Libro delle rime siciliane - Sezione di Filologia moderna

«Europa delle Corti»
Centro studi sulle società di antico regime
Biblioteca del Cinquecento
– 155 –
Edizione promossa
dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani
ANTONIO VENEZIANO
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
Edizione critica
a cura di Gaetana Maria Rinaldi
BULZONI EDITORE
INDICE
Presentazione di Costanzo Di Girolamo
VII
Libro delle rime siciliane
[Epistola dedicatoria al viceré di Sicilia Marcantonio Colonna]
[Poesie in lode dell’autore]
[Celia.] Libru primu di li canzuni amurusi siciliani
[Epistola e ottave di Cervantes a Veneziano e sonetto di risposta di Veneziano]
Canzuni spirituali
Libru secundu di li canzuni amurusi siciliani, et alcuni di sdegnu
Sdegnu
[Canzuni]
Arangeida
Puttanismu
Cornaria
Marci Gentiluccii de Amoribus Philippi Parute ex siculo Antonii Veneziani
Amores Philippi Parutae
[Ottavi]
Agonia
Nenia
Sigle dei manoscritti e dei titoli
Apparato critico
Descrizione del manoscritto autografo di Francesco Carapezza
L’edizione delle rime di Antonio Veneziano di Gaetana Maria Rinaldi
Indice dei capoversi
¤11
¤23
1
146
161
215
379
400
*1
*14
*25
*33
*34
*70
*91
*107
PRESENTAZIONE
aetana Maria Rinaldi (1941-2011) ha lasciato inedita e incompiuta la sua
edizione critica dell’opera siciliana di Antonio Veneziano, a cui aveva lavorato per oltre trent’anni.1
La trascrizione dei testi appare sotto ogni aspetto impeccabile; così anche
l’apparato critico, limpido e puntualissimo. Ben diverso è lo stato del commento. Le prime cento canzuni della «Celia» hanno un fitto corredo di note, spesso
1
L’edizione era conservata in quattordici file del suo computer, corrispondenti a quattordici delle quindici sezioni in cui si articola l’autografo: la sezione mancante, ovvero la seconda (le
poesie d’encomio del poeta composte da altri autori), è invece presente soltanto in una stampa
da computer di tutti i testi e dell’apparato databile con qualche approssimazione, a giudicare dai
caratteri impiegati e dal tipo di stampante, ai primi anni novanta: a questo periodo deve infatti
risalire la prima trascrizione digitale. I file in nostro possesso, che sono stati certamente aggiornati di continuo, rendono comunque superata la stampa, a cui si deve ricorrere solo per la seconda sezione. Il succedersi nel tempo di nuove versioni del programma di scrittura adottato,
non sempre del tutto compatibili con le precedenti, ha causato dei piccoli guasti, nella fattispecie delle lacune, in prossimità delle virgolette caporali, un problema ben noto ai tecnici e a molti
sfortunati utilizzatori del software. Convertendo i file in una delle ultime versioni del programma, vengono generati dei messaggi di errore: nella quasi totalità dei casi, tuttavia, le omissioni
sono state notate e integrate dall’editore; nei pochissimi casi in cui ciò non è avvenuto, si è
provveduto a risalire al manoscritto e, per eccesso di scrupolo, a trovare conferma nella concordanza elettronica in formato solo testo (e pertanto non danneggiata) allestita dalla studiosa come
strumento di lavoro e inclusa nella stessa cartella. Un ulteriore file, «Duplicate», raccoglie le
canzuni ripetute e quindi escluse, in quanto doppioni, dalle sezioni in cui compaiono per la seconda volta. I lavori di Gaetana Maria Rinaldi dedicati a Veneziano sono: «Due parodie del Pater noster e un inno latino tra gli apocrifi di Antonio Veneziano», Bollettino del Centro di studi
filologici e linguistici siciliani, 14, 1980, pp. 186-220; «Il repertorio delle canzuni siciliane dei
secoli XV-XVII», ivi, 18, 1995, pp. 41-108, dove lo studio di Veneziano è inserito nel più vasto
progetto di un inventario delle canzuni; «I secoli XVI-XVII», in Costanzo Di Girolamo, G. M.
R., Salvatore Claudio Sgroi, «La letteratura siciliana», in Lingua e dialetto nella tradizione letteraria italiana, Roma, Salerno, 1996, pp. 359-394, alle pp. 369-380; «Antonio Veneziano» [testi, traduzione e commento], in La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento, a
cura di Franco Brevini, 3 voll., Milano, Mondadori, 1999, vol. I, pp. 642-672; «L’edizione delle
rime di Antonio Veneziano», in Le parole dei giorni. Scritti per Nino Buttitta, a cura di Maria
Caterina Ruta, 2 voll., Palermo, Sellerio, 2005, vol. I, pp. 504-516, che ristampiamo in questo
volume.
VIII
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
preceduto da un cappello: l’annotazione riguarda le fonti letterarie, aspetti della
versificazione (specie delle rime, determinanti per la questione attributiva) e ovviamente della lingua, a cui Rinaldi sembra dedicare, come era da aspettarsi anche in ragione delle difficoltà che essa presenta, un’attenzione particolare. Nel
resto della «Celia» e nelle altre sezioni l’annotazione si dirada e per parecchi
componimenti manca del tutto. È evidente che l’editore, considerando prossima
la conclusione del suo lavoro dopo il definitivo assestamento del testo, aveva
avviato ordinatamente, partendo dall’inizio, la revisione e il completamento del
commento, operazione portata a termine solo per poco più di un terzo della
«Celia». A parte la loro frammentarietà, le note, soprattutto dopo le prime cento
canzuni, contengono diverse segnalazioni di dubbi mediante punti interrogativi
o l’uso dell’evidenziatore. Nel testo, al contrario, non sono segnalati dubbi: le
rarissime forme evidenziate sembrano porre problemi linguistici o interpretativi
(non sono forme errate né di lettura difficile).
L’edizione dunque, così come ci è giunta, offre da un lato un testo e un apparato che con ogni probabilità, direi quasi certamente, non sarebbero stati più
oggetto di ripensamenti; dall’altro un commento ancora in fieri e ad ogni modo
non proponibile al pubblico con le sue incertezze. Il materiale contenuto nelle
note è tuttavia di inestimabile valore, frutto di un lavoro certosino sedimentato
nei decenni, e va conservato con ogni cura per un uso futuro. Di qui l’unica risoluzione che ci è parso lecito e possibile adottare: pubblicare subito il testo e
l’apparato critico in modo da offrire ai lettori e agli studiosi un’opera di grandissima qualità letteraria, poco nota fino ad oggi o diffusa in forma antologica
con l’immancabile farcitura di pezzi apocrifi, oltre che quasi sempre esibita nella falsa luce di una poetica popolare o popolareggiante; e rimandare a un futuro
si spera prossimo la realizzazione di un adeguato commento, da affidare a uno o
più studiosi, in cui sia ripreso, utilizzato e debitamente riconosciuto il lavoro
dell’editore.
a storia dell’edizione è riassunta dalla stessa Rinaldi nel saggio che riproduciamo alla fine di questo volume e va di pari passo con lo sceveramento
dei componimenti autentici da quelli falsamente attribuiti all’autore, soprattutto
nelle raccolte antologiche, a partire dalla prima metà del Seicento. Il canone è
quello tradito da nove ‘libri d’autore’, ovvero dalle raccolte dedicate interamente, o quasi, a Veneziano.2 Ma la svolta decisiva cade nei primi anni novanta e
2
«Per ‘libri d’autore’ intendo semplicemente quei testimoni, manoscritti o a stampa, che
riportano canzuni di un solo autore, senza riferirmi in alcun modo alla loro organizzazione interna, che resta naturalmente da accertare con un’analisi diretta e accurata» (Rinaldi, «Il repertorio delle canzuni», pp. 45-46, n. 14).
PRESENTAZIONE
IX
consiste nel riconoscimento dell’autografo nel manoscritto XI.B.6 della Biblioteca centrale della Regione siciliana Alberto Bombace, siglato PR10.3 In effetti
il libro si apre con un foglietto posticcio in cui un anonimo bibliotecario, forse
alla fine del secolo XIX, dichiara che «Il presente MS è autografo», aggiungendo però alcuni dettagli di fantasia: il manoscritto sarebbe stato vergato durante
la prigionia ad Algeri e Torquato Tasso avrebbe tanto ammirato l’autore da partire per andare a incontrarlo a Palermo, finché non gli giunse, durante il viaggio,
notizia della sua morte; di conseguenza, nessuno aveva preso sul serio la prima
affermazione, peraltro non sostenuta da nessun argomento.4 L’autografia è ipotizzabile anzitutto per le caratteristiche interne del manoscritto ed è confermata
dal fatto che tutti gli altri libri d’autore sono descritti da questo testimone, cioè
dipendono direttamente o indirettamente da esso:
Va detto […] che dei ‘libri d’autore’ […] si rivelano inservibili per la ricostruzione testuale i disordinatissimi e scorretti CN e PC15, che si collocano, sia pure su
un piano più alto, nella stessa costellazione di BM1, PR2 e PC21. Dei restanti, è
ancora inutilizzabile PR1, descritto dall’originale, ma mancante delle prime 32
pagine e quindi privo dei componimenti proemiali e delle ottave 1-15 della «Celia» [caduti in PR10]. Gli altri sono sostanzialmente compatti e, pur presentando
lacune varie, mostrano con chiarezza la loro provenienza dall’originale, del quale
riportano i doppioni, condividono i pochi errori […] e fraintendono in qualche
punto la lezione.5
3
Per le sigle si veda «L’edizione delle rime», qui a p. — [505], n. 2; sono le stesse sigle
usate per «Il repertorio delle canzuni siciliane», pp. 82-108.
4
«L’A. di queste sicule canzoni fu a’ suoi tempi il primo riputato così per fama come per
originalità. Nacque egli nel 1543 e morì nel 1593. Il presente MS è autografo e composto quando egli fu preso dai Turchi in Algeri. Fu egli amicissimo del Tasso il quale lo stimò tanto che
s’era partito per conoscerlo in Palermo ma intesane la morte tornò indietro». Veneziano fu catturato dai pirati il 25 aprile 1578, quando la galera in cui si trovava, al seguito della galera del
Presidente del Regno don Carlo d’Aragona Tagliavia, diretto a Madrid, fu intercettata da otto
galeotte barbaresche al largo di Capri e costretta alla resa: il poeta rimase nel bagno di Algeri,
dove incontrò Cervantes, per non meno di un anno e mezzo (Cervantes gli invia le sue octavas
reales il 6 novembre 1579, quando sono entrambi ancora prigionieri; ma il 28 novembre 1580
Veneziano, riscattato non si sa da chi, compare come testimone davanti a un notaio di Monreale). Morì il 19 agosto 1593 nell’esplosione del carcere-polveriera del Castello a Mare, dove era
detenuto per motivi non del tutto chiari. L’amicizia con il Tasso è ricordata da Giuseppe Pitré,
«Antonio Veneziano nella leggenda popolare siciliana», Archivio storico siciliano, nuova serie,
XIX, 1894, pp. 3-17, alle pp. 4-5, tra gli ingredienti di fantasia che hanno a lungo condito la sua
biografia.
