Anita Ginella - Musei di Genova

Anita Ginella
Appunti storici
e letterari sulle
opere esposte
“Una storiografia semplificatrice e come lui - orba di un occhio, ha visto in
d’Annunzio solo il precursore del
fascismo […]. A Fiume, però, fu
l’inventore di una democrazia e di una
modernità
che
anticipava
le
costituzioni più avanzate della seconda
metà del Novecento, oltre agli stili di
vita. Se l’Italia prese di lui la
componente deteriore, e se ancora oggi
gli italiani riescono a vedere solo quella,
forse si tratta di un limite dell’Italia e
degli italiani, non di d’Annunzio”.
Giordano Bruno Guerri
Le schede critico-biografiche degli artisti sono riprese da
GERMANO BERINGHELI (a cura di), Dizionario degli artisti
liguri, De Ferrari Editore, Genova 2012, ad vocem.
Giorgio Angelini - Squadra di San
Marco - Smalti su cartone cm. 70 x 70
La “Serenissima” o “Squadra aerea di San
Marco” della Regia Marina, composta da uno
stormo di bombardieri SIA 9 B, da una dozzina
di S.V.A. 9 (più il biposto S.V.A 10 che il 9
agosto 1918 porterà il poeta-soldato
su
Vienna) e da una squadriglia di siluranti, fu
creata e comandata da d’Annunzio nell’ultimo
periodo di guerra. Istituzionalizzava e
premiava con una struttura più inquadrata
militarmente le molteplici missioni di
esplorazione e di combattimento che
dall’inizio del conflitto il Poeta e i suoi
compagni avevano portato a termine, iniziate
per d’Annunzio il 7 agosto 1915 con il primo
volo su Trieste.
L’“ufficiale
osservatore
dell’aeroplano”
d’Annunzio sarà non solo protagonista e
stratega di memorabili imprese, ma
sostenitore del ruolo decisivo dell’aviazione
per combattimenti celesti, rapidi e creativi.
Angelini mette in evidenza nel gagliardetto
con il leone di San Marco il motto Ti con nu, nu
con ti (Tu con noi-Noi con te; altro motto meno
risaputo scelto da d’Annunzio per il suo
stormo aereo era Sufficit animus – basta il
coraggio) della Squadra, ripreso dal Poeta
dall’orazione del 1797 del capo della comunità
di Perasto proclamante l’imperitura fedeltà del
piccolo porto dalmata a Venezia, nonostante
l’inevitabilità della resa agli austriaci alle
porte. La figura evanescente che il pittore
raffigura
protesa verso il gagliardetto
rimanda non solo al Santo e alla sua
rappresentazione voluta da d’Annunzio per la
Squadra, più definita e possente di De Carolis,
ma condensa anche gli aviatori, santificati dal
loro eroismo, caduti nei voli e pianti dal Poeta,
tra i primi i suoi piloti Giuseppe Miraglia,
Francesco Baracca, Gino Allegri, Natale Palli e
Luigi Bourlot.
Liliana Bastia - Il cervo
(da Alcyone) –
tecnica mista su carta cm. 70 x 50
Acme della poesia dannunziana, Alcyone è il
momento soggettivo e più intimo del ciclo
delle Laudi del cielo del mare della terra e degli
eroi.
Rappresenta l'adesione felice alla bella
stagione, dalle prime sensazioni primaverili al
trionfo estivo che si disferà infine
nell’autunno. Il Vate vive un momento di
sospensione dalla sua ascensione eroica di
superuomo, come suggerisce la prima lirica La
Tregua che fa da raccordo con i due libri
precedenti delle Laudi, Maia ed Elettra. Alcyone
sarà il momento del riposo, dell’abbandono e
della fusione panica con la natura.
Pubblicato per la prima volta nel 1903
presenta grande varietà metrica e celebra con
una costante perfezione verbale i miti della
fertilità, della metamorfosi e della solarità.
Tra le molte liriche giustamente famose delle
raccolta due hanno per soggetto il cervo e la
sua morte. A entrambe sembra ispirarsi Liliana
Bastia per la sua immagine incisiva come un
graffito primitivo. Infatti nella prima lirica Il
cervo d’Annunzio ci descrive l’animale potente
e vitale, forse di “insigni lombi, e assai
ramoso”, “il cervo d’unghia nera/ si separa
dal branco delle femmine/ e si rinselva.
Dormirà fra breve/ nel letto verde, entro la
macchia folta,/ soffiando dalle crespe froge il
fiato/ violento che di mentastro odora”. Anche
il presagio di morte immaginato dai cacciatori
non scalfisce l’animale poiché gli uomini sono
“inermi” e “sazi di bellezza”: dovranno
accantonare “l’antico desiderio delle prede”,
limitandosi ad ascoltare i bramiti notturni del
cervo: “Udremo a notte le sue lunghe/ muglia,
udremo la voce sua di toro:/sorgere il grido
della sua lussuria/ udremo nei silenzi della
luna”. Ne La morte del cervo non gli uomini, ma
una figura mitica, un centauro che si
materializza nuotando nel Serchio, darà la
morte al cervo dopo una lotta cruenta di cui è
testimone
attonito il Poeta: “Entrambi
inalberati, l’un confuso/ con l’altro in un
viluppo, i due nemici,/ tra luci ed ombre, sotto
il muto cielo/ saettato di sprazzi porporini,/
lottavano;”.
I riflessi vermigli del cielo al tramonto e del
sangue dei due corpi feriti sembrano essere
colati dai versi dannunziani per condensarsi
nell’immagine proposta da Liliana Bastia.
Marina Bocchieri – O falce calante, qual
mèsse di sogni ondeggia al tuo mite chiarore
quaggiù - Olio su tela cm. 50x70
La lirica O falce di luna calante a cui la Bocchieri
fa riferimento (riprendendone nel titolo gli
ultimi 2 versi) è contenuta in Canto novo, dopo
Primo vere del 1879, la prima autentica e
originale dimostrazione del genio poetico di
un d’Annunzio diciannovenne. La raccolta,
pubblicata nel maggio 1882 per i tipi del
rampante editore Angelo Sommaruga in
contemporanea con i primi racconti in prosa
di Terra vergine, accompagna, l’ingresso del
poetino abruzzese “tutto riccioli e sorrisi” e
l’occhio ancora rivolto al primo amore Giselda
Zucconi (alla quale dedica il libro) nelle
redazioni giornalistiche e nella mondanità
della “Roma bizantina”. Era da poco giunto
nella capitale dopo il brillante esito conseguito
alla licenza liceale iscritto dal padre alla
Facoltà di Lettere della Sapienza di Roma,
anziché all’Ateneo più familiare di Firenze,
proprio per allontanarlo dalla Zucconi che il
giovane voleva a tutti i costi sposare.
L’Università la frequenterà assai poco e non
darà nessun esame, ma, secondo le previsioni
paterne,
dimenticherà
velocemente la
fidanzatina fiorentina.
La figura femminile rappresentata dalla
pittrice apparentemente chiusa all’ esterno,
immersa e rapita nel chiarore lunare, sembra
abbandonata nel silenzio a prendere possesso
del mondo attraverso la propria interiorità,
guidata dagli echi dei versi dannunziani.
Vale la pena rileggere la lirica, divenuta
giustamente famosa e giudicata da Federico
Roncoroni “perfetta […] per la musicalità in
cui si stemperano i versi: una musicalità
distesa e placida, tutta tramata sul silenzio e
tutta appoggiata sul ritmo, visto che non c’è
nessuna rima a turbare il lieve succedersi delle
immagini, e sulla ripresa, con una leggera
variante, di un motivo melodico”.
O falce di luna calante/ che brilli su l’acque
deserte/ o falce d’argento, qual messe di
sogni/ ondeggia a ‘l tuo mite chiarore qua
giù!/ Aneliti brevi di foglie/ di fiori di flutti da
’l bosco/ esalano a ‘l mare: non canto, non
grido,/ non suono pe ‘l vasto silenzio va./
Oppresso d’amor, di piacere/ Il popol de’ vivi
s’addorme…/ O falce calante, qual messe di
sogni/ ondeggia a ‘l tuo mite chiarore qua giù!
Paolo Chimeri Chimera - Scultura in
ferro cm. 116 x 70 x 30
Quasi giocando con il proprio cognome lo
scultore Chimeri presenta la propria
interpretazione della Chimera, l’essere
mitologico al quale d’Annunzio aveva dedicato
la raccolta poetica omonima che nel 1890
Treves pubblicò nel volume l’Isotteo e La
Chimera. Solo per ragioni editoriali i due titoli
vanno insieme, ma si tratta di raccolte
autonome, che rimandano solo in parte al
volume del 1886 Isaotta Guttadauro e altre poesie.
Nelle liriche dell’ Isotteo, dove si affidava ai
moduli stilistici dei quattrocentisti toscani, il
Poeta intendeva interpretare il sogno di una
vita passata; ne La Chimera invece si proponeva
di cantare il proprio presente, costruendo una
specie di itinerario dell’anima verso la
purificazione, tra raffigurazioni simboliche e
manifesti richiami alle arti visive. Sul piano
dello sperimentalismo espressivo in realtà i
due libri non presentano molte varianti,
poiché il secondo prosegue le raffinatezze
linguistiche
e
tecniche
del
primo,
accrescendone
tuttavia
le inclinazioni
parnassiane e la languida sensualità.
Nel prologo così d’Annunzio descrive,
evidenziandone i poteri seduttivi e letali, il
mostro del mito che dà titolo alla raccolta:
“Quando, furia d’amore, in labirinti/ di rose la
bellissima Chimera/ traeva sitibondi in una
schiera/ i bianchi efebi a la sua chioma
avvinti/ ridevan essi di lor sangue tinti/ a
l’ugna e al bacio de l’ardente fiera;/ poi tra la
fiamma de la gran criniera/ mancavan come
languidi giacinti.
Va sottolineato che un’altra Chimera resterà
memorabile per Gabriele, quella raffigurata
dalla statua di bronzo del Museo Etrusco di
Firenze, all’ombra della quale durante le
vacanze pasquali del 1877 visse con la giovane
Clemenza Coccolini il suo “primo assalto a un
mistero carnale”, l’indimenticabile “ora della
Chimera” che avrebbe ricordato nel 1924 come
La Chimera e l’altra bocca
Milly Coda - Peccato di maggio (Il
Fanciullino - da Intermezzo di Rime) – Olio
su tela, cm.80x80
La mossa scena amorosa ordita da Milly Coda,
facente parte della serie Il Fanciullino in questo caso
dal titolo rimodulato in Il peccato di maggio, sembra
evocare il primo amplesso amoroso fra Gabriele e
la duchessina Maria Harduin di Gallese, tradotto
interamente e poco cavallerescamente dal Poeta
nella lunga lirica cui la pittrice fa riferimento.
I languori di lei e gli ardori e le pulsioni
sensualmente erotiche di lui nel bosco, sotto le
stelle di maggio, trovarono dapprima spazio sulle
pagine del periodico “Cronaca Bizantina”, quindi
furono incluse nella raccolta Intermezzo di rime del
luglio 1883, suscitando grande scandalo. Al
“peccato di maggio” seguirà la “fuitina” dei due
giovani amanti, fermata a Firenze dalla polizia, e
quindi il matrimonio riparatore, celebrato il 28
luglio 1883: lei aveva 19 anni, lui 20 ed erano per i
tempi entrambi minorenni. L’aristocratica Maria,
bionda, bellissima e giovanissima si ritroverà
incinta, ripudiata dal padre, improvvisamente
precipitata nell’indigenza, ma innamorata pazza
del suo Gabriele, il giovanottino ancora vestito
della bellezza della gioventù, descritto da Matilde
Serao simile in modo impressionante al San
Giovannino adolescente attribuito a Donatello.
Per il primo anno di matrimonio, vissuto in
Abruzzo, Maria ha tutto per sé il Poeta “tutto
riccioli e sorrisi” che l’aveva sedotta. Ma il ritorno a
Roma nel novembre del 1884 modifica la situazione.
Gabriele diviene redattore de “La Tribuna”. Sulle
pagine del quotidiano fondato da un anno da Maffeo
Sciarra Colonna, d’Annunzio racconta la Roma
umbertina, preziosa e decadente e fa le prove per la
scrittura che utilizzerà nel suo primo romanzo, Il
Piacere, dove molte pagine sono riprese
integralmente dalle cronache per il periodico
romano. Ma è soprattutto ansioso di spezzare la
monogamia! E, pur vivendo con la moglie, riprende
la sua vita da scapolo affamato di avventure. Nel
frattempo, anche se l’amore va scemando, rimette
per due volte incinta Maria. Le continue infedeltà,
tra scenate e pianti, sono dolorosamente subite dalla
duchessina fintanto che rimangono sul piano
sessuale e non coinvolgono la sfera sentimentale. Le
diventa invece insopportabile il legame che Gabriele
instaura con Elvira Fraternali Leoni,(Barbarella),
una relazione che presto si trasforma in un grande
amore. Maria aspetta il terzo figlio, Veniero: il
bimbo nascerà mentre il padre assente si incontra a
Venezia con Barbarella. Dopo un tentativo di
suicidio, Maria infine si separerà definitivamente
dal marito. Affermerà più tardi: “Il mio carissimo
Gabriele era un marito fisicamente incapace di
essere fedele”.
Piergiorgio Colombara – ICARO -
Scultura in ottone e legno cm. 45 x 50 x 100
«Chi raccoglierà l’ala icaria?/ Chi con più forte
/ lega saprà rigiugnere le penne/ sparse per
ritentare il folle volo?» (Ala sul mare, in
Alcyone).
Nei versi che ricordano l’impresa amara di
Icaro già nel 1903 d’Annunzio, precorrendo i
Futuristi cantori del “volo scivolante degli
aeroplani”, sembra presagire i numerosi “folli
voli” che lo vedranno protagonista in pace e in
guerra e avranno il loro acme nelle numerose
missioni di esplorazione e di bombardamento,
fra le quali spicca la spedizione aerea più
famosa del 9 agosto 1918, l’incruento volo su
Vienna.
Attento e interessato a ogni novità del
progresso umano d’Annunzio nell’aprile del
1909 accorrerà al campo di Centocelle a Roma
per assistere alle evoluzioni aeree di Wilburg
Wright, uno dei fratelli precursori del volo.
Nel settembre dello stesso anno sarà fra i primi
in Europa e nel mondo a sperimentare
personalmente il volo nel Circuito aereo di
Montichiari (Brescia), alla presenza del re e
della regina e di altre 50.000 persone
(compreso Franz Kafka che ne scriverà).
“E’ una cosa divina. Non penso che a volare
ancora” sarà il commento a caldo di Gabriele (e
così sarà). Intanto aveva portato a termine il
romanzo Forse che sì, forse che no, sottotitolo il
romanzo dell’ala, imperniato sulla figura di un
aviatore e aveva tracciato le cartelle della
conferenza Per il dominio dei cieli da portare in
tour
per
proclamare
l’importanza
dell’aviazione in numerose città italiane,
anche a Genova nel marzo 1910, dove
interromperà la tournée oratoria e partirà per
il “volontario esilio” francese.
Lo scultore condensa nel fragile aereo S.V.A. 9,
il “velivolo” della spedizione aerea su Vienna,
intrappolato
nella gabbia dorata della
limitatezza e caducità umana, allusiva delle
evoluzioni e delle traiettorie aeree, l’ebbrezza
del Poeta per il volo e la sua lungimiranza sulle
potenzialità dell’aviazione che, donando
“rapidità” e “vittoria sul triste peso”,
avrebbero mutato per sempre la mentalità
degli uomini, ricongiungendoli al cielo abitato
dagli dei.
Ilario Cuoghi – gira l’elica…romba il
motor… - Scultura in rame, ottone alluminio,
cm. 60x45x15
Il ritornello della canzone popolare che dopo
essere passata anche per la versione fascista,
restando sempre immutato il titolo-refrain
diverrà in una nuova declinazione canto dei
paracadutisti della Folgore, sembra essere
stato scelto da Ilario Cuoghi per alludere con la
sua poderosa elica simbolica, resa dinamica dal
montaggio
dei materiali, al d’Annunzio
paladino della modernità, moderno sportman,
automobilista e pioniere dell’aviazione. Ancor
più la scultura di Cuoghi fa pensare al
Comandante della Squadra aerea San Marco e
alle sue molte imprese aviatorie durante la
Grande Guerra.
Neppure le conseguenze dell’ammaraggio
forzato e violento del 16 gennaio 1916 nelle
acque di Grado riuscirono a fermarlo: il poeta,
sbalzato violentemente in avanti, aveva
battuto la tempia e il sopracciglio destro
contro la mitragliatrice di prua, subendo di lì a
poco il distacco della retina e la perdita
dell’occhio destro. Dopo mesi di forzata
immobilità al buio (dedicati alla scrittura alla
cieca del Notturno) l’”Orbo Veggente” o
“Monocolo alato”, nonostante il parere
contrario di medici e autorità militari, riuscì a
riprendere i suoi voli che ancora l’avrebbero
portato nei cieli di Trieste, della Dalmazia, del
Trentino, e su su fino a quello di Vienna e poi
della Francia occupata dai “crucchi”.
Ora lo SVA 10 del volo su Vienna, l’impresa
aviatoria più eclatante e di fama mondiale del
Poeta, pende inerte dal vasto soffitto
dell’Auditorium del Vittoriale, isterilito come
uno dei tanti “giocattoli” che il regime
concesse al Vate per tenerlo tranquillo, docile
e isolato nella reggia-prigione del Vittoriale.
E la sua elica non gira più, se non nella visione
del nostro scultore.
Gigi degli Abbati - Eros e Tanatos Tecnica mista su faesite cm 54x54
Nello sguardo monocolo, velato e malizioso
della donna di Gigi degli Abbati, femmina in
attesa che offre immobile la propria nudità
all’amante sospeso nella contemplazione, si
può scorgere un’eroina dannunziana come
Ippolita Sanzio, la protagonista del Trionfo della
morte, pronta a “succhiare l’anima” a Giorgo
Aurispa e a condurlo attraverso il sesso negli
antri oscuri dell’abisso, fin dove eros e
thanatos si confondono e si identificano.
La scrittura di d’Annunzio è spesso permeata
di erotismo e sensualità, e molte volte allude
alla complementarietà di amore e morte, che
per il pescarese sono le due facce dello stesso
sentimento poiché l’amore può essere vissuto
appieno solo da chi non ha paura di morire.
Ma non è solo questo aspetto un po’ riduttivo
che interessa il Poeta, che sente la morte come
l’esperienza più grande, più dell’amore, più
dell’arte, più dell’eroismo, ma anche quella che
non consente ritorni. Più volte si è sognato e
rappresentato morto, e nella Stanza del
Lebbroso al Vittoriale ha voluto un letto
imprigionante e stretto, simile a una bara (o
una cuna) quasi a fare le prove di Gabriele
“tentato di morire”.
L’indagine e la contemplazione della morte
sono una costante dei suoi libri più erotici, dal
Piacere a L’Innocente, al Trionfo della morte.
Non teme di rappresentare comportamenti
sessuali forti e carnali (che portano i suoi
protagonisti a un’estenuazione confinante con
la morte) traducendoli nella prosa dei romanzi
o nelle poesie o mettendoli in scena
teatralmente. Specie nel teatro crea drammi
di lussuria, amore e morte, in contrasto con la
morale borghese, quali La città morta, la
Francesca da Rimini, La figlia di Iorio, Parisina,
Fedra, La Nave, Il Ferro… La quasi totalità dei
suoi drammi diviene paradigma di eros e
thanatos.
Walter Di Giusto - Sfinge Mediterranea
(La notte apollinea)– Olio su tela cm.100x100
Il sonetto La notte apollinea che ha ispirato Di
Giusto, un inedito pubblicato da Emilio
Mariano sulla “Nuova Antologia” nel 1951,
venne composto da d’Annunzio il 20 febbraio
del 1898 a Santa Margherita, dove soggiornava
all’ Hotel Miramare con Eleonora Duse.
Gabriele era reduce da Parigi, dove il 21
gennaio Sarah Bernhardt al Théatre de la
Renaissance aveva impersonato l’Anna de La
città morta, per la prima volta sulle scene.
L’aver assegnato a un’altra primadonna,
acerrima rivale dell’italiana, la parte di
protagonista della tragedia d’esordio era stata
causa della rottura della relazione, iniziata nel
1895, tra la Divina Duse e il Poeta. Però, con la
promessa mantenuta di scrivere per lei il
dramma Sogno d’un mattino primaverile e
soprattutto con la stesura del contratto
esclusivo per la tournée italiana della Città
morta, Gabriele ed Eleonora si erano
riappacificati. Appena tornato da Parigi il
poeta l’aveva raggiunto a Santa Margherita,
dove l’attrice soggiornava per dare sollievo
alla sua latente tubercolosi. I due amanti
ritrovati trascorsero alcuni giorni vagando
per la Riviera, da Santa Margherita a Nizza, a
Cannes. Da questo rinnovato incontro
sgorgano i versi dedicati al Tigullio: “Il monte
ingombra col suo dorso enorme/I cieli. E tu
non l’odi respirare?/ La rupe che protendesi
nel mare/ È come l’unghia del leon che
dorme./ Eguale al mio pensier le mute forme/
Grandeggian nel silenzio interlunare./ Io
veggo tutte sul mio cor passare/ Le bellezze
del mondo a torme a torme./ Vieni! E’ l’ora dei
sogni sovrumani,/ o Donna de la Vita e de la
Morte./ Il prodigio su l’anima è imminente./
Più nobili dei lauri le tue mani/ Cingono le mie
tempie ove più forte/ Pulsa il ritmo dell’opera
nascente
Il pittore nell’ispirarsi alla descrizione del
Poeta del panorama notturno del Monte di
Portofino, oscuro contro il cielo stellato come
un gigantesco leone dormiente, trasfigura la
visione dannunziana
nella Sfinge che
occhieggia da un paesaggio di rupi
mediterranee, mentre una Nike mimetizzata
fra le rocce allude ai miti della classicità cari a
d’Annunzio e propri delle aree del Mare
Nostrum.
Sergio Giordanelli Immemori scheletri
d’alberi (da Canto novo)- tecnica mista su
carta cm. 56 x70
Sergio Giordanelli, come già Bocchieri, trova
ispirazione nel Canto novo. Nelle 63 poesie (molte
delle quali già pubblicate sui periodici romani tra il
1881 e il 1882) confluite nella raccolta edita da
Angelo Sommaruga nel 1882 e illustrate da 5
incisioni di Francesco Paolo Michetti (autore anche
della copertina) d’Annunzio si libera dalla
sudditanza carducciana che tanto aveva
condizionato il più acerbo Primo Vere. Gabriele
stesso ne è consapevole e nel periodo in cui
compone le prime poesie che formeranno il nuovo
canto, scrive a un amico: “C’è quel mago di
Carducci che mi schiacciava e un giorno sarei
andato a finire anch’io come tanti giovani di belle
speranze! Ho avuto la forza di ribellarmi e con un
lento e laboriosissimo processo di selections sono
venuto fuori io, tutto io. Non mi resta che spezzare
gli ultimi lacci e poi gettarmi nel mio mare”.
Dedicata a Giselda Zucconi (Elda o poeticamente
Lalla, “la grande la bella l’adoratissima
ispiratrice”) il primo vero amore di Gabriele che se
ne considerava fidanzato, la raccolta, accanto a
poesie in cui predominano i temi della sensualità e
del rapporto con la natura, presenta alcune liriche
imperniate su figure di diseredati che suscitano
progetti di lotta
sociale, risvolti polemici
dell’ideologia
positivistica
che
cadranno
dall’edizione definitiva pubblicata da Treves nel
1896, purgata naturalmente anche dalla dedica a
Elda.
Il verso Immemori scheletri d’alberi che dà titolo alla
sobria allegoria di Giordanelli, composta di lacerti
di vita vegetale percorsi da impressioni di blu
(melanconia o vitalità?) è contenuto nella seconda
lirica del Canto, dove si legge: “…surgono li alberi
qua e là morituri, a cui pugna/ ancor la vita ne le
supreme cime,/ surgono: con sibili lunghi il vapor
li saluta/ fuggendo e tacito io ne la triste fuga/
guardo... Oh immemori scheletri d'alberi, un
giorno/ pugnaci a l'aura come virenti atleti!”. La
componente dell’immedesimazione del Poeta con
la natura, che avrà la sua sublimazione in Alcyone,
inizia ad affacciarsi in questa opera giovanile come
rapporto immediato, una positivistica esaltazione
dell’affinità biologica tra vita umana, animale e
vegetale. La visione del paesaggio autunnale, degli
alberi spogli, intristiti dal “tedio angoscioso
d'autunno” viene messo in relazione con lo stato
d’animo del Poeta che deve allontanarsi da luoghi
e affetti familiari, chiamato da “un intenso desio
di battaglie/ a genti ignote, lungi, ad ignoto cielo!”
Maria Luisa Greco - Giardino chiuso (da
Poema Paradisiaco) - tecnica mista su tela
cm. 60 x 80
Il riferimento alla donna come un “giardino
chiuso”, serrata in se stessa, negata agli sguardi
e a ogni approccio, che sembra aver ispirato
Maria Luisa Greco, è ripetuto almeno due volte
nella prima sezione del Poema Paradisiaco (il
poema dei giardini, dal latino paradisius,
giardino, che deriva dal persiano pairidaez
attraverso il greco paràdeisos - παράδεισος).
Composto “in pianissimo” tra il 1891 e il 1892,
rappresenta la fase crepuscