“begierig”) e affida alla ragazza il compito di “filare” altro oro contenuto in una
stanza ancora più grande. L’ometto si presenta nuovamente a prestare aiuto alla ragazza,
stavolta in cambio di un anello. Ma al re non basta: per la terza volta ordina alla fanciulla
di filare dell’oro, in una stanza di dimensioni ancora maggiori; se anche questa volta la
ragazza vi riuscirà, diverrà la sua consorte: “und wenn dir das auch gelingt, sollst du meine
Gemahlin werden”. La ragazza ormai non ha più nulla da offrire all’ometto, il quale le
propone il proprio aiuto in cambio del primo figlio che avrà con il re: “Ich will es noch
einmal thun, aber du mußt mir das erste Kind versprechen, das du mit dem König
54
bekommst”. La fanciulla non può che accettare la crudele proposta, trovandosi in un
momento di impellente necessità (“Sie versprach es in der Noth”): un sottile richiamo
intertestuale a quello che sarà il rimprovero del re alla figlia nella fiaba del Frosch König,
nel momento in cui la ragazza viene ammonita perché non deve disprezzare il ranocchio,
che l’ha aiutata nel momento del bisogno (“Wer dir geholfen hat, als du in der Noth wars,
den sollst du hernach nicht verachten”). Come promesso, il re prende la fanciulla in sposa
e presto hanno un bambino; l’ometto, tuttavia, non tarda a arrivare per far rispettare il
patto. La fanciulla gli offre tutto ciò che può pur di non cedergli il suo bambino, ma tutto è
inutile. Solo dopo tanto supplicare, riesce a strappare un “accordo” all’ometto: “In drei
Tagen komm ich wieder und hole das Kind, wenn du aber dann meinen Namen weißt, so
sollst du das Kind behalten!”: se nell’arco di tre giorni riuscirà a indovinare il suo nome,
allora potrà tenere il bambino; è importante osservare, come avviene in questo caso, che
nell’ambito della fiaba vi sono numeri che ricorrono più di altri, proprio perché ritenuti
“simbolici”: uno di essi è il tre, numero perfetto per antonomasia (o i suoi multipli, come il
dodici). La regina prova a pensare a tutti i possibili nomi, ma non vi riesce. Lo
scioglimento si ha, inaspettatamente, nel finale, quando il re è di ritorno dalla battuta di
caccia; egli riferisce alla regina di aver visto proprio due giorni prima, nel bel mezzo del
bosco, una casetta dentro cui un ometto dall’aspetto piuttosto ridicolo (“ein gar zu
lächerliches Männchen”) saltava su una sola gamba gridando:
„Heute back ich, morgen brau ich,
übermorgen hol ich der Frau Königin ihr Kind,
ach wie gut ist, daß niemand weiß,
daß ich Rumpelstilzchen heiß!“
Wie die Königin das hörte, ward sie ganz froh und als das gefärliche Männlein kam, frug101 es: Frau
Königin, wie heiß ich? – „heißest 102 du Conrad?“ – Nein . – „Heißest du Heinrich?“ – Nein.
Dopo questi due tentativi, probabilmente volti a depistare l’attenzione di Rumpelstilzchen,
la regina domanda “Heißt du etwa Rumpelstilzchen?” – “Ti chiami forse Tremotino?”103
Das hat dir der Teufel gesagt! schrie das Männchen, lief zornig fort und kam nimmermehr wieder.
101
Corsivo mio, trattasi con ogni probabilità di un arcaismo per “fragte”.
Variante per “heißt” (cfr. nota precedente e la domanda che la regina pone alla fine).
103
Così viene reso il nome dell’ometto nella traduzione italiana di Clara Bovero; cfr. J. e W. Grimm, Fiabe, a
cura di G. Cocchiara e C. Bovero, op. cit.
102
55
“È stato il diavolo a dirtelo!”, esclama furibondo l’omino, prima di andarsene per non far
più ritorno.
3.4.2 Versione di Edgar Taylor
Come riportato a fine volume, la storia di Rumpel – stilts – kin è nota anche in una
versione irlandese, in cui il Lied di Tremotino suona così: “Little does my Lady wot / That
my name is Trit – a – trot”104.
Nell’edizione di Taylor si può osservare già dall’inizio un incremento del lessico relativo
all’area semantica della cupidigia e dell’orgoglio; mentre nell’edizione tedesca del ’19
viene detto, genericamente, che il re “das Gold lieb hatte” (“gli stava a cuore il denaro”),
qui il mugnaio viene descritto come “vain and proud of her” (daughter), mentre il re “was
very fond of money” e, alla notizia che la figlia del mugnaio è in grado di ricavare oro dalla
paglia, “his avarice was excited” e ordina che la ragazza sia portata in una stanza piena di
paglia, che dovrà filare in una notte. La tabella che segue permette di avere una visione
sinottica relativa alla presenza delle espressioni che richiamano l’idea di brama e vanità
nelle versioni del ’12/’23/’57.
Si nota un rapporto 5:1 rispetto alla prima edizione dei Grimm, se si confronta invece
l’edizione di Taylor con quella del ’57 il rapporto è di 5:3.
“It was in vain that the poor maiden declared that she could do no such thing”: le
rimostranze della ragazza sono assenti sia nell’edizione dei Grimm del ’12 che in quella
104
Edgar Taylor, Grimms’ Fairy Tales, Volume One, op. cit., p. 239.
56
del ’19 e rimangono un semplice pensiero interiore che la ragazza formula solo dopo essere
stata chiusa nella stanza. Questo ruolo decisamente più “attivo” da parte della ragazza
prosegue anche nella stanza:
She sat down in one corner of the room and began to lament over her hard fate, when on a sudden
the door opened, and a droll – looking little man hobbled in, and said “Good morrow to you, my
good lass, what are you weeping for?”
Mentre la ragazza si rattrista del proprio destino, fa il suo ingresso un “curioso omino
zoppicante” il quale, con un curioso arcaismo, le augura il buon giorno (da notare come
lass sia un modo informale per definire una ragazza) e le chiede perché pianga. Spiegata la
situazione, l’ometto offre il proprio aiuto e la mattina successiva il re trova l’oro al posto
della paglia. Il re, desideroso di averne ancora (“his heart grew still more greedy of gain”),
mette nuovamente alla prova la fanciulla; il giorno dopo il re non rimane deluso nel vedere
“all this glittering treasure”; eppure non ne ha ancora abbastanza, e quando quella notte
“the dwarf came in” la ragazza, spinta dalla necessità, è costretta a promettergli il suo
primo figlio. Appena la regina mette al mondo il bambino, subito l’omino ricompare a
esigere quanto pattuito. La regina ha a questo punto tre giorni di tempo (ancora una volta è
utile sottolineare la ricorrenza di alcune cifre caratterizzate da una valenza più “simbolica”
rispetto a altre, nell’ambito del fiabesco) per pensare a tutti gli “odd names that she had
ever heard”; per questo motivo manda dei messaggeri in tutto il regno per cercarne altri. A
questo punto, per ovvie ragioni legate alla tradizione e all’onomastica in lingua inglese, i
nomi proposti dalla regina all’omino sono differenti rispetto a quelli che si trovano
nell’edizione dei Grimm; qui si hanno infatti Timothy, Benjamin, Jeremiah, che sono pur
sempre nomi associabili alla cultura cristiana e biblica (così come avviene nei Grimm con
Caspar, Melchior e Balzer, un chiaro riferimento ai re magi – anche loro in numero di tre);
dopo il primo tentativo, la regina prova nuovamente “with all the comical names she could
hear of, Bandy – legs, Hunch – back, Crook – shanks, and so on”; questi nomi suonano
effettivamente piuttosto comici e potrebbero essere resi, rispettivamente, come
Gambestorte, Schienagobba e Zampaduncino105; ma nessuno di questi è quello giusto. La
soluzione arriva quando uno dei messaggeri torna dal bosco e riferisce quanto ha visto alla
regina; un buffo omino, saltellando su una sola gamba attorno al fuoco, cantava:
105
Letteralmente “zampe” (plur.), ma per una migliore resa fonetica ho preferito adottare il singolare.
57
“Merrily the feast I’ll make,
To – day I’ll brew, to – morrow bake;
Merrily I’ll dance and sing,
For next day will a stranger bring:
Little does my lady dream
Rumpel – Stilts – kin is my name!”
La regina, all’arrivo di Rumpelstiltskin, questo il suo nome nella traduzione inglese, prima
propone due nomi palesemente sbagliati, tanto per raggirarlo (John e Tom), poi – in forma
di Lied anche a livello tipografico, dato che il paragrafo ha un rientro maggiore – la regina
pone la domanda decisiva:
“Can your name be Rumpel – Stilts – kin?”
L’omino, furente, le grida “Some witch told you that! Some witch told you that!”, dove il
Teufel della versione dei Grimm è rimpiazzato dalla parola “witch”, che ha un impatto
meno forte – va ricordato, a questo riguardo, ogni modifica compiuta da Taylor volta a
oscurare o quantomeno a rendere più “blando” ogni elemento o personaggio che fosse
potenzialmente contrastante con la morale religiosa e biblica. Il finale è leggermente
diverso dalla versione tedesca:
[…] the little man […] dashed his right foot in a rage so deep into the floor, that he was forced to lay
hold of it with both hands to pull it out. Then he made the best of his way off, while everybody
laughed at him for having all his trouble for nothing.
Rumpelstiltskin pesta il piede a terra così forte che, per estrarlo, è costretto a afferrarlo con
entrambe le mani (mentre nel ’19 si specificava che la gamba gli si era conficcata fino al
ventre – “bis an den Leib”); all’omino non resta che darsela a gambe mentre tutti ridono di
lui per essersi dato tanto da fare e non averne ricavato nulla: una conclusione molto più
leggera e allegra rispetto a quella dei Grimm.
3.4.3 Versione del 1857
Nell’ultima edizione, la fiaba di Rumpelstilzchen presenta variazioni e aggiunte che
rendono la narrazione più ricca di dettagli e con un incremento del discorso diretto. In
primo luogo è presente un commento da parte del re riguardante la presunta abilità della
fanciulla di filare l’oro dalla paglia:
58
“Das ist eine Kunst, die mir wohl gefällt, wenn deine Tochter so geschickt ist, wie du sagst, so bring
sie Morgen in mein Schloß, da will ich sie auf die Probe stellen.“
Questa abilità suscita l’interesse del re e se la ragazza è così brava come asserisce il padre,
allora il re la metterà alla prova. Al discorso diretto anche la “minaccia” del re alla ragazza
(già nel ’19), qualora non riesca a trasformare tutta la paglia in oro:
“Jetzt mache dich an die Arbeit, und wenn du diese Nacht durch bis morgen früh dieses Stroh nicht
zu Gold versponnen hast, so muß du sterben.“
Contestualmente
all’inserimento
del
discorso
diretto
si
nota
anche
l’utilizzo
dell’onomatopea, già presente nel ’19 ma non in Taylor, dopo che la “contrattazione” tra
l’omino e la ragazza ha avuto luogo:
Das Männchen nahm das Halsband, setzte sich vor das Rädchen, und schnurr, schnurr, schnurr,
dreimal gezogen, war die Spule voll. Dann steckte es eine andere auf, und schnurr, schnurr, schnurr,
dreimal gezogen, war auch die zweite voll […].
L’onomatopea è dunque un richiamo evidente al verbo schnurren, che significa “ronzare”
e in questo contesto rappresenta il suono del fuso che avvolge il filo; né va trascurato il
fatto che anche qui compaia il numero “tre” in funzione simbolica, a ulteriore riprova del
fatto che si tratta di una cifra significativa nel suo frequente ricorrere. Quando il re scopre
che tutto la paglia è stata trasformata in oro “freute sich über die Maßen bei dem Anblick”
e, non ancora sazio di tutto quell’oro (“noch immer nicht Goldes satt”), quasi fosse cibo,
ordina alla ragazza di filarne ancora e, dopo averle proposto di diventare la propria
consorte in caso di esito positivo, pensa, con malcelato maschilismo e fierezza della
propria posizione sociale:
“Wenns auch eine Müllerstochter ist […] eine reichere Frau finde ich in der ganzen Welt nicht.”
Poco importa se la ragazza è figlia di un mugnaio: un’occasione così non gli capiterà mai
più. Quando la ragazza accetta, per la terza volta, l’aiuto dell’omino in cambio del suo
primo figlio, lo fa pensando “Chissà come andranno le cose” – “Wer weiß wie das noch
geht”.
Dopo un anno nasce il figlio della regina, che nel frattempo aveva completamente
dimenticato l’omino e la propria promessa. Quando costui giunge a esigere ciò che
secondo i patti gli spetta, la regina lo implora di lasciargli il bambino: in cambio avrà tutto
ciò che desidera; l’omino, tuttavia, con una sferzante quanto oscura battuta, sostiene di
59
voler qualcosa che sia vivo: “Etwas lebendes ist mir lieber als alle Schätze der Welt”. La
regina però inizia a piangere e muove a pietà l’ometto che le concede tre giorni di tempo
(cfr. ancora una volta la simbologia del “tre”) per scoprire il suo nome e tenersi il bambino
qualora indovini. Rispetto all’edizione del ’12 la scena che segue è completamente
stravolta, benché ricalchi almeno in buona parte quella del ’19 e quella di Taylor.
Nun besann sich die Königin die ganze Nacht über auf alle Namen, die sie jemals gehört hatte, und
schickte einen Boten über Land, der sollte sich erkundigen weit und breit was es sonst noch für
Namen gäbe. Als am andern Tag das Männchen kam, fieng sie an mit Caspar, Melchior, Balzer, und
sagte alle Namen, die sie wußte, nach der Reihe her, aber bei jedem sprach das Männlein „so heiß
ich nicht.“ Den zweiten Tag ließ sie in der Nachbarschaft herumfragen wie die Leute da genannt
würden, und sagte dem Männlein die ungewöhnlichsten und seltsamsten Namen vor, „heißt du
vielleicht Rippenbiest oder Hammelswade oder Schnürbein?“ aber es antwortete immer „so heiß ich
nicht.“
Stavolta la regina deve compiere due tentativi prima di ottenerela soluzione all’enigma; si
osservi come i nomi qui proposti richiamino da un lato la tradizione biblica (Gaspare,
Melchiorre e Baldassarre), dall’altro siano nomi di fantasia che suonano piuttosto singolari,
perlomeno se resi letteralmente in italiano: “Costadibestia”, “Polpacciodimontone” e
“Cordallazampa”. Si tratta in ogni caso di nomi che differiscono dalla versione inglese e,
dopo che il messaggero è tornato dal bosco, “wo Fuchs und Has sich gute Nacht sagen”
(“dove la volpe e la lepre si danno la buona notte”), riferisce di aver visto un fuoco
bruciare davanti a una casetta nel bosco; attorno al fuoco “ein gar zu lächerliches
Männchen, hüpfte auf einem Bein”, un omino piuttosto ridicolo saltellava (si noti come il
verbo adottato è il medesimo del principe ranocchio quando entra in casa della principessa)
gridando il suo nome. A questo punto interviene il narratore:
Da könnt ihr denken wie die Königin froh war, als sie den Namen hörte, und als bald hernach das
Männlein herein trat und fragte „nun, Frau Königin, wie heiß ich?“ fragte sie erst „heißest du
Kunz106?“ „Nein.“ „Heißest du Heinz?“ „Nein.“
„Heißt du etwa Rumpelstilzchen?“
„Das hat dir der Teufel gesagt, das hat dir der Teufel gesagt“ schrie das Männlein und stieß mit dem
rechten Fuß vor Zorn so tief in die Erde, daß es bis an den Leib hineinfuhr, dann packte es in seiner
Wuth den linken Fuß mit beiden Händen und riß sich selbst mitten entzwei.
106
Cunz nel testo del ’19.
60
La regina propone altri due nomi propri della tradizione tedesca, Kunz e Heinz, prima di
pronunciare il nome di Tremotino. “È stato il diavolo a dirtelo, è stato il diavolo a dirtelo!”
urla l’ometto che, tanta è l’ira, batte il piede destro a terra con una veemenza tale da
restarvi incastrato fino al ventre e, prima di andarsene, si afferra il piede sinistro con
entrambe le mani e – letteralmente – si squarcia a metà, andandosene via colmo di rabbia.
Riconfermato l’epilogo del ’19, scompare la componente di ilarità che caratterizzava la
conclusione di Taylor.
61
4. Una lettura grafica delle fiabe
[…] A trio of artificial constructs – graphs, maps, and trees – in which the reality of the text
undergoes a process of deliberate reduction and abstraction. ‘Distant reading’, I have once called
this type of approach; where distance is however not an obstacle, but a specific form of knowledge:
fewer elements, hence a sharper sense of their overall interconnection. […] 107
Con queste parole Franco Moretti, docente di letteratura comparata all’Università di
Stanford e autore di numerosi saggi (cfr. “Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal
Faust a Cent'anni di solitudine”, Einaudi, 2003), spiega come sia possibile applicare un
modello scientifico e grafico al mondo letterario così da cogliere con uno “sguardo
d’insieme” una realtà altrimenti più sfuggente. Tra le varie possibilità grafiche presentate
(grafico, mappa, diagramma a albero), quella del grafico sembra la più opportuna a
rappresentare in forma visuale le fiabe ivi scelte secondo un determinato punto di vista.
Benché Moretti adotti un approccio di più ampio respiro nella sua trattazione, tracciando
un grafico che delinea la nascita e l’evoluzione del romanzo borghese, si tenterà qui di
rappresentare in forma di grafico un problema particolare che accomuna le quattro fiabe di
Cenerentola, Biancaneve, Il principe ranocchio e Tremotino: il grado di realizzazione e
felicità della protagonista o di personaggi secondari, secondo parametri che verranno di
volta in volta chiariti. Naturalmente sono possibili numerose varianti e i grafici proposti
non esauriscono le possibilità di lettura dei Märchen.
107
Franco Moretti, Graphs, maps, trees. Abstract models for literary history, Verso, New York, 2007, p. 1.
62
4.1 Cenerentola
Nel grafico che segue si pone a confronto il livello di felicità di Cenerentola con quello
delle sorellastre, secondo quanto è narrato nelle edizioni successive a quella del ’12.
La serie 1, in blu, rappresenta Cenerentola, mentre la serie 2, in rosso, appartiene alla
matrigna. Sull’asse delle ascisse (orizzontale) sono indicati dei momenti progressivi in
ordine cronologico che sono significativi per il tema scelto. Sull’asse delle ordinate si è
optato per una scala numerica convenzione da -2 a +2, dove -2 rappresenta il livello
minimo di realizzazione (e quindi di massima infelicità per il personaggio), mentre il
livello +2 è il punto in cui il personaggio realizza al massimo sé stesso e ha il massimo
successo. È bene comunque precisare che si tratta di un riferimento arbitrario e soggettivo,
che non ha valenza scientifica ma mira, empiricamente, a dare un’idea grafica di un
particolare aspetto della storia. Dopo il prologo iniziale, il punto di ascissa 2 rappresenta la
morte della madre naturale di Cenerentola, il 3 la scena della fiera; 4, 6 e 8 sono
rispettivamente il primo, il secondo e il terzo rifiuto della matrigna alla richiesta di
Cenerentola di unirsi al ballo, mentre 5 e 7 indicano la prima e la seconda scena in cui gli
uccellini prestano aiuto alla ragazza. 9, 11 e 13 sono il primo, il secondo e il terzo ballo di
Cenerentola, mentre 10 e 12 stanno a indicare la prima e la seconda fuga della ragazza. 14
e 15, infine, indicano rispettivamente la terza fuga di Cenerentola (con annessa prova della
scarpetta per le sorellastre) e la prova della scarpetta per Cenerentola (e il suo matrimonio
col principe). La linea di Cenerentola ha un punto di minimo nel momento in cui muore la
madre e, da lì in poi, è tutto un alternarsi di situazioni tristi a situazioni felici, sino
63
all’apoteosi finale in cui il principe prende in sposa la ragazza. Per la linea delle sorellastre,
che appare più breve rispetto alla prima proprio perché compaiono leggermente più tardi
rispetto a Cenerentola, vale l’esatto opposto: nei momenti in cui Cenerentola è triste, esse
sono appagate e viceversa; i balli hanno un valore negativo per loro, dal momento che
Cenerentola viene ammirata e è al centro dell’attenzione. Naturalmente, ciò che è il punto
di massimo per Cenerentola vale per loro come momento di minimo: proprio durante il
matrimonio vengono infatti private della vista.
64
4.2 Biancaneve
Tenendo presenti le precedenti considerazioni teoriche fatte per Cenerentola, si può ora
analizzare la fiaba di Biancaneve sia dal punto di vista della felicità della ragazza che da
quello della regina; anche in questo caso si fa riferimento alle versioni successive al 1812.
Valgono le medesime considerazioni per i valori assunti dall’asse delle ordinate (verticale).
La serie 1 (blu) è riferita a Biancaneve, la serie 2 (rossa) alla regina. Il punto di ascissa 1 è
l’infanzia di Biancaneve, mentre il 2 è la scena in cui il cacciatore tenta di ucciderla.
Mentre al punto 1 la felicità di Biancaneve può essere associata a un valore molto positivo
(1), al punto 2 il valore è piuttosto negativo (-1,5) dal momento che la ragazza rischia la
vita. Per la regina valgono le considerazioni opposte: all’inizio il valore è negativo perché
invidiosa della bellezza della ragazza, mentre subito dopo diventa altamente positivo
poiché crede di essersene liberata. I punti 3, 5 e 7 sono positivi per Biancaneve perché
rappresentano l’arrivo alla casa dei nani e il salvataggio da parte degli stessi dopo il primo
e il secondo inganno da parte della regina, ma per quest’ultima si tratta ovviamente di
fallimenti e, pertanto, il valore assunto è negativo. I punti 4, 6 e 8 rappresentano i tre
inganni da parte della regina; il terzo ha un valore maggiore per la regina e uno minore per
Biancaneve, rispetto ai primi due, perché prelude alla (presunta) morte di Biancaneve
(punto 9), che rappresenta nel grafico il punto di minimo per la ragazza e il punto di
massimo per la regina. Il punto 10, infine, sta a indicare il terzo salvataggio e il successivo
matrimonio di Biancaneve e presenta, pertanto, una situazione completamente ribaltata
rispetto al punto 9.
65
4.3 Il principe ranocchio o Enrico di ferro
Il grafico relativo a questa fiaba pone a confronto la versione dei Grimm (ai fini del grafico
è trascurabile l’edizione) con quella di Taylor del ’23.
Il significato dei punti sull’asse delle ascisse è quello che segue: 1 per il prologo iniziale
che vede la ragazza giocare con la sua palla d’oro, 2 per la caduta della palla nello stagno,
3 per la scena del recupero della palla da parte del ranocchio, 4 per l’arrivo del ranocchio al
castello, 5 per la trasformazione del ranocchio in principe. Le due serie coincidono in tutto
tranne al punto 4; il primo punto di massimo è il gioco iniziale, mentre quello di minimo è
la perdita della palla, subito compensato dal recupero della stessa; un secondo punto di
massimo si ha nel finale con il matrimonio della principessa (felicità che, peraltro, coincide
con quella del principe – ranocchio e dello stesso Enrico). L’unico momento in cui i due
grafici divergono è il punto 4: in Taylor, infatti, la principessa – benché riluttante – accetta
che il ranocchio condivida il proprio giaciglio per ben tre notti; questa forma di
“rassegnazione” ha come conseguenza un valore meno negativo (-0,5) rispetto a quanto
avviene nelle edizioni dei Grimm (-1,5).
66
4.4 Tremotino
Come già per Cenerentola e Biancaneve, anche qui il grafico fa riferimento alle edizioni
successive a quella del ’12.
La serie blu rappresenta la principessa, quella rossa Tremotino. Avendo sempre come
riferimento l’asse delle ascisse, i punti 1, 3 e 5 indicano il primo, il secondo e il terzo
tentativo di filare la paglia in oro (che sono fallimentari per la principessa poiché non può,
con le sue sole forze e capacità, eseguire ciò che il re le ha ordinato di fare), mentre i punti
2, 4 e 6 indicano l’aiuto da parte di Tremotino e, quindi, il successo dell’operazione di
filatura. Si è scelto di introdurre la serie rossa per Tremotino solo a partire dal punto 7, dal
momento che fino al momento della terza filatura e del matrimonio della principessa
(punto 6), l’introspezione psicologica del personaggio appare trascurabile. Quasi
paradossalmente e in contrasto con le “alternanze grafiche” tra serie registrate nelle
precedenti fiabe, il punto 7 – che simboleggia la nascita del primogenito – appare
estremamente positivo per entrambi i personaggi, per la principessa in quanto realizza la
propria maternità, per Tremotino perché otterrà ciò che gli era stato promesso a suo tempo.
Il punto 8 vede, però, un rovesciamento di prospettiva per la principessa: esso è situabile
nel momento in cui Tremotino viene a esigere quanto pattuito e, se per lui è un momento di
massimo successo, per la principessa altro non è se non motivo di disperazione e angoscia;
da qui il valore -2. Se i punti 9, 10 e 11 sono rispettivamente il primo, il secondo e il terzo
tentativo della regina di indovinare il nome dell’omino, ecco spiegato l’andamento del
grafico: a 9 e 10 la principessa è situata a -1 perché, pur avendo una speranza di salvare il
67
bambino, non riesce a capacitarsi di quale nome possa avere l’ometto; al contempo
Tremotino presenta un valore ancora, tutto sommato, positivo, dal momento che è ancora
convinto che la donna non potrà mai indovinarne il nome. Il punto finale, che costituisce la
soluzione dell’enigma e l’epilogo della vicenda, è naturalmente completamente positivo
per la principessa e del tutto negativo per Tremotino.