5
«L’edizione delle rime», qui a p. — [509-510]. Rinaldi era convinta che l’autografia fosse ulteriormente provata dal «confronto con alcune lettere autentiche ritrovate nell’Archivio
della Cattedrale di Monreale» (ivi, qui a p. — [508]; ma ne faceva già cenno nel 1995, «Il repertorio delle canzuni», p. 46, n. 15). Antonio Ciaralli ha ora nuovamente messo a confronto il
manoscritto e i documenti, giungendo alla conclusione che questi ultimi sono vergati da due
mani diverse, entrambe di scriventi professionali, nessuna delle quali può essere identificata con
quella di chi ha scritto il codice.
X
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
Una volta definito il quadro della tradizione e individuato l’autografo, è ovvio
che la procedura editoriale cambia, benché, come osserva Rinaldi, la disamina
precedentemente avviata e la compilazione di un apparato completo sia stata comunque un’operazione indispensabile per determinare l’apocrifia di molti componimenti e la natura di descripti degli altri libri d’autore.6
Il «ductus posato e calligrafico» del manoscritto, «sottoposto qua e là a interventi correttori, con i titoli ingentiliti da disegni che talora sono assai elaborati e occupano tutta la pagina», fa indubbiamente pensare all’originale;7 o ci si
può chiedere se non si possa pensare, anche per l’impianto grafico, a un esemplare preparatorio, o all’abbozzo, di una stampa che non ci sarà mai. Esemplare
che si apre con una sorta di frontespizio che recita: «Di | Antoni Veneziani
ma[iuri]8 | Canzuni amurusi siciliani | In Algeri M | DLXXIX», con datazione
evidentemente anacronistica, perché, se non si può escludere, e anzi è probabile,
che un certo numero di canzuni sia stato composto durante la prigionia, il manoscritto, assemblato con lo stesso tipo di carta con la medesima filigrana, fu
certamente redatto almeno qualche anno dopo, dal momento che raccoglie opere posteriori alla cattività africana, a cominciare dall’epistola dedicatoria del
1581. Si può sospettare che la prigionia abbia significato per Veneziano l’evento capitale, nel bene e nel male, della sua vita, ossessivamente ricorrente nella
memoria e nella sua immaginazione poetica; e si comprende che essa sia messa
in primo piano, all’ombra del motto virgiliano «Sua cuique dies» contenuto in
un disegno allegorico, in quello che a rigore è un frontespizio di sezione (oggi
parleremmo di un occhiello), ma che simbolicamente si proietta sull’intera opera anche perché ne anticipa il diffuso motivo della prigionia, o piuttosto della
schiavitù, d’amore. Questo è l’unico ‘frontespizio’ che occupa un’intera pagina
dispari, seguita da pagina pari bianca. Occupano un’intera pagina pari, preceduta da pagina dispari bianca, i tre ‘frontespizi’ che precedono l’inizio della «Celia», l’inizio delle «Canzuni spirituali» e l’inizio dell’«Agonia». In ciascuno di
essi viene ripetuto nella stessa forma il nome dell’autore, «Di | Antoni Venezia6
«L’edizione delle rime», qui a p. —, n. 15 [508] e —-— [509-510]. Va aggiunto che ai
fini della restituzione del testo non cambierebbe alcunché se PR10 non fosse l’autografo, in
quanto, come detto, tutti gli altri testimoni sono suoi descritti e quindi da eliminare a norma della prassi ecdotica. Tuttavia, l’impianto generale del manoscritto e una serie di minuti dettagli a
cui stiamo facendo cenno depongono convincentemente a favore dell’autografia. Al manoscritto
mancano, per lacune meccaniche, due brevi componimenti encomiastici in latino e i primi versi
dell’elegia di Paruta nonché quattro canzuni (8-11), testi per i quali l’editore ha fatto ricorso alla
tradizione (ivi, qui a p. — [509]).
7
Ivi, qui a p. — [508].
8
L’aggettivo ‘maggiore’, anche nei documenti, serve a distinguerlo da un nipote di un anno più giovane. Nel libro la forma Veneziani, prevalente, si alterna a quella Venezianu, che doveva essere il conome di famiglia. Il nome è normalmente Antoni, ma in calce alla dedica è Antoniu.
PRESENTAZIONE
XI
ni ma[iuri]», davanti al titolo della sezione. La «Celia» è intitolata «Libru primu
| di li canzuni amurusi | siciliani» (ma alla fine: «Fini di la | Celia»). Il «Libru
secundu» ha solo un fregio tra l’intitolazione («Di | Antoni Veneziani maiuri |
Libru secundu | di li canzuni amurusi | siciliani et alcuni di | sdegnu») e la prima
canzuna; così pure la sezione «Sdegnu» («Sdegnu | di Antoni Veneziani») e la
«Nenia» («Di | Antoni Veneziani ma[iuri] | la Nenia»). Altre quattro sezioni
hanno solo i titoli, in tutte maiuscole («Arangeida», «Puttanismu», «Cornaria»)
o in maiuscole/minuscole (l’intitolazione dell’epigramma di Marco Gentiluccio
preposto alla sezione degli «Amores»: «Marci Gentiluccii | De | Amoribus Philippi Parutae | ex siculo | Antonii Veneziani»; la sezione è dotata a sua volta non
di un titolo ma di titoletti che si ripetono ad ogni pagina e che chiameremmo
oggi delle testatine: «Amores» [pp. pari], «Philippi Parutae» [pp. dispari]); e
due sono anepigrafe (una serie di altre canzuni e una di ottave);9 lo sono anche,
ma è più comprensibile, l’epistola dedicatoria e le poesie encomiastiche di altri
autori). Rinaldi ipotizza che il titolo complessivo dell’opera possa essere andato
perduto per la caduta delle pagine iniziali.10 In ogni caso, il ‘frontespizio algerino’ non è riferibile alle canzuni spirituali e ai componimenti satirici (canzuni e
poemetti) e, nonostante, come dicevo, la sua valenza simbolica, data e localizza,
forse con ampia approssimazione, solo la «Celia».
A una stampa pensava anche Isidoro La Lumia riflettendo, non sul nostro
manoscritto, ma sulla dedica, che secondo lui «doveva precedere ad una futura
pubblicazione in istampa».11 Qui si legge:
E ni mandu a Vostra Signuria lu primu libru, chiłłu chi turnandu iu d’Algeri mustrai in Marsiglia a lu signuri don Carlu fratri di V.S., e ci lu mandu per tutti li ri-
9
L’ottava è un’invenzione di Veneziano, «al quale si deve pertanto anche la denominazione della forma», ripresa da autori successivi. Consiste in una sequenza di otto canzuni: mettendo di seguito l’ultimo verso di ciascuna di esse, si genera una nona canzuna (la mastra), «un testo fantasma, che ‘si cela’ smembrato e perfettamente contestualizzato» (Rinaldi, «Il repertorio», p. 68 e 69, n. 77). Questa sezione del libro contiene quattro ottavi, che generano, per quattro volte, la stessa mastra. Ogni ottava è numerata («Ottava I» ecc.), ma la sezione è senza titolo
(ci aspetteremmo un plurale). Sugli eventuali rapporti tra l’ottava e i centoni di Laura Terracina
da un lato e la glosa spagnola dall’altro si veda ancora Rinaldi, ivi, pp. 68-69, n. 76. Si ricordi
che nella terminologia siciliana dell’epoca l’ottava è esclusivamente questa forma metrica,
mentre la canzuna è quella che noi chiamiamo ottava siciliana; l’octava real di Cervantes è invece, com’è noto, l’ottava toscana, introdotta in Spagna da Boscán all’inizio del secolo. Nel libro non compare mai canzuna al singolare, ma nella rubrica di «Agonia» si dichiara che si tratta
di «una canzuni di orditura a la toscana»: è possibile che il sing. canzuni riveli qui un adattamento del morfema toscano e che si distingua così tra la canzuna (‘ottava siciliana’) e la forma
d’importazione.
10
«L’edizione delle rime», qui a p. — [509].
11
Isidoro La Lumia, «Antonio Veneziano o un cinquecentista di Sicilia», Nuova Antologia,
seconda serie, XV, 1879, pp. 181-199, a p. 187.
XII
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
spetti chi autri li consacranu a gran Principi, e per unu chiù di tutti, chi è perchì lu
merita.
Nei manoscritti il dedicatario non è nominato e perfino il più attento biografo di
Veneziano, il canonico monrealese Gaetano Millunzi, rinunciava a qualsiasi identificazione.12 In realtà già Salvatore Arceri aveva intuito di chi potesse trattarsi e in nota al luogo sopra riportato scriveva:
Nei MSS. della Collegiana, e della Senatoria di Palermo si tace il nome del personaggio, cui fu dal nostro poeta indirizzata la presente epistola dedicatoria col primo libro della «Celia»; intanto dalla seguente ottava dello stesso autore, così concepita
Per vita di quant’ami, per tua fè,
fatti, signuri, un scavu, chi pòi farlu;
perchì un faguri di la xorta ch’è,
essendu tu cui sì, non pòi negarlu.
Si vai pr’ambaxaturi appressu un re
e zo chi peti speri d’impetrarlu,
tegnu chi cu to frati vicerè
pòi fari zo chi voi, chi sì don Carlu.
chiaramente si detegga, che il nominato sig. D. Carlo si era uno dei fratelli del Viceré di quella epoca 1581; quindi è presumibile che fosse stata diretta al sig. Marco Antonio Colonna allora Viceré di Sicilia.13
La Lumia riprende l’identificazione di Arceri, senza tuttavia citarlo, e aggiunge
qualche altro dettaglio:
Il Veneziano s’imbarcò ad Algeri in una nave che lo condusse a Marsiglia, ove
s’incontrò per caso in un cavaliere italiano di sua conoscenza, che noi ci accordiamo a ritenere uno dei fratelli del viceré Marco Antonio Colonna, il quale (a
quanto sembra) inviato presso la corte di Spagna, avea fatto sosta nella detta città.
Mostratogli il primo libro della «Celia», che reputava già finito di tutto punto, il
Veneziano chiedevagli protezione e raccomandazioni pel viceré, cui divisava esibire e apparecchiava la dedica.14
12
Gaetano Millunzi, «Antonio Veneziano», Archivio storico siciliano, nuova serie, XIX,
1894, pp. 18-198: «nel 1581 [il V.] dedicava, non so a qual Signore, il primo libro della Celia»
(p. 63).
13
Opere di Antonio Veneziano poeta monrealese raccolte dal fu dottor Giuseppe Modica
riordinate, accresciute e pubblicate dal sacerdote Salvatore Arceri, Palermo, Tipografia Giliberti, 1859 (poi stampa identica con data 1861 e con diverso frontespizio: Opere di Antonio Veneziano poeta siciliano riunite e tradotte pel sacerdote Salvatore Arceri), p. 2. Cito la canzuna
(«Libru secundu», 127) secondo il testo di Rinaldi.
14
La Lumia, «Antonio Veneziano o un cinquecentista di Sicilia», p. 189.
PRESENTAZIONE
XIII
Il dedicatario è dunque Marcantonio Colonna (1535-1584), l’ammiraglio
pontificio vincitore di Lepanto, viceré di Sicilia dal 1577 alla morte: Veneziano
si era già adoperato a rendergli onore partecipando ai preparativi per il suo ingresso trionfale a Palermo pochi anni prima. Se non che Marcantonio Colonna
non aveva nessun fratello di nome Carlo. Don Carlo è in realtà Carlo d’Avalos
d’Aquino d’Aragona (1539-1612) e i due erano non fratelli bensì cugini di primo grado, figli di due sorelle, Maria e Giovanna d’Aragona. Carlo aveva avuto
un vero fratello viceré, Francesco Ferdinando (Ferrante) d’Avalos, che però nel
1581 era morto da dieci anni. La partenza per l’ambasceria alla corte di Spagna
è documentata nel novembre del 1577 (è perciò probabile, se la fonte non cade
in errore sull’anno, che l’incontro con il poeta sia avvenuto al ritorno da Madrid, non prima della fine del 1579, perché nel 1577 Veneziano non era stato
ancora catturato dai pirati):
Una di esse [galere] portò non molto dopo sino a Marsiglia D. Carlo d’Avalos
spedito in Ispagna per parte della Nobiltà di Napoli ad offerirsi ai servizi del Re
nella guerra di Fiandra.15
L’impiego del termine fratello invece di cugino può avere varie spiegazioni, la più semplice delle quali è che in diverse varietà regionali ci si riferisce ai
cugini di primo grado come a fratelli cugini. Sappiamo comunque dalla testimonianza dell’ingegnere militare Sforza Pallavicino, il quale riferisce nei dettagli di un violento litigio tra i due avvenuto il 26 settembre 1570 nella baia di
Tristamo a Scarpanto all’inizio della guerra di Cipro, che Marcantonio si definiva «fratello maggiore» di Carlo. Il racconto di Pallavicino è ripreso da storici
antichi e moderni:
Replicò il signor Giovann’Andrea [Doria] che il marchese [Giovan Francesco di
Sangro marchese di Torremaggiore] non havria fatto quello che esso signor
Marc’Antonio gli havesse commandato, ma quello che gli havesse commesso lui
solo. In questo disse il signor don Carlo Davalos, che si trovava presente, che né
lui manco haveria obbedito il signor Marc’Antonio, ma sì bene il signor Giovann’Andrea, et che lui ancora havea pur gente in quell’armata. Il signor Marc’Antonio li disse che non dovea parlar così con un suo fratello maggiore, che voleva
che sapesse che havea commandato a maggiori huomini di lui. Il signor Giovann’Andrea ordinò al detto signor Carlo che se ne andasse; et lui se ne andò.16
15
Monumenta historiae patriae edita iussu Regis Caroli Alberti. IV. Scriptores, II. Storia
delle Alpi Marittime di Pietro Gioffredo, libri XXVI, Augustae Taurinorum, E Regio Typographeo, MDCCCXXXIX, col. 1589.
16
Alberto Guglielmotti, Marcantonio Colonna alla Battaglia di Lepanto, Firenze, Le
Monnier, 1862, p. 90, n. 75.
XIV
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
Si può anche pensare che le vicende della vita avessero avvicinato come
fratelli i due cugini, al punto da giustificare, nel loro lessico familiare, il termine. La madre di Marcantonio, Giovanna, aveva abbandonato subito dopo la sua
nascita il violento marito Ascanio, che nel 1552 diseredò il figlio, l’unico maschio sopravvissuto; e Carlo aveva perduto il padre all’età di sette anni. I bambini dovevano avere trascorso insieme lunghi periodi a Ischia per poi, adulti,
coincidere diverse volte nei luoghi più diversi, da Lepanto nel 1571 a Palermo,
dove Carlo era stato chiamato già nel 1570 dal fratello Francesco Ferdinando
per tornarvi, assumendo importanti incarichi, dal 1575 all’inizio degli anni novanta. Qui era anche vissuta, per alcuni anni, la figlia Maria, famosa per la sua
bellezza, cantata da Tasso, da Paruta e dallo stesso Veneziano («Libru secundu», 68-75), andata in sposa in seconde nozze nel 1580, ventenne, al siciliano
Alfonso Gioeni marchese di Giuliana, poi uccisa nel 1590 a Napoli dal terzo
marito, il musicista Carlo Gesualdo principe di Venosa.
Naturalmente, che Veneziano nel 1581 si rivolgesse a Marcantonio Colonna sperando in un suo aiuto per la stampa è solo un’ipotesi di La Lumia, che poi
ne giustifica la mancata realizzazione con gli infortuni che turbarono gli ultimi
anni di vita del viceré (la scandalosa relazione con una giovanissima nobildonna
siciliana, l’accusa di averne fatto assassinare il marito e il suocero, l’arrivo a Palermo di un ostile visitatore generale, cioè di un ispettore della corona).17 Del
resto, è l’autore stesso che nella dedica dell’81 presentava come finito solo il
primo libro (meno di un terzo di quanto ci è giunto), sicché è assai dubbio che
tre anni dopo, quando Colonna, sulla via di Madrid per essere ricevuto dal re,
morì a Medinaceli, avesse già assunto le dimensioni che conosciamo. È probabile che Veneziano abbia lavorato al manoscritto fino alla sua improvvisa e tragica morte: dotato di spiccate qualità artistiche, messe in opera nelle scenografie accuratamente progettate per le feste ufficiali,18 aveva già predisposto, o
piuttosto abbozzato, un corredo grafico che l’incisore avrebbe dovuto seguire.
Quindi è di una bozza, di un manoscritto di lavoro con correzioni e con pagine
lasciate in bianco o perfino asportate,19 non di un vero e proprio modello per la
stampa, che preferiamo parlare; tanto meno di un libro-dono, benché, soprattutto nella prima parte, si presenti come una copia a buono. Nell’esemplare definitivo sarebbero certo state eliminate le canzuni ripetute, sarebbe stato dato un ti-
17
Si veda la biografia di Nicoletta Bazzano, Marco Antonio Colonna, Roma, Salerno, 2003.
Vedi per esempio le descrizioni degli archi pubblicate nell’edizione Arceri, pp. 162-197.
19
Le pp. 179-214 saranno state eliminate dall’autore stesso perché nell’incipitario alfabetico alla fine del codice non c’è nessun rimando a componimenti in queste pagine (potrebbero essere state asportate da altri solo nel caso avessero contenuto componimenti diversi dalle canzuni, le uniche indicizzate).
18
PRESENTAZIONE
XV
tolo alle sezioni anepigrafe e sarebbe stata o eliminata o completata l’«Arangeida», che termina inaspettatamente, con un verso incompleto e dei puntini.
La successione delle sezioni nel manoscritto, e si suppone dei singoli componimenti all’interno di ciascuna, non sembra temporale, e non stupisce che un
petrarchista abbia raccolto, dall’antico maestro, il modello di un libro d’autore
in qualche modo strutturato, ovvero di un ‘canzoniere’,20 sia pure ancora in fieri. Anche in questo caso non possiamo essere certi che l’ordinamento che abbiamo sotto gli occhi sarebbe stato quello definitivo e il dubbio principale riguarda la parte finale, nonché la presenza e la posizione, accanto alla lirica alta
(compreso semmai il suo rovesciamento: le canzuni di sdegno) e a quella scherzosa, dei tre poemetti realistico-burleschi in capitoli ternari («Arangeida», «Puttanismu» e «Cornaria»). Il nucleo più antico deve essere il «Libru primu», ossia
la «Celia», non sappiamo se nella stessa forma in cui era stato mandato al viceré
nel 1581. Esso è preceduto, appunto, dall’epistola dedicatoria, un raro esempio
di prosa letteraria siciliana cinquecentesca, ricordato anche da D’Ancona e da
Pitré,21 e dai componimenti d’encomio in latino, italiano e siciliano. Alla «Celia» segue il carteggio con Cervantes, del 1579, e le indatabili «Canzuni spirituali». Il «Libru secundu di li canzuni amurusi siciliani, et alcuni di sdegnu»,
«assai poco coeso»,22 rappresenta con le sue 312 canzuni la sezione più ampia:
la canzuna indirizzata a don Carlo (127) è collocabile tra il 1580 circa e il 1584
(è posteriore all’ambasceria in Spagna e anteriore alla morte del viceré); se il
ciclo per Maria d’Avalos (68-75) fu composto in occasione del suo matrimonio,
come ipotizza Rinaldi, risalirebbe al 1580; e andremmo indietro fino al 1576 se,
come sembra certo, Di l’armi lu marchisi m’interdissi (126) fa riferimento a ricorsi giudiziari di quell’anno.23 Anche indatabile «Sdegnu», un gruppo, stavolta
molto coeso, di componimenti di disamore, alcuni di insolita violenza verbale.
Nella sezione anepigrafa di canzuni (25) si fa il nome di una Francesca («comu
potti nè pò nè purrà mai / spisarsi [‘dimenticarsi’] Antoni di la sua Francisca?»),
che non può essere che Francesca Porretta, la serva di una suora terziaria domenicana rapita da Antonio nel 1573, che per questo finì in carcere e fu diseredato
20
Questa è anche l’opinione dell’editore, che isola «il caso del Veneziano, titolare di un
vero canzoniere», dagli altri ‘libri d’autore’, che sono per lo più «piccole raccolte occasionali,
messe insieme dall’autore stesso […] o da qualche estimatore» («Il repertorio delle canzuni», p.
46, n. 14)
21
Alessandro D’Ancona, Origini del teatro in Italia, 2 voll., Firenze, Le Monnier, 1877,
vol. II, p. 336, n. 1; Giuseppe Pitré, Spettacoli e feste popolari siciliane, Palermo, Pedone, 1881,
p. 253
22
Rinaldi, «L’edizione delle rime», qui a p. — [507].
23
Ivi, n. 10 [507]. Nella canzuna Veneziano chiede a un suo patruni di intercedere presso
il presidente Carlo Tagliavia affinché gli venga nuovamente concessa la facoltà di portare le
armi, negatagli dal viceré d’Avalos per eventi risalenti al 1564 (Millunzi, «Antonio Veneziano», pp. 41-52).
XVI
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
dalla madre:24 la canzuna non è databile ma è difficile che sia stato scritta molto
tempo dopo i fatti. L’elogio del poeta, incisore e pittore Francesco Potenzano,
nella stessa sezione (93), non può essere posteriore al 1582, quando apparve in
un opuscolo stampato a Napoli.25 Più problematico è individuare i componimenti con datazione più bassa. Nell’«Arangeida» si nomina un Ramundino che
potrebbe essere Niccolò Raimondo, processato a Monreale nel 1596 per sodomia:26 essendo poco credibile che la sua notorietà durasse decenni senza suscitare l’interessamento della giustizia, potremmo pensare che il poemetto sia stato
scritto non molto prima del processo, ossia negli ultimi anni di vita di Veneziano. Come si vede, il canzoniere non segue un filo cronologico e l’ordinamento
sembra ispirato a criteri di variazione e di alternanza, con anticipazioni (come le
canzuni di sdegnu incluse nel «Libru secundu», che precedono la sezione «Sdegnu») e riprese (come l’encomio dell’amico spagnolo tenuto separato da quelli
degli amici siciliani). Non si può tuttavia escludere che la successione, nella
parte finale, cominci a divenire almeno in parte cronologica: forse le canzuni
della sezione senza titolo erano in attesa di una più adeguata collocazione; e le
traduzioni di Paruta sono comunque ad esse posteriori, includendone tre; a una
dunzełła di nome Isabella è rivolta una delicata canzuna (ancora nella sezione
anepigrafa, 63), ma alla stessa persona, ormai sposata, «Isabella La Turri di
Monreale, […] il poeta più tardi sdegnato e pieno di bile indirizza una delle
peggiori satire in terza rima», cioè «Puttanismu».27 E potrebbe portarci alla seconda metà degli anni ottanta, secondo un’ipotesi della stessa Rinaldi, l’epigramma di Marco Gentiluccio, insigne umanista spoletino che fu maestro di
grammatica ad Alcamo dal 1572 al 1594 e che soggiornò a lungo a Palermo,
dove avrà conosciuto Veneziano e Paruta, tra il 1586 e il 1589.28 Quanto meno,
se fino a «Sdegnu» e forse alla sezione senza titolo si osservano alterazioni della sequenza temporale, esse non sono più documentabili o ravvisabili nella parte
finale, cioè a partire dall’«Arangeida», anche se si può supporre che opere in
ogni caso più tarde siano state accorpate per forme metriche (capitoli, ottave,
canzuni a la toscana). E non sarà nemmeno casuale che la numerazione d’autore delle pagine si interrompa subito prima del primo poemetto. Ma la stessa
24
Millunzi, «Antonio Veneziano», pp. 53-54 e 87.
Rinaldi, «L’edizione delle rime», qui a p. —, n. 10 [507]. L’opuscolo è intitolato Rime di
diversi ed eccellentissimi autori in lingua siciliana, con le risposte di Fr. Potenzano, Napoli,
Salviani et al., 1582. Quello stesso anno Potenzano era stato incoronato a Palermo sommo poeta
alla presenza del viceré.
26
L’ipotesi è ancora di Rinaldi, in nota al v. 199; anche in La poesia in dialetto, p. 662,
n. 12.
27
Millunzi, «Antonio Veneziano», pp. 86-87; cfr. Rinaldi, in La poesia in dialetto, p. 665,
n. 1.
28
Rinaldi, «Due parodie del Pater noster», p. 195, n. 38. «L’epigramma del Gentiluccio
celebra il gemellaggio delle muse “Latiae” e “Sicelides”» (ibid.).
25
PRESENTAZIONE
XVII
operazione di copia sembra essere stata complessa e non proprio lineare. L’editore osserva che «a un modo di trascrizione calligrafico, che è prevalente, se ne
alterna uno più veloce e corsivo. Questo si verifica […], assai probabilmente,
[in relazione] a due fasi temporalmente distinte. […] Se è così come sembra,
l’Autore mise in ordine i foglietti (o i quinterni) a copiatura ultimata, prima di
compilare l’indice».29
Se dunque abbiamo qualche indizio per pensare che il poeta lavorasse al
suo canzoniere fino a poco prima della morte, più difficile è capire quando abbia messo mano alla copia. Si è già detto che l’anno apposto in calce al ‘frontespizio algerino’ è inservibile come datazione del manoscritto. Quanto all’epistola dedicatoria, peraltro priva del nome del dedicatario, non è nemmeno detto
che sia stata trascritta quando Colonna era ancora in vita. L’epistola accompagnava certamente la «Celia» mandata in dono al viceré il 13 dicembre 1581; ma
potrebbe essere stata ricopiata, in vista semmai di un suo riuso o di una sua riscrittura, per la sua qualità letteraria e perché conteneva una difesa a spada tratta del siciliano come lingua poetica, non certo per il suo carattere occasionale e
cerimonioso.
ome si sarebbe intitolato il canzoniere? Sicuramente avrebbe avuto un titolo in siciliano, che è la lingua, oltre che di tutti i componimenti dell’autore
salvo il sonetto all’amico spagnolo, anche dei titoli dei libri o delle sezioni, delle rubriche e dell’indice dei capoversi («Tavula | di li suprascritti canzuni»).30
Forse non sarebbe mancato nel titolo Canzuni, seguito da qualche specificazione (comprende canzoni d’amore, spirituali, di sdegno), ma solo qualora fossero
stati tenuti fuori i tre capitoli. L’aggettivo siciliani, nei titoli dei due libri, si riferisce principalmente, credo, alla forma metrica più che alla lingua; ma il canzoniere si conclude con due ‘canzoni alla toscana’, sicché forse l’aggettivo sarebbe caduto. Congetturare un titolo siciliano e imporlo all’edizione avrebbe
generato un falso; e inoltre la presenza dei poemetti realistico-burleschi avrebbe
comportato un’intestazione della massima genericità. Abbiamo pertanto preferito riprendere il suggerimento dell’editore, che chiama l’autografo, virgolettando
e inevitabilmente in italiano, «il ‘libro delle rime siciliane’».31 E poiché abbia29
Rinaldi, «L’edizione delle rime», qui a p. — [515] e n. 42. «[…] il primo dei due modi
riguarda interamente “Celia” e “Canzoni spirituali”; discontinuamente “Libru secundu” e “Sdegnu”, e poi di nuovo per intero “Ottavi”, “Agonia” e “Nenia”» (ivi, qui a p. — [516]).
30
Ciò tuttavia non è affatto ovvio: soprattutto a partire dai primi decenni del Seicento, si
danno a volte titoli italiani a raccolte poetiche siciliane (e questo era già il caso della silloge per
Potenzano). Ma una raccolta d’autore non avrebbe potuto avere che un titolo d’autore e nella
lingua esaltata dall’autore.
31
Rinaldi, «L’edizione delle rime», qui a p. — [508].
XVIII
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
mo insinuato che il libro così come ci è giunto contiene forse qualcosa di troppo
(i capitoli) e qualcosa ancora fuori posto (le canzoni della sezione anepigrafa)
rispetto all’ideale canzoniere che l’autore, si suppone, progettava, possiamo anche chiederci se qualcosa sia rimasto fuori. Il rigoroso lavoro preparatorio dell’edizione condotto da Rinaldi sulle antologie oltre che sui libri d’autore consistente nella disamina, come si è già detto, di fenomeni linguistici garantiti dalla
sede di rima ha sottratto a Veneziano una quantità di componimenti che gli erano stati attribuiti prima dalla tradizione manoscritta, poi da quella a stampa.32 In
questa vasta mole di apocrifi la porzione numericamente più importante è certo
quella dei proverbi, disseminati nelle antologie e poi confluiti in una Raccolta
apparsa a Palermo nel 1628 e più volte ristampata:33 «un caro gioiello paremiografico», secondo Pitré, «ma che non sarebbe lecito attribuirgli senza il beneficio dell’inventario».34 Abbiamo insomma motivi per credere che l’autografo definisca il canone dell’autore, le sue opere siciliane autentiche e approvate, al di
fuori delle quali, fino a prova contraria, non dovrebbe esserci altro.35 Nessun indice cronologico ci rimanda a prima dell’inizio o piuttosto della metà degli anni
settanta per la produzione in siciliano e potrebbe risultare strano che Veneziano
cominciasse la sua attività poetica in questa lingua a più di trent’anni. Il libro
tuttavia potrebbe contenere canzuni anteriori agli anni settanta ma per noi indatabili; inoltre non si può escludere che una precedente produzione sia stata rifiutata e quindi sia andata dispersa; oppure possiamo anche pensare che la scelta
del siciliano sia un’opzione tanto convinta quanto tardiva rispetto a quelle dell’italiano e del latino, in cui aveva già dato prova di sé. L’edizione di Gaetana
Maria Rinaldi propone perciò l’opera siciliana certa di Veneziano in un testo
per la prima volta criticamente vagliato, offrendo allo studio degli specialisti e
all’apprezzamento dei lettori il canzoniere di un grande poeta, a tutt’oggi pressoché sconosciuto, del Rinascimento europeo.
Costanzo Di Girolamo
CRITERI DELL’EDIZIONE
I criteri generali dell’edizione, nonché i pochi interventi sulle
grafie, sono illustrati dall’editore nel saggio che pubblichiamo alla fine del volume, che
funge anche da vera e propria nota al testo.
REVISIONE DELL’EDIZIONE
32
Hanno riletto e controllato insieme con me l’edizione France-
Le questioni attributive sono affrontate principalmente in «Due parodie del Pater noster» e nello studio ristampato in questo volume, «L’edizione delle rime».
33
Antonio Veneziano, Raccolta di proverbi siciliani in ottava rima, Palermo, Maringo,
1628.
34
Pitré, «Antonio Veneziano nella leggenda popolare siciliana», p. 16.
35
Sono 807 canzuni più quattro componimenti lunghi per un totale di 7507 versi: poco
meno del canzoniere di Petrarca (7785 versi).
PRESENTAZIONE
XIX
sco Carapezza, Pasquale Musso e Francesca Sanguineti. I ritocchi principali rispetto al testo definito dall’editore, tutti in numero ridottissimo e di carattere puralmente formale,
hanno riguardato l’uso delle maiuscole e delle minuscole e aspetti della punteggiatura. Carapezza, oltre a firmare la descrizione del manoscritto, ha sistemato insieme con Musso
l’apparato, intervenendo su dettagli anche in questo caso esclusivamente grafico-formali;
Sanguineti ha redatto l’incipitario.
NUMERAZIONE, IMPAGINAZIONE, TITOLATURA Le canzoni della «Celia» hanno una numerazione da 1 a 289 della stessa mano che ha copiato tutto il testo ma in un inchiostro di colore più chiaro; sono anche numerate dalla stessa mano le elegie degli «Amores». L’editore
ha numerato le canzuni degli altri libri o sezioni escludendo dalla numerazione le canzoni
ripetute. I componimenti del primo libro e occasionalmente di altre parti dell’opera sono
preceduti nel manoscritto da rubriche: per esigenze tipografiche, ovvero per dare un assetto
uniforme alle pagine, abbiamo allogato tali titoletti al margine superiore destro di ogni canzuna, riservando il margine superiore sinistro al numero d’ordine (nella «Celia» i numeretti
sono apposti nel manoscritto alla fine delle rubriche; negli «Amores» al centro della pagina); per lo stesso tipo di esigenze abbiamo dovuto separare l’apparato dai testi: non ci è
sembrato comunque imperativo sistemarlo a piè di pagina perché, salvo che per i pochi testi assenti nel manoscritto (di Veneziano solo quattro), esso non registra che modeste varianti d’autore per i doppioni e fenomeni grafici secondari. Negli «Amores», in basso a destra del componimento siciliano, si dichiara la sua provenienza da altre sezioni. L’editore
ha chiuso tra parentesi quadre il titolo da lei dato alla sezione anepigrafa [«Canzuni»]. Abbiamo esteso questo stesso criterio ai titoli, che diamo in italiano, delle sezioni che contengono la dedica, le poesie di encomio, il carteggio con Cervantes. L’editore intitolava «Ottava» la sezione che comprende le quattro ottave: per seguire fino in fondo i suoi criteri, intitoliamo questa sezione al plurale, in siciliano (anche per evitare confusioni con la forma
strofica) e chiudendo il titolo tra quadre, dal momento che la sezione è priva di un titolo
complessivo d’autore. Al titolo del primo libro abbiamo preposto [«Celia»], che compare
solo nell’explicit.
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
[EPISTOLA DEDICATORIA
AL VICERÉ DI SICILIA MARCANTONIO COLONNA]
Costumanu in multi parti, undi cu li donni si tratta cu chiù libertati e mancu malizia, lu primu yornu di mayu pighiari lu chiù bełł’arvulu chi sia in chiłła contrata et cu soni e festa portarilu dintra la citati, e chiantarilu in mezu la chiù fagurita chiazza e sutta chiłłu ordinatamenti ricoghirisi tutti chiłłi chi fannu, castamenti però, insemi l’amuri; e łłà addanzari e cantari e sfocari lu so affettu l’unu
e l’autru tuttu chiłł’annu. E chiamasi tali arvulu mayu, et è chistu tantu in usu
chi, quandu per vintura volinu cantari e danzari ad autru locu, fannu una rota et
mettinu in mezu una bełła fighiola in cangiu di lu Mayu.
Iu, si ben hayu la cersa di la mia patruna cu li ghiandi sicchi per veru e propriu miu mayu, puru, lassandu da parti l’armi, mi su misu a fari una ricolta di li
canzuni in lingua nostra composti per issa ch’iu chiamu Celia, et hayu elettu ad
issa per miu mayu, comu a diri chi iłła chi sa tutti li mei passioni et amurusi
pinseri; poichì a l’umbra sua l’hayu cantatu e sfocatu.
E ni mandu a Vostra Signuria lu primu libru, chiłłu chi turnandu iu d’Algeri
mustrai in Marsiglia a lu signuri Don Carlu fratri di V.S., e ci lu mandu per tutti
li rispetti chi autri li consacranu a gran Principi, e per unu chiù di tutti, chi è
perchì lu merita.
Forsi lu mundu aspittiria autri primizij di l’ingegnu miu. Ma in quali lingua
potia meghiu fari principiu chi in chiłła chi primu non sulamenti imparai, ma
sucai cu lu latti? Et in quali sorti di componimenti chi in chiłła in la quali iu sarrò lu primu? Non già ch’iu sia lu primu poeta, ma perchì iu su lu primu chi nexu
a stu ringu di mandari in luci canzuni siciliani. E speru, quandu autru no, guadagnari la lanza di la damma. Ci su stati multi ch’hannu compostu longhi dicerij
e viti e historij, e si pensanu haviri trovatu la fama in menzu la fugazza. La opera bona è chiłła ch’è ben fatta, non chiłła ch’è prolixa. Cherilu presentau ad Alexandru Magnu un’opera in sua laudi: issu ordinau chi per quanti cosi c’eranu
boni ci fussiru dati tanti scuti, e per quanti ci nd’eranu tristi tanti pugna. Lu poviru poeta morsi di pugna.
Si cussì fattu fussi di l’operi, di multi ci sarrianu mancu dicituri e cussì nobili arti sarria in chiù riputazioni. Autri hannu havutu et hannu bełłissimi can-
4
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
zuni, ma pari chi loru stissi si schifassiru, nè li volinu stampari nè lassarili volinteri vidiri, comu si fussiru zitelli schetti e perdissiru per chistu la vintura, o
fussiru canfora chi l’airu si li mangiassi. Quantu chiù visti su li composiziuni
tantu chiù accetti su, sempri chi su boni, perchì da chiù sunnu approbati.
Starria friscu Homeru chi fu grecu e scrissi grecu, Horaziu chi fu d’undi si
parlava latinu e scrissi latinu, lu Petrarca chi fu tuscanu e scrissi tuscanu, s’a
mia chi su sicilianu non mi convenissi componiri sicilianu. E si Plautu happi a
summa grazia potiri imitari chiłłu primu comicu sicilianu Epicarmu, e Virgiliu
si tinni assai contentu di ritrairi l’Idilij di Teocritu puru sicilianu, iu chi su sicilianu m’haiu a fari pappagałłu di li lingui d’autru? O, la lingua Toscana è chiù
comuni et è chiù intisa: è veru in Italia, ma no in Sicilia, nè appressu li donni siciliani, a cui la mayur parti di li poeti cerca placiri e fari servituti. E chi fu chiù
miraculusu Fidia in fari Minerva d’avoliu, chi un cavałłu di petra? La poesia
non sta ne lu idioma, sta ne la vena, ne lu spiritu e ne li pinseri. Benchì iu, per
grazia di Diu, saccia autramenti scriviri, per hora m’è placiutu mustrarimi ne lu
miu proppiu visaggiu; quandu vurrò farimi mascara, mustrirò chi cussì beni
fazzu la mia parti comu ogni autru porria fari. E si ijssi per voliri sarisfari chiù,
haviria fattu o tanti odi, o tanti epigrammi. Ma risolvasi ognunu chi un grandi
affettu non si basta meghiu esplicari chi in maternu: e cussì videmu quand’unu
è troppu in colera o suverchiu allegru dà subitu ne la propia sua lingua, per istruttissimu chi sia di parlari autri linguaggi.
Vostra Signuria accetta per hora chistu pocu dunu, et in cussì picciula nuci
leya l’Iliadi di li tanti guai e peni chi per amari supportu. Di tuttu cori mi ci racomandu et offerixu.
In Palermu a 13 di decembru iiije ind. 1581.
Di V.S. ill.ri veru servituri
Antoniu Venezianu
[POESIE IN LODE DELL’AUTORE]
Illustri D. Hasdrubalis Lunae ad autorem
Arsisti ultra omnes foelix pro Caelia amantem
atque eius formae par tua fIamma fuit,
sed foelix omnes arsisti praeter amantes
in te cum fuerit non nisi castus amor.
In vultu mentis contemplabare decorem
tequeanimi expressus corpore alebat honos.
Antonii Xarabae V.I.D. ad eundem
Dictat amor, dictant Siculae tibi carmina musae,
haud alio poterant dulcius ore loqui.
Tu resonas totus musas et totus amorem
sit licet ingenii haec pars prope nulla tui.
Philippi Parutae Antonio Venetiano a pyratis capto
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Quis me iterum vocat ad lachrymas? heu nuncius ergo,
verus adest cladis, Veneziane, tuae?
Ergo per undosum voluisti querere pontum
Romanas arces et dare vela noto
ut patriam linquens male conciliatus abires
et pelago in medio barbara praeda fores?
Ah pereat quicunque fuit qui primus in arma
seviit, heu tanti causa futura mali.
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LIBRO DELLE RIME SICILIANE
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Ille etenim violans communia iura quietis
et pacem in toto quae prius orbe stetit
unanimes inter sparsit fera praelia gentes,
armavitque avidas ad mala nostra manus.
Hinc ira et bellum belloque immista rapina
et maris et terrae perniciosa lues.
Nempe olim potuit diffusa per aequora tutus
carpere securum quisque viator iter.
Non illum vi predonum turba improba pressit,
non iussit remis sollicitare salum;
aut operi insuetum crudeli verbere adegit,
multaque praescripsit non patienda pati.
O nimium deducta male ratis ali te, quantum
perdis, et o quantum barbarus hostis habet.
Tu certe fueras, quem nostra aetatibus aetas
protulit antiquis dexteritate parem.
Tu patriae lux mira tuae, tu insigne tuorum
lumen, et illustris gloria Trinacriae.
Te quoque credidimus Phoebo ductum esse per omnes
Musarum tractus, te super astra Poli;
unde ortus rerum, et causas, et sydera nosti,
et quae nascuntur corpora dissidio.
Quid dicam egregiae decus admirabile mentis,
atque agitantem animum maxima quaeque tuum?
Quid te sanguinei tractantem munera Martis
nomen in invicta quaerere militia
et stringentem ensem, capiti cristasque gerentem
per medias acies signa cruenta sequi?
O quoties memini, positis cum gratior armis,
ne quae esset famae palma negata tibi,
dicebas sive argolico, sive ore latino,
primas eloquium demeruisse tuum:
O quoties te propter aquam, placidissima Orethi
ripa ubi, et ad blandae murmura grata chelis;
audiit ipsa suam laudantem Coelia formam
Coelia plus oculis charior ipsa tuis.
Et stupefacta novo tenuerunt flumina cantu
et Pirus et Parcus et Nisus et Gabriel.
Nec nobis tantum unda maris re et nomine dulcis
dulce fluens quantum nectaris ore dabas.
Quin etiam nitidis ubi Cannizarius undis
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errat, et in torta labitur amnis aqua,
Zisa cubaeque ambae et reliquae longo ordine Nymphae
venerunt hilares, venit et ipsa Venus,
et Veneri iunctae Charites in marginis herba
plauseruntque vagis laeta per arva modis
atque leves circum choreas duxere moventes
se citharae ad numeros, docte poeta, tuos.
Hinc et Amor tibi mille rosas, tibi myrtea passim
serta, tibi flores (praemia rara) dedit;
teque fuisse olim voluit, qui carmine posses
et tela, et pharetram percelebrare suam.
Hei mihi, tu Latio teneri cantator Amoris,
tu satis occiduae cognitus Hesperiae,
te videre suis Hetrusci in vallibus Arni
qui Lauram cecinit, qui cecinitque Bicem;
et Siculos inter vates iam primus haberis,
iam tibi cesserunt teia fila lyrae.
Forsitan, ut tandem per te nunc discat amare.
Barbarus in Libya te sinit esse Deus
quod si regna sibi proferre est tanta Cupido
ut genus omne hominum sub iuga panda velit,
ecce nec adversis quicquam puer ille movetur,
te sine nos etiam barbara turba sumus.
Nil nisi triste gemens audimus, lumina circum
nescio quid maestum pervolitare vident.
Heu misere afflicti squalore iacemus iniquo,
et merito nobis collachrymare licet.
Qualis ob amissum Pollux suspiria fratrem
dicitur et fletus et repetisse preces,
quem doluisse ferunt querulum, noctesque diesque
maerentem totos et voluisse mori.
Sed mihi quis dabit, ut me me obiectare periclis
possim atque alterna te revocare vice?
Vidi ego, dum tantas hinc imo e corde querelas
funderem, inauditum, flectier inde fretum,
actamen, heu genus indignum, et feritate nefandum,
in nos semper erit perfida barbaries.
Verum, si qua manet pietas tutelaque vatum
in caelo et tangunt crimina saeva deos,
certe tempus erit quo tu fata aspera rumpas
sisque tuam patriam nosque beate potis
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meque tuosque simul currentes littore cernas
gestire, ac tandem per mare ferre pedes.
Et tibi mille dare amplexus, tibi dulcia mille
oscula, perque brevem conticuisse moram,
donec paulatim incipies narrare labores
exhaustos, et quae tunc meminisse iuvat.
O ego Partinica manu quae vina furenti
fundam, laetitiae dulcia signa meae?
Ecquis enim reduci non exultaret amico,
non fureret, furiet cum bene suadus Amor?
O ego tunc superum voti reus aurea cui non
munera? tunc cui non carmina laeta feram?
Inque tabella aderit: «Te, Venetiane recepto,
debens numinibus multa, Paruta dicat».
Di don Antonio Sanches de Luna in lode dell’Autore
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Pura beltà, che sotto bianco velo
leggiadra appaia e non di strani fregi,
ma negletta con arte sol si fregi
del vago che le diè cortese il cielo,
degna più d’altra fia, ch’ardente zelo
rapisca i petti a dir gli honori e i pregi,
ond’ella adorna avien ch’altera spregi
lui, che volando fa cangiarne il pelo.
Tua fia dunque la gloria, il pregio e ’l vanto;
a te l’eternità scolpisca i marmi,
divino Antonio, a Febo sacro tanto,
che non di toschi fiori i dotti carmi
fregi, ma col natio tuo dolce canto
vinci d’Arno e di Tebro amori et armi.
Di Filippo Paruta
Novo ciel d’honestate e di bellezza,
anzi solo d’Amore,
che volgendoti fai tanta dolcezza
POESIE IN LODE DELL’AUTORE
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che rapisci ogne core,
deh, dimmi qual in te più nobil sia,
vaghezza od armonia?
Ma che vegg’io, che sento?
Giunto a par leggiadria pari concento?
O suon di cerchio tal, ben mostri altrui
lui di te degno, e te degno di lui.
Di lu stissu
Non semu ultimi no, ma semu primi,
primi a trovari e primi a diri beni;
vannu chiù sti concetti e chiù sti rimi
chi quantu in sè tutta Toscana teni.
Gran merzì a tia, ch’in ayru ti sublimi,
Venezianu, e tantu e tantu alleni
chi vidi lu to celu e li soi climi,
e tuttu, gloria e luci, in terra veni.
Di Argistru Giuffredi
L’antica gloria di la Musa mia,
chi negligenzia transportau luntanu,
ricuprata per tia, l’oblicu a tia:
nd’haya ognunu chi scrivi sicilianu.
Cantau Triquetra e «Scrivi – dissi a mia,
chi letu audendu in celu ausai li manu –
lu primu honuri ch’avia in poesia
turnau in Sicilia, Antoni Venezianu».
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
9
[CELIA]
LIBRU PRIMU DI LI CANZUNI AMURUSI SICILIANI
1
L’origi a la Canicula s’inclina
li yorna opposti a lu chiù forti yelu,
e l’elefanti a la luna non china
fa riverenzia cu gra’ affettu e zelu;
e l’helitropiu si gira e camina
comu è lu cursu di lu diu di Delu.
Iu chi farrò cu vui, cosa divina,
mia stiłła, luna, suli, anzi miu celu?
2
La terrena mia dia, gloria e coruna
di quantu l’arti e la natura sghizza,
lu suli ha a l’occhi, a la facci la luna,
l’arcu a li gighia e cometa a ogni trizza;
stiłłi l’accenti, e li palori ognuna
su nettari et ambrosia di ducizza.
M’invidia l’ayru, Amuri e la Fortuna,
ch’aduru in terra un celu di biłłizza.
3
Forza è ch’iu v’ama, e a chistu mi destina
l’immensa grazia di cui prisu fui,
nè sta fatali mia forti catina
rumpiri si porrà in eternu chiui.
Chi s’un planeta et una stiłła inclina
et opera cu nui, volendu nui,
chi sarrà d’una machina divina
di tanti celi comu siti vui?
Riverixi la sua donna
comu cosa celesti
N. assimighia un celu di biłłizza
Da li celi è inclinatu
ad amarila
CELIA
11
Ogni so sguardu a modu
di tronu ci abruxa tutti l’interiuri
4
S’un terrestri vapuri in ayra spintu
łłà si condensa e fulguru diventa,
quali forza criditi chi da un fintu
celesti lampu di vostr’occhi iu senta?
Siccu, ardu, intronu, tornu un homu pintu;
l’anima si ndi va, lu corpu allenta:
e si non caiju affattu mortu e estintu,
lu focu, perchì è vostru, mi sustenta.
5
In ogni locu m’immaginu e criju
per miu confortu ritrovarci a tia,
ma quandu, ohimè, m’addugnu poi e m’avviju,
cosa non trovu chi comu tia sia.
Perchì si per l’ardenti e gran disiju
cà e łłà mi fingiu chiłłu chi vurria,
sai chi su tutti li cosi chi viju?
Figura tua di terra e tu la dia.
6
Chiù peyu chi non è sia lu miu statu,
xhedimi quantu beni mi volivi,
ch’iu chiù non parlu, non dicu nè xhiatu:
su ritrattu di morti intra li vivi.
Iu fui chiłłu Prometheu risicatu
chi fina in celu per lu focu ijvi,
e portai focu tantu esterminatu
chi lu miu sulu è focu e ogn’autru è nivi.
7
Anima travaghiata, chi non sai
chi sia riposu e sula ti molesti,
e comu Euripu vughi, scurri e vai
in autu, in baxu, in mezu, tardu e presti;
anzi undi mancu su, łłà sempri stai
et undi sempri su, łłà mancu resti,
fuss’iu tutt’alma, poi chi pensandu hai
lu beni suprahumanu, almu e celesti!
L’honura in ogni cosa
comu si fa ad una dea in la
sua statua o imagini
Si pati comu Prometheu
già happi lu so ardiri
Disija essiri tutt’anima senza
corpu per putiri sequiri a N.
12
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
8
Su xhiammi occulti e ntrinsichi tormenti
chiłłi ch’alcuni tennu per mia spassi.
Cui non cridi ch’iu canta per l’azzenti?
Ma è la virtuti chi sicca e disfassi.
L’amara babbalucia mai si senti,
poi ntra lu focu pari chi cantassi.
Cussì ntraveni a l’amanti scuntenti:
lu focu l’ardi e pari ch’exalassi.
9
Casa propria d’Amuri è lu miu pettu,
l’ałługa a cui ci placi ad annu o a misi;
dettila a lu miu cori per rizettu
e doghia per lueri si ndi prisi.
Lu cori, vistu lu to bełłu aspettu,
lassau lu pettu e ad autru albergu attisi;
per non restari vacanti in effettu
Amuri focu per cori ci misi.
Amuri ałługa lu so pettu
10
Siimi a posta tua crudili e dura,
chi s’in tia l’oddiu in mia l’amuri crixi;
pur’hai di mia non sacciu chi di cura,
puru segretamenti mi complixi.
E ben ch’assenti sia la tua figura,
davanti l’occhi mai non mi spirixi;
e suspittari mi fai ad hura ad hura
ch’in tutti cosi ancora tu influixi.
Sempri l’ha innanti l’occhi
benchì assenti ci sia
11
Quandu, tiranna, a casu ti placissi
di fari di mia stissu notomia,
e carni e sangu et ossa mi vidissi
per satisfazioni tua e mia,
iu letu e tu contenti ristirissi
e satisfatta la tua chirurgia,
perchì di parti in parti scopririssi
chi tu sì ngrata et iu moru per tia.
Li soi canzuni su signali di focu
Cui facissi d’iłłu notomia
in ogni parti ci truviria a N.
Se finisce con pagina dispari,
pagina seguente bianca.
[EPISTOLA E OTTAVE DI CERVANTES A VENEZIANO
E SONETTO DI RISPOSTA DI VENEZIANO]
Al señor Antonio Veneziani
Señor mio, prometo a V.M. como christiano que son tantas las imaginaciones
que me fatigan que no me an dexado cumplir como quería estos versos que a
V.M. embío en señal del buen ánimo que tengo de servirle: pues él me a
movido a mostrar tam presto las faltas de mi ingenio, confiado que el subido de
V.M. recibirá la disculpa que doy y me animará a que en tiempo de mas sosiego
no me olvide de celebrar como pudiere el cielo que a V.M. tiene tan sin
contiento en essa tierra, de la qual Dios nos saque, y a V.M. llega a quella
donde su Celia vive.
En Argel los seis di noviembre 1579.
Di V.M. verdadero amigo y servidor
Mighel de Cerbantes
14
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
1
Si el lazo, el fuego, el dardo, el puro yelo
que os tiene, abrasa, hiere y pone fría
vuestra alma trahe su origen desd’el cielo
ya que os aprieta, enciende, mata, enfría:
¿ que nudo llama, llega, neve o zelo
ciñe, arde, trapasa o yela oy día,
con tan alta occasión como aquí muestro,
un tierno pecho, Antonio, como el vuestro?
2
El cielo que el ingenio vuestro mira,
en cosas que son dél quiso emplearos,
y, segun lo que hazéis, vemos que aspira
por Celia al cielo empíreo levantaros.
Ponéis en tal obgietto vuestra mira
que dais materia al mundo de embidiaros.
Dichoso el disdichado a quien se tiene
embedias de las ansias que sostiene.
3
Sólo me admira el ver que aquel divino
cielo di Celia encierre un vivo infierno
y que la fuerza de su fuerza y sino
os tenga en pena y llanto sempiterno.
Al cielo encamináis vuestro camino,
mas, según vuestra sorte, yo dicierno
que al cielo sube el alma y se apresura,
y en el suelo se queda la ventura.
4
En los conceptos que la pluma vuestra
de la alma en el papel à trasladado,
nos dais no sólo inditio, pero muestra
de que estáis en el cielo sepultado.
Y allí os tiene de Amor la fuerte destra,
vivo en la muerte, a vida reservado,
que no puede morir quien no es del suelo,
tenendo el alma en Celia que es un cielo.
CERVANTES
5
Si con beniño y favorable aspetto
a alguno mira el cielo acá en la tierra,
obra asconditamente un ben perfetto
en el que qualquier mal de sí destierra.
Mas, si los ojos pone en el obgetto
airados, le consume en llanto y guerra,
ansí como a vos haze vuestro cielo,
ya os da guerra y paz y fuego y yelo.
6
No se ve el cielo en claridad serena
de tantas luzes claro y allumbrado
quantas con rica havéis y fértil vena
el vuestro de virtudes adornado.
Ni ày tantos granos de minuda arena
en el desierto líbico apartado
quantos loores creo que merezeçe
el cielo que os abaxa y engrandeçe.
7
En Scithia ardéis, sentís en Libia frío,
contraria operación y nunca vista;
flaqueza al bien mostráis, al daño brío,
más que un linçe miráis sin tener vista;
mostráis con descreçión un desvarío
que el alma prende y la raçón conquista
y esta contrariedad naçe de aquella
que es vuestro cielo, vuestro sol y estrella.
8
Si fuera un chaos, una materia unida
sin forma vuestro cielo, no espantara
de que del alma vuestra entrestecida
las continuas querellas no escuchara.
Pero, estando ya en partes esparçida
que un tondo forman de virtud tan rara,
es maraviłła tenga los oydos
sordos a vuestros tristes alaridos.
15
16
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
9
Si es lícito rogar por el amigo
que en estado se halla peligroso,
yo, como vuestro, desde aquí me obligo
de no mostrarme en esto perechoso.
Mas, si me è de oponer a lo que digo
y conduzirlo a término dichoso,
no me deis la ventura que es muy poca,
ma las palabras sí de vuestra boca.
10
Diré: «Celia gentil, en cuya mano
está la muerte y vida y pena y gloria
de un mísero captivo, que temprano
ni aun tarde no saldrás de su memoria,
buelve el hermoso rostro blando y humano
a mirar de quien llevas la victoria:
verás el cuerpo en dura carçel triste
del alma que primiero tú rendiste.
11
Y pues un pecho en la virtud constante
se mueve en casos de onra y muestra ayrado,
muévale al tuyo el ver que de delante
le àn un firme amador arrebatado.
Y, si quiere pasar más adelante
y hazer un hecho heroico y estremado,
rescatta allá su alma con querella,
que el cuerpo que está acá se yrá trae ella.
12
El cuerpo acá y el alma allá captiva
tiene el mísero amante que padeçe
por ti, Celia hermosa, en quien se aviva
la luz que al cielo alumbra y esclareçe.
Mira que el ser ingrata, cruda y esquiva
mal con tanta beldad se compadeçe
muéstrate agradecida y amorosa
al que te tiene por su cielo y diosa».
CERVANTES
Al Signor Michele Servantes
A.V.
4
8
12
Io, Herclé, noterò di croco e minio
il vostro eruditissimo preconio,
exuberante di liquor aonio,
resperso d’ogni ibero lenocinio.
Così il vostro di me sia vaticinio
e spiri al corso mio lieto favonio,
come Voi contra Celia et pro Antonio
facete un luculento patrocinio.
E ben conijcio che Voi a perpendiculo,
incola de’ celesti orbi, Michele,
serbaste quanto noi qua giù trattassimo:
onde sì presentanee medele
porgete, qual chi fatto n’ha pericolo,
medico, amico et dottor mio ter masssimo.
Pagina seguente pari bianca.
17
LIBRU SECUNDU DI LI CANZUNI AMURUSI SICILIANI
ET ALCUNI DI SDEGNU
1
A lu sepulcru miu farrò intaghiari
sta scritta, ch’a la vita correspundi:
«Cà c’è sepultu cui cercau in amari
farisi a tutti in meritu secundi.
Vinsi Sdegnu a battaghia singulari
e Gilusia chi l’animi confundi,
morsi avvampatu di dui occhi rari
di la chiù bełła dia di miłłi mundi».
2
A lu templu di Anteru, amicu diu
di li amanti leali sventurati,
consacru lu devotu cori miu,
vutu di l’acquistata libertati.
Cui leij la tabella intenda ch’iu
non fuiu a cui servia, perchì è viltati,
ma vegnu a cui benignu m’offeriu
nova patruna e grata voluntati.
3
Ntornu a lu cori miu fa Amuri fumu,
cacciaturi a lu nidu disleali,
et iu indarnu cacciarlu mi presumu,
quantu chiù prestu e forti vattu l’ali.
E comu pellicanu allhura ałłumu
vampi a li fighi e ancora a mia mortali,
e per la tennirizza mi consumu
e per la industria mia crixu lu mali.
Sistemare i titoletti, quando
compaiono, come nella
sezione CELIA.
20
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
4
E lu locu e lu tempu benedicu
ch’a lu miu cori ti ficiru via,
di tandu fattu a mia stissu nimicu
pari chi xheia fina l’umbra mia;
e chiłłu sulu oggettu haiu pr’amicu
chi ripresenta cosa chi tua sia.
O pensa, o parla, o tratta, picu picu,
su cu tia, pensu a tia, parlu di tia.
5
Statti, patruna mia, di l’autri sparti,
comu tia non ci nd’è nè si nd’intisi;
li grazii a l’autri lu celu disparti,
a tia ammunziłłuni ti li misi.
Tutti li contentizzi ad una parti,
a l’autra un gestu to fintu cortisi
trabucca tantu, chi si perdi l’arti
e non ci basta numeru nè pisi.
6
S’amati ad autru e a mia mi disamati,
non v’invidiju nè v’odiju stizza;
l’odiarivi in mia fora impietati,
invidiarvi viłłania e baxizza.
Mi basta, beni miu, chi vui sacciati
ch’amari a vui sia la mia contentizza:
l’avantaggiu è lu miu, perchì vui amati
l’idulu di bełłizza, iu la bełłizza.
7
A diri, bełła patruna, cui sì
lingua e intellettu arrivari non pò,
perchì hai supra ogni cosa un certu chi
e nenti ha quantu un nenti di lu to.
Sarrà lu giustu terminu cussì,
si pensirò di tia, si parlirò,
d’ogni perfezioni diri sì
e d’ogni mancamentu diri no.
LIBRU SECUNDU
21
8
Su cani, beni miu, cani arraggiatu,
di chiłłu nomu e modu chi m’appełłi,
e su di muzzicarti incaniatu,
ma cui muzzichiria sti carni bełłi?
Tant’è, lu fazzu perch’iu sia indingatu,
chi ndi vorrai lu pilu di la pełłi,
et allegra dirrai: «Diu sia laudatu»
quandu chi ijttirai li cagnolełłi.
9
Cussì fa Amuri, mai non duna spasu
lu gottu di placiri chi prometti,
et è di modu chi prima lu nasu
ch’a lu gustari li labbra ci metti.
Unta di duci l’orlu di lu vasu,
a lu fundu sai tu chiłłu ch’aspetti?
Un fintu risu, un gestu fattu a casu
lu paghi di tri milia rispetti.
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
22
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
SDEGNU
Stessa impostazione della sezione precedente. Testatine delle pagine dispari:
SDEGNU
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
24
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
[CANZUNI]
Stessa impostazione della sezione precedente. Testatine delle pagine dispari:
CANZUNI
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
26
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
ARANGEIDA
3
6
9
12
15
18
21
24
Chi duci chiù, chi chiù giocundu fruttu
sarria d’haviri dui spicchi d’arangiu,
massima senz’ariłłi o veru axxuttu!
Non dicu già di qualchi gustu strangiu,
ma per li palatara non corrutti
ch’una per nautra non pighianu a scangiu.
Homini e donni ndi mangianu tutti,
alcuni aperti a spicchiu, alcuni a fełła,
unu l’ama incrispati un autru rutti.
Sì chi è gran cosa assai chi Culumbełła
nè Esiodu nè Varro ndi trattaru,
essendu chianta rustica e ben bełła.
E s’iu cu mal purgatu calamaru
vegnu a trattari cussì dignu oggettu
e coghiu spichi chi l’autri lassaru,
placciati, signur miu, per chistu effettu,
lassandu hormai lu mari priculusu,
tirari in terra l’autu to intellettu
e ntendirai, cu diri affettuusu,
d’arvulu cussì elettu a parti a parti
la nobiltati, l’eccellenzia e l’usu.
Primu, nè in vecchi nè in moderni carti
nułłu idioma lu so nomu impara,
ma per analogia, chi lu comparti,
forsi essendu, com’è, robba assai cara,
Testatine delle pagine dispari:
ARANGEIDA
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
28
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
PUTTANISMU
Stessa impostazione della sezione precedente. Testatine delle pagine dispari:
PUTTANISMU
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
30
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
CORNARIA
Stessa impostazione della sezione precedente. Testatine delle pagine dispari:
CORNARIA
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
32
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
AMORES PHILIPPI PARUTAE
Marci Gentiluccii de Amoribus Philippi Parute
ex siculo Antonii Veneziani
Hic Erato ingeminat gemino modulamine amores,
coniungens latios sicaniosque modos.
Romulidae haud aliter siculique loquuntur amantes,
hic pariter Latiae Sicelidesque canunt.
Egregiis fiunt musae nunc vatibus istis
tam variae quondam, cantu et amore pares.
34
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
Mi rudu, mi minuzzu, anzi mi stendu
com’oru per trafilu assuttighiandu,
e non m’avvinciu mai, nè mai mi rendu,
sempri chiù disiusi l’ali spandu.
Timu chi, comu divintau chiangendu
Egeria xhumi e vuci Echu gridandu,
iu mentri pensu e pensari pretendu
non mi risolva in penseri pensandu.
1
2
Venezianu
C 186
Consumor, me me ipse tero, immo extendor ut auri
filum traiecto crescit in aere magis;
nec labor exsuperat, fessus nec dedor et ultra
semper se expandit mens, velut ala, mihi.
Non secus ac lachrymans lachrymis evasit in amnem
Aegeria atque Echo garrula voce sonum,
nunc vereor ne dum curarum versor in aestu,
usque tenax, curam solvar in assiduam.
F.P.
S’autra cosa disiu, s’autra procuru,
si d’autru mi complaciu dintra o fori
chi sia ntra l’occhi e l’ayru eternu scuru
e l’alma sia com’è quandu si mori!
Picu picu a vui pensu, a vui m’aduru
cu l’intrinsecu affettu e li palori;
si nenti nenti per sorti adimuru
mi sbatti l’occhiu e rivola lu cori.
A.V.
Si quicquam optat amans animus, si membra requirunt
intus et extra aliquid si mihi, vita, placet,
sint mihi coeli inter convexa haec lumina in umbris,
sit mihi ut expirans spiritus esse solet.
Unam te semper meditor, te semper adoro,
mens in mente gerit, corpus in ore gerit.
Tantillum si forte moror, si forte remitto,
tunc oculusque salit, tunc mihi corque salit.
C 187
F.P.
AMORES PHILIPPI PARUTAE
6
35
La terrena mia dia, gloria e coruna
di quantu l’arti o la natura sghizza,
lu suli ha a l’occhi, a la facci la luna,
l’arcu a li gigghia e cometa a ogni trizza;
stiłłi l’accenti e li palori ognuna
su nettari et ambrosia di ducizza.
M’invidia l’ayru, Amuri e la Fortuna,
ch’aduru in terra un celu di biłłizza.
A.V.
Quae terrena mihi diva est, quae gloria rerum,
naturae aut artis, si quid adumbrat, honos,
iłła oculis solem, facie vaga lumina lunae,
irim fert ciliis, astra comaeta comis;
sidera sunt gestus, verborum quodque loquentis
ambrosium fundit nectareumque bonum.
Invidit fortuna et amor mihi et, id quod ubique est,
quod formae in terris aethera adoro meum.
F.P.
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
C2
36
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
[Ottavi]
[Iu t’amu tantu chi per tia peniju
e mi consumu comu pixi a l’hamu;
d’autru non parlu, ohimè, d’autru non spiju,
d’autru non pensu nè pensari bramu.
O iornu o notti sia, sempri ti viju,
sempri ti parlu, ti respundu e chiamu;
e supra tuttu mi doghiu et affliju
chi non ti pozzu amari chiù chi t’amu.]
[Mastra]
38
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
1
Turri d’auti bełłizzi ornata e varia,
chi simili trovarsi non mi criju,
autru chi Menfi, Olimpu, Rodu e Caria,
Efesu, Babilonia e Media viju.
Non è la grazia tua grazia ordinaria,
ma cosa chi si guarda per disiju,
e a ben chi tu mi sij sempri adversaria,
iu t’amu tantu chi per tia peniju.
2
Turri d’auti bełłizzi ornata e varia,
chi simili trovarsi non mi criju,
autru chi Menfi, Olimpu, Rodu e Caria,
Efesu, Babilonia e Media viju.
Non è la grazia tua grazia ordinaria,
ma cosa chi si guarda per disiju,
e a ben chi tu mi sij sempri adversaria,
iu t’amu tantu chi per tia peniju.
3
Miraculu non è vidiri Giovi
fattu da Fidia, di chi ogn’hura riju,
haviri autari e ceremonij novi,
tenutu diu di premiu e di castiju.
Miraculu è di l’occhi toi, undi chiovi
tanta virtuti chi m’ardu et affliju,
e pensandu ch’un to sguardu mi movi
d’autru non parlu, ohimè, d’autru non spiju.
4
Miraculu non è duri scarpełłi
formari auti colossi in petra o in ramu,
poi chi chisti cu limi e cu martełłi
a posta nostra fingemu e formamu.
Miraculu è chi ss’occhi auteri e bełłi
xhiaccanu petti, et iu chi tantu l’amu,
chi cu li voghi a mia stissu ribełłi
d’autru non pensu, nè pensari bramu.
Ottava I
OTTAVI
39
5
Miraculu non è si per Mausolu
vissi Artemisia, cussì comu iu criju,
testificandu lu so estremu dolu
la immensa moli tra chiantu e disiju.
Miraculu è di l’unu e l’autru polu
chi fannu l’occhi toi per cui peniju,
e quantu arriva la memoria a volu,
o iornu o notti sia, sempri ti viju.
6
Miraculu non è lu templu sacru
di la triformi dea tra Smirna e Samu,
chi già l’estinsi lu letheu lavacru
per opera d’Herostratu, ch’infamu.
Miraculu è di ss’occhi, a cui consacru
ogni miu affettu, et iu l’aduru et amu.
Comu patrocinali simulacru
sempri ti parlu, ti respundu e chiamu.
La sezione finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
40
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
Agonia
6
12
18
24
30
Doghiusi mei suspiri,
ambaxaturi certi di la morti,
paravi di mia forti,
innanti chi m’affuca lu moriri
lassatimi ch’iu dica
quattru palori a la mia gran nimica.
Eccu chi l’hura è iunta
chi spara Amuri lu colpu mortali,
perchì ha cangiatu strali.
Iłłu è la morti, la morti è defunta;
Amuri hora è ch’ammazza,
cui pari morti è un’umbra ch’amminazza.
O fortunati cigni,
poi chi morendu morinu cantandu!
Nui chi vorriamu tandu
mostrari ultimi affetti, ultimi signi,
a lu meghiu ndi manca
l’afflitta carni travaghiata e stanca.
E si cessa la lena
stramuntu l’occhi e la vucca si serra,
arida e fridda terra,
da cui vorrò chiù aiutu a la mia pena?
Nè iłła havirà tortu,
si non duna succursu a un homu mortu.
Ma si forsi vi pari
chi non convegna diri lu miu intressu,
chi o non lu dirrò espressu
o sarrò troppu prolixu in parlari,
siati vui l’advocati,
li missaggeri secreti e fidati.
È l’Agonia una canzuni di orditura
a la toscana, divisa in li soi stanzii,
in la quali fingi essiri in trattu e
parla cu li suspiri
42
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
36
Di vui chiù stritti amici
potti nè vosi haviri mai lu cori,
chi senza atti e palori
quetu vi singa e tacitu vi dici
e vui cu pocu ventu
ci declarati apuntu lu so intentu.
Anzi innanti chi spicca
fora la vuci pr’intra lu canali,
Testatine delle pagine dispari: AGONIA
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
Nenia
6
12
18
24
30
A la famusa rina
di Mauritania, łłà undi detti nomu
chiłłu primu invittu homu
chi Ruma iriju d’imperiu regina,
facia un’umbra dolenti
supra lu mortu cori auti lamenti,
chi tenia la meschina
l’alma in Sicilia già tempu e cattiva
in manu di la diva,
cinta di forti amurusa catina
chiù stritta in miłłi parti
di la riti cu chi fu prisu Marti,
e lu corpu in Algeri
fattu di genti barbara suggettu,
chi di lu gran rispettu
di sta spartenza e di lu gran penseri
acerbamenti offisu
era lu cori exanimatu e stisu.
Ma lu colpu tremendu
chi lu condussi a disperata morti
eranu li gran torti
chi di łła ingrata e ria stava patendu,
undi senza confortu
forza a lu fini fu chi fussi mortu.
A chisti exequii, a chista
estrema pompa e funerali honuri,
spinta d’autu doluri,
pałłida, afflitta, lagrimusa e trista
era a l’hura venuta
per chiangiri a cui in vita era attenuta.
La Nenia è un reputu chi fa
l’umbra a lu cori mortu
44
LIBRO DELLE RIME SICILIANE
36
42
48
Trovau chi li chiù cari
amici, comu requidia lu fattu,
complutu havianu affattu
quantu toccava di sua parti a fari,
nè paria chi mancassi
si non cui in tantu dolu reputassi.
Di copiusu chiantu
l’unu e l’autru occhiu l’havia già lavatu,
li suspiri ałłumatu
lu rogu cu cipressi d’ogni cantu;
tutti li sensi a gara
fattu l’offiziu di doghiusa vara.
Anzi l’airu e lu celu
in certu signu d’evidenti luttu
era ammantatu tuttu
d’horridu, mestu e tenebrusu velu
e l’ałłumati stiłłi
parianu veri intorci a miłłi a miłłi.
Undi iłła comu potti
lu casu miserabili chiangia
Testatine delle pagine dispari: NENIA
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
SIGLE DEI MANOSCRITTI E DEI TITOLI
Manoscritti
LB2
PC15
PC17
PC23
PC27
PR10
PR1
PR2
London, British Library, Add. 10322 PS. 93596
Palermo, Biblioteca Comunale, 2.Qq.D.29
Palermo, Biblioteca Comunale, 2.Qq.D.67
Palermo, Biblioteca Comunale, 5.Qq.E.195 n° 2
Palermo, Biblioteca Comunale, 2.Qq.C.21
Palermo, Biblioteca centrale della Regione Siciliana Alberto Bombace, XI.B.6
Palermo, Biblioteca centrale della Regione Siciliana Alberto Bombace, I.D.17
Palermo, Biblioteca centrale della Regione Siciliana Alberto Bombace, II.A.11
~ completare ~
Titoli
Ag
Ar
C
Ca
Co
L
N
O
P
Sd
Sp
Agonia
Arangeida
[Celia.] Libru primu di li canzuni amurusi siciliani
[Canzuni]
Cornaria
Libru secundu di li canzuni amurusi siciliani et alcuni di sdegnu
Nenia
[Ottavi]
Puttanismu
Sdegnu
Canzuni spirituali
Pagina seguente pari bianca.
APPARATO CRITICO
Testatine delle pagine dispari: APPARATO CRITICO
Testatine delle pagine pari: LIBRO DELLE RIME SICILIANE
Se finisce con pagina dispari, pagina seguente bianca.
DESCRIZIONE
DEL MANOSCRITTO AUTOGRAFO
Testatine delle pagine dispari: DESCRIZIONE DEL MANOSCRITTO AUTOGRAFO
Testatine delle pagine pari: LIBRO DELLE RIME SICILIANE
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Francesco Carapezza
L’EDIZIONE DELLE RIME
DI ANTONIO VENEZIANO
Testatine delle pagine dispari: L’EDIZIONE DELLE RIME DI ANTONIO VENEZIANO
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Gaetana Maria Rinaldi
INDICE DEI CAPOVERSI
Comu spiss’erra lu giudiziu humanu
Ioca Amuri cu mia, mastru di scrima
Iu amu, amaru mia, iu amu, iu amu
O comu ducimenti amandu t’amu
S’un terrestri vapuri in ayra spintu
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Co
L 87
L 189
Ca 51
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