68
Conclusioni
Sulla base dell’introduzione teorica e dell’analisi pratica condotte in questo lavoro, si è
visto come i KHM siano soggetti a un costante lavoro di revisione e limatura nel corso
degli anni, dalla prima edizione del 1812 all’ultima del 1857. Facendo riferimento agli
esempi presi in considerazione e tralasciando eventuali differenze sul piano microscopico,
che sono già state analizzate in dettaglio nei singoli Märchen, si può notare come
Cenerentola (Aschenputtel) divenga progressivamente più audace e intraprendente nei
confronti delle sorellastre e della matrigna; al tempo stesso, non passa inosservato
l’inserimento di una scena inedita nel finale, in cui la malvagità delle sorellastre viene
punita a dovere. Nel caso di Biancaneve (Schneewittchen), oltre allo shift per cui la crudele
regina non coincide più con la madre naturale della ragazza, si hanno variazioni
significative nella scena in cui la protagonista riprende a vivere: non più un colpo alla
schiena assestato da uno dei servi, bensì la fuoriuscita accidentale a causa di un movimento
un po’ brusco da parte degli stessi durante il trasporto del feretro. Meno incentrati sulla
trama, ma non per questo meno importanti sono i mutamenti che, nel Principe Ranocchio
(der Froschkönig oder der eiserne Einrich) e in Tremotino (Rumpelstilzchen), si risolvono
soprattutto sul piano stilistico, così che i racconti stessi acquistano un’atmosfera
letteralmente “fiabesca”. Sostanzialmente fedele al corpus testuale originale, la traduzione
di Taylor si rivela più essenziale e generalmente priva di quei dettagli macabri che poco
spazio potevano avere in un’opera i cui destinatari principali, nell’intento dell’autore
inglese, erano i giovanissimi. Come si spiega, allora, che nel corso del labor limae che rese
i KHM un testo più künstlich che natürlich i fratelli Grimm abbiano deciso di mantenere
alcuni particolari cruenti già presenti nell’edizione del ’12? Una possibile risposta la
fornisce Nicholas Tucker nel suo interessante studio The Child and the Book:
Like dreams […] fairy stories too can be convincing and sometimes disturbing, concerned as they
are with the most important issues facing any human being […]. But once children begin to distance
themselves from absolute believe in fairy – tales, then obviously the material they can cope with can
afford to become more urgent in what it has to say and how it chooses to say it. 108
Vale a dire, i fratelli Grimm avrebbero riposto un adeguato grado di maturità nel giovane
pubblico, il quale non si sarebbe lasciato impressionare da qualche scena un po’ più forte
delle altre, limitandosi a “servirsi” della fiaba non solo come mezzo di evasione, ma anche
108
Nicholas Tucker, The child and the book. A psychological and literary exploration, op. cit., p. 70.
69
per sublimare quei dubbi e quelle incertezze che caratterizzano ognuno di noi nel periodo
dell’infanzia. Un’opinione analoga è espressa da A. S. Byatt, secondo cui le fiabe
might be funny or horrible or weird or abrupt, but they were never disturbing, they never twisted
your spirit with sick terror as Andersen so easily did. 109
Al tempo stesso, la presenza di particolari più o meno crudi, per quanto “ritrattata” (almeno
parzialmente) nel corso delle varie edizioni, inscrive i KHM non solo nella letteratura per
l’infanzia, ma anche e soprattutto nella letteratura per adulti, da cui la prima non può essere
scissa, così come un testo tradotto non può esserlo da quello di partenza o come la forma
istituzionale di una lingua non può prescindere dalle sue varianti non standard 110. Ancora
A. S. Byatt fa notare come il successo per i KHM, per quanto moderato, sia giunto solo a
partire dal 1825, anno in cui uscì l’Edizione Compatta111, di cui i Grimm fanno menzione
nel carteggio con Edgar Taylor e che viene pubblicata, significativamente, due anni dopo
la prima edizione inglese. La popolarità ottenuta dalle German Popular Stories, nonché
dagli stessi KHM nel susseguirsi delle varie edizioni, è allora da ricondurre a un insieme di
fattori la cui interazione, nel complesso, porta a riconoscere il valore di un’opera d’arte, la
quale entra così a far parte del canone letterario di una data cultura; tra questi vanno
annoverati non solo l’autore e il fruitore dell’opera stessa, ma anche – tra gli altri – le
figure dell’editore e del traduttore, le riviste specializzate e i critici: solo se l’opera d’arte è
(ri-)conosciuta come tale, allora essa assume un “valore” più o meno significativo per
coloro che ne fruiscono112; riepilogando, quantunque i cambiamenti compiuti da Taylor
non siano stati integrati nelle edizioni successive in lingua tedesca, non sembra azzardato
supporre che il successo ottenuto da Taylor abbia fornito la giusta motivazione ai fratelli
Grimm per continuare rielaborare i loro Märchen. Si è visto infatti nello scambio epistolare
con Taylor come i Grimm approvassero praticamente in tutto e per tutto la traduzione
inglese; un elogio riconfermato nel Vorrede all’edizione del 1837:
Die treue Auffassung der Überlieferung, der ungesuchte Ausdruck und, wenn es nicht unbescheiden
klingt, der Reichthum und die Mannigfaltigkeit der Sammlung haben ihr fortdauernde Theilnahme
unter uns, und Beachtung im Auslande verschafft. Unter den verschiedenen Übersetzungen verdient
109
A. S. Byatt, Introduction to The annotated brothers Grimm, op. cit, p. XVIII.
Cfr. Itamar Even – Zohar, Polysystem Studies, op. cit., p. 13.
111
A. S. Byatt, in Introduction to The annotated brothers Grimm, op. cit, p. XL.
112
Cfr. Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, op. cit., pp 304 – 305.
110
70
die englische, als die vollständigste, und weil die verwandte Sprache sich am genausten anschließt,
den Vorzug. 113
Tra le traduzioni in lingua straniera, i Grimm accordano dunque la preferenza a quella di
Taylor e, a ulteriore riprova dell’influsso che la traduzione di Taylor ebbe sulle successive
riedizioni dei KHM, appare illuminante il passo che segue:
Eine Auswahl von Grimms Märchen in englischer Übersetzung hatte 1823 auf Anhieb grossen (sic!)
Erfolg. Die Brüder Grimm brachten daraufhin eine ›Kleine Ausgabe› auf Deutsch heraus: Sie
enthielt eine Auswahl von 50 Erzählungen aus der zweiten ‹Grossen (sic!) Ausgabe›, die 1819
erschienen war. Diese Schmalversion fand auch im deutschsprachigen Raum grossen (sic!) Anklang
und verhalf schliesslich (sic!) auch der ‹Grossen (sic!) Ausgabe› ab der dritten Auflage von 1837 zu
besserem Absatz.114
I Grimm, si legge, selezionarono sulla base delle German Popular Stories le fiabe da
includere nell’Edizione Compatta del ’23, il cui successo nei Paesi di lingua tedesca fu
decisivo anche per le Großen Auflagen dal 1837 in poi, tanto che i KHM divennero il
secondo libro più letto e conosciuto in Germania per più di un secolo, secondo quanto
riporta Jack Zipes115. In ultima analisi, se i KHM hanno avuto la fortuna che oggi
conosciamo,
una
parte
di
merito
spetta
113
senz’altro
anche
a
Edgar
Taylor.
Vorrede zur dritten Auflage, in Brüder Grimm, Kinder – und Hausmärchen, Große Ausgabe, Band 1,
Dieterichisce Buchhandlung, Göttingen, 1837.
114
200 Jahre <<Kinder – und Hausmärchen>> der Brüder Grimm, rivista pubblicata dallo Strauhof
Museum di Zurigo, in collaborazione con lo Schweizerisches Institut für Kinder – und Jugendmedien, e
disponibile online all’indirizzo:
http://www.ipk.uzh.ch/research/Schwerpunkte/medien/Ausstellungsfuehrer_Grimm_Einzelseiten.pdf (cfr. in
particolare p. 17).
115
Jack Zipes, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della sovversione, op. cit., p. 108.
71
Appendice
Aschenputtel (1812)
Es war einmal ein reicher Mann, der lebte lange Zeit vergnügt mit seiner Frau, und sie hatten ein einziges
Töchterlein zusammen. Da ward die Frau krank, und als sie todtkrank ward, rief sie ihre Tochter und sagte:
„liebes Kind, ich muß dich verlassen, aber wenn ich oben im Himmel bin, will ich auf dich herab sehen,
pflanz ein Bäumlein auf mein Grab, und wenn du etwas wünschest, schüttele daran, so sollst du es haben,
und wenn du sonst in Noth bist, so will ich dir Hülfe schicken, nur bleib fromm und gut.“ Nachdem sie das
gesagt, that sie die Augen zu und starb; das Kind aber weinte und pflanzte ein Bäumlein auf das Grab und
brauchte kein Wasser hin zu tragen, und es zu begießen, denn es war genug mit seinen Thränen.
Der Schnee deckte ein weiß Tüchlein auf der Mutter Grab, und als die Sonne es wieder weggezogen hatte,
und das Bäumlein zum zweitenmal grün geworden war, da nahm sich der Mann eine andere Frau. Die
Stiefmutter aber hatte schon zwei Töchter, von ihrem ersten Mann, die waren von Angesicht schön, von
Herzen aber stolz und hoffährtig und bös. Wie nun die Hochzeit gewesen, und alle drei in das Haus gefahren
kamen, da ging schlimme Zeit für das arme Kind an. „Was macht der garstige Unnütz in den Stuben, sagte
die Stiefmutter, fort mit ihr in die Küche, wenn sie Brod essen will, muß sies erst verdient haben, sie kann
unsere Magd seyn.“ Da nahmen ihm die Stiefschwestern die Kleider weg, und zogen ihm einen alten grauen
Rock an: „der ist gut für dich!“ sagte sie, lachten es aus und führten es in die Küche. Da mußte das arme
Kind so schwere Arbeit thun: früh vor Tag aufstehen, Wasser tragen, Feuer anmachen, kochen und waschen
und die Stiefschwestern thaten ihm noch alles gebrannte Herzeleid an, spotteten es, schütteten ihm Erbsen
und Linsen in die Asche, da mußte es den ganzen Tag sitzen und sie wieder auslesen. Wenn es müd war
Abends kam es in kein Bett, sondern mußte sich neben dem Heerd in die Asche legen. Und weil es da immer
in Asche und Staub herumwühlte und schmutzig aussah, gaben sie ihm den Namen Aschenputtel.
Auf eine Zeit stellte der König einen Ball an, der sollte in aller Pracht drei Tage dauern, und sein Sohn, der
Prinz, sollte sich eine Gemahlin aussuchen; dazu wurden die zwei stolzen Schwestern auch eingeladen.
„Aschenputtel riefen sie, komm herauf, kämme uns die Haare, bürst uns die Schuhe und schnalle sie fest, wir
gehen auf den Ball zu dem Prinzen.“ Aschenputtel gab sich alle Mühe und putzte sie so gut es konnte, sie
gaben ihm aber nur Scheltworte dazwischen, und als sie fertig waren, fragten sie spöttisch: „Aschenputtel, du
gingst wohl gern mit auf den Ball?“ – „Ach ja, wie kann ich aber hingehen, ich habe keine Kleider.“ – „Nein,
sagte die älteste, das wär mir recht, daß du dich dort sehen ließest, wir müßten uns schämen, wenn die Leute
hörten, daß du unsere Schwester wärest; du gehörst in die Küche, da hast du eine Schüssel voll Linsen, wann
wir wieder kommen muß sie gelesen seyn, und hüt dich, daß keine böse darunter ist, sonst hast du nichts
Gutes zu erwarten.“
Damit gingen sie fort, und Aschenputtel stand und sah ihnen nach, und als es nichts mehr sehen konnte, ging
es traurig in die Küche, und schüttete die Linsen auf den Heerd, da war es ein großer, großer Haufen. „Ach,
sagte es und seufzte dabei, da muß ich dran lesen bis Mitternacht und darf die Augen nicht zufallen lassen,
und wenn sie mir noch so weh thun, wenn das meine Mutter wüßte!“ Da kniete es sich vor den Heerd in die
Asche und wollte anfangen zu lesen, indem flogen zwei weiße Tauben durchs Fenster und setzten sich neben
die Linsen auf den Heerd; sie nickten mit den Köpfchen und sagten: „Aschenputtel, sollen wir dir helfen
Linsen lesen?“ „Ja, antwortete Aschenputtel:
die schlechten ins Kröpfchen,
die guten ins Töpfchen.“
Und pick, pick! pick, pick! fingen sie an und fraßen die schlechten weg und ließen die guten liegen. Und in
einer Viertelstunde waren die Linsen so rein, daß auch nicht eine falsche darunter war, und Aschenputtel
konnte sie alle ins Töpfchen streichen. Darauf aber sagten die Tauben: „Aschenputtel, willst du deine
Schwestern mit dem Prinzen tanzen sehen, so steig auf den Taubenschlag.“ Aschenputtel ging ihnen nach
und stieg bis auf den letzten Leitersproß, da konnte es in den Saal sehen, und sah seine Schwestern mit dem
Prinzen tanzen, und es flimmerte und glänzte von viel tausend Lichtern vor seinen Augen. Und als es sich
72
satt gesehen, stieg es wieder herab, und es war ihm schwer ums Herz, und legte sich in die Asche und schlief
ein.
Am andern Morgen kamen die zwei Schwestern in die Küche, und als sie sahen, daß Aschenputtel die Linsen
rein gelesen, waren sie böse, denn sie wollten es gern schelten, und da sie das nicht konnten, huben sie an
von dem Ball zu erzählen und sagten: „Aschenputtel, das ist eine Lust gewesen, bei dem Tanz, der Prinz, der
allerschönste auf der Welt hat uns dazu geführt, und eine von uns wird seine Gemahlin werden.“ – „Ja, sagte
Aschenputtel, ich habe die Lichter flimmern sehen, das mag recht prächtig gewesen seyn.“ – „Ei! wie hast du
das angefangen,“ fragte die älteste. – „Ich hab’ oben auf den Taubenstall gestanden.“ – Wie sie das hörte,
trieb sie der Neid und sie befahl, daß der Taubenstall gleich sollte niedergerissen werden.
Aschenputtel aber mußte sie wieder kämmen und putzen; da sagte die jüngste, die noch ein wenig Mitleid im
Herzen hatte: „Aschenputtel, wenns dunkel ist, kannst du hinzugehen und von außen durch die Fenster
gucken!“ – „Nein, sagte die älteste, das macht sie nur faul, da hast du einen Sack voll Wicken, Aschenputtel,
da lese die guten und bösen auseinander und sey fleißig, und wenn du sie morgen nicht rein hast, so schütte
ich dir sie in die Asche und du mußt hungern, bis du sie alle herausgesucht hast.“
Aschenputtel setzte sich betrübt auf den Heerd und schüttete die Wicken aus. Da flogen die Tauben wieder
herein und thaten freundlich: „Aschenputtel, sollen wir dir die Wicken lesen?“ „Ja, –
die schlechten ins Kröpfchen,
die guten ins Töpfchen.“
Pick, pick! pick, pick! gings so geschwind, als wären zwölf Hände da. Und als sie fertig waren, sagten die
Tauben: „Aschenputtel, willst du auch auf den Ball gehen und tanzen?“ – „O du mein Gott, sagte es, wie
kann ich in meinen schmutzigen Kleidern hingehen?“ – „Geh zu dem Bäumlein auf deiner Mutter Grab,
schüttele daran und wünsche dir schöne Kleider, komm aber vor Mitternacht wieder.“ – da ging Aschenputtel
hinaus, schüttelte das Bäumlein und sprach:
„Bäumlein rüttel und schüttel dich,
wirf schöne Kleider herab für mich!“
Kaum hatte es das ausgesagt, da lag ein prächtig silbern Kleid vor ihm, Perlen, seidene Strümpfe mit
silbernen Zwickeln und silberne Pantoffel und was sonst dazu gehörte. Aschenputtel trug alles nach Haus,
und als es sich gewaschen und angezogen hatte, da war es so schön wie eine Rose, die der Thau gewaschen
hat. Und wie es vor die Hausthüre kam, so stand da ein Wagen mit sechs federgeschmückten Rappen und
Bediente dabei in Blau und Silber, die hoben es hinein, und so gings im Gallop zu dem Schloß des Königs.
Der Prinz aber sah den Wagen vor dem Thor halten, und meinte eine fremde Prinzessin käme angefahren. Da
ging er selbst die Treppe hinab, hob Aschenputtel hinaus und führte es in den Saal. Und als da der Glanz der
viel tausend Lichter auf es fiel, da war es so schön, daß jedermann sich darüber verwunderte, und die
Schwestern standen auch da und ärgerten sich, daß jemand schöner war wie sie, aber sie dachten
nimmermehr, daß das Aschenputtel wäre, das zu Haus in der Asche lag. Der Prinz aber tanzte mit
Aschenputtel und ward ihm königliche Ehre angethan. Er gedachte auch bei sich: ich soll mir eine Braut
aussuchen, da weiß ich mir keine als diese. Für so lange Zeit in Asche und Traurigkeit lebte Aschenputtel
nun in Pracht und Freude; als aber Mitternacht kam, eh’ es zwölf geschlagen, stand es auf, neigte sich und
wie der Prinz bat und bat, so wollte es nicht länger bleiben. Da führte es der Prinz hinab, unten stand der
Wagen und wartete, und so fuhr es fort in Pracht wie es gekommen war.
Als Aschenputtel zu Haus war, ging es wieder zu dem Bäumlein auf der Mutter Grab:
„Bäumlein rüttel dich und schüttel dich!
73
nimm die Kleider wieder für dich!“
Da nahm der Baum die Kleider wieder, und Aschenputtel hatte sein altes Aschenkleid an, damit ging es
zurück, machte sich das Gesicht staubig und legte sich in die Asche schlafen.
Am Morgen darauf kamen die Schwestern, sahen verdrießlich aus und schwiegen still. Aschenputtel sagte:
„ihr habt wohl gestern Abend viel Freude gehabt“ – „Nein, es war eine Prinzessin da, mit der hat der Prinz
fast immer getanzt, es hat sie aber niemand gekannt und niemand gewußt, woher sie gekommen ist.“ – „Ist es
vielleicht die gewesen, die in den prächtigen Wagen mit den sechs Rappen gefahren ist?“ sagte Aschenputtel.
– „Woher weißt du das?“ – „Ich stand in der Hausthüre, da sah ich sie vorbeifahren,“ – „In Zukunft bleib bei
deiner Arbeit, sagte die älteste und sah Aschenputtel böse an, was brauchst du in der Hausthüre zu stehen.“
Aschenputtel mußte zum drittenmal die zwei Schwestern putzen, und zum Lohn gaben sie ihm eine Schüssel
mit Erbsen, die sollte sie rein lesen; „und daß du dich nicht unterstehst von der Arbeit wegzugehen,“ rief die
älteste noch nach. Aschenputtel gedachte: wenn nur meine Tauben nicht ausbleiben, und das Herz schlug ihm
ein wenig. Die Tauben aber kamen wie an dem vorigen Abend und sagten: „Aschenputtel, sollen wir dir die
Erbsen lesen?“ – „Ja,
die schlechten ins Kröpfchen,
die guten ins Töpfchen.“
Die Tauben pickten wieder die bösen heraus, und waren bald damit fertig, dann sagten sie: „Aschenputtel,
schüttele das Bäumlein, das wird dir noch schönere Kleider herunter werfen, geh auf den Ball, aber hüte dich,
daß du vor Mitternacht wieder kommst.“ Aschenputtel ging hin:
„Bäumlein rüttel dich und schüttel dich,
wirf schöne Kleider herab für mich.“
Da fiel ein Kleid herab noch viel herrlicher und prächtiger als das vorige, ganz von Gold und Edelgesteinen,
dabei goldgezwickelte Strümpfe und goldene Pantoffel; und als Aschenputtel damit angekleidet war, da
glänzte es recht, wie die Sonne am Mittag. Vor der Thüre hielt ein Wagen mit sechs Schimmeln, die hatten
hohe weiße Federbüsche auf dem Kopf, und die Bedienten waren in Roth und Gold gekleidet. Als
Aschenputtel ankam, stand schon der Prinz auf der Treppe und führte sie in den Saal. Und waren gestern alle
über ihre Schönheit erstaunt, so erstaunten sie heute noch mehr und die Schwestern standen in der Ecke und
waren blaß vor Neid, und hätten sie gewußt, daß das Aschenputtel war, das zu Haus in der Asche lag, sie
wären gestorben vor Neid.
Der Prinz aber wollte wissen, wer die fremde Prinzessin sey, woher sie gekommen und wohin sie fahre, und
hatte Leute auf die Straße gestellt, die sollten Acht darauf haben, und damit sie nicht so schnell fortlaufen
könne, hatte er die Treppe ganz mit Pech bestreichen lassen. Aschenputtel tanzte und tanzte mit dem Prinzen,
war in Freuden und gedachte nicht an Mitternacht. Auf einmal, wie es mitten im Tanzen war, hörte es den
Glockenschlag, da fiel ihm ein, wie die Tauben es gewarnt, erschrak und eilte zur Thüre hinaus und flog
recht die Treppe hinunter. Weil die aber mit Pech bestrichen war, blieb einer von den goldenen Pantoffeln
festhängen, und in der Angst dacht es nicht daran, ihn mitzunehmen. Und wie es den letzten Schritt von der
Treppe that, da hatt’ es zwölf ausgeschlagen, da war Wagen und Pferde verschwunden und Aschenputtel
stand in seinen Aschenkleidern auf der dunkeln Straße. Der Prinz war ihm nachgeeilt, auf der Treppe fand er
den goldenen Pantoffel, riß ihn los und hob ihn auf, wie er aber unten hinkam, war alles verschwunden; die
Leute auch, die zur Wache ausgestellt waren, kamen und sagten, daß sie nichts gesehen hätten.
Aschenputtel war froh, daß es nicht schlimmer gekommen war, und ging nach Haus, da steckte es sein trübes
Oel-Lämpchen an, hängte es in den Schornstein und legte sich in die Asche. Es währte nicht lange, so kamen
die beiden Schwestern auch und riefen: „Aschenputtel, steh auf und leucht uns.“ Aschenputtel gähnte und
that als wacht es aus dem Schlaf. Bei dem Leuchten aber hörte es, wie die eine sagte: „Gott weiß, wer die
verwünschte Prinzessin ist, daß sie in der Erde begraben läg! der Prinz hat nur mit ihr getanzt und als sie weg
war, hat er gar nicht mehr bleiben wollen und das ganze Fest hat ein Ende gehabt.“ – „Es war recht, als wären
74
alle Lichter auf einmal ausgeblasen worden,“ sagte die andere. Aschenputtel wußte wohl wer die fremde
Prinzessin war, aber es sagte kein Wörtchen.
Der Prinz aber gedachte, ist dir alles andere fehlgeschlagen, so wird dir der Pantoffel die Braut finden helfen,
und ließ bekannt machen, welcher der goldene Pantoffel passe, die solle seine Gemahlin werden. Aber allen
war er viel zu klein, ja manche hätten ihren Fuß nicht hineingebracht, und wären die zwei Pantoffel ein
einziger gewesen. Endlich kam die Reihe auch an die beiden Schwestern, die Probe zu machen; sie waren
froh, denn sie hatten kleine schöne Füße und glaubten, uns kann es nicht fehlschlagen, wär der Prinz nur
gleich zu uns gekommen. „Hört, sagte die Mutter heimlich, da habt ihr ein Messer, und wenn euch der
Pantoffel doch noch zu eng ist, so schneidet euch ein Stück vom Fuß ab, es thut ein bischen weh, was schadet
das aber, es vergeht bald und eine von euch wird Königin.“ Da ging die älteste in ihre Kammer und probierte
den Pantoffel an, die Fußspitze kam hinein, aber die Ferse war zu groß, da nahm sie das Messer und schnitt
sich ein Stück von der Ferse, bis sie den Fuß in den Pantoffel hineinzwängte. So ging sie heraus zu dem
Prinzen, und wie der sah, daß sie den Pantoffel anhatte, sagte er, das sey die Braut, führte sie zum Wagen und
wollte mit ihr fortfahren. Wie er aber ans Thor kam, saßen oben die Tauben und riefen:
„Rucke di guck, rucke di guck!
Blut ist im Schuck: (Schuh)
Der Schuck ist zu klein,
Die rechte Braut sitzt noch daheim!“
Der Prinz bückte sich und sah auf den Pantoffel, da quoll das Blut heraus, und da merkte er, daß er betrogen
war, und führte die falsche Braut zurück. Die Mutter aber sagte zur zweiten Tochter: „nimm du den
Pantoffel, und wenn er dir zu kurz ist, so schneide lieber vorne an den Zehen ab.“ Da nahm sie den Pantoffel
in ihre Kammer, und als der Fuß zu groß war, da biß sie die Zähne zusammen und schnitt ein groß Stück von
den Zehen ab, und drückte den Pantoffel geschwind an. Wie sie damit hervortrat, meinte er, das wäre die
rechte und wollte mit ihr fortfahren. Als er aber in das Thor kam, riefen die Tauben wieder:
„Rucke di guck, rucke di guck!
Blut ist im Schuck:
Der Schuck ist zu klein,
Die rechte Braut sitzt noch daheim!“
Der Prinz sah nieder, da waren die weißen Strümpfe der Braut roth gefärbt und das Blut war hoch herauf
gedrungen. Da brachte sie der Prinz der Mutter wieder und sagte: „das ist auch nicht die rechte Braut; aber ist
nicht noch eine Tochter im Haus.“ „Nein, sagte die Mutter, nur ein garstiges Aschenputtel ist noch da, das
sitzt unten in der Asche, dem kann der Pantoffel nicht passen.“ Sie wollte es auch nicht rufen lassen, bis es
der Prinz durchaus verlangte. Da ward Aschenputtel gerufen und wie es hörte, daß der Prinz da sey, wusch es
sich geschwind Gesicht und Hände frisch und rein; und wie es in die Stube trat, neigte es sich, der Prinz aber
reichte ihr den goldenen Pantoffel und sagte: „probier ihn an! und wenn er dir paßt, wirst du meine
Gemahlin.“ Da streift es den schweren Schuh von dem linken Fuß ab, setzt ihn auf den goldenen Pantoffel
und drückte ein klein wenig, da stand es darin, als wär er ihm angegossen. Und als es sich aufbückte, sah ihm
der Prinz ins Gesicht, da erkannte er die schöne Prinzessin wieder und rief: „das ist die rechte Braut.“ Die
Stiefmutter und die zwei stolzen Schwestern erschracken und wurden bleich, aber der Prinz führte
Aschenputtel fort und hob es in den Wagen, und als sie durchs Thor fuhren, da riefen die Tauben:
„Rucke di guck, rucke di guck!
Kein Blut im Schuck:
75
Der Schuck ist nicht zu klein,
Die rechte Braut, die führt er heim!“
Aschenputtel (1819)
Einem reichen Mann wurde seine Frau krank und als sie fühlte, daß ihr Ende heran kam, rief sie ihr einziges
Töchterlein zu sich ans Bett und sprach: „bleib fromm und gut, so wird dir der liebe Gott immer beistehen
und ich will vom Himmel herab auf dich blicken und um dich seyn.“ Darauf that sie die Augen zu und
verschied. Das Mädchen ging jeden Tag hinaus auf ihr Grab, und weinte und blieb fromm und gut. Der
Schnee aber deckte ein weißes Tüchlein auf das Grab, und als die Sonne es wieder herabgezogen hatte, nahm
sich der Mann eine andere Frau.
Die Frau hatte zwei Töchter, die sie mit ins Haus brachte, und die schön und weiß von Angesicht waren, aber
garstig und schwarz von Herzen. Da ging eine schlimme Zeit für das arme Stiefkind an. „Was will der
Unnütz in den Stuben, sprachen sie, wer Brot essen will, muß es erst verdienen, fort mit der Küchenmagd.“
Da nahmen ihm die Schwestern seine schöne Kleider, gaben ihm einen grauen alten Kittel anzuziehen, und
dann lachten sie es aus und führten es in die Küche. Nun mußte es so schwere Arbeit thun, früh vor Tag
aufstehen, Wasser tragen, Feuer anmachen, kochen und waschen. Dabei thaten ihm die Schwestern alles
Herzeleid an, spotteten es und schütteten ihm die Erbsen und Linsen in die Asche, so daß es sitzen und sie
wieder auslesen mußte. Abends, wenn es müd war, kam es in kein Bett, sondern mußte sich neben dem
Heerd in die Asche legen. Und weil es darum immer staubig und schmutzig aussah, nannten sie es
Aschenputtel.
Es trug sich zu, daß der Vater einmal in die Messe ziehen wollte, da fragte er die beiden Stieftöchter, was er
ihnen mitbringen sollte? Schöne Kleider, sagte die eine und Perlen und Edelsteine die zweite. „Nun,
Aschenputtel, sprach er, was willst du haben?“ „Vater das erste Reis, das euch auf eurem Heimweg an den
Hut stößt“ antwortete Aschenputtel. Er kaufte nun für die beiden Stiefschwestern die Kleider, Perlen und
Edelsteine, und auf dem Rückweg, als er durch einen grünen Busch ritt, streifte ihm ein Häselreis und stieß
ihm den Hut ab. Da brach er das Reis und als er nach Haus kam, gab er den Stieftöchtern, was sie sich
gewünscht hatten, und dem Aschenputtel gab er das Reis von dem Haselbusch. Aschenputtel nahm es, ging
damit zu seiner Mutter Grab und pflanzte es darauf und weinte so sehr, daß das Reis von seinen Thränen
begoßen ward. Es wuchs aber und ward ein schöner Baum. Aschenputtel ging alle Tage dreimal darunter,
weinte und betete und allemal kam ein Vöglein auf den Baum und gab ihm, was es sich wünschte.
Es begab sich aber, daß der König ein Fest anstellte, das drei Tage dauern sollte, damit sich sein Sohn eine
Braut aussuchen könnte. Die zwei Stiefschwestern waren auch dazu eingeladen, riefen Aschenputtel und
sprachen: „nun kämm uns die Haare, bürst uns die Schuhe und schnall uns die Schnallen, wir tanzen auf des
Königs-Fest.“ Das that Aschenputtel und weinte, weil es auch gern zum Tanz mitgegangen wär, und bat die
Stiefmutter gar sehr, sie mögt es ihm erlauben. „Du Aschenputtel, sprach sie, hast nichts am Leib und hast
keine Kleider und kannst nicht tanzen und willst zur Hochzeit!“ Als es noch weiter bat, sprach sie endlich:
„ich will dir eine Schüssel Linsen in die Asche schütten und wenn du die in zwei Stunden wieder ausgelesen
hast, so sollst du mitgehen.“ Nun schüttete sie ihm die Linsen in die Asche, aber das Mädchen ging vor die
Hinterthüre nach dem Garten zu und rief: „ihr zahmen Täubchen, ihr Turteltäubchen, all ihr Vöglein unter
dem Himmel, kommt und helft mir lesen:
die guten ins Töpfchen,
die schlechten ins Kröpfchen!“
Da kamen zum Küchenfenster zwei weiße Täubchen herein, und darnach die Turteltäubchen und endlich
schwirrten und schwärmten alle Vögelein unter dem Himmel herein und ließen sich um die Asche nieder.
Und die Täubchen nickten mit dem Köpfchen und fingen an: pik, pik! pik, pik! und da fingen die übrigen
auch an pik, pik! pik, pik! und lasen alle gute Körnlein in die Schüssel. Wie eine Stunde herum war, waren
sie schon fertig und flogen alle wieder hinaus, da brachte es die Schüssel der Stiefmutter und freute sich und
glaubte, nun mit auf die Hochzeit gehen zu dürfen. Aber sie sprach: „nein, du Aschenputtel, du hast keine
Kleider und kannst nicht tanzen, du sollst nicht mitgehen.“ Als es nun weinte, sprach sie: „wenn du mir zwei
76
Schüsseln voll Linsen in einer Stunde aus der Asche rein lesen kannst, so sollst du mitgehen“ und dachte
dabei, das kann es nimmermehr. Nun schüttete sie zwei Schüsseln Linsen in die Asche, aber das Mädchen
ging vor die Hinterthüre nach dem Garten zu und rief: „ihr zahmen Täubchen, ihr Turteltäubchen, all ihr
Vöglein unter dem Himmel, kommt und helft mir lesen:
die guten ins Töpfchen,
die schlechten ins Kröpfchen!“
Da kamen zum Küchenfenster zwei weiße Täubchen herein und darnach die Turteltäubchen und endlich
schwirrten und schwärmten alle Vöglein unter dem Himmel herein und ließen sich um die Asche nieder. Und
die Täubchen nickten mit ihren Köpfchen und fingen an pik, pik! pik, pik! und da fingen die übrigen auch an
pik, pik! pik, pik! und lasen alle gute Körner in die Schüsseln. Und eh eine halbe Stunde herum war, waren
sie schon fertig und flogen alle wieder hinaus; da brachte es der Stiefmutter die Schüsseln und freute sich und
glaubte nun mitgehen zu dürfen. Aber sie sprach: „es hilft alles nichts, du kommst nicht mit, du hast keine
Kleider und kannst nicht tanzen und wir müßten uns nur schämen.“ Darauf ging sie mit ihren zwei Töchtern
fort.
Als nun niemand mehr daheim war, ging Aschenputtel zu seiner Mutter Grab unter den Haselbaum und rief:
„Bäumchen rüttel dich und schüttel dich!
wirf Gold und Silber über mich!“
da warf ihm der Vogel ein golden und silbern Kleid herunter, und mit Seide und Silber ausgestickte
Pantoffeln. Das zog es an und ging zur Hochzeit. Ihre Schwestern aber und die Stiefmutter kannten es nicht
und meinten es müßt ein fremdes Königsfräulein seyn, so schön sah es in den reichen Kleidern aus. An
Aschenputtel dachten sie gar nicht, und glaubten es läg daheim im Schmutz. Der Königssohn kam ihm
entgegen und nahm es bei der Hand und tanzte mit ihm. Er wollte auch mit sonst niemand tanzen, also daß er
ihm die Hand nicht los ließ und wenn ein anderer kam, es aufzufordern, sprach er: „das ist meine Tänzerin.“
Es tanzte bis Abend war, da wollte es nun nach Haus gehen. Der Königssohn aber sprach: „ich gehe mit und
begleite dich“ denn er wollte sehen, wem das schöne Mädchen angehörte. Sie entwischte ihm aber und
sprang in das Taubenhaus. Nun wartete der Königssohn, bis der Vater kam, und sagte ihm, das fremde
Mädchen wär in das Taubenhaus gesprungen. Da dachte er: sollte es Aschenputtel sein, und sie mußten ihm
Axt und Hacken bringen, damit er das Taubenhaus entzwei schlagen konnte; aber es war niemand darin. Und
als sie ins Haus kamen, lag Aschenputtel in seinen schmutzigen Kleidern in der Asche und sein trübes
Oehllämpchen brannte im Schornstein. Denn es war geschwind durch das Taubenhaus gesprungen und zu
dem Haselbäumchen gegangen, da hatte es die schönen Kleider ausgethan und aufs Grab gelegt, und der
Vogel hatte sie wieder weggenommen, es aber hatte sich in seinem grauen Kittelchen in die Küche zur Asche
gesetzt.
Am andern Tag, als das Fest von neuem anhub, und die Eltern und Stiefschwestern wieder fort waren, ging
Aschenputtel zu dem Haselbaum und sprach:
„Bäumchen, rüttel dich und schüttel dich!
wirf Gold und Silber über mich!“
da warf der Vogel ein noch viel stolzeres Kleid herab, als am vorigen Tag. Als es damit auf die Hochzeit
kam, erstaunte jedermann über seine Schönheit, der Königssohn aber hatte schon auf es gewartet, nahm es
bei der Hand und tanzte nur allein mit ihm. Wenn die andern kamen und es aufforderten sprach er: „das ist
meine Tänzerin.“ Als es nun Abend war, wollte es fort und der Königssohn ging mit und wollte sehen, in
welches Haus es ginge, aber es sprang ihm fort und in den Garten hinter dem Haus. Darin stand ein schöner,
großer Birnbaum voll herrlichem Obst, auf den stieg es gar behend und der Königssohn wußte nicht, wo es
hingekommen war. Er wartete aber, bis der Vater kam und sprach zu ihm: „das fremde Mädchen ist mir
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entwischt und ich glaube, daß es auf den Birnbaum gesprungen ist.“ Der Vater dachte, sollte es Aschenputtel
seyn! und ließ sich die Axt holen und hieb den Baum um, aber es war niemand darauf. Und als sie in die
Küche kamen, lag Aschenputtel da in der Asche, wie gewöhnlich, denn es war auf der andern Seite vom
Baum herabgesprungen, hatte dem Vogel auf dem Haselbäumchen die schönen Kleider wieder gebracht und
sein grau Kittelchen angezogen.
Am dritten Tag als die Eltern und Schwestern dahin waren, ging Aschenputtel wieder zu seiner Mutter Grab
und sprach zu dem Bäumchen:
„Bäumchen, rüttel dich und schüttel dich!
wirf Gold und Silber über mich!“
Nun warf ihm der Vogel ein Kleid herab, das war so prächtig, wie es noch keins gehabt, und die Pantoffel
waren ganz golden. Als es zu der Hochzeit kam, wußten sie alle nicht, was sie vor Verwunderung sagen
sollten, der Königssohn tanzte ganz allein mit ihm und wenn es einer aufforderte, sprach er: „es ist meine
Tänzerin.“
Als es nun Abend war, wollte Aschenputtel fort und der Königssohn wollte es begleiten, aber es sprang ihm
fort. Doch verlor es seinen linken ganz goldenen Pantoffel, denn der Königssohn hatte Pech auf die Treppe
streichen lassen und daran blieb er hängen. Nun nahm er den Schuh und ging am andern Tag damit zu dem
Mann und sagte: „die, welcher dieser goldene Schuh paße, die solle seine Gemahlin werden.“ Da freuten sich
die beiden Schwestern, weil sie schöne Füße hatten. Die Aelteste ging mit dem Schuh in die Kammer und
wollte ihn anprobiren und die Mutter stand dabei. Aber sie konnte mit der großen Zehe nicht hineinkommen
und der Schuh war ihr zu klein, da reichte ihr die Mutter ein Messer und sprach: „hau die Zehe ab, wann du
Königin bist, so brauchst du nicht mehr zu Fuß zu gehen.“ Das Mädchen hieb die Zehe ab, zwängte nun den
Schuh hinein und ging zum Königssohn. Der nahm sie als seine Braut auf sein Pferd und ritt mit ihr fort. Sie
mußten aber an dem Haselbäumchen, das auf dem Grabe stand, vorbei, da saßen die zwei Täubchen drauf
und riefen:
„Rucke di guck! rucke di guck!
Blut ist im Schuck (Schuh),
der Schuck ist zu klein,
die rechte Braut sitzt noch daheim!“
da blickte er auf ihren Fuß und sah wie das Blut herausquoll. Nun wendete er sein Pferd um, brachte die
falsche Braut wieder nach Haus und sagte: „das ist nicht die rechte, die andere Schwester soll den Schuh
anziehen.“ Sie ging in die Kammer und kam mit den Zehen in den Schuh, aber hinten die Ferse war zu groß.
Da reichte ihr die Mutter ein Messer und sprach: „hau ein Stück von der Ferse ab, wann du Königin bist,
brauchst du nicht mehr zu Fuß zu gehen.“ Das Mädchen hieb ein Stück von der Ferse ab, zwängte den Fuß in
den Schuh und ging heraus zum Königssohn. Der nahm sie als seine Braut auf sein Pferd und ritt mit ihr fort.
Als sie an dem Haselbäumchen vorbeikamen, saßen die zwei Täubchen darauf und riefen:
„Rucke di guck! Rucke di guck!
Blut ist im Schuck,
der Schuck ist zu klein,
die rechte Braut sitzt noch daheim!“
Er blickte nieder auf ihren Fuß, und sah, wie das Blut aus dem Schuh quoll und an den weißen Strümpfen
ganz roth heraufgestiegen war. Da wendete er sein Pferd und brachte die falsche Braut wieder zurück. „Das
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ist nicht die rechte, sprach er, habt ihr keine andere Tochter?“ „Nein, sagte der Mann, nur von meiner
verstorbenen Frau ist noch ein kleines, garstiges Aschenputtel da, das kann aber nicht die Braut seyn.“ Der
Königssohn sprach, er sollt’ es heraufschicken, die Mutter aber antwortete: „ach nein, das ist viel zu
schmutzig, das darf sich nicht sehen lassen.“ Er aber wollt es durchaus haben, und Aschenputtel mußte
gerufen werden. Da wusch es sich erst Hände und Angesicht rein, ging dann hin und neigte sich vor dem
Königssohn, der ihm seinen goldenen Schuh reichte. Nun streifte es den schweren Schuh vom linken Fuß ab,
setzte diesen auf den goldenen Pantoffel und drückte ein wenig, so stand es darin, als wär er ihm angegoßen.
Und als es sich aufbückte, erkannte er es im Angesicht und sprach: „das ist die rechte Braut!“ Die Stiefmutter
und die beiden Schwestern erschracken und wurden bleich vor Aerger, aber er nahm Aschenputtel aufs Pferd
und ritt mit ihm fort. Als sie an dem Haselbäumchen vorbei kamen, riefen die zwei weißen Täubchen:
„Rucke di guck! rucke di guck!
kein Blut im Schuck,
der Schuck ist nicht zu klein,
die rechte Braut, die führt er heim!“
Und als sie das gerufen, kamen sie beide hergeflogen und setzten sich dem Aschenputtel auf die Schultern,
eine rechts, die andere links, und blieben da sitzen.
Als die Hochzeit mit dem Königssohn sollte gehalten werden, kamen die falschen Schwestern, wollten sich
einschmeicheln und Theil an seinem Glück nehmen. Als es nun zur Kirche ging, war die älteste zur rechten,
die jüngste zur linken Seite, da pickten die Tauben einer jeden das eine Aug aus, hernach als sie heraus ging
war die älteste zur linken und die jüngste zur rechten, da pickten die Tauben einer jeden das andere Auge aus
und waren sie also für ihre Bosheit und Falschheit mit Blindheit auf ihr Lebtag gestraft.
Ashputtel (1823)
The wife of a rich man fell sick: and when she felt that her end drew nigh, she called her only daughter to her
bed – side, and said, “Always be a good girl, and I will look down from heaven and watch over you.” Soon
afterwards she shut her eyes and died, and was buried in the garden; and the little girl went every day to her
grave and wept, and was always good and kind to all about her. And the snow spread a beautiful white
covering over the grave; but by the time the sun had melted it away again, her father had married another
wife. This new wife had two daughters of her own, that she brought home with her: they were fair in face, but
foul at heart, and it was now a sorry time for the poor little girl. “What does the good – for – nothing thing
want in the parlour?” said they; “they who would eat bread should first earn it; away with the kitchen maid!”
Then they took away her fine clothes, and gave her an old gray frock to put on, and laughed at her and turned
her into the kitchen. There she was forced to do hard work; to rise early before day – light, to bring the water,
to make the fire, to cook and to wash. Besides that, the sister plagued her in all sorts of ways and laughed at
her. In the evening when she was tired she had no bed to lie down on, but was made to lie by the hearth
among the ashes; and then, as she was of course always dusty and dirty, they called her Ashputtel. It
happened once that the father was going to the fair, and asked his wife’s daughters what he should bring
them. “Fine clothes,” said the first: “Pearls and diamonds,” cried the second. “Now, child,” said he to his own
daughter, “what will you have?” “The first sprig, dear father, that rubs against your hat on your way home,”
said she. Then he bought for the two first the fine clothes and pearls and diamonds they had asked for: and on
his way home as he rode through a green copse, a sprig of hazle brushed against him, and almost pushed off
his hat: so he broke it off and brought it away; and when he got home he gave it to his daughter. Then she
took it and went to her mother’s grave and planted it there, and cried so much that it was watered with her
tears; and there it grew and became a fine tree. Three times every day she went to it and wept; and soon a
little bird came and built its nest upon the three, and talked with her, and watched over her, and brought her
whatever she wished for.
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Now it happened that the king of the land held a feast which was to last three days, and out of those who
came to it his son was to choose a bride for himself: and Ashputtel’s two sisters were asked to come. So they
called her up, and said, “Now, comb our hair, brush our shoes, and tie our sashes for us, for we are going to
dance at the king’s feast.” Then she did as she was told, but when all was done she could not help crying, for
she thought to herself, she should have liked to go to the dance too; and at last she begged her mother very
hard to let her go. “You! Ashputtel?” said she; “you who have nothing to wear, no clothes at all, and cannot
even dance – you want to go to the ball?” And when she kept on begging, – to get rid of her, she said at last,
“I will throw this bason (sic!) – full of peas into the ash heap, and if you have picked them all out in two
hours time you shall go to the feast too.” Then she threw the peas into the ashes: but the little maiden ran out
at the back door into the garden, and cried out –
“Hither, hither, through the sky,
Turtle – doves and linnets, fly!
Blackbird, thrush, and chaffinch gay,
Hither, hither, haste away!
One and all, come help me quick,
Haste ye, haste ye, - pick, pick, pick!”
Then first came two white doves flying in at the kitchen window; and next came two turtle – doves; and after
them all the little birds under heaven came chirping and fluttering in, and flew down into the ashes: and the
little doves stooped their heads down and set to work, pick, pick, pick; and then the others began to pick,
pick, pick; and picked out all the good grain and put it in a dish, and left the ashes. At the end of one hour the
work was done, and all flew out again at the windows. Then she brought the dish to her mother, overjoyed at
the thought that now she should go to the wedding. But she said, “No, no! you slut, you have no clothes and
cannot dance, you shall not go.” And when Ashputtel begged very hard to go, she said, “If you can in one
hour’s time pick two of those dishes of peas out of the ashes, you shall go too.” And thus she thought she
should at last get rid of her. So she shook two dishes of peas into the ashes; but the little maiden went out into
the garden at the back of the house, and cried out as before –
“Hither, hither, through the sky,
Turtle – doves and linnets, fly!
Blackbird, thrush, and chaffinch gay,
Hither, hither, haste away!
One and all, come help me quick,
Haste ye, haste ye, - pick, pick, pick!”
Then first came two white doves in at the kitchen window; and next came the turtle – doves; and after them
all the little birds under heaven came chirping and hopping about, and flew down about the ashes: and the
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little doves put their heads down and set to work, pick, pick, pick; and then the others began pick, pick, pick;
and they put all the good grain into the dishes, and left all the ashes. Before half an hour’s time all was done,
and out they flew again. And then Ashputtel took the dishes to her mother, rejoicing to think that she should
now go to the ball. But her mother said, “It is all of no use, you cannot go; you have no clothes, and cannot
dance, and you would only put us to shame:” and off she went with her two daughters to the feast. Now when
all were gone, and nobody left at home, Ashputtel went sorrowfully and sat down under the hazle – tree, and
cried out –
Shake, shake, hazle – tree,
Gold and silver over me!
Then her friend the bird flew out of the tree and brought a gold and silver dress for her, and slippers of
spangled silk: and she put them on, and followed her sister to the feast. But they did not know her, and
thought it must be some strange princess, she looked so fine and beautiful in her rich clothes: and they never
once thought of Ashputtel, but took for granted that she was safe at home in the dirt. The king’s son soon
came up to her, and took her by the hand and danced with her and no one else: and he never left her hand; but
when any one else came to ask her to dance, he said, “This lady is dancing with me.” Thus they danced till a
late hour of the night; and then she wanted to go home: and the king’s son said, “I shall go and take care of
you to your home;” for he wanted to see where the beautiful maid lived. But she slipped away from him
unawares, and ran off towards home, and the prince followed her; but she jumped up into the pigeon – house
and shut the door. Then he waited till her father came home, and told him that the unknown maiden who had
been at the feast had hid herself in the pigeon – house. But when they had broken open the door they found
no one within; and as they came back into the house, Ashputtel lay, as she always did, in her dirty frock by
the ashes, and her dim little lamp burnt into the chimney: for she had run as quickly as she could through the
pigeon – house and on to the hazle – tree, and had there taken off her beautiful clothes, and laid them beneath
the tree, that the bird might carry them away, and had seated herself amid the ashes again in her little gray
frock.
The next day when the feast was again held, and her father, mother, and sisters were gone, Ashputtel went to
the hazle – tree, and said –
Shake, shake, hazle – tree,
Gold and silver over me!
And the bird came and brought a still finer dress than the one she had worn the day before. And when she
came in it to the ball, every one wondered at her beauty: but the king’s son, who was waiting for her, took her
by the hand, and danced with her; and when any one asked her to dance, he said as before, “This lady is
dancing with me.” When night came she wanted to go home; and the king’s son followed her as before, that
he might see into what house he went: but she sprung away from him all at one into the garden behind her
father’s house. In this garden stood a fine large pear – tree full of ripe fruit; and Ashputtel not knowing where
to hide herself jumped up into it without being seen. Then the king’s son could not find where she was gone,
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but waited till her father came home, and said to him, “The unknown lady who danced with me has slipt
away, and I think she must have sprung into the pear – tree.” The father thought to himself, “Can it be
Ashputtel?” So her ordered an axe to be brought; and they cut down the tree, but found no one upon it. And
when they came back into the kitchen, there lay Ashputtel in the ashes as usual; for she had slipped down on
the other side of the tree, and carried her beautiful clothes back to the bird at the hazle – tree, and then put on
her little gray frock.
The third day, when her father and mother and sisters were gone, she went again into the garden, and said –
Shake, shake, hazle – tree,
Gold and silver over me!
Then her kind friend the bird brought a dress still finer than the former one, and slippers which were all of
gold: so that when she came to the feast no one knew what to say for wonder at her beauty: and the king’s
son danced with her alone; and when any one else asked her to dance, he said, “This lady is my partner.”
Now when night came she wanted to go home; and the king’s son would go with her, and said to himself, “I
will not lose her this time;” but however she managed to slip away from him, though in such a hurry that she
dropped her left golden slipper upon the stairs. So the prince took the shoe, and went the next day to the king
his father, and said, “I will take for my wife the lady that this golden slipper fits.” Then both the sisters were
overjoyed to hear this; for they had beautiful feet, and had no doubt that they could wear the golden slipper.
The eldest went first into the room where the slipper was and wanted to try it on, and the mother stood by.
But her great toe could not go into it, and the shoe was altogether much too small for her. Then the mother
gave her a knife, and said, “Never mind, cut it off; when you are a queen you will not care about toes, you
will not want to go on foot.” So the silly girl cut her great toe off, and squeezed the shoe on, and went to the
king’s son. Then he took her for his bride, and set her beside him on his horse and rode away with her.
But in their way home they had to pass by the hazle – tree that Ashputtel had planted, and there sat a little
dove on the branch singing –
“Back again! back again! look to the shoe!
The shoe is too small, and not made for you!
Prince! prince! look again for thy bride,
For she’s not the true one that sits by your side”
Then the prince got down and looked at her foot, and saw by the blood that streamed from it what a trick she
had played him. So he turned his horse round and brought the false bride back to her home, and said, “This is
not the right bride; let the other sister try and put on the slipper.” Then she went into the room and got her
foot into the shoes, all but the heel, which was too large. But her mother squeezed it in till blood came, and
took her to the king’s son; and he set her as his bride by his side on his horse, and rode away with her.
But when they came to the hazle – tree the little dove sate there still, and sang –
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“Back again! back again! look to the shoe!
The shoe is too small, and not made for you!
Prince! prince! look again for thy bride,
For she’s not the true one that sits by your side”
Then he looked down and saw that the blood streamed so from the shoe that her white stockings were quite
red. So he turned his horse and brought her back again also. “This is not the true bride,” said he to the father;
“have you no other daughters?” “No,” said he; “there is only a little dirty Ashputtel here, the child of my first
wife; I am sure she cannot be the bride.” However, the prince told him to send her. But the mother said “No,
no, she is much too dirty, she will not dare to show herself:” however, the prince would have her come. And
she first washed her face and hands, and then went in and curtsied to him, and he reached her the golden
slipper. Then she took her clumsy shoe off her left foot, and put on the golden slipper; and it fitted her as if it
had been made for her. And when he drew near and looked at her face he knew her, and said, “This is the
right bride.” But the mother and both the sisters were frightened and turned pale with anger as he took
Ashputtel on his horse, and rode away with her. And when they came to the hazle – tree, the white dove sang
–
“Home! home! look at the shoe!
Princess! The shoe was made for you!
Prince! Prince! Take home thy bride,
For she is the true one that sits by thy side!”
And when the dove had done its song, it came flying and perched upon her right shoulder, and so went home
with her.
Aschenputtel (1857)
Einem reichen Manne dem wurde seine Frau krank, und als sie fühlte daß ihr Ende heran kam, rief sie ihr
einziges Töchterlein zu sich ans Bett und sprach „liebes Kind, bleib fromm und gut, so wird dir der liebe Gott
immer beistehen, und ich will vom Himmel auf dich herabblicken, und will um dich sein.“ Darauf that sie die
Augen zu und verschied. Das Mädchen gieng jeden Tag hinaus zu dem Grabe der Mutter und weinte, und
blieb fromm und gut. Als der Winter kam, deckte der Schnee ein weißes Tüchlein auf das Grab, und als die
Sonne im Frühjahr es wieder herabgezogen hatte, nahm sich der Mann eine andere Frau.
Die Frau hatte zwei Töchter mit ins Haus gebracht, die schön und weiß von Angesicht waren, aber garstig
und schwarz von Herzen. Da gieng eine schlimme Zeit für das arme Stiefkind an. „Soll die dumme Gans bei
uns in der Stube sitzen!“ sprachen sie, „wer Brot essen will, muß es verdienen: hinaus mit der Küchenmagd.“
Sie nahmen ihm seine schönen Kleider weg, zogen ihm einen grauen alten Kittel an, und gaben ihm hölzerne
Schuhe. „Seht einmal die stolze Prinzessin, wie sie geputzt ist!“ riefen sie, lachten und führten es in die
Küche. Da mußte es von Morgen bis Abend schwere Arbeit thun, früh vor Tag aufstehn, Wasser tragen,
Feuer anmachen, kochen und waschen. Obendrein thaten ihm die Schwestern alles ersinnliche Herzeleid an,
verspotteten es und schütteten ihm die Erbsen und Linsen in die Asche, so daß es sitzen und sie wieder
auslesen mußte. Abends, wenn es sich müde gearbeitet hatte, kam es in kein Bett, sondern mußte sich neben
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den Herd in die Asche legen. Und weil es darum immer staubig und schmutzig aussah, nannten sie es
Aschenputtel.
Es trug sich zu, daß der Vater einmal in die Messe ziehen wollte, da fragte er die beiden Stieftöchter was er
ihnen mitbringen sollte? „Schöne Kleider“ sagte die eine, „Perlen und Edelsteine“ die zweite. „Aber du,
Aschenputtel,“ sprach er, „was willst du haben?“ „Vater, das erste Reis, das euch auf eurem Heimweg an den
Hut stößt, das brecht für mich ab.“ Er kaufte nun für die beiden Stiefschwestern schöne Kleider, Perlen und
Edelsteine, und auf dem Rückweg, als er durch einen grünen Busch ritt, streifte ihn ein Haselreis und stieß
ihm den Hut ab. Da brach er das Reis ab und nahm es mit. Als er nach Haus kam, gab er den Stieftöchtern
was sie sich gewünscht hatten, und dem Aschenputtel gab er das Reis von dem Haselbusch. Aschenputtel
dankte ihm, gieng zu seiner Mutter Grab und pflanzte das Reis darauf, und weinte so sehr, daß die Thränen
darauf niederfielen und es begossen. Es wuchs aber, und ward ein schöner Baum. Aschenputtel gieng alle
Tage dreimal darunter, weinte und betete, und allemal kam ein weißes Vöglein auf den Baum, und wenn es
einen Wunsch aussprach, so warf ihm das Vöglein herab was es sich gewünscht hatte.
Es begab sich aber, daß der König ein Fest anstellte, das drei Tage dauern sollte, und wozu alle schönen
Jungfrauen im Lande eingeladen wurden, damit sich sein Sohn eine Braut aussuchen möchte. Die zwei
Stiefschwestern als sie hörten daß sie auch dabei erscheinen sollten, waren guter Dinge, riefen Aschenputtel,
und sprachen „kämm uns die Haare, bürste uns die Schuhe und mache uns die Schnallen fest, wir gehen zur
Hochzeit auf des Königs Schloß.“ Aschenputtel gehorchte, weinte aber, weil es auch gern zum Tanz
mitgegangen wäre, und bat die Stiefmutter sie möchte es ihm erlauben. „Du Aschenputtel,“ sprach sie, „bist
voll Staub und Schmutz und willst zur Hochzeit? du hast keine Kleider und Schuhe, und willst tanzen!“ Als
es aber mit Bitten anhielt, sprach sie endlich „da habe ich dir eine Schüssel Linsen in die Asche geschüttet,
wenn du die Linsen in zwei Stunden wieder ausgelesen hast, so sollst du mitgehen.“ Das Mädchen gieng
durch die Hinterthüre nach dem Garten und rief „ihr zahmen Täubchen, ihr Turteltäubchen, all ihr Vöglein
unter dem Himmel, kommt und helft mir lesen,
die guten ins Töpfchen,
die schlechten ins Kröpfchen.“
Da kamen zum Küchenfenster zwei weiße Täubchen herein, und danach die Turteltäubchen, und endlich
schwirrten und schwärmten alle Vöglein unter dem Himmel herein, und ließen sich um die Asche nieder.
Und die Täubchen nickten mit den Köpfchen und fiengen an pik, pik, pik, pik, und da fiengen die übrigen
auch an pik, pik, pik, pik, und lasen alle guten Körnlein in die Schüssel. Kaum war eine Stunde herum, so
waren sie schon fertig und flogen alle wieder hinaus. Da brachte das Mädchen die Schüssel der Stiefmutter,
freute sich und glaubte es dürfte nun mit auf die Hochzeit gehen. Aber sie sprach „nein, Aschenputtel, du
hast keine Kleider, und kannst nicht tanzen: du wirst nur ausgelacht.“ Als es nun weinte, sprach sie „wenn du
mir zwei Schüsseln voll Linsen in einer Stunde aus der Asche rein lesen kannst, so sollst du mitgehen,“ und
dachte „das kann es ja nimmermehr.“ Als sie die zwei Schüsseln Linsen in die Asche geschüttet hatte, gieng
das Mädchen durch die Hinterthüre nach dem Garten und rief „ihr zahmen Täubchen, ihr Turteltäubchen, all
ihr Vöglein unter dem Himmel, kommt und helft mir lesen,
die guten ins Töpfchen,
die schlechten ins Kröpfchen.“
Da kamen zum Küchenfenster zwei weiße Täubchen herein und danach die Turteltäubchen, und endlich
schwirrten und schwärmten alle Vöglein unter dem Himmel herein, und ließen sich um die Asche nieder.
Und die Täubchen nickten mit ihren Köpfchen und fiengen an pik, pik, pik, pik, und da fiengen die Übrigen
auch an pik, pik, pik, pik, und lasen alle guten Körner in die Schüsseln. Und eh eine halbe Stunde herum war,
waren sie schon fertig, und flogen alle wieder hinaus. Da trug das Mädchen die Schüsseln zu der Stiefmutter,
freute sich und glaubte nun dürfte es mit auf die Hochzeit gehen. Aber sie sprach „es hilft dir alles nichts: du
kommst nicht mit, denn du hast keine Kleider und kannst nicht tanzen; wir müßten uns deiner schämen.“
Darauf kehrte sie ihm den Rücken zu und eilte mit ihren zwei stolzen Töchtern fort.
Als nun niemand mehr daheim war, gieng Aschenputtel zu seiner Mutter Grab unter den Haselbaum und rief
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„Bäumchen, rüttel dich und schüttel dich
wirf Gold und Silber über mich.“
Da warf ihm der Vogel ein golden und silbern Kleid herunter, und mit Seide und Silber ausgestickte
Pantoffeln. In aller Eile zog es das Kleid an und gieng zur Hochzeit. Seine Schwestern aber und die
Stiefmutter kannten es nicht, und meinten es müßte eine fremde Königstochter sein, so schön sah es in dem
goldenen Kleide aus. An Aschenputtel dachten sie gar nicht und dachten es säße daheim im Schmutz und
suchte die Linsen aus der Asche. Der Königssohn kam ihm entgegen, nahm es bei der Hand und tanzte mit
ihm. Er wollte auch mit sonst niemand tanzen, also daß er ihm die Hand nicht los ließ, und wenn ein anderer
kam, es aufzufordern, sprach er „das ist meine Tänzerin.“
Es tanzte bis es Abend war, da wollte es nach Haus gehen. Der Königssohn aber sprach „ich gehe mit und
begleite dich,“ denn er wollte sehen wem das schöne Mädchen angehörte. Sie entwischte ihm aber und
sprang in das Taubenhaus. Nun wartete der Königssohn bis der Vater kam und sagte ihm das fremde
Mädchen wär in das Taubenhaus gesprungen. Der Alte dachte „sollte es Aschenputtel sein,“ und sie mußten
ihm Axt und Hacken bringen, damit er das Taubenhaus entzwei schlagen konnte: aber es war niemand darin.
Und als sie ins Haus kamen, lag Aschenputtel in seinen schmutzigen Kleidern in der Asche, und ein trübes
Öllämpchen brannte im Schornstein; denn Aschenputtel war geschwind aus dem Taubenhaus hinten herab
gesprungen, und war zu dem Haselbäumchen gelaufen: da hatte es die schönen Kleider abgezogen und aufs
Grab gelegt, und der Vogel hatte sie wieder weggenommen, und dann hatte es sich in seinem grauen
Kittelchen in die Küche zur Asche gesetzt.
Am andern Tag, als das Fest von neuem anhub, und die Eltern und Stiefschwestern wieder fort waren, gieng
Aschenputtel zu dem Haselbaum und sprach
„Bäumchen, rüttel dich und schüttel dich,
wirf Gold und Silber über mich.“
Da warf der Vogel ein noch viel stolzeres Kleid herab, als am vorigen Tag. Und als es mit diesem Kleide auf
der Hochzeit erschien, erstaunte jedermann über seine Schönheit. Der Königssohn aber hatte gewartet bis es
kam, nahm es gleich bei der Hand und tanzte nur allein mit ihm. Wenn die andern kamen und es
aufforderten, sprach er „das ist meine Tänzerin.“ Als es nun Abend war, wollte es fort, und der Königssohn
gieng ihm nach und wollte sehen in welches Haus es gieng: aber es sprang ihm fort und in den Garten hinter
dem Haus. Darin stand ein schöner großer Baum an dem die herrlichsten Birnen hiengen, es kletterte so
behend wie ein Eichhörnchen zwischen die Äste, und der Königssohn wußte nicht wo es hingekommen war.
Er wartete aber bis der Vater kam und sprach zu ihm „das fremde Mädchen ist mir entwischt, und ich glaube
es ist auf den Birnbaum gesprungen.“ Der Vater dachte „sollte es Aschenputtel sein,“ ließ sich die Axt holen
und hieb den Baum um, aber es war niemand darauf. Und als sie in die Küche kamen, lag Aschenputtel da in
der Asche, wie sonst auch, denn es war auf der andern Seite vom Baum herabgesprungen, hatte dem Vogel
auf dem Haselbäumchen die schönen Kleider wieder gebracht und sein graues Kittelchen angezogen.
Am dritten Tag, als die Eltern und Schwestern fort waren, gieng Aschenputtel wieder zu seiner Mutter Grab
und sprach zu dem Bäumchen
„Bäumchen, rüttel dich und schüttel dich,
wirf Gold und Silber über mich.“
Nun warf ihm der Vogel ein Kleid herab, das war so prächtig und glänzend wie es noch keins gehabt hatte,
und die Pantoffeln waren ganz golden. Als es in dem Kleid zu der Hochzeit kam, wußten sie alle nicht was
sie vor Verwunderung sagen sollten. Der Königssohn tanzte ganz allein mit ihm, und wenn es einer
aufforderte, sprach er „das ist meine Tänzerin.“
85
Als es nun Abend war, wollte Aschenputtel fort, und der Königssohn wollte es begleiten, aber es entsprang
ihm so geschwind daß er nicht folgen konnte. Der Königssohn hatte aber eine List gebraucht, und hatte die
ganze Treppe mit Pech bestreichen lassen: da war, als es hinabsprang, der linke Pantoffel des Mädchens
hängen geblieben. Der Königssohn hob ihn auf, und er war klein und zierlich und ganz golden. Am nächsten
Morgen gieng er damit zu dem Mann, und sagte zu ihm „keine andere soll meine Gemahlin werden als die,
an deren Fuß dieser goldene Schuh paßt.“ Da freuten sich die beiden Schwestern, denn sie hatten schöne
Füße. Die Älteste gieng mit dem Schuh in die Kammer und wollte ihn anprobieren, und die Mutter stand
dabei. Aber sie konnte mit der großen Zehe nicht hineinkommen, und der Schuh war ihr zu klein, da reichte
ihr die Mutter ein Messer und sprach „hau die Zehe ab: wann du Königin bist, so brauchst du nicht mehr zu
Fuß zu gehen.“ Das Mädchen hieb die Zehe ab, zwängte den Fuß in den Schuh, verbiß den Schmerz und
gieng heraus zum Königssohn. Da nahm er sie als seine Braut aufs Pferd, und ritt mit ihr fort. Sie mußten
aber an dem Grabe vorbei, da saßen die zwei Täubchen auf dem Haselbäumchen, und riefen
„rucke di guck, rucke di guck,
Blut ist im Schuck (Schuh):
Der Schuck ist zu klein,
die rechte Braut sitzt noch daheim.“
Da blickte er auf ihren Fuß und sah wie das Blut herausquoll. Er wendete sein Pferd um, brachte die falsche
Braut wieder nach Haus und sagte das wäre nicht die rechte, die andere Schwester sollte den Schuh anziehen.
Da gieng diese in die Kammer und kam mit den Zehen glücklich in den Schuh, aber die Ferse war zu groß.
Da reichte ihr die Mutter ein Messer und sprach „hau ein Stück von der Ferse ab: wann du Königin bist,
brauchst du nicht mehr zu Fuß zu gehen.“ Das Mädchen hieb ein Stück von der Ferse ab, zwängte den Fuß in
den Schuh, verbiß den Schmerz und gieng heraus zum Königssohn. Da nahm er sie als seine Braut aufs Pferd
und ritt mit ihr fort. Als sie an dem Haselbäumchen vorbeikamen, saßen die zwei Täubchen darauf und riefen
„rucke di guck, rucke di guck,
Blut ist im Schuck:
der Schuck ist zu klein,
die rechte Braut sitzt noch daheim.“
Er blickte nieder auf ihren Fuß, und sah wie das Blut aus dem Schuh quoll und an den weißen Strümpfen
ganz roth heraufgestiegen war. Da wendete er sein Pferd, und brachte die falsche Braut wieder nach Haus.
„Das ist auch nicht die rechte,“ sprach er, „habt ihr keine andere Tochter?“ „Nein,“ sagte der Mann, „nur von
meiner verstorbenen Frau ist noch ein kleines verbuttetes Aschenputtel da: das kann unmöglich die Braut
sein.“ Der Königssohn sprach er sollte es heraufschicken, die Mutter aber antwortete „ach nein, das ist viel zu
schmutzig, das darf sich nicht sehen lassen.“ Er wollte es aber durchaus haben, und Aschenputtel mußte
gerufen werden. Da wusch es sich erst Hände und Angesicht rein, gieng dann hin und neigte sich vor dem
Königssohn, der ihm den goldenen Schuh reichte. Dann setzte es sich auf einen Schemel, zog den Fuß aus
dem schweren Holzschuh und steckte ihn in den Pantoffel, der war wie angegossen. Und als es sich in die
Höhe richtete und der König ihm ins Gesicht sah, so erkannte er das schöne Mädchen, das mit ihm getanzt
hatte, und rief „das ist die rechte Braut!“ Die Stiefmutter und die beiden Schwestern erschraken und wurden
bleich vor Ärger: er aber nahm Aschenputtel aufs Pferd und ritt mit ihm fort. Als sie an dem Haselbäumchen
vorbei kamen, riefen die zwei weißen Täubchen
„rucke di guck, rucke di guck,
kein Blut im Schuck:
der Schuck ist nicht zu klein,
86
die rechte Braut, die führt er heim.“
Und als sie das gerufen hatten, kamen sie beide herab geflogen und setzten sich dem Aschenputtel auf die
Schultern, eine rechts, die andere links, und blieben da sitzen.
Als die Hochzeit mit dem Königssohn sollte gehalten werden, kamen die falschen Schwestern, wollten sich
einschmeicheln und Theil an seinem Glück nehmen. Als die Brautleute nun zur Kirche giengen, war die
älteste zur rechten, die jüngste zur linken Seite: da pickten die Tauben einer jeden das eine Auge aus.
Hernach als sie heraus giengen, war die älteste zur linken und die jüngste zur rechten: da pickten die Tauben
einer jeden das andere Auge aus. Und waren sie also für ihre Bosheit und Falschheit mit Blindheit auf ihr
Lebtag gestraft.
87
Sneewittchen (Schneeweißchen – 1812)
Es war einmal mitten im Winter, und die Schneeflocken fielen wie Federn vom Himmel, da saß eine schöne
Königin an einem Fenster, das hatte einen Rahmen von schwarzem Ebenholz, und nähte. Und wie sie so
nähte und nach dem Schnee aufblickte, stach sie sich mit der Nadel in den Finger, und es fielen drei Tropfen
Blut in den Schnee. Und weil das Rothe in dem Weißen so schön aussah, so dachte sie: hätt ich doch ein
Kind so weiß wie Schnee, so roth wie Blut und so schwarz wie dieser Rahmen. Und bald darauf bekam sie
ein Töchterlein, so weiß wie der Schnee, so roth wie das Blut, und so schwarz wie Ebenholz, und darum
ward es das Sneewittchen genannt.
Die Königin war die schönste im ganzen Land, und gar stolz auf ihre Schönheit, Sie hatte auch einen Spiegel,
vor den trat sie alle Morgen und fragte:
„Spieglein, Spieglein an der Wand:
wer ist die schönste Frau in dem ganzen Land?“
da sprach das Spieglein allzeit:
„Ihr, Frau Königin, seyd die schönste Frau im Land.“
Und da wußte sie gewiß, daß niemand schöner auf der Welt war. Sneewittchen aber wuchs heran, und als es
sieben Jahr alt war, war es so schön, daß es selbst die Königin an Schönheit übertraf, und als diese ihren
Spiegel fragte:
„Spieglein, Spieglein an der Wand:
wer ist die schönste Frau in dem ganzen Land?“
sagte der Spiegel:
„Frau Königin, Ihr seyd die schönste hier,
aber Snewittchen ist noch tausendmal schöner als Ihr!“
Wie die Königin den Spiegel so sprechen hörte, ward sie blaß vor Neid, und von Stund an haßte sie das
Sneewittchen, und wenn sie es ansah, und gedacht, daß durch seine Schuld sie nicht mehr die schönste auf
der Welt sey, kehrte sich ihr das Herz herum. Da ließ ihr der Neid keine Ruhe, und sie rief einen Jäger und
sagte zu ihm: „führ das Sneewittchen hinaus in den Wald an einen weiten abgelegenen Ort, da stichs todt,
und zum Wahrzeichen bring mir seine Lunge und seine Leber mit, die will ich mit Salz kochen und essen.“
Der Jäger nahm das Sneewittchen und führte es hinaus, wie er aber den Hirschfänger gezogen hatte und eben
zustechen wollte, da fing es an zu weinen, und bat so sehr, er mögt ihm sein Leben lassen, es wollt
nimmermehr zurückkommen, sondern in dem Wald fortlaufen. Den Jäger erbarmte es, weil es so schön war
und gedachte: die wilden Thiere werden es doch bald gefressen haben, ich bin froh, daß ich es nicht zu tödten
brauche, und weil gerade ein junger Frischling gelaufen kam, stach er den nieder, nahm Lunge und Leber
heraus und bracht sie als Wahrzeichen der Königin mit, die kochte sie mit Salz und aß sie auf, und meinte sie
hätte Sneewittchens Lunge und Leber gegessen.
Sneewittchen aber war in dem großen Wald mutterseelig allein, so daß ihm recht Angst ward und fing an zu
laufen und zu laufen über die spitzen Steine, und durch die Dornen den ganzen Tag: endlich, als die Sonne
untergehen wollte, kam es zu einem kleinen Häuschen. Das Häuschen gehörte sieben Zwergen, die waren
aber nicht zu Haus, sondern in das Bergwerk gegangen. Sneewittchen ging hinein und fand alles klein, aber
niedlich und reinlich: da stand ein Tischlein mit sieben kleinen Tellern, dabei sieben Löfflein, sieben
Messerlein und Gäblein, sieben Becherlein, und an der Wand standen sieben Bettlein neben einander frisch
gedeckt. Sneewittchen war hungrig und durstig, aß von jedem Tellerlein ein wenig Gemüs und Brod, trank
aus jedem Gläschen einen Tropfen Wein, und weil es so müd war, wollte es sich schlafen legen. Da probirte
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es die sieben Bettlein nach einander, keins war ihm aber recht, bis auf das siebente, in das legte es sich und
schlief ein.
Wie es Nacht war, kamen die sieben Zwerge von ihrer Arbeit heim, und steckten ihre sieben Lichtlein an, da
sahen sie, daß jemand in ihrem Haus gewesen war. Der erste sprach: „wer hat auf meinem Stühlchen
gesessen?“ Der zweite: „wer hat von meinem Tellerchen gegessen?“ Der dritte: „wer hat von meinem
Brödchen genommen?“ Der vierte: „wer hat von meinem Gemüschen gegessen?“ Der fünfte: „wer hat mit
meinem Gäbelchen gestochen?“ Der sechste: „wer hat mit meinem Messerchen geschnitten?“ Der siebente:
„wer hat aus meinem Becherlein getrunken?“ Darnach sah der erste sich um und sagte: „wer hat in mein
Bettchen getreten?“ Der zweite: „ei, in meinem hat auch jemand gelegen?“ und so alle weiter bis zum
siebenten, wie der nach seinem Bettchen sah, da fand er das Sneewittchen darin liegen und schlafen. Da
kamen die Zwerge alle gelaufen, und schrieen vor Verwunderung, und holten ihre sieben Lichtlein herbei,
und betrachteten das Sneewittchen, „ei du mein Gott! ei du mein Gott! riefen sie, was ist das schön!“ Sie
hatten große Freude an ihm, weckten es auch nicht auf, und ließen es in dem Bettlein liegen; der siebente
Zwerg aber schlief bei seinen Gesellen, bei jedem eine Stunde, da war die Nacht herum. Als nun
Sneewittchen aufwachte, fragten sie es, wer es sey und wie es in ihr Haus gekommen wäre, da erzählte es
ihnen, wie seine Mutter es habe wollen umbringen, der Jäger ihm aber das Leben geschenkt, und wie es den
ganzen Tag gelaufen, und endlich zu ihrem Häuslein gekommen sey. Da hatten die Zwerge Mitleiden und
sagten: „wenn du unsern Haushalt versehen, und kochen, nähen, betten, waschen und stricken willst, auch
alles ordentlich und reinlich halten, sollst du bei uns bleiben und soll dir an nichts fehlen; Abends kommen
wir nach Haus, da muß das Essen fertig seyn, am Tage aber sind wir im Bergwerk und graben Gold, da bist
du allein; hüt dich nur vor der Königin und laß niemand herein.“
Die Königin aber glaubte, sie sey wieder die allerschönste im Land, trat Morgens vor den Spiegel und fragte:
„Spieglein, Spieglein an der Wand:
wer ist die schönste Frau in dem ganzen Land?“
da antwortete der Spiegel aber wieder:
„Frau Königin, Ihr seyd die schönste hier:
aber Sneewittchen, über den sieben Bergen ist
noch tausendmal schöner als Ihr!“
wie die Königin das hörte erschrack sie und sah wohl, daß sie betrogen worden und der Jäger Sneewittchen
nicht getödtet hatte. Weil aber niemand, als die sieben Zwerglein in den sieben Bergen war, da wußte sie
gleich, daß es sich zu diesen gerettet hatte, und nun sann sie von neuem nach, wie sie es umbringen könnte,
denn so lang der Spiegel nicht sagte, sie wär die schönste Frau im ganzen Land, hatte sie keine Ruh. Da war
ihr alles nicht sicher und gewiß genug, und sie verkleidete sich selber in eine alte Krämerin, färbte ihr
Gesicht, daß sie auch kein Mensch erkannte, und ging hinaus vor das Zwergenhaus. Sie klopfte an die Thür
und rief: „macht auf, macht auf, ich bin die alte Krämerin, die gute Waare feil hat.“ Sneewittchen guckte aus
dem Fenster: „was habt ihr denn?“ – „Schnürriemen, liebes Kind,“ sagte die Alte, und holte einen hervor, der
war von gelber, rother und blauer Seide geflochten: „willst du den haben?“ – Ei ja, sprach Sneewittchen, und
dachte die gute alte Frau kann ich wohl hereinlassen, die meints redlich; riegelte also die Thüre auf und
handelte sich den Schnürriemen. „Aber wie bist du so schlampisch geschnürt, sagte die Alte, komm ich will
dich einmal besser schnüren.“ Sneewittchen stellte sich vor sie, da nahm sie den Schnürriemen und schnürte
und schnürte es so fest, daß ihm der Athem verging, und es für todt hinfiel. Darnach war sie zufrieden und
ging fort.
Bald darauf ward es Nacht, da kamen die sieben Zwerge nach Haus, die erschracken recht, als sie ihr liebes
Sneewittchen auf der Erde liegen fanden, als wär es todt. Sie hoben es in die Höhe, da sahen sie, daß es so
fest geschnürt war, schnitten den Schnürriemen entzwei, da athmete es erst, und dann ward es wieder
lebendig. „Das ist niemand gewesen, als die Königin, sprachen sie, die hat dir das Leben nehmen wollen,
hüte dich und laß keinen Menschen mehr herein.“
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Die Königin aber fragte ihren Spiegel:
„Spieglein, Spieglein an der Wand:
wer ist die schönste Frau in dem ganzen Land?“
der Spiegel antwortete:
„Frau Königin, Ihr seyd die schönste hier,
aber Sneewittchen bei den sieben Zwergelchen
ist tausendmal schöner als Ihr.“
Sie erschrack, daß das Blut ihr all zum Herzen lief, da sie sah, daß Sneewittchen wieder lebendig geworden
war. Darnach sann sie den ganzen Tag und die Nacht, wie sie es doch noch fangen wollte, und machte einen
giftigen Kamm, verkleidete sich in eine ganz andere Gestalt, und ging wieder hinaus. Sie klopfte an die Thür,
Sneewittchen aber rief: „ich darf niemand hereinlassen;“ da zog sie den Kamm hervor, und als Sneewittchen
den blinken sah und es auch jemand ganz fremdes war, so machte es doch auf, und kaufte ihr den Kamm ab.
„Komm ich will dich auch kämmen,“ sagte die Krämerin, kaum aber stack der Kamm dem Sneewittchen in
den Haaren, da fiel es nieder und war todt. „Nun wirst du liegen bleiben,“ sagte die Königin, und ihr Herz
war ihr leicht geworden, und sie ging heim. Die Zwerge aber kamen zu rechter Zeit, sahen was geschehen,
und zogen den giftigen Kamm aus den Haaren, da schlug Sneewittchen die Augen auf, und war wieder
lebendig, und versprach den Zwergen, es wollte gewiß niemand mehr einlassen.
Die Königin aber stellte sich vor ihren Spiegel:
„Spieglein, Spieglein an der Wand:
wer ist die schönste Frau in dem ganzen Land!“
der Spiegel antwortete:
„Frau Königin, Ihr seyd die schönste hier,
aber Sneewittchen, bei den sieben Zwergelchen
ist tausendmal schöner als Ihr!“
Wie das die Königin wieder hörte, zitterte und bebte sie vor Zorn: „so soll das Sneewittchen noch sterben,
und wenn es mein Leben kostet!“ Dann ging sie in ihre heimlichste Stube, und niemand durfte vor sie
kommen, und da machte sie einen giftigen, giftigen Apfel, äußerlich war er schön und rothbäckig, und jeder
der ihn sah, bekam Lust dazu. Darauf verkleidete sie sich als Bauersfrau, ging vor das Zwerghaus und klopfte
an. Sneewittchen guckte und sagte: „ich darf keinen Menschen einlassen, die Zwerge haben mirs bei Leibe
verboten.“ „Nun, wenn Ihr nicht wollt, sagte die Bäuerin, kann ich euch nicht zwingen, meine Aepfel will ich
schon los werden, da, einen will ich euch zur Probe schenken.“ – „Nein, ich darf auch nichts geschenkt
nehmen, die Zwerge wollens nicht haben.“ – „Ihr mögt Euch wohl fürchten, da will ich den Apfel entzwei
schneiden und die Hälfte essen, da den schönen rothen Backen sollt Ihr haben;“ der Apfel war aber so
künstlich gemacht, daß nur die rothe Hälfte vergiftet war. Da sah Sneewittchen, daß die Bäuerin selber davon
aß, und sein Gelüsten darnach ward immer größer, da ließ es sich endlich die andere Hälfte durchs Fenster
reichen, und biß hinein, kaum aber hatte es einen Bissen im Mund, so fiel es todt zur Erde.
Die Königin aber freute sich, ging nach Haus und fragte den Spiegel:
„Spieglein, Spieglein an der Wand:
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wer ist die schönste Frau in dem ganzen Land?“
da antworte er:
„Ihr, Frau Königin, seyd die schönste Frau im Land!“
„Nun hab ich Ruhe“ sprach sie, „da ich wieder die schönste im Lande bin, und Sneewittchen wird diesmal
wohl todt bleiben.“
Die Zwerglein kamen Abends aus den Bergwerken nach Haus, da lag das liebe Sneewittchen auf dem Boden
und war todt. Sie schnürten es auf, und sahen, ob sie nichts giftiges in seinen Haaren fänden, es half aber
alles nichts, sie konnten es nicht wieder lebendig machen. Sie legten es auf eine Bahre, setzten sich alle
sieben daran, weinten und weinten drei Tage lang, dann wollten sie es begraben, da sahen sie aber daß es
noch frisch und gar nicht wie ein Todter aussah, und daß es auch seine schönen rothen Backen noch hatte. Da
ließen sie einen Sarg von Glas machen, legten es hinein, daß man es recht sehen konnte, schrieben auch mit
goldenen Buchstaben seinen Namen darauf und seine Abstammung, und einer blieb jeden Tag zu Haus und
bewachte es.
So lag Sneewittchen lange, lange Zeit in dem Sarg und verweste nicht, war noch so weiß als Schnee, und so
roth als Blut, und wenns die Aeuglein hätte können aufthun, wären sie so schwarz gewesen wie Ebenholz,
denn es lag da, als wenn es schlief. Einmal kam ein junger Prinz zu dem Zwergenhaus und wollte darin
übernachten, und wie er in die Stube kam und Sneewittchen in dem Glassarg liegen sah, auf das die sieben
Lichtlein so recht ihren Schein warfen, konnt er sich nicht satt an seiner Schönheit sehen, und las die goldene
Inschrift und sah, daß es eine Königstochter war. Da bat er die Zwerglein, sie sollten ihm den Sarg mit dem
todten Sneewittchen verkaufen, die wollten aber um alles Gold nicht; da bat er sie, sie mögten es ihm
schenken, er könne nicht leben ohne es zu sehen, und er wolle es so hoch halten und ehren, wie sein Liebstes
auf der Welt. Da waren die Zwerglein mitleidig und gaben ihm den Sarg, der Prinz aber ließ ihn in sein
Schloß tragen, und ließ ihn in seine Stube setzen, er selber saß den ganzen Tag dabei, und konnte die Augen
nicht abwenden; und wenn er aus mußte gehen und konnte Sneewittchen nicht sehen, ward er traurig, und er
konnte auch keinen Bissen essen, wenn der Sarg nicht neben ihm stand. Die Diener aber, die beständig den
Sarg herumtragen mußten, waren bös darüber, und einer machte einmal den Sarg auf, hob Sneewittchen in
die Höh und sagte: „um so eines todten Mädchens willen, werden wir den ganzen Tag geplagt,“ und gab ihm
mit der Hand einen Stumpf in den Rücken. Da fuhr ihm der garstige Apfelgrütz, den es abgebissen hatte, aus
dem Hals, und da war Sneewittchen wieder lebendig. Da ging es hin zu dem Prinzen, der wußte gar nicht,
was er vor Freuden thun sollte, als sein liebes Sneewittchen lebendig war, und sie setzten sich zusammen an
die Tafel und aßen in Freuden.
Auf den andern Tag ward die Hochzeit bestellt, und Sneewittchens gottlose Mutter, auch eingeladen. Wie sie
nun am Morgen vor dem Spiegel trat und sprach:
„Spieglein, Spieglein an der Wand:
wer ist die schönste Frau in dem ganzen Land!“
da antwortete er:
„Frau Königin, Ihr seyd die schönste hier,
aber die junge Königin ist tausendmal schöner als Ihr!“
Als sie das hörte, erschrack sie, und es war ihr so Angst, so Angst, daß sie es nicht sagen konnte. Doch trieb
sie der Neid, daß sie auf der Hochzeit die junge Königin sehen wollte, und wie sie ankam, sah sie, daß es
Sneewittchen war; da waren eiserne Pantoffeln im Feuer glühend gemacht, die mußte sie anziehen und darin
tanzen, und ihre Füße wurden jämmerlich verbrannt, und sie durfte nicht aufhören bis sie sich zu todt getanzt
hatte.
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Sneewittchen (1819)
Es war einmal mitten im Winter und die Schneeflocken fielen wie Federn vom Himmel herab, da saß eine
Königin an einem Fenster, das einen Rahmen von schwarzem Ebenholz hatte, und nähte. Und wie sie so
nähte und nach dem Schnee aufblickte, stach sie sich mit der Nadel in den Finger und es fielen drei Tropfen
Blut in den Schnee. Und weil das Rothe im weißen Schnee so schön aussah, dachte sie bei sich: „hätt’ ich ein
Kind so weiß wie Schnee, so roth wie Blut und so schwarz wie der Rahmen!“ Bald darauf bekam sie ein
Töchterlein, das war so weiß wie Schnee, so roth wie Blut, und so schwarzhaarig wie Ebenholz und wurde
darum das Sneewittchen (Schneeweißchen) genannt. Und wie das Kind geboren war, starb die Königin.
Ueber ein Jahr nahm sich der König eine andere Gemahlin, sie war eine schöne Frau, aber stolz auf ihre
Schönheit, und konnte nicht leiden, daß sie von jemand darin sollte übertroffen werden. Sie hatte einen
wunderbaren Spiegel, wenn sie vor den trat und sich darin beschaute, sprach sie:
„Spieglein, Spieglein an der Wand:
wer ist die schönste im ganzen Land?“
so antwortete er:
„Ihr, Frau Königin, seyd die schönste im Land.“
Da war sie zufrieden, denn sie wußte, daß der Spiegel die Wahrheit sagte.
Sneewittchen aber wuchs heran und wurde immer schöner, und als es sieben Jahr alt war, war es so schön,
wie der klare Tag und schöner als die Königin selbst. Wie diese nun ihren Spiegel wieder fragte:
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
wer ist die schönste im ganzen Land?“
antwortete er:
„Frau Königin, ihr seyd die schönste hier,
aber Sneewittchen ist tausendmal schöner als ihr.“
Als die Königin das hörte, erschrak sie und ward blaß vor Zorn und Neid. Von Stund an, wenn sie
Sneewittchen erblickte, kehrte sich ihr das Herz im Leibe herum, so haßte sie es. Und der Neid und
Hochmuth wuchsen und wurden so groß in ihr, daß sie ihr Tag und Nacht keine Ruh mehr ließen. Da rief sie
einen Jäger und sprach: „führ das Kind hinaus in den wilden Wald, ich wills nicht mehr vor meinen Augen
sehen. Dort sollst du’s tödten, und mir Lung und Leber zum Wahrzeichen mitbringen.“ Der Jäger gehorchte
und führte Sneewittchen hinaus, als er nun den Hirschfänger gezogen hatte und ihm sein unschuldiges Herz
durchstoßen wollte, fing es an zu weinen und sprach: „ach, lieber Jäger, schenk mir mein Leben; ich will in
den Wald laufen und nimmermehr wieder heim kommen.“ Und weil es so schön war, hatte der Jäger
Mitleiden und sprach: „so lauf hin, du armes Kind.“ Die wilden Thiere werden dich bald gefressen haben,
dachte er, und doch wars ihm, als wär ein Stein von seinem Herzen gewälzt, weil er es nicht zu tödten
brauchte. Und weil gerade ein junger Frischling daher gesprungen kam, stach er ihn ab, nahm Lung und
Leber heraus, und brachte sie als Wahrzeichen der Königin mit. Die ließ sie in ihrer Gier gleich in Salz
kochen, aß sie auf und meinte, sie hätte Sneewittchens Lunge und Leber gegessen.
Nun war das arme Sneewittchen in dem großen Wald mutterseelig allein und ward ihm so Angst, daß es alle
Blättchen an den Bäumen ansah und dachte, wie es sich helfen und retten sollte. Da fing es an zu laufen und
lief über die spitzen Steine und durch die Dornen, und die wilden Thiere sprangen an ihm vorbei, aber sie
thaten ihm nichts. Es lief, so lang nur die Füße noch fort konnten, bis es bald Abend werden wollte, da sah es
ein kleines Häuschen und ging hinein sich zu ruhen. In dem Häuschen war alles klein, aber so zierlich und
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reinlich, daß es nicht zu sagen ist. Da stand ein weiß gedecktes Tischlein mit sieben kleinen Tellern, jedes
Tellerlein mit seinem Löffelein, ferner sieben Messerlein und Gäblein und sieben Becherlein. An der Wand
waren sieben Bettlein neben einander aufgestellt und schneeweiße Laken darüber. Sneewittchen, weil es so
hungrig und durstig war, aß von jedem Tellerlein ein wenig Gemüs und Brot und trank aus jedem Becherlein
einen Tropfen Wein; denn es wollte nicht einem allein alles wegnehmen. Hernach weil es so müde war, legte
es sich in ein Bettchen, aber keins paßte für es, das eine war zu lang das andere zu kurz, bis endlich das
siebente recht war und darin blieb es liegen, befahl sich Gott und schlief ein.
Als es nun ganz dunkel war, kamen die Herrn von dem Häuslein, das waren sieben Zwerge, die in den
Bergen nach Erz hackten und gruben. Sie zündeten ihre sieben Lichtlein an und wie es nun hell im Häuslein
ward, sahen sie, daß jemand darin gewesen, denn es stand nicht so alles in der Ordnung, wie sie es verlassen
hatten. Der erste sprach: „wer hat auf meinem Stühlchen gesessen?“ der zweite: „wer hat von meinem
Tellerchen gegessen?“ Der dritte: „wer hat von meinem Brötchen genommen?“ Der vierte: „wer hat von
meinem Gemüschen gegessen?“ Der fünfte: wer hat mit meinem Gäbelchen gestochen?“ Der sechste: „wer
hat mit meinem Messerchen geschnitten?“ Der siebente: „wer hat aus meinem Becherlein getrunken?“ Dann
sah sich der erste um und sah, daß auf seinem Bett eine kleine Dälle war, da sprach er: „wer hat in mein
Bettchen getreten?“ Die andern kamen gelaufen und riefen: „ei! in meinem hat auch jemand gelegen!“ Der
siebente aber, als der in sein Bett sah, erblickte er Sneewittchen, das lag darin und schlief. Nun rief er die
andern, die kamen herbeigelaufen und schrien vor Verwunderung, holten ihre sieben Lichtlein und
beleuchteten das Sneewittchen. „Ei du mein Gott! ei du mein Gott! riefen sie, was ist das Kind schön!“ und
hatten so große Freude, daß sie es nicht aufweckten, sondern im Bettlein fortschlafen ließen. Der siebente
Zwerg aber schlief bei seinen Gesellen, bei jedem eine Stunde, da war die Nacht herum.
Als es Morgen war, erwachte Sneewittchen und wie es die sieben Zwerge sah, erschrak es. Sie waren aber
freundlich und fragten: „wie heißt du?“ „Ich heiße Sneewittchen,“ antwortete es. „Wie bist du in unser Haus
gekommen?“ sprachen weiter die Zwerge. Da erzählte es ihnen, wie es seine Stiefmutter hätte wollen
umbringen, der Jäger ihm aber das Leben geschenkt, und da wär es gelaufen den ganzen Tag bis es endlich
ihr Häuslein gefunden. Die Zwerge sprachen: „willst du unsern Haushalt versehen: kochen, betten, waschen,
nähen und stricken, und willst du alles ordentlich und reinlich halten, so kannst du bei uns bleiben und es soll
dir an nichts fehlen.“ Das versprach ihnen Sneewittchen. Da hielt es ihnen Haus, Morgens gingen sie in die
Berge und suchten Erz und Gold, Abends kamen sie nach Haus und da mußte ihr Essen bereitet seyn. Den
Tag über war das Mädchen allein, da warnten es die guten Zwerglein und sprachen: „hüt dich vor deiner
Stiefmutter, die wird bald wissen daß du hier bist, und laß niemand herein.“
Die Königin aber, nachdem sie Sneewittchens Lunge und Leber glaubte gegessen zu haben, dachte nicht
anders, als wieder die erste und allerschönste zu seyn, und trat vor ihren Spiegel und sprach:
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
wer ist die schönste im ganzen Land?“
da antwortete der Spiegel:
„Frau Königin, ihr seyd die schönste hier;
aber Sneewittchen über den Bergen
bei den sieben Zwergen
ist noch tausendmal schöner als ihr!“
Da erschrak sie, denn sie wußte, daß der Spiegel keine Unwahrheit sprach und merkte, daß der Jäger sie
betrogen hatte und Sneewittchen noch im Leben war. Und da sie hörte, daß es über den sieben Bergen bei
den sieben Zwergen war, sann sie aufs neue, wie sie es umbringen wollte, denn so lange sie nicht die
schönste war im ganzen Land, ließ ihr der Neid keine Ruhe. Und als sie lange nachgedacht hatte, färbte sie
sich das Gesicht und kleidete sich wie eine alte Krämerin an und war ganz unkenntlich. In dieser Gestalt ging
sie über die sieben Berge hinaus zu dem Zwergenhaus, klopfte an die Thüre und rief: „gute Waare feil! feil!“
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Sneewittchen guckte zum Fenster heraus und rief: „Guten Tag, liebe Frau, was habt ihr denn zu verkaufen?“
„Gute Waare, schöne Waare, antwortete sie, Schnürriemen von allen Farben,“ dabei holte sie einen buntigen
von Seide hervor und zeigte ihn. Die gute Frau kann ich herein lassen, dachte Sneewittchen, die meints
redlich: riegelte die Thüre auf und kaufte sich den bunten Schnürriemen. „Wart, Kind, sprach die Alte, wie
bist du geschnürt! komm, ich will dich einmal ordentlich schnüren.“ Sneewittchen dachte an nichts böses,
stellte sich vor sie und ließ sich mit dem neuen Schnürriemen schnüren; aber die Alte schnürte mit schnellen
Fingern und schnürte so fest, daß dem Sneewittchen der Athem verging und es für todt hinfiel. „Nun ists aus
mit deiner Schönheit,“ sprach das böse Weib und ging fort.
Nicht lange darauf, zur Abendzeit, kamen die sieben Zwerge nach Haus, aber wie erschraken sie, als sie ihr
liebes Sneewittchen auf der Erde liegen fanden, das sich nicht regte und nicht bewegte, als wär es todt! Sie
hoben es in die Höhe, da sahen sie, daß es zu fest geschnürt war und schnitten den Schnürriemen entzwei: da
fing es an ein wenig zu athmen und ward nach und nach wieder lebendig. Als die Zwerge von ihm hörten,
was geschehen war, sprachen sie: „die alte Krämerfrau war niemand als die Königin, hüt dich und laß keinen
Menschen herein, wenn wir nicht bei dir sind.“
Das böse Weib aber, als es nach Haus gekommen war, ging vor den Spiegel und fragte:
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
Wer ist die schönste im ganzen Land?“
Da antwortete er:
„Frau Königin, ihr seyd die schönste hier;
aber Sneewittchen über den Bergen
bei den sieben Zwergen
ist noch tausendmal schöner als ihr.“
Als sie das hörte, lief ihr das Blut all zum Herzen, so erschrak sie, denn sie sah, daß Sneewittchen doch
wieder lebendig geworden war. Nun sann sie aufs neue, was sie anfangen wollte, um es zu tödten, und
machte einen giftigen Kamm. Dann verkleidete sie sich und nahm wieder die Gestalt einer armen Frau, aber
einer ganz anderen, an. So ging sie hinaus über die sieben Berge zum Zwergenhaus, klopfte an die Thüre und
rief: „gute Waare feil! feil!“ Sneewittchen schaute heraus und sprach: „ich darf niemand hereinlassen.“ Die
Alte aber rief: „sieh einmal die schönen Kämme,“ zog den giftigen heraus und zeigte ihn. Der gefiel dem
Kind so gut, daß es sich bethören ließ und die Thür öffnete. Als es den Kamm gekauft hatte, sprach die Alte:
„nun will ich dich auch kämmen.“ Sneewittchen dachte an nichts böses, aber die Alte steckte ihm den Kamm
in die Haare, alsbald wirkte das Gift darin so heftig, daß es todt niederfiel. „Nun wirst du liegen bleiben“
sprach sie und ging fort. Zum Glück aber war es bald Abend, wo die sieben Zwerglein nach Haus kamen; als
sie das Sneewittchen wie todt auf der Erde liegen sahen, dachten sie gleich, die böse Stiefmutter hätte es
wieder umbringen wollen, suchten und fanden den giftigen Kamm; und wie sie ihn herausgezogen, kam es
wieder zu sich und erzählte ihnen, was vorgegangen war. Da warnten sie es noch einmal auf seiner Hut zu
seyn und niemand die Thüre zu öffnen.
Die Königin aber stellte sich daheim vor den Spiegel und sprach:
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
Wer ist die schönste im ganzen Land?“
Da antwortete er, wie vorher:
„Frau Königin, ihr seyd die schönste hier;
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aber Sneewittchen über den Bergen
bei den sieben Zwergen
ist noch tausendmal schöner als ihr.“
Bei diesen Worten zitterte und bebte sie vor Zorn und sprach: „so soll das Sneewittchen noch sterben und
wenn es mein Leben kostet!“ Darauf ging sie in eine ganz verborgene einsame Kammer, wo niemand
hinkam, und machte da einen giftigen, giftigen Apfel. Aeußerlich sah er schön aus mit rothen Backen, daß
jeder, der ihn erblickte, eine Lust darnach bekam, aber wer ein Stückchen davon aß, der mußte sterben. Als
der Apfel fertig war, färbte sie sich das Gesicht und verkleidete sich in eine Bauersfrau und so ging sie über
die sieben Berge zu dem Zwergenhaus und klopfte an. Sneewittchen streckte den Kopf zum Fenster heraus
und sprach: „ich darf keinen Menschen einlassen, die Zwerge haben mir’s verboten.“ „Nun wenn du nicht
willst, antwortete die Bäurin, so ists auch gut; meine Aepfel will ich schon los werden. Da, einen will ich dir
schenken.“ „Nein, sprach Sneewittchen, ich darf nichts annehmen.“ „Ei, du fürchtest dich wohl vor Gift; da,
den rothen Backen beiß du ab, ich will den weißen essen,“ sprach die Alte. Der Apfel war aber so künstlich
gemacht, daß der rothe Backen nur vergiftet war. Sneewittchen lusterte den schönen Apfel an und als es sah,
daß die Bäurin davon aß, so konnte es nicht länger widerstehen, streckte die Hand hinaus und ließ ihn sich
geben. Kaum aber hatte es einen Bissen davon im Mund, so fiel es todt zur Erde nieder. Da sprach die
Königin: „diesmal wird dich niemand erwecken,“ ging heim und fragte den Spiegel:
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
wer ist die schönste im ganzen Land?“
Da antwortete der Spiegel endlich:
„Ihr, Frau Königin, seyd die schönste im Land.“
und ihr neidisches Herz hatte Ruhe, so gut es Ruhe haben konnte.
Die Zwerglein, wie sie Abends nach Haus kamen, fanden sie das Sneewittchen auf der Erde liegen, und regte
sich kein Athem mehr und es war todt. Sie hoben es auf, suchten ob sie was giftiges fänden, schnürten es auf,
kämmten ihm die Haare, wuschen es mit Wasser und Wein, aber es half alles nichts, das liebe Kind war todt
und blieb todt. Sie legten es darauf in eine Bahre und setzten sich alle siebene daran und beweinten es und
weinten drei Tage lang. Da wollten sie es begraben, aber es sah noch frisch aus wie ein lebender Mensch und
hatte noch seine schönen rothen Backen und sie sprachen: „das können wir nicht in die schwarze Erde
versenken.“ Sie ließen einen Sarg von Glas machen, daß man es recht sehen könnte, legten es hinein und
schrieben mit goldenen Buchstaben seinen Namen darauf und daß es eine Königstochter wäre. Dann setzten
sie den Sarg hinaus auf den Berg und einer von ihnen blieb immer dabei und bewachte ihn. Und die Thiere
kamen auch und beweinten das Sneewittchen, erst eine Eule, dann eine Rabe, zuletzt ein Täubchen.
Nun lag Sneewittchen lange, lange Zeit in dem Sarg und verweste nicht, sondern sah noch aus als wenn es
lebte und da schlief, denn es war noch so weiß als Schnee, so roth als Blut und so schwarzhaarig wie
Ebenholz. Es geschah aber, daß ein Königssohn in den Wald gerieth und zu dem Zwergenhaus kam, da zu
übernachten. Der sah auf dem Berg den Sarg und Sneewittchen darin und las, was mit goldenen Buchstaben
darauf geschrieben war. Da sprach er zu den Zwergen: „laßt mir den Sarg, ich will euch geben, was ihr dafür
haben wollt.“ Aber die Zwerge antworteten: „wir geben ihn nicht um alles Gold in der Welt.“ Da sprach er:
„so schenkt mir ihn, denn ich kann nicht leben, ohne Sneewittchen zu sehen, ich will es ehren und
hochhalten, wie mein Liebstes.“ Wie er so sprach, empfanden die guten Zwerglein Mitleiden mit ihm und
gaben ihm den Sarg. Der Königssohn ließ ihn nun von seinen Dienern auf den Schultern forttragen. Da
geschah es, daß sie über einen Strauch stolperten und von dem Schüttern fuhr der giftige Apfelgrütz, den das
Sneewittchen abgebissen hatte, aus dem Hals und es ward wieder lebendig und richtete sich auf. Da sprach
es: „ach Gott! wo bin ich?“ Aber der Königssohn sagte voll Freude: „du bist bei mir“ und erzählte ihm, was
sich zugetragen hatte und sprach: „ich habe dich lieber, als alles auf der Welt, komm mit mir in meines
Vaters Schloß, du sollst meine Gemahlin werden.“ Da war ihm das Sneewittchen gut und ging mit ihm und
zu ihrer Hochzeit ward alles mit großer Pracht und Herrlichkeit angeordnet.
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Zu dem Fest war aber auch Sneewittchens gottlose Stiefmutter eingeladen. Wie sie sich nun mit schönen
Kleidern angethan hatte, trat sie vor den Spiegel und sprach:
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
wer ist die schönste im ganzen Land?“
Da antwortete der Spiegel:
„Frau Königin, ihr seyd die schönste hier,
aber die junge Königin ist tausendmal schöner als ihr!“
Wie das böse Weib das hörte, erschrak sie und ward ihr so angst, so angst, daß sie es nicht sagen konnte. Sie
wollte gar nicht auf die Hochzeit kommen und doch trieb sie der Neid, daß sie die junge Königin sehen
wollte. Und wie sie hineintrat, sah sie, daß es niemand anders, als Sneewittchen war und vor Schrecken
konnte sie sich nicht regen. Aber es standen schon eiserne Pantoffeln über Kohlenfeuer, und wie sie glühten,
wurden sie hereingebracht und sie mußte die feuerrothen Schuhe anziehen und darin tanzen, daß ihr die Füße
jämmerlich verbrannt wurden, und ehr durfte sie nicht aufhören, als bis sie sich zu todt getanzt hatte.
Snow – drop (1823)
It was in the middle of winter, when the broad flakes of snow were falling around, that a certain queen sat
working at the window, the frame of which was made of fine black ebony; and as she was looking out upon
the snow, she pricked her finger, and three drops of blood fell upon it. Then she gazed thoughtfully upon the
red drops which sprinkled the white snow, and said, “Would that my little daughter may be as white as snow,
as red as the blood, and as black as the ebony window – frame!”
And so the little girl grew up: her skin was as white as snow, her cheeks as rosy as the blood, and her hair as
black as ebony; and she was called Snow – drop.
But this queen died; and the king soon married another wife, who was very beautiful, but so proud that she
could not bear to think that any one could surpass her. She had a magical looking – glass, to which she used
to go and gaze upon herself in it, and say,
“Tell me, glass, tell me true!
Of all the ladies in the land,
Who is the fairest? tell me who?”
And the glass answered,
“Thou, queen, art fairest in the land.”
But Snow – drop grew more and more beautiful; and when she was seven years old, she was as bright as the
day, and fairer than the queen herself. Then the glass one day answered the queen, when she went to consult
it as usual,
“Thou, queen, may’st fair and beauteous be,
But Snow – drop is lovelier fair than thee!”
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When she heard this, she turned pale with rage and envy; and called to one of her servants and said, “Take
Snow – drop away into the wide wood, that I may never see her more.”
Then the servant led her away; but his heart melted when she begged him to spare her life, and he said, “I
will not hurt thee, thou pretty child.” So he left her by herself; and though he thought it most likely that the
wild beasts would tear her in pieces, he felt as if a great weight were taken off his heart when he had made up
his mind not to kill her, but leave her to her fate.
Then poor Snow – drop wandered along through the wood in great fear; and the wild beasts roared about her,
but none did her any harm. In the evening she came to a little cottage, and went in there to rest herself, for her
feet would carry her no further. Every thing was spruce and neat in the cottage: on the table was spread a
white cloth, and there were seven little plates with seven little loaves, and seven little glasses with wine in
them; and knives and forks laid in order; and by the wall stood seven little beds. Then, as she was very
hungry, she picked a little piece off each loaf, and drank a very little wine out of each glass; and after that she
thought she would lie down and rest. So she tried all the little beds; and one was too long, and another was
too short, till at last the seventh suited her; and there she laid herself down, and went to sleep.
Presently in came the masters of the cottage, who were seven little dwarfs that lived among the mountains,
and dug and searched about for gold. They lighted up their seven lamps, and saw directly that all was not
right. The first said, “Who has been sitting on my stool?” The second, “Who has been eating off my plate?”
The third, “Who has been picking my bread?” The fourth, “Who has been meddling with my spoon?” The
fifth, “Who has been handling my fork?” The sixth, “Who has been cutting with my knife?” The seventh,
“Who has been drinking my wine?” Then the first looked round and said, “Who has been lying on my bed?”
And the rest came running to him, and every one cried out that somebody had been upon his bed. But the
seventh saw Snow – drop, and called all his brethren to come and see her; and they cried out with wonder and
astonishment, and brought their lamps to look at her, and said, “Good heavens! what a lovely child she is!”
And they were delighted to see her, and took care not to wake her; and the seventh dwarf slept an hour with
each of the other dwarfs in turn, till the night was gone.
In the morning, Snow – drop told them all her story; and they pitied her, and said if she would keep all things
in order, and cook and wash, and knit and spin for them, she might stay where she was, and they would take
good care of her. Then they went out all day long to their work, seeking for gold and silver in the mountains;
and Snow – drop remained at home: and they warned her, and said, “The queen will soon find out where you
are, so take care and let no one in.”
But the queen, now that she though Snow – drop was dead, believed that she was certainly the handsomest
lady in the land; and she went to her glass and said,
“Tell me, glass, tell me true!
Of all the ladies in the land,
Who is the fairest? tell me who?”
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And the glass answered,
“Thou, queen, art the fairest in all this land;
But over the hills, in the greenwood shade,
Where the seven dwarfs their dwelling have made,
There Snow – drop is hiding her head, and she
Is lovelier far, O queen! than thee.”
Then the queen was very much alarmed; for she knew that the glass always spoke the truth, and was sure that
the servant had betrayed her. And she could not bear to think that any one lived who was more beautiful than
she was; so she disguised herself as an old pedlar, and went her way over the hills to the place where the
dwarfs dwelt. Then she knocked at the door, and cried “Fine wares to sell!” Snow – drop looked out at the
window, and said, “Good day, good woman; what have you to sell?” “Good wares, fine wares,” said she;
“laces and bobbins of all colours.” “I will let the old lady in; she seems to be a very good sort of body,”
thought Snow – drop; so she ran down, and unbolted the door. “Bless me!” said the old woman, “how badly
your stays are laced! Let me lace them up with one of my nice new laces.” Snow – drop did not dream of any
mischief; so she stood up before the old woman; but she set to work so nimbly, and pulled the lace so tight,
that Snow – drop lost her breath, and fell down as if she were dead. “There’s an end of all thy beauty,” said
the spiteful queen, and went away home.
In the evening the seven dwarfs returned; and I need not say how grieved they were to see their faithful Snow
– drop stretched upon the ground motionless, as if she were quite dead. However, they lifted her up, and
when they found what was the matter, they cut the lace; and in a little time she began to breathe, and soon
came to life again. Then they said, “The old woman was the queen herself; take care another time, and let no
one in when we are away.”
When the queen got home, she went straight to her glass, and spoke to it as usual; but to her great surprise it
still said,
“Thou, queen, art the fairest in all this land;
But over the hills, in the greenwood shade,
Where the seven dwarfs their dwelling have made,
There Snow – drop is hiding her head, and she
Is lovelier far, O queen! than thee.”
Then the blood ran cold in her heart with spite and malice to see that Snow – drop still lived; and she dressed
herself up again in a disguise, but very different from the one she wore before, and took with her a poisoned
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comb. When she reached the dwarfs’ cottage, she knocked at the door, and cried “Fine wares to sell!” But
Snow – drop said, “I dare not let any one in.” Then the queen said, “Only look at my beautiful combs;” and
gave her the poisoned one. And it looked so pretty that she took it up and put it into her hair to try it; but the
moment it touched her head the poison was so powerful that she fell down senseless. “There you may lie,”
said the queen, and went her way. But by good luck the dwarfs returned very early that evening; and when
they saw Snow – drop lying on the ground, they thought what had happened, and soon found the poisoned
comb. And when they took it away, she recovered, and told them all that had passed; and they warned her
once more not to open the door to any one.
Meantime the queen went home to her glass, and trembled with rage when she received exactly the same
answer as before; and she said, “Snow – drop shall die, if it costs me my life.”
So she went secretly into a chamber, and prepared a poisoned apple: the outside looked very rosy and
tempting, but whoever tasted it was sure to die. Then she dressed herself up as a peasant’s wife, and travelled
over the hills to the dwarfs’ cottage, and knocked at the door; but Snow – drop put her head out of the
window and said, “I dare not let any one in, for the dwarfs have told me not.” “Do as you please,” said the
old woman, “but at any rate take this pretty apple; I will make you a present of it.” “No,” said Snow – drop,
“I dare not take it.” “You silly girl!” answered the other, what are you afraid of? do you think it is poisoned?
Come! do you eat one part, and I will eat the other.” Now the apple was so prepared that one side was good,
though the other side was poisoned. Then Snow – drop was very much tempted to taste, for the apple looked
exceedingly nice; and when she saw the old woman eat, she could refrain no longer. But she had scarcely put
the piece into her mouth, when she fell down dead upon the ground. “This time nothing will save thee,” said
the queen; and she went home to her glass, and at last it said
“Thou, queen, art the fairest of all the fair.”
And then her envious heart was glad, and as happy as such a heart could be.
When evening came, and the dwarfs returned home, they found Snow – drop lying on the ground: no breath
passed her lips, and they were afraid that she was quite dead. They lifted her up, and combed her hair, and
washed her face with wine; but all was in vain, for the little girl seemed quite dead. So they laid her down
upon a bier, and all seven watched and bewailed her three whole days; and then they proposed to bury her;
but her cheeks were still rosy, and her face looked just as it did while she was alive; so they said, “We will
never bury her in the cold ground.” And they made a coffin of glass, so that they might still look at her, and
wrote her name upon it, in golden letters, and that she was a king’s daughter. And the coffin was placed upon
the hill, and one of the dwarfs always sat by and watched. And the birds of the air came too, and bemoaned
Snow – drop: first of all came an owl, and then a raven, but at last came a dove.
And thus Snow – drop lay for a long long time, and still looked as though she were asleep; for she was even
now as white as snow, and as red as blood, and as black as ebony.
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At last a prince came and called at the dwarfs’ house ; and he saw Snow – drop, and read what was written in
golden letters. Then he offered the dwarfs money, and earnestly prayed them to let him take her away; but
they said, “We will not part with her for all the gold in the world.” At last however they had pity on him, and
gave him the coffin: but the moment he lifted it up to carry it home with him, the piece of apple fell from
between her lips, and Snow – drop awoke and said: “Where am I?” And the prince answered, “Thou art safe
with me”. Then he told her all that happened, and said, “I love you better than all the world: come with me to
my father’s palace, and you shall be my wife.” And Snow – drop consented, and went home with the prince;
and every thing was prepared with great pomp and splendour for their wedding.
To the feast was invited, among the rest, Snow – drop’s old enemy the queen; and as she was dressing herself
in fine rich clothes, she looked in the glass, and said,
“Tell me, glass, tell me true!
Of all the ladies in the land,
Who is the fairest? tell me who?”
And the glass answered,
Thou, lady, art loveliest here, I ween;
But lovelier far is the new – made queen.
When she heard this, she started with rage; but her envy and curiosity were so great, that she could not help
setting out to see the bride. And when she arrived, and saw that it was no other than Snow – drop, who, as
she thought, had been dead a long while, she choked with passion, and fell ill and died; but Snow – drop and
the prince lived and reigned happily over that land many many years.
Sneewittchen (1857)
Es war einmal mitten im Winter, und die Schneeflocken fielen wie Federn vom Himmel herab, da saß eine
Königin an einem Fenster, das einen Rahmen von schwarzem Ebenholz hatte, und nähte. Und wie sie so
nähte und nach dem Schnee aufblickte, stach sie sich mit der Nadel in den Finger, und es fielen drei Tropfen
Blut in den Schnee. Und weil das Rothe im weißen Schnee so schön aussah, dachte sie bei sich „hätt ich ein
Kind so weiß wie Schnee, so roth wie Blut, und so schwarz wie das Holz an dem Rahmen.“ Bald darauf
bekam sie ein Töchterlein, das war so weiß wie Schnee, so roth wie Blut, und so schwarzhaarig wie
Ebenholz, und ward darum das Sneewittchen (Schneeweißchen) genannt. Und wie das Kind geboren war,
starb die Königin.
Über ein Jahr nahm sich der König eine andere Gemahlin. Es war eine schöne Frau, aber sie war stolz und
übermüthig, und konnte nicht leiden daß sie an Schönheit von jemand sollte übertroffen werden. Sie hatte
einen wunderbaren Spiegel, wenn sie vor den trat und sich darin beschaute, sprach sie
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
wer ist die schönste im ganzen Land?“
so antwortete der Spiegel
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„Frau Königin, ihr seid die schönste im Land.“
Da war sie zufrieden, denn sie wußte daß der Spiegel die Wahrheit sagte.
Sneewittchen aber wuchs heran, und wurde immer schöner, und als es sieben Jahr alt war, war es so schön,
wie der klare Tag, und schöner als die Königin selbst. Als diese einmal ihren Spiegel fragte
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
wer ist die schönste im ganzen Land?“
so antwortete er
„Frau Königin, ihr seid die schönste hier,
aber Sneewittchen ist tausendmal schöner als ihr.“
Da erschrack die Königin, und ward gelb und grün vor Neid. Von Stund an, wenn sie Sneewittchen erblickte,
kehrte sich ihr das Herz im Leibe herum, so haßte sie das Mädchen. Und der Neid und Hochmuth wuchsen
wie ein Unkraut in ihrem Herzen immer höher, daß sie Tag und Nacht keine Ruhe mehr hatte. Da rief sie
einen Jäger und sprach „bring das Kind hinaus in den Wald, ich wills nicht mehr vor meinen Augen sehen.
Du sollst es tödten, und mir Lunge und Leber zum Wahrzeichen mitbringen.“ Der Jäger gehorchte und führte
es hinaus, und als er den Hirschfänger gezogen hatte und Sneewittchens unschuldiges Herz durchbohren
wollte, fieng es an zu weinen und sprach „ach, lieber Jäger, laß mir mein Leben; ich will in den wilden Wald
laufen und nimmermehr wieder heim kommen.“ Und weil es so schön war, hatte der Jäger Mitleiden und
sprach „so lauf hin, du armes Kind.“ „Die wilden Thiere werden dich bald gefressen haben“ dachte er, und
doch wars ihm als wär ein Stein von seinem Herzen gewälzt, weil er es nicht zu tödten brauchte. Und als
gerade ein junger Frischling daher gesprungen kam, stach er ihn ab, nahm Lunge und Leber heraus, und
brachte sie als Wahrzeichen der Königin mit. Der Koch mußte sie in Salz kochen, und das boshafte Weib aß
sie auf und meinte sie hätte Sneewittchens Lunge und Leber gegessen.
Nun war das arme Kind in dem großen Wald mutterseelig allein, und ward ihm so angst, daß es alle Blätter
an den Bäumen ansah und nicht wußte wie es sich helfen sollte. Da fieng es an zu laufen und lief über die
spitzen Steine und durch die Dornen, und die wilden Thiere sprangen an ihm vorbei, aber sie thaten ihm
nichts. Es lief so lange nur die Füße noch fort konnten, bis es bald Abend werden wollte, da sah es ein kleines
Häuschen und gieng hinein sich zu ruhen. In dem Häuschen war alles klein, aber so zierlich und reinlich, daß
es nicht zu sagen ist. Da stand ein weiß gedecktes Tischlein mit sieben kleinen Tellern, jedes Tellerlein mit
seinem Löffelein, ferner sieben Messerlein und Gäblein, und sieben Becherlein. An der Wand waren sieben
Bettlein neben einander aufgestellt und schneeweiße Laken darüber gedeckt. Sneewittchen, weil es so
hungrig und durstig war, aß von jedem Tellerlein ein wenig Gemüs und Brot, und trank aus jedem Becherlein
einen Tropfen Wein; denn es wollte nicht einem allein alles wegnehmen. Hernach, weil es so müde war, legte
es sich in ein Bettchen, aber keins paßte; das eine war zu lang, das andere zu kurz, bis endlich das siebente
recht war: und darin blieb es liegen, befahl sich Gott und schlief ein.
Als es ganz dunkel geworden war, kamen die Herren von dem Häuslein, das waren die sieben Zwerge, die in
den Bergen nach Erz hackten und gruben. Sie zündeten ihre sieben Lichtlein an, und wie es nun hell im
Häuslein ward, sahen sie daß jemand darin gewesen war, denn es stand nicht alles so in der Ordnung, wie sie
es verlassen hatten. Der erste sprach „wer hat auf meinem Stühlchen gesessen?“ Der zweite „wer hat von
meinem Tellerchen gegessen?“ Der dritte „wer hat von meinem Brötchen genommen?“ Der vierte „wer hat
von meinem Gemüschen gegessen?“ Der fünfte „wer hat mit meinem Gäbelchen gestochen?“ Der sechste
„wer hat mit meinem Messerchen geschnitten?“ Der siebente „wer hat aus meinem Becherlein getrunken?“
Dann sah sich der erste um und sah daß auf seinem Bett eine kleine Dälle war, da sprach er „wer hat in mein
Bettchen getreten?“ Die andern kamen gelaufen und riefen „in meinem hat auch jemand gelegen.“ Der
siebente aber, als er in sein Bett sah, erblickte Sneewittchen, das lag darin und schlief. Nun rief er die andern,
die kamen herbeigelaufen, und schrien vor Verwunderung, holten ihre sieben Lichtlein, und beleuchteten
Sneewittchen. „Ei, du mein Gott! ei, du mein Gott!“ riefen sie, „was ist das Kind so schön!“ und hatten so
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große Freude, daß sie es nicht aufweckten, sondern im Bettlein fortschlafen ließen. Der siebente Zwerg aber
schlief bei seinen Gesellen, bei jedem eine Stunde, da war die Nacht herum.
Als es Morgen war, erwachte Sneewittchen, und wie es die sieben Zwerge sah, erschrack es. Sie waren aber
freundlich und fragten „wie heißt du?“ „Ich heiße Sneewittchen,“ antwortete es. „Wie bist du in unser Haus
gekommen?“ sprachen weiter die Zwerge. Da erzählte es ihnen daß seine Stiefmutter es hätte wollen
umbringen lassen, der Jäger hätte ihm aber das Leben geschenkt, und da wär es gelaufen den ganzen Tag, bis
es endlich ihr Häuslein gefunden hätte. Die Zwerge sprachen „willst du unsern Haushalt versehen, kochen,
betten, waschen, nähen und stricken, und willst du alles ordentlich und reinlich halten, so kannst du bei uns
bleiben, und es soll dir an nichts fehlen.“ „Ja,“ sagte Sneewittchen, „von Herzen gern,“ und blieb bei ihnen.
Es hielt ihnen das Haus in Ordnung: Morgens giengen sie in die Berge und suchten Erz und Gold, Abends
kamen sie wieder, und da mußte ihr Essen bereit sein. Den Tag über war das Mädchen allein, da warnten es
die guten Zwerglein und sprachen „hüte dich vor deiner Stiefmutter, die wird bald wissen daß du hier bist;
laß ja niemand herein.“
Die Königin aber, nachdem sie Sneewittchens Lunge und Leber glaubte gegessen zu haben, dachte nicht
anders als sie wäre wieder die erste und allerschönste, trat vor ihren Spiegel und sprach
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
wer ist die schönste im ganzen Land?“
Da antwortete der Spiegel
„Frau Königin, ihr seid die schönste hier,
aber Sneewittchen über den Bergen
bei den sieben Zwergen
ist noch tausendmal schöner als ihr.“
Da erschrack sie, denn sie wußte, daß der Spiegel keine Unwahrheit sprach, und merkte daß der Jäger sie
betrogen hatte, und Sneewittchen noch am Leben war. Und da sann und sann sie aufs neue, wie sie es
umbringen wollte; denn so lange sie nicht die schönste war im ganzen Land, ließ ihr der Neid keine Ruhe.
Und als sie sich endlich etwas ausgedacht hatte, färbte sie sich das Gesicht, und kleidete sich wie eine alte
Krämerin, und war ganz unkenntlich. In dieser Gestalt gieng sie über die sieben Berge zu den sieben
Zwergen, klopfte an die Thüre, und rief „schöne Waare feil! feil!“ Sneewittchen guckte zum Fenster heraus
und rief „guten Tag, liebe Frau, was habt ihr zu verkaufen?“ „Gute Waare, schöne Waare,“ antwortete sie,
„Schnürriemen von allen Farben,“ und holte einen hervor, der aus bunter Seide geflochten war. „Die ehrliche
Frau kann ich herein lassen“ dachte Sneewittchen, riegelte die Thüre auf und kaufte sich den hübschen
Schnürriemen. „Kind,“ sprach die Alte, „wie du aussiehst! komm, ich will dich einmal ordentlich schnüren.“
Sneewittchen hatte kein Arg, stellte sich vor sie, und ließ sich mit dem neuen Schnürriemen schnüren: aber
die Alte schnürte geschwind und schnürte so fest, daß dem Sneewittchen der Athem vergieng, und es für todt
hinfiel. „Nun bist du die schönste gewesen“ sprach sie, und eilte hinaus.
Nicht lange darauf, zur Abendzeit, kamen die sieben Zwerge nach Haus, aber wie erschraken sie, als sie ihr
liebes Sneewittchen auf der Erde liegen sahen; und es regte und bewegte sich nicht, als wäre es todt. Sie
hoben es in die Höhe, und weil sie sahen daß es zu fest geschnürt war, schnitten sie den Schnürriemen
entzwei: da fieng es an ein wenig zu athmen, und ward nach und nach wieder lebendig. Als die Zwerge
hörten was geschehen war, sprachen sie, „die alte Krämerfrau war niemand als die gottlose Königin: hüte
dich und laß keinen Menschen herein, wenn wir nicht bei dir sind.“
Das böse Weib aber, als es nach Haus gekommen war, gieng vor den Spiegel und fragte
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
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wer ist die schönste im ganzen Land?“
Da antwortete er wie sonst
„Frau Königin, ihr seid die schönste hier,
aber Sneewittchen über den Bergen
bei den sieben Zwergen
ist noch tausendmal schöner als ihr.“
Als sie das hörte, lief ihr alles Blut zum Herzen, so erschrack sie, denn sie sah wohl daß Sneewittchen wieder
lebendig geworden war. „Nun aber,“ sprach sie, „will ich etwas aussinnen, das dich zu Grunde richten soll,“
und mit Hexenkünsten, die sie verstand, machte sie einen giftigen Kamm. Dann verkleidete sie sich und
nahm die Gestalt eines andern alten Weibes an. So gieng sie hin über die sieben Berge zu den sieben
Zwergen, klopfte an die Thüre, und rief „gute Waare feil! feil!“ Sneewittchen schaute heraus und sprach
„geht nur weiter, ich darf niemand hereinlassen.“ „Das Ansehen wird dir doch erlaubt sein“ sprach die Alte,
zog den giftigen Kamm heraus und hielt ihn in die Höhe. Da gefiel er dem Kinde so gut, daß es sich bethören
ließ und die Thüre öffnete. Als sie des Kaufs einig waren, sprach die Alte „nun will ich dich einmal
ordentlich kämmen.“ Das arme Sneewittchen dachte an nichts, und ließ die Alte gewähren, aber kaum hatte
sie den Kamm in die Haare gesteckt, als das Gift darin wirkte, und das Mädchen ohne Besinnung niederfiel.
„Du Ausbund von Schönheit,“ sprach das boshafte Weib, „jetzt ists um dich geschehen,“ und gieng fort. Zum
Glück aber war es bald Abend, wo die sieben Zwerglein nach Haus kamen. Als sie Sneewittchen wie todt auf
der Erde liegen sahen, hatten sie gleich die Stiefmutter in Verdacht, suchten nach, und fanden den giftigen
Kamm, und kaum hatten sie ihn herausgezogen, so kam Sneewittchen wieder zu sich, und erzählte was
vorgegangen war. Da warnten sie es noch einmal auf seiner Hut zu sein und niemand die Thüre zu öffnen.
Die Königin stellte sich daheim vor den Spiegel und sprach
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
wer ist die schönste im ganzen Land?“
Da antwortete er, wie vorher,
„Frau Königin, ihr seid die schönste hier,
aber Sneewittchen über den Bergen
bei den sieben Zwergen
ist doch noch tausendmal schöner als ihr.“
Als sie den Spiegel so reden hörte, zitterte und bebte sie vor Zorn. „Sneewittchen soll sterben,“ rief sie, „und
wenn es mein eignes Leben kostet.“ Darauf gieng sie in eine ganz verborgene einsame Kammer, wo niemand
hinkam, und machte da einen giftigen giftigen Apfel. Äußerlich sah er schön aus, weiß mit rothen Backen,
daß jeder, der ihn erblickte, Lust danach bekam, aber wer ein Stückchen davon aß, der mußte sterben. Als der
Apfel fertig war, färbte sie sich das Gesicht, und verkleidete sich in eine Bauersfrau, und so gieng sie über
die sieben Berge zu den sieben Zwergen. Sie klopfte an, Sneewittchen streckte den Kopf zum Fenster heraus,
und sprach „ich darf keinen Menschen einlassen, die sieben Zwerge haben mirs verboten.“ „Mir auch recht,“
antwortete die Bäurin, „meine Äpfel will ich schon los werden. Da, einen will ich dir schenken.“ „Nein,“
sprach Sneewittchen, „ich darf nichts annehmen.“ „Fürchtest du dich vor Gift?“ sprach die Alte, „siehst du,
da schneide ich den Apfel in zwei Theile; den rothen Backen iß du, den weißen will ich essen.“ Der Apfel
war aber so künstlich gemacht, daß der rothe Backen allein vergiftet war. Sneewittchen lusterte den schönen
Apfel an, und als es sah, daß die Bäurin davon aß, so konnte es nicht länger widerstehen, streckte die Hand
103
hinaus und nahm die giftige Hälfte. Kaum aber hatte es einen Bissen davon im Mund, so fiel es todt zur Erde
nieder. Da betrachtete es die Königin mit grausigen Blicken und lachte überlaut, und sprach „weiß wie
Schnee, roth wie Blut, schwarz wie Ebenholz! diesmal können dich die Zwerge nicht wieder erwecken.“ Und
als sie daheim den Spiegel befragte,
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
wer ist die schönste im ganzen Land?“
so antwortete er endlich
„Frau Königin, ihr seid die schönste im Land.“
Da hatte ihr neidisches Herz Ruhe, so gut ein neidisches Herz Ruhe haben kann.
Die Zwerglein, wie sie Abends nach Haus kamen, fanden Sneewittchen auf der Erde liegen, und es gieng
kein Athem mehr aus seinem Mund, und es war todt. Sie hoben es auf, suchten ob sie was giftiges fänden,
schnürten es auf, kämmten ihm die Haare, wuschen es mit Wasser und Wein, aber es half alles nichts; das
liebe Kind war todt und blieb todt. Sie legten es auf eine Bahre und setzten sich alle siebene daran und
beweinten es, und weinten drei Tage lang. Da wollten sie es begraben, aber es sah noch so frisch aus wie ein
lebender Mensch, und hatte noch seine schönen rothen Backen. Sie sprachen „das können wir nicht in die
schwarze Erde versenken,“ und ließen einen durchsichtigen Sarg von Glas machen, daß man es von allen
Seiten sehen konnte, legten es hinein, und schrieben mit goldenen Buchstaben seinen Namen darauf, und daß
es eine Königstochter wäre. Dann setzten sie den Sarg hinaus auf den Berg, und einer von ihnen blieb immer
dabei, und bewachte ihn. Und die Thiere kamen auch und beweinten Sneewittchen, erst eine Eule, dann ein
Rabe, zuletzt ein Täubchen.
Nun lag Sneewittchen lange lange Zeit in dem Sarg und verweste nicht, sondern sah aus als wenn es schliefe,
denn es war noch so weiß als Schnee, so roth als Blut, und so schwarzhaarig wie Ebenholz. Es geschah aber,
daß ein Königssohn in den Wald gerieth und zu dem Zwergenhaus kam, da zu übernachten. Er sah auf dem
Berg den Sarg, und das schöne Sneewittchen darin, und las was mit goldenen Buchstaben darauf geschrieben
war. Da sprach er zu den Zwergen „laßt mir den Sarg, ich will euch geben, was ihr dafür haben wollt.“ Aber
die Zwerge antworteten „wir geben ihn nicht um alles Gold in der Welt.“ Da sprach er „so schenkt mir ihn,
denn ich kann nicht leben ohne Sneewittchen zu sehen, ich will es ehren und hochachten wie mein Liebstes.“
Wie er so sprach, empfanden die guten Zwerglein Mitleiden mit ihm und gaben ihm den Sarg. Der
Königssohn ließ ihn nun von seinen Dienern auf den Schultern forttragen. Da geschah es, daß sie über einen
Strauch stolperten, und von dem Schüttern fuhr der giftige Apfelgrütz, den Sneewittchen abgebissen hatte,
aus dem Hals. Und nicht lange so öffnete es die Augen, hob den Deckel vom Sarg in die Höhe, und richtete
sich auf, und war wieder lebendig. „Ach Gott, wo bin ich?“ rief es. Der Königssohn sagte voll Freude „du
bist bei mir,“ und erzählte was sich zugetragen hatte und sprach „ich habe dich lieber als alles auf der Welt;
komm mit mir in meines Vaters Schloß, du sollst meine Gemahlin werden.“ Da war ihm Sneewittchen gut
und gieng mit ihm, und ihre Hochzeit ward mit großer Pracht und Herrlichkeit angeordnet.
Zu dem Fest wurde aber auch Sneewittchens gottlose Stiefmutter eingeladen. Wie sie sich nun mit schönen
Kleidern angethan hatte, trat sie vor den Spiegel und sprach
„Spieglein, Spieglein an der Wand,
wer ist die schönste im ganzen Land?“
Der Spiegel antwortete
„Frau Königin, ihr seid die schönste hier,
aber die junge Königin ist tausendmal schöner als ihr.“
104
Da stieß das böse Weib einen Fluch aus, und ward ihr so angst, so angst, daß sie sich nicht zu lassen wußte.
Sie wollte zuerst gar nicht auf die Hochzeit kommen: doch ließ es ihr keine Ruhe, sie mußte fort und die
junge Königin sehen. Und wie sie hineintrat, erkannte sie Sneewittchen, und vor Angst und Schrecken stand
sie da und konnte sich nicht regen. Aber es waren schon eiserne Pantoffeln über Kohlenfeuer gestellt und
wurden mit Zangen herein getragen und vor sie hingestellt. Da mußte sie in die rothglühenden Schuhe treten
und so lange tanzen, bis sie todt zur Erde fiel.
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Der Froschkönig oder der eiserne Heinrich (1812)
Es war einmal eine Königstochter, die ging hinaus in den Wald und setzte sich an einen kühlen Brunnen. Sie
hatte eine goldene Kugel, die war ihr liebstes Spielwerk, die warf sie in die Höhe und fing sie wieder in der
Luft und hatte ihre Lust daran. Einmal war die Kugel gar hoch geflogen, sie hatte die Hand schon
ausgestreckt und die Finger gekrümmt, um sie wieder zufangen, da schlug sie neben vorbei auf die Erde,
rollte und rollte und geradezu in das Wasser hinein.
Die Königstochter blickte ihr erschrocken nach, der Brunnen war aber so tief, daß kein Grund zu sehen war.
Da fing sie an jämmerlich zu weinen und zu klagen: „ach! wenn ich meine Kugel wieder hätte, da wollt’ ich
alles darum geben, meine Kleider, meine Edelgesteine, meine Perlen und was es auf der Welt nur wär’.“ Wie
sie so klagte, steckte ein Frosch seinen Kopf aus dem Wasser und sprach: „Königstochter, was jammerst du
so erbärmlich?“ – „Ach, sagte sie, du garstiger Frosch, was kannst du mir helfen! meine goldne Kugel ist mir
in den Brunnen gefallen.“ – Der Frosch sprach: „deine Perlen, deine Edelgesteine und deine Kleider, die
verlang ich nicht, aber wenn du mich zum Gesellen annehmen willst, und ich soll neben dir sitzen und von
deinem goldnen Tellerlein essen und in deinem Bettlein schlafen und du willst mich werth und lieb haben, so
will ich dir deine Kugel wiederbringen.“ Die Königstochter dachte, was schwätzt der einfältige Frosch wohl,
der muß doch in seinem Wasser bleiben, vielleicht aber kann er mir meine Kugel holen, da will ich nur ja
sagen; und sagte: „ja meinetwegen, schaff mir nur erst die goldne Kugel wieder, es soll dir alles versprochen
seyn.“ Der Frosch steckte seinen Kopf unter das Wasser und tauchte hinab, es dauerte auch nicht lange, so
kam er wieder in die Höhe, hatte die Kugel im Maul und warf sie ans Land. Wie die Königstochter ihre
Kugel wieder erblickte, lief sie geschwind darauf zu, hob sie auf und war so froh, sie wieder in ihrer Hand zu
halten, daß sie an nichts weiter gedachte, sondern damit nach Haus eilte. Der Frosch rief ihr nach: „warte,
Königstochter, und nimm mich mit, wie du versprochen hast;“ aber sie hörte nicht darauf. Am andern Tage
saß die Königstochter an der Tafel, da hörte sie etwas die Marmortreppe heraufkommen, plitsch, platsch!
plitsch, platsch! bald darauf klopfte es auch an der Thüre und rief: „Königstochter, jüngste, mach mir auf!“
Sie lief hin und machte die Thüre auf, da war es der Frosch, an den sie nicht mehr gedacht hatte; ganz
erschrocken warf sie die Thüre hastig zu und setzte sich wieder an die Tafel. Der König aber sah, daß ihr das
Herz klopfte, und sagte: „warum fürchtest du dich?“ – „Da draußen ist ein garstiger Frosch, sagte sie, der hat
mir meine goldne Kugel aus dem Wasser geholt, ich versprach ihm dafür, er sollte mein Geselle werden, ich
glaubte aber nimmermehr, daß er aus seinem Wasser heraus könnte, nun ist er draußen vor der Thür und will
herein.“ Indem klopfte es zum zweitenmal und rief:
„Königstochter, jüngste,
mach mir auf,
weiß du nicht was gestern
du zu mir gesagt
bei dem kühlen Brunnenwasser?
Königstochter, jüngste,
mach mir auf.“
Der König sagte: „was du versprochen hast, mußt du halten, geh und mach dem Frosch die Thüre auf.“ Sie
gehorchte und der Frosch hüpfte herein, und ihr auf dem Fuße immer nach, bis zu ihrem Stuhl, und als sie
sich wieder gesetzt hatte, da rief er: „heb mich herauf auf einen Stuhl neben dich.“ Die Königstochter wollte
nicht, aber der König befahl es ihr. Wie der Frosch oben war, sprach er: „nun schieb dein goldenes Tellerlein
näher, ich will mit dir davon essen.“ Das mußte sie auch thun. Wie er sich satt gegessen hatte, sagte er: „nun
bin ich müd’ und will schlafen, bring mich hinauf in dein Kämmerlein, mach dein Bettlein zurecht, da wollen
wir uns hineinlegen.“ Die Königstochter erschrack, wie sie das hörte, sie fürchtete sich vor dem kalten
Frosch, sie getraute sich nicht ihn anzurühren und nun sollte er bei ihr in ihrem Bett liegen, sie fing an zu
weinen und wollte durchaus nicht. Da ward der König zornig und befahl ihr bei seiner Ungnade, zu thun, was
sie versprochen habe. Es half nichts, sie mußte thun, wie ihr Vater wollte, aber sie war bitterböse in ihrem
106
Herzen. Sie packte den Frosch mit zwei Fingern und trug ihn hinauf in ihre Kammer, legte sich ins Bett und
statt ihn neben sich zu legen, warf sie ihn bratsch! an die Wand; „da nun wirst du mich in Ruh lassen, du
garstiger Frosch!“
Aber der Frosch fiel nicht todt herunter, sondern wie er herab auf das Bett kam, da wars ein schöner junger
Prinz. Der war nun ihr lieber Geselle, und sie hielt ihn werth wie sie versprochen hatte, und sie schliefen
vergnügt zusammen ein. Am Morgen aber kam ein prächtiger Wagen mit acht Pferden bespannt, mit Federn
geputzt und goldschimmernd, dabei war der treue Heinrich des Prinzen, der hatte sich so betrübt über die
Verwandlung desselben, daß er drei eiserne Bande um sein Herz legen mußte, damit es vor Traurigkeit nicht
zerspringe. Der Prinz setzte sich mit der Königstochter in den Wagen, der treue Diener aber stand hinten auf,
so wollten sie in sein Reich fahren. Und wie sie ein Stück Weges gefahren waren, hörte der Prinz hinter sich
ein lautes Krachen, da drehte er sich um und rief:
„Heinrich, der Wagen bricht!“ –
„Nein Herr, der Wagen nicht,
es ist ein Band von meinem Herzen,
das da lag in großen Schmerzen,
als ihr in dem Brunnen saßt,
als ihr eine Fretsche (Frosch) was’t.“ (wart)
Noch einmal und noch einmal hörte es der Prinz krachen, und meinte: der Wagen bräche, aber es waren nur
die Bande, die vom Herzen des treuen Heinrich absprangen, weil sein Herr erlöst und glücklich war.
The frog prince (1823)
One fine evening a young princess went into a wood, and sat down by the side of a cool spring of water. She
had a golden ball in her hand, which was her favourite play – thing, and she amused herself with tossing it
into the air and catching it again as it fell. After a time she threw it up so high that when she stretched out her
hand to catch it, the ball bounded (sic!) away and rolled along upon the ground, till at last it fell into the
spring. The princess looked into the spring after her ball; but it was very deep, so deep that she could not see
the bottom of it. Then she began to lament her loss, and said, “Alas! if I could only get my ball again, I would
give all my fine clothes and jewels, and every thing that I have in the world.” Whilst she was speaking a frog
put its head out of the water, and said “Princess, why do you weep so bitterly?” “Alas!” said she, “what can
you do for me, you nasty frog? My golden ball has fallen into the spring.” The frog said, “I want not your
pearls and jewels and fine clothes; but if you will love me and let me live with you, and eat from your little
golden plate, and sleep upon your little bed, I will bring you your ball again.” “What nonsense,” thought the
princess, “the silly frog is talking! He can never get out of the well: however, he may be able to get my ball
for me; and therefore I will promise him what he asks.” So she said to the frog, “Well, if you bring me my
ball, I promise to do all you require.” Then the frog put his head down, and dived deep under the water; and
after a little while he came up again with the ball in his mouth, and threw it on the ground. As soon as the
young princess saw her ball, she ran to pick it up, and was so overjoyed to have it in her hand again, that she
never thought of the frog, but ran home with it as fast as she could. The frog called her, “Stay, princess, and
take me with you as you promised;” but she did not stop to hear a word.
The next day, just as the princess had sat down to dinner, she heard a strange noise, tap – tap, as if somebody
was coming up the marble – staircase; and soon afterwards something knocked gently at the door, and said,
“Open the door, my princess dear,
107
Open the door to thy true love here!
And mind the words that thou and I said
By the fountain cool in the greenwood shade.”
Then the princess ran to the door and opened it, and there she saw the frog, whom she had quite forgotten;
she was terribly frightened, and shutting the door as fast as she could, came back to her seat. The king her
father asked her what had frightened her. “There is a nasty frog,” said she, “at the door, who lifted my ball
out of the spring this morning: I promised him that he should live with me here, thinking that he could never
get out of the spring; but there he is at the door and wants to come in!” While she was speaking the frog
knocked again at the door, and said,
“Open the door, my princess dear,
Open the door to thy true love here!
And mind the words that thou and I said
By the fountain cool in the greenwood shade.”
The king said to the young princess, “As you have made a promise, you must keep it; so go and let him in.”
She did so, and the frog hopped into the room, and came up close to the table. “Pray lift me upon a chair,”
said he to the princess, “and let me sit next to you.” As soon as she had done this, the frog said “Put your
plate closer to me that I may eat out of it.” This she did, and when he had eaten as much as he could, he said
“Now I am tired; carry me up stairs and put me into your little bed.” And the princess took him up in her
hand and put him upon the pillow of her own little bed, where he slept all night long. As soon as it was light
he jumped up, hopped down stairs, and went out of the house. “Now,” thought the princess, “he is gone, and
I shall troubled with him no more.” But she was mistaken; for when night came again, she heard the same
tapping at the door, and when she opened it the frog came in and slept upon her pillow as before till morning
broke; and the third night he did the same: but when the princess awoke on the following morning, she was
astonished to see, instead of the frog, a handsome prince gazing on her with the most beautiful eyes that ever
were seen, and standing at the head of her bed.
He told her that he had been enchanted by a malicious fairy, who had changed him into the form of a frog, in
which he was fated to remain till some princess should take him out of the spring and let him sleep upon her
bed for three nights. “You,” said the prince, “have broken this cruel charm, and now I have nothing to wish
for but that you should go with me into my father’s kingdom, where I will marry you, and love you as long as
you live.”
The young princess, you may be sure, was not long in giving her consent; and as they spoke, a splendid
carriage drove up with eight beautiful horses decked with plumes of feathers and golden harness, and behind
rode the prince’s servant, the faithful Henry, who had bewailed the misfortune of his dear master so long and
bitterly that his heart had well nigh burst. Then all set out full of joy for the Prince’s kingdom; where they
arrived safely, and lived happily a great many years.
Der Froschkönig oder der eiserne Heinrich (1857)
In den alten Zeiten, wo das Wünschen noch geholfen hat, lebte ein König, dessen Töchter waren alle schön,
aber die jüngste war so schön, daß die Sonne selber, die doch so vieles gesehen hat, sich verwunderte so oft
sie ihr ins Gesicht schien. Nahe bei dem Schlosse des Königs lag ein großer dunkler Wald, und in dem Walde
unter einer alten Linde war ein Brunnen: wenn nun der Tag recht heiß war, so ging das Königskind hinaus in
108
den Wald und setzte sich an den Rand des kühlen Brunnens: und wenn sie Langeweile hatte, so nahm sie eine
goldene Kugel, warf sie in die Höhe und fieng sie wieder; und das war ihr liebstes Spielwerk.
Nun trug es sich einmal zu, daß die goldene Kugel der Königstochter nicht in ihr Händchen fiel, das sie in die
Höhe gehalten hatte, sondern vorbei auf die Erde schlug und geradezu ins Wasser hinein rollte. Die
Königstochter folgte ihr mit den Augen nach, aber die Kugel verschwand, und der Brunnen war tief, so tief
daß man keinen Grund sah. Da fieng sie an zu weinen und weinte immer lauter und konnte sich gar nicht
trösten. Und wie sie so klagte, rief ihr jemand zu „was hast du vor, Königstochter, du schreist ja daß sich ein
Stein erbarmen möchte.“ Sie sah sich um, woher die Stimme käme, da erblickte sie einen Frosch, der seinen
dicken häßlichen Kopf aus dem Wasser streckte. „Ach, du bists, alter Wasserpatscher,“ sagte sie, „ich weine
über meine goldene Kugel, die mir in den Brunnen hinab gefallen ist.“ „Sei still und weine nicht,“ antwortete
der Frosch, „ich kann wohl Rath schaffen, aber was gibst du mir, wenn ich dein Spielwerk wieder
heraufhole?“ „Was du haben willst, lieber Frosch,“ sagte sie, „meine Kleider, meine Perlen und Edelsteine,
auch noch die goldene Krone, die ich trage.“ Der Frosch antwortete „deine Kleider, deine Perlen und
Edelsteine, und deine goldene Krone, die mag ich nicht: aber wenn du mich lieb haben willst, und ich soll
dein Geselle und Spielkamerad sein, an deinem Tischlein neben dir sitzen, von deinem goldenen Tellerlein
essen, aus deinem Becherlein trinken, in deinem Bettlein schlafen: wenn du mir das versprichst, so will ich
hinunter steigen und dir die goldene Kugel wieder herauf holen.“ „Ach ja,“ sagte sie, „ich verspreche dir
alles, was du willst, wenn du mir nur die Kugel wieder bringst.“ Sie dachte aber „was der einfältige Frosch
schwätzt, der sitzt im Wasser bei seines Gleichen und quackt, und kann keines Menschen Geselle sein.“
Der Frosch, als er die Zusage erhalten hatte, tauchte seinen Kopf unter, sank hinab und über ein Weilchen
kam er wieder herauf gerudert, hatte die Kugel im Maul und warf sie ins Gras. Die Königstochter war voll
Freude, als sie ihr schönes Spielwerk wieder erblickte, hob es auf und sprang damit fort. „Warte, warte,“ rief
der Frosch, „nimm mich mit, ich kann nicht so laufen wie du.“ Aber was half ihm daß er ihr sein quack quack
so laut nachschrie als er konnte! sie hörte nicht darauf, eilte nach Haus und hatte bald den armen Frosch
vergessen, der wieder in seinen Brunnen hinab steigen mußte.
Am andern Tage, als sie mit dem König und allen Hofleuten sich zur Tafel gesetzt hatte und von ihrem
goldenen Tellerlein aß, da kam, plitsch platsch, plitsch platsch, etwas die Marmortreppe herauf gekrochen,
und als es oben angelangt war, klopfte es an der Thür und rief „Königstochter, jüngste, mach mir auf.“ Sie
lief und wollte sehen wer draußen wäre, als sie aber aufmachte, so saß der Frosch davor. Da warf sie die Thür
hastig zu, setzte sich wieder an den Tisch, und war ihr ganz angst. Der König sah wohl daß ihr das Herz
gewaltig klopfte und sprach „mein Kind, was fürchtest du dich, steht etwa ein Riese vor der Thür und will
dich holen?“ „Ach nein,“ antwortete sie, „es ist kein Riese, sondern ein garstiger Frosch.“ „Was will der
Frosch von dir?“ „Ach lieber Vater, als ich gestern im Wald bei dem Brunnen saß und spielte, da fiel meine
goldene Kugel ins Wasser. Und weil ich so weinte, hat sie der Frosch wieder heraufgeholt, und weil er es
durchaus verlangte, so versprach ich ihm er sollte mein Geselle werden, ich dachte aber nimmermehr daß er
aus seinem Wasser heraus könnte. Nun ist er draußen und will zu mir herein.“ Indem klopfte es zum
zweitenmal und rief
„Königstochter, jüngste,
mach mir auf,
weißt du nicht was gestern
du zu mir gesagt
bei dem kühlen Brunnenwasser?
Königstochter, jüngste,
mach mir auf.“
Da sagte der König „was du versprochen hast, das mußt du auch halten; geh nur und mach ihm auf.“ Sie
gieng und öffnete die Thüre, da hüpfte der Frosch herein, ihr immer auf dem Fuße nach, bis zu ihrem Stuhl.
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Da saß er und rief „heb mich herauf zu dir.“ Sie zauderte bis es endlich der König befahl. Als der Frosch erst
auf dem Stuhl war, wollte er auf den Tisch, und als er da saß, sprach er „nun schieb mir dein goldenes
Tellerlein näher, damit wir zusammen essen.“ Das that sie zwar, aber man sah wohl daß sies nicht gerne that.
Der Frosch ließ sichs gut schmecken, aber ihr blieb fast jedes Bißlein im Halse. Endlich sprach er „ich habe
mich satt gegessen, und bin müde, nun trag mich in dein Kämmerlein und mach dein seiden Bettlein zurecht,
da wollen wir uns schlafen legen.“ Die Königstochter fieng an zu weinen und fürchtete sich vor dem kalten
Frosch, den sie nicht anzurühren getraute, und der nun in ihrem schönen reinen Bettlein schlafen sollte. Der
König aber ward zornig und sprach „wer dir geholfen hat, als du in der Noth warst, den sollst du hernach
nicht verachten.“ Da packte sie ihn mit zwei Fingern, trug ihn hinauf und setzte ihn in eine Ecke. Als sie aber
im Bett lag, kam er gekrochen und sprach „ich bin müde, ich will schlafen so gut wie du: heb mich herauf,
oder ich sags deinem Vater.“ Da ward sie erst bitterböse, holte ihn herauf und warf ihn aus allen Kräften
wider die Wand, „nun wirst du Ruhe haben, du garstiger Frosch.“
Als er aber herab fiel, war er kein Frosch, sondern ein Königssohn mit schönen und freundlichen Augen. Der
war nun nach ihres Vaters Willen ihr lieber Geselle und Gemahl. Da erzählte er ihr, er wäre von einer bösen
Hexe verwünscht worden, und Niemand hätte ihn aus dem Brunnen erlösen können als sie allein, und morgen
wollten sie zusammen in sein Reich gehen. Dann schliefen sie ein, und am andern Morgen, als die Sonne sie
aufweckte, kam ein Wagen heran gefahren mit acht weißen Pferden bespannt, die hatten weiße Straußfedern
auf dem Kopf, und giengen in goldenen Ketten, und hinten stand der Diener des jungen Königs, das war der
treue Heinrich. Der treue Heinrich hatte sich so betrübt, als sein Herr war in einen Frosch verwandelt worden,
daß er drei eiserne Bande hatte um sein Herz legen lassen, damit es ihm nicht vor Weh und Traurigkeit
zerspränge. Der Wagen aber sollte den jungen König in sein Reich abholen; der treue Heinrich hob beide
hinein, stellte sich wieder hinten auf und war voller Freude über die Erlösung. Und als sie ein Stück Wegs
gefahren waren, hörte der Königssohn daß es hinter ihm krachte, als wäre etwas zerbrochen. Da drehte er
sich um und rief
„Heinrich, der Wagen bricht.“
„Nein, Herr, der Wagen nicht,
es ist ein Band von meinem Herzen,
das da lag in großen Schmerzen,
als ihr in dem Brunnen saßt,
als ihr eine Fretsche (Frosch) wast (wart).“
Noch einmal und noch einmal krachte es auf dem Weg, und der Königssohn meinte immer der Wagen
bräche, und es waren doch nur die Bande, die vom Herzen des treuen Heinrich absprangen, weil sein Herr
erlöst und glücklich war.
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Rumpelstilzchen (1812)
Es war einmal ein Müller, der war arm, aber er hatte eine schöne Tochter. Und es traf sich, daß er mit dem
König zu sprechen kam und ihm sagte: „ich habe eine Tochter, die weiß die Kunst, Stroh in Gold zu
verwandeln.“ Da ließ der König die Müllerstochter alsogleich kommen, und befahl ihr, eine ganze Kammer
voll Stroh in einer Nacht in Gold zu verwandeln, und könne sie es nicht, so müsse sie sterben. Sie wurde in
die Kammer eingesperrt, saß da und weinte, denn sie wußte um ihr Leben keinen Rath, wie das Stroh zu Gold
werden sollte. Da trat auf einmal ein klein Männlein zu ihr, das sprach: „was giebst du mir, daß ich alles zu
Gold mache?“ Sie that ihr Halsband ab und gabs dem Männlein, und es that, wie es versprochen hatte. Am
andern Morgen fand der König die ganze Kammer voll Gold; aber sein Herz wurde dadurch nur noch
begieriger, und er ließ die Müllerstochter in eine andere, noch größere Kammer voll Stroh thun, das sollte sie
auch zu Gold machen. Und das Männlein kam wieder, sie gab ihm ihren Ring von der Hand, und alles wurde
wieder zu Gold. Der König aber hieß sie die dritte Nacht wieder in eine dritte Kammer sperren, die war noch
größer als die beiden ersten und ganz voll Stroh, „und wenn dir das auch gelingt, sollst du meine Gemahlin
werden.“ Da kam das Männlein und sagte: „ich will es noch einmal thun, aber du mußt mir das erste Kind
versprechen, das du mit dem König bekommst.“ Sie versprach es in der Noth, und wie nun der König auch
dieses Stroh in Gold verwandelt sah, nahm er die schöne Müllerstochter zu seiner Gemahlin.
Bald darauf kam die Königin ins Wochenbett, da trat das Männlein vor die Königin und forderte das
versprochene Kind. Die Königin aber bat, was sie konnte und bot dem Männchen alle Reichthümer an, wenn
es ihr ihr Kind lassen wollte, allein alles war vergebens. Endlich sagte es: „in drei Tagen komm ich wieder
und hole das Kind, wenn du aber dann meinen Namen weißt, so sollst du das Kind behalten!“
Da sann die Königin den ersten und zweiten Tag, was doch das Männchen für einen Namen hätte, konnte
sich aber nicht besinnen, und ward ganz betrübt. Am dritten Tag aber kam der König von der Jagd heim und
erzählte ihr: ich bin vorgestern auf der Jagd gewesen, und als ich tief in den dunkelen Wald kam, war da ein
kleines Haus und vor dem Haus war ein gar zu lächerliches Männchen, das sprang als auf einem Bein davor
herum, und schrie:
„heute back ich, morgen brau ich,
übermorgen hohl ich der Frau Königin ihr Kind,
ach wie gut ist, daß niemand weiß,
daß ich Rumpelstilzchen heiß!“
Wie die Königin das hörte, ward sie ganz froh und als das gefährliche Männlein kam, frug es: Frau Königin,
wie heiß ich? – „heißest du Conrad?“ – Nein. – „Heißest du Heinrich?“ – Nein.
Heißt du etwa Rumpelstilzchen?
Das hat dir der Teufel gesagt! schrie das Männchen, lief zornig fort und kam nimmermehr wieder.
Rumpelstilzchen (1819)
Es war einmal ein Müller, der war arm, aber er hatte eine schöne Tochter. Nun traf es sich, daß er mit dem
König zu sprechen kam und zu ihm sagte: „ich habe eine Tochter, die kann Stroh zu Gold spinnen.“ Dem
König, der das Gold lieb hatte, gefiel die Kunst gar wohl und er befahl, die Müllerstochter sollte alsbald vor
ihn gebracht werden. Dann führte er sie in eine Kammer, die ganz voll Stroh war, gab ihr Rad und Haspel,
und sprach: „wenn du diese Nacht durch bis morgen früh dieses Stroh nicht zu Gold versponnen hast, so
mußt du sterben.“ Darauf ward die Kammer verschlossen und sie blieb allein darin.
Da saß nun die arme Müllerstochter und wußte um ihr Leben kein Rath, denn sie verstand gar nichts davon,
wie das Stroh zu Gold zu spinnen war und ihre Angst ward immer größer, daß sie zu weinen anfing. Da ging
auf einmal die Thüre auf und trat ein kleines Männchen herein und sprach: „guten Abend, Jungfer Müllerin,
111
warum weint sie so sehr?“ „Ach! antwortete das Mädchen, ich soll Stroh zu Gold spinnen und verstehe es
nicht.“ Sprach das Männchen: „was gibst du mir, wenn ich dirs spinne?“ „Mein Halsband,“ sagte das
Mädchen. Das Männchen nahm das Halsband, setzte sich vor das Rädchen und schnurr! schnurr! schnurr!
dreimal gezogen, war die Spule voll. Dann steckte es eine andere auf und schnurr! schnurr! schnurr! dreimal
gezogen, war auch die zweite voll, und so gings fort bis zum Morgen, da war alles Stroh versponnen und alle
Spulen voll Gold. Als der König kam und nachsah, da erstaunte er und freute sich, aber sein Herz wurde nur
noch begieriger und er ließ die Müllerstochter in eine andere Kammer voll Stroh bringen, die noch viel
größer war und befahl ihr, das auch in einer Nacht zu spinnen, wenn ihr das Leben lieb wäre. Das Mädchen
wußte sich nicht zu helfen und weinte, da ging abermals die Thüre auf und das kleine Männchen kam und
sprach: „was giebst du mir, wenn ich dir das Stroh zu Gold spinne?“ „Meinen Ring von der Hand,“
antwortete das Mädchen. Das Männchen nahm den Ring und fing wieder an zu schnurren mit dem Rade, und
hatte bis zum Morgen alles Stroh zu glänzendem Gold gesponnen. Der König freute sich über die Maßen bei
dem Anblick des Goldes, war aber noch nicht satt, sondern ließ die Müllerstochter in eine noch größere
Kammer voll Stroh bringen und sprach: „die mußt du noch in dieser Nacht verspinnen, wann dir das gelingt,
sollst du meine Gemahlin werden;“ denn, dachte er, eine reichere Frau kannst du auf der Welt nicht haben.
Als das Mädchen allein war, kam das Männlein zum drittenmal wieder und sprach: „was giebst du mir, wenn
ich dir noch diesmal das Stroh spinne?“ „Ich habe nichts mehr,“ antwortete das Mädchen. „So versprich mir,
wann du Königin wirst, dein erstes Kind.“ Wer weiß, wie das noch geht, dachte die Müllerstochter und wußte
sich auch in der Noth nicht anders zu helfen, so daß sie es dem Männchen versprach und das Männchen
spann noch einmal das Stroh zu Gold. Und als am Morgen der König kam und alles fand, wie er gewünscht
hatte, so hielt er Hochzeit mit ihr und die schöne Müllerstochter ward eine Königin.
Ueber ein Jahr brachte sie ein schönes Kind zur Welt und dachte gar nicht mehr an das Männchen, da trat es
in ihre Kammer und forderte was ihm versprochen war. Die Königin erschrak und bot dem Männchen alle
Reichthümer des Königreichs an, wenn es ihr das Kind lassen wollte, aber das Männchen sprach: „nein,
etwas Lebendes ist mir lieber, als alle Schätze der Welt.“ Da fing die Königin so an zu jammern und zu
weinen, daß es das Männchen doch dauerte und es sprach: „drei Tage will ich dir Zeit lassen, wenn du bis
dahin meinen Namen weißt, so sollst du dein Kind behalten.“
Nun dachte die Königin die ganze Nacht über an alle Namen, die sie jemals gehört hatte, und schickte einen
Boten aus über Land, der sollte sich erkundigen weit und breit nach neuen Namen. Als am andern Tag das
Männchen kam, fing sie mit Caspar, Melchior und Balzer an und sagte alle die sie wußte, nach der Reihe her,
aber bei jedem sprach das Männlein: „so heiß ich nicht.“ Den zweiten Tag ließ sie herumfragen bei allen
Leuten und legte dem Männlein alle die ungewöhnlichsten und seltsamsten vor, als: Rippenbiest,
Hammelswade, Schnürbein, aber es blieb dabei: „so heiß ich nicht.“ Den dritten Tag kam der Bote wieder
zurück und erzählte: „neue Namen habe ich keinen einzigen finden können, aber wie ich an einen hohen Berg
um die Waldecke kam, wo Fuchs und Has sich gute Nacht sagen, so sah ich da ein kleines Haus und vor dem
Haus brannte ein Feuer und um das Feuer sprang ein gar zu lächerliches Männchen, hüpfte auf einem Bein
und schrie:
heute back ich, morgen brau ich,
übermorgen hol ich der Frau Königin ihr Kind;
ach, wie gut ist, daß niemand weiß,
daß ich Rumpelstilzchen heiß!“
Wie die Königin das hörte, war sie ganz froh und als bald das Männlein kam und sprach: „nun, Frau Königin,
wie heiß ich?“ da fragte sie erst: „heißest du Cunz?“ „Nein.“ „Heißest du Heinz?“ „Nein.“
„Heißt du etwa Rumpelstilzchen?“
„Das hat dir der Teufel gesagt! das hat dir der Teufel gesagt!“ schrie das Männlein und stieß mit dem rechten
Fuß vor Zorn so tief in die Erde, daß es bis an den Leib hineinfuhr, dann packte es in einer Wuth den linken
Fuß mit beiden Händen und riß sich mitten entzwei.
112
Rumpelstiltskin (1823)
In a certain kingdom once lived a poor miller who had a very beautiful daughter. She was moreover
exceedingly shrewd and clever; and the miller was so vain and proud of her, that he one day told the king of
the land that his daughter could spin gold out of straw. Now this king was very fond of money; and when he
heard the miller’s boast, his avarice was excited, and he ordered the girl to be brought before him. Then he
led her to a chamber where there was a great quantity of straw, gave her a spinning – wheel, and said “All
this must be spun into gold before morning, as you value your life.” It was in vain that the poor maiden
declared that she could do no such thing, the chamber was locked and she remained alone.
She sat down in one corner of the room and began to lament over her hard fate, when on a sudden the door
opened, and a droll – looking little man hobbled in, and said “Good morrow to you, my good lass, what are
you weeping for?” “Alas!” answered she, “I must spin this straw into gold, and I know not how.” “What will
you give me,” said the little man, “to do it for you?” “My necklace,” replied the maiden. He took her at her
word, and sat himself down to the wheel; round about it went merrily, and presently the work was done and
the gold all spun.
When the king came and saw this, he was greatly astonished and pleased; but his heart grew still more greedy
of gain, and he shut up the poor miller’s daughter again with a fresh task. Then she knew not what to do, and
sat down once more to weep; but the little man presently open the door, and said “What will you give me to
do your task?” “The ring on my finger,” replied she. So her little friend took the ring, and began to work at
the wheel, till by the morning all was finished again.
The king was vastly delighted to see all this glittering treasure; but still he was not satisfied, and took the
miller’s daughter into a yet larger room, and said “All this must be spun to – night; and if you succeed, you
shall be my queen.” As soon as she was alone the dwarf came in, and said “What will you give me to spin
gold for you this third time?” “I have nothing left,” said she. “Then promise me,” said the little man, “your
first little child when you are queen.” “That may never be,” thought the miller’s daughter: and as she knew
no other way to get her task done, she promised him what he asked, and he spun once more the whole heap of
gold. The king came in the morning, and finding all he wanted, married her, and so the miller’s daughter
really became queen.
At the birth of her first little child the queen rejoiced very much, and forgot the little man and her promise;
but one day he came into her chamber and reminded her of it. Then she grieved sorely at her misfortune, and
offered him all the treasures of the kingdom in exchange; but in vain, till at last her tears softened him, and he
said “I will give you three days’ grace, and if during that time you tell me my name, you shall keep your
child.”
Now the queen lay awake all night, thinking of all the odd names that she had ever heard, and dispatched
messengers all over the land to inquire after new ones. The next day the little man came, and she began with
Timothy, Benjamin, Jeremiah, and all the names she could remember; but to all of them he said, “That’s not
my name.”
The second day she began with all the comical names she could hear of, Bandy – legs, Hunch – back, Crook
– shanks, and so on; but the little gentleman still said to every one of them, “That’s not my name.”
The third day one of the messengers came back, and said “I can hear of no other names; but yesterday, as I
was climbing a high hill among the trees of the forest where the fox and the hare bid each other good night, I
saw a little hut, and before the hut burnt a fire, and round about the fire a funny little man danced upon one
leg, and sang
“Merrily the feast I’ll make,
To – day I’ll brew, to – morrow bake;
113
Merrily I’ll dance and sing,
For next day will a stranger bring:
Little does my lady dream
Rumpel – Stilts – kin is my name!”
When the queen heard this, she jumped for joy, and as soon as her little visitor came, and said “Now, lady,
what is my name?” “Is it John?” asked she. “No!” “Is it Tom?” “No!”
“Can your name be Rumpel – Stilts – kin?”
“Some witch told you that! Some witch told you that!” cried the little man, and dashed his right foot in a rage
so deep into the floor, that he was forced to lay hold of it with both hands to pull it out. Then he made the
best of his way off, while every body laughed at him for having all his trouble for nothing.
Rumpelstilzchen (1857)
Es war einmal ein Müller, der war arm, aber er hatte eine schöne Tochter. Nun traf es sich, daß er mit dem
König zu sprechen kam, und um sich ein Ansehen zu geben, sagte er zu ihm „ich habe eine Tochter, die kann
Stroh zu Gold spinnen.“ Der König sprach zum Müller „das ist eine Kunst, die mir wohl gefällt, wenn deine
Tochter so geschickt ist, wie du sagst, so bring sie Morgen in mein Schloß, da will ich sie auf die Probe
stellen.“ Als nun das Mädchen zu ihm gebracht ward, führte er es in eine Kammer, die ganz voll Stroh lag,
gab ihr Rad und Haspel und sprach „jetzt mache dich an die Arbeit, und wenn du diese Nacht durch bis
morgen früh dieses Stroh nicht zu Gold versponnen hast, so mußt du sterben.“ Darauf schloß er die Kammer
selbst zu, und sie blieb allein darin.
Da saß nun die arme Müllerstochter und wußte um ihr Leben keinen Rath: sie verstand gar nichts davon, wie
man Stroh zu Gold spinnen konnte, und ihre Angst ward immer größer, daß sie endlich zu weinen anfieng.
Da gieng auf einmal die Thüre auf, und trat ein kleines Männchen herein und sprach „guten Abend, Jungfer
Müllerin, warum weint sie so sehr?“ „Ach,“ antwortete das Mädchen, „ich soll Stroh zu Gold spinnen, und
verstehe das nicht.“ Sprach das Männchen „was gibst du mir, wenn ich dirs spinne?“ „Mein Halsband“ sagte
das Mädchen. Das Männchen nahm das Halsband, setzte sich vor das Rädchen, und schnurr, schnurr,
schnurr, dreimal gezogen, war die Spule voll. Dann steckte es eine andere auf, und schnurr, schnurr, schnurr,
dreimal gezogen, war auch die zweite voll: und so giengs fort bis zum Morgen, da war alles Stroh
versponnen, und alle Spulen waren voll Gold. Bei Sonnenaufgang kam schon der König und als er das Gold
erblickte, erstaunte er und freute sich, aber sein Herz ward nur noch goldgieriger. Er ließ die Müllerstochter
in eine andere Kammer voll Stroh bringen, die noch viel größer war, und befahl ihr das auch in einer Nacht
zu spinnen, wenn ihr das Leben lieb wäre. Das Mädchen wußte sich nicht zu helfen und weinte, da gieng
abermals die Thüre auf, und das kleine Männchen erschien und sprach „was gibst du mir, wenn ich dir das
Stroh zu Gold spinne?“ „Meinen Ring von dem Finger“ antwortete das Mädchen. Das Männchen nahm den
Ring, fieng wieder an zu schnurren mit dem Rade und hatte bis zum Morgen alles Stroh zu glänzendem Gold
gesponnen. Der König freute sich über die Maßen bei dem Anblick, war aber noch immer nicht Goldes satt,
sondern ließ die Müllerstochter in eine noch größere Kammer voll Stroh bringen und sprach „die mußt du
noch in dieser Nacht verspinnen: gelingt dirs aber, so sollst du meine Gemahlin werden.“ „Wenns auch eine
Müllerstochter ist,“ dachte er, „eine reichere Frau finde ich in der ganzen Welt nicht.“ Als das Mädchen
allein war, kam das Männlein zum drittenmal wieder und sprach „was gibst du mir, wenn ich dir noch
diesmal das Stroh spinne?“ „Ich habe nichts mehr, das ich geben könnte“ antwortete das Mädchen. „So
versprich mir, wenn du Königin wirst, dein erstes Kind.“ „Wer weiß wie das noch geht“ dachte die
Müllerstochter und wußte sich auch in der Noth nicht anders zu helfen; sie versprach also dem Männchen
was es verlangte, und das Männchen spann dafür noch einmal das Stroh zu Gold. Und als am Morgen der
König kam und alles fand wie er gewünscht hatte, so hielt er Hochzeit mit ihr, und die schöne Müllerstochter
ward eine Königin.
114
Über ein Jahr brachte sie ein schönes Kind zur Welt und dachte gar nicht mehr an das Männchen: da trat es
plötzlich in ihre Kammer und sprach „nun gib mir was du versprochen hast.“ Die Königin erschrack und bot
dem Männchen alle Reichthümer des Königreichs an, wenn es ihr das Kind lassen wollte: aber das Männchen
sprach „nein, etwas lebendes ist mir lieber als alle Schätze der Welt.“ Da fieng die Königin so an zu jammern
und zu weinen, daß das Männchen Mitleiden mit ihr hatte: „drei Tage will ich dir Zeit lassen,“ sprach er,
„wenn du bis dahin meinen Namen weißt, so sollst du dein Kind behalten.“
Nun besann sich die Königin die ganze Nacht über auf alle Namen, die sie jemals gehört hatte, und schickte
einen Boten über Land, der sollte sich erkundigen weit und breit was es sonst noch für Namen gäbe. Als am
andern Tag das Männchen kam, fieng sie an mit Caspar, Melchior, Balzer, und sagte alle Namen, die sie
wußte, nach der Reihe her, aber bei jedem sprach das Männlein „so heiß ich nicht.“ Den zweiten Tag ließ sie
in der Nachbarschaft herumfragen wie die Leute da genannt würden, und sagte dem Männlein die
ungewöhnlichsten und seltsamsten Namen vor, „heißt du vielleicht Rippenbiest oder Hammelswade oder
Schnürbein?“ aber es antwortete immer „so heiß ich nicht.“ Den dritten Tag kam der Bote wieder zurück und
erzählte „neue Namen habe ich keinen einzigen finden können, aber wie ich an einen hohen Berg um die
Waldecke kam, wo Fuchs und Has sich gute Nacht sagen, so sah ich da ein kleines Haus, und vor dem Haus
brannte ein Feuer, und um das Feuer sprang ein gar zu lächerliches Männchen, hüpfte auf einem Bein und
schrie
„heute back ich, morgen brau ich,
übermorgen hol ich der Königin ihr Kind;
ach, wie gut ist daß niemand weiß
daß ich Rumpelstilzchen heiß!“
Da könnt ihr denken wie die Königin froh war, als sie den Namen hörte, und als bald hernach das Männlein
herein trat und fragte „nun, Frau Königin, wie heiß ich?“ fragte sie erst „heißest du Kunz?“ „Nein.“ „Heißest
du Heinz?“ „Nein.“
„Heißt du etwa Rumpelstilzchen?“
„Das hat dir der Teufel gesagt, das hat dir der Teufel gesagt“ schrie das Männlein und stieß mit dem rechten
Fuß vor Zorn so tief in die Erde, daß es bis an den Leib hineinfuhr, dann packte es in seiner Wuth den linken
Fuß mit beiden Händen und riß sich selbst mitten entzwei.
115
Bibliografia
1. Letteratura primaria
1.1 Edizioni tedesche dei fratelli Grimm
Brüder GRIMM, Kinder- und Haus-Märchen Band 1, Große Ausgabe,
Realschulbuchhandlung, Berlin, 1812.
Brüder GRIMM, Kinder- und Haus-Märchen Band 1, Große Ausgabe, G.
Reimar, Berlin, 1819.
Brüder GRIMM, Kinder- und Haus-Märchen Band 1, Große Ausgabe,
Dieterich, Göttingen, 1857.
1.2 Traduzioni citate
TAYLOR Edgar, CRUIKSHANK George, Grimms’ Fairy Tales, Volume One,
London Scolar Press, London, 1979.
TAYLOR Edgar, CRUIKSHANK George, Grimms’ Fairy Tales, Volume Two,
London Scolar Press, London, 1979.
GRIMM Jakob e Wilhelm, Fiabe, a cura di Giuseppe Cocchiara e Clara
Bovero, Einaudi editore, Torino, 2011.
1.3 Carteggi
Per il carteggio tra i fratelli Grimm e Edgar Taylor, che include anche altre lettere
tra cui quella di Walter Scott, nonché riferimenti al contesto storico – letterario, cfr.
HARTWIG Otto, Zur ersten englischen Übersetzung der Kinder- und
Hausmärchen der Brüder Grimm. Mit ungedruckten Briefen von Edgar Taylor, J.
116
u. W. Grimm, Walter Scott und G. Benecke, Otto Harrassowitz Verlag, Leipzig,
1898.
1.4 Altre opere letterarie citate
GRIMM J. e W., Deutsche Sagen, Nicolaische Buchhandlung, Berlin, 1816.
GRIMM J. e W., Deutsche Grammatik, Dieterische Buchhandlung, Göttingen,
1819.
Brüder GRIMM, Kinder – und Hausmärchen, Große Ausgabe, Band 1,
Dieterichisce Buchhandlung, Göttingen, 1837 (sezione relativa al Vorrede).
GRIMM J. e W., Deutsches Wörterbuch, S. Hirzel Verlag, Leipzig, 1854.
2. Letteratura secondaria
ANDERSON Benedict, Imagined communities, Verso, London, New York, 1991
(trad. it. di Marco Vignale, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei
nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996).
BASSNETT Susan, LEFEVERE André, Translation, History and Culture, Cassell,
London, New York, 1990.
BOURDIEU Pierre, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Il
Saggiatore, Milano, 2005.
CHAGALL Marc, Il flauto magico a colori, Donzelli, Roma, 2012.
HARTWIG Otto, Zur ersten englischen Übersetzung der Kinder- und
Hausmärchen der Brüder Grimm. Mit ungedruckten Briefen von Edgar Taylor, J.
u. W. Grimm, Walter Scott und G. Benecke, Otto Harrassowitz Verlag, Leipzig,
1898.
117
MORETTI Franco, Graphs, maps, trees. Abstract models for literary history,
Verso, New York, 2007.
PROPP Vladimir Jakovlevič, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino, 1966.
TATAR Maria (a cura di), The annotated brothers Grimm, W. W. Norton &
Company, 2004.
TUCKER Nicholas, The Child and the Book. A psychological and literary
exploration, Cambridge University Press, Cambridge, 1981.
ZIPES Jack, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della sovversione,
Mondadori Editore, Milano, 2006.
ZIPES Jack, La fiaba irresistibile. Storia culturale e sociale di un genere, Donzelli
Editore, 2012.
3. Sitografia
Per la ricezione dei Grimm in area anglofona e sul contesto in cui nasce la Fiaba tra
Inghilterra e Germania nel XVIII sec., cfr. BLAMIRES David, The early reception
of the Grimms‘ Kinder- und Hausmärchen in England, disponibile online
all’indirizzo:
https://www.escholar.manchester.ac.uk/api/datastream?publicationPid=uk-acman-scw:1m2229&datastreamId=POST-PEER-REVIEW-PUBLISHERSDOCUMENT.PDF
Interessante riferimento alla ricezione di Edgar Taylor in Germania e, in generale,
al labor limae dei KHM è la rivista 200 Jahre <<Kinder – und Hausmärchen>>
der Brüder Grimm, pubblicata nel 2013 dallo Strauhof Museum di Zurigo, in
collaborazione con lo Schweizerisches Institut für Kinder – und Jugendmedien; la
rivista è disponibile online all’indirizzo:
118
http://www.ipk.uzh.ch/research/Schwerpunkte/medien/Ausstellungsfuehrer_Grimm
_Einzelseiten.pdf
Sulla teoria dei polisistemi in ambito letterario cfr. EVEN – ZOHAR Itamar,
Polysystem Studies, disponibile online all’indirizzo:
http://www.tau.ac.il/~itamarez/works/books/ez-pss1990.pdf
http://de.wikipedia.org per le voci “Dorothea Viehmann” e “Grimms Märchen”
http://de.wikisource.org per la voce “Aschenputtel”
http://universal_lexikon.deacademic.com per la voce “Als das Wünschen noch
geholfen hat”
http://www.duden.de per la voce “Rumpelstilzchen”
4. Strumenti
BERTINETTI Paolo, Breve storia della letteratura inglese, Einaudi, Torino, 2004.
COMETA Michele (a cura di), L’età classico – romantica. La cultura letteraria in
Germania tra Settecento e Ottocento, Laterza, Bari, 2009.
GIACOMA Luisa, KOLB Susanne, Dizionario tedesco – italiano; italiano –
tedesco, Zanichelli – Pons Klett, Bologna, 2001.
O’ DRISCOLL James, Britain for learners of English, Oxford University Press,
Oxford, 2009.
SCHULZE Hagen, Storia della Germania, Donzelli, Roma, 2010.
119
ZAGARESE Silvia, I Grimm celati nella Cenerentola Disney, tesi di laurea
discussa alla facoltà di Lettere, Filosofia, Scienze Umanistiche e Studi Orientali,
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, A. A. 2011/2012.
Deutsches Wörterbuch von Jacob und Wilhelm Grimm, disponibile online
all’indirizzo: http://woerterbuchnetz.de/DWB/
http://www.wordreference.com/it/ (dizionario inglese online)
5. Illustrazioni
Per la fiabe di Cenerentola e Biancaneve: immagini di Adrian Ludwig Richter
(Dresda, 1803 – Dresda, 1884), disponibili online rispettivamente su:
http://www.deutschstunden.de/Material/Maerchen/Bechstein-Aschenbroedel.html
http://www.goethezeitportal.de/wissen/illustrationen/bruedergrimm/schneewittchen.html
Per la fiaba Il principe ranocchio o Enrico di ferro: immagine di Bernhard Wenig
(Berchtesgaden, 1871 – Monaco, 1940) dal volume: Königskinder. 5 Märlein von
Prinzen und Prinzessinnen und was ihnen wunderbares begegnet, Berlin (Fischer u.
Franke), 1900; vedi all’indirizzo:
http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Froschkg_1900_1.jpg
Per la fiaba di Tremotino: immagine di George Cruikshank (Londra, 1792 –
Londra, 1878) nel primo volume delle German Popular Stories di Edgar Taylor
(cfr. 1.2 Traduzioni citate in questa sezione).
120
Ringraziamenti
A conclusione di questo lavoro, desidero ringraziare tutti coloro che hanno dato un
contributo non indifferente per la realizzazione dello stesso. In primo luogo, un
sentito ringraziamento va alla mia relatrice, professoressa Camilla Miglio, che non
solo ha permesso che scoprissi un mondo, quello della Letteratura Tedesca, a me
praticamente sconosciuto o quasi, prima che iniziassi il mio percorso accademico,
trasmettendomi la stessa passione e lo stesso entusiasmo che animano le sue
lezioni, ma ha anche valorizzato e incoraggiato la stesura di questa tesi, fornendomi
indicazioni e consigli utili in ogni momento.
Ringrazio di cuore la mia famiglia, in particolar modo i miei genitori e i miei nonni,
Francesca e Lorenzo, che mi hanno sempre dato un grande supporto, e a livello
materiale, e a livello morale, appoggiando sempre le mie scelte e standomi vicino
nei momenti più “critici”.
Un ringraziamento speciale va anche a tutti i miei colleghi di corso e non, in
particolar modo a Erica: tutti hanno, in un modo o nell’altro, lasciato un segno in
me, sia nelle situazioni piacevoli che in quelle più serie.
Grazie anche al personale della Biblioteca di Lingue di Villa Mirafiori per avermi
fornito molti dei materiali che sono stati utilizzati in questo lavoro e per avermi
accolto con calore e disponibilità.
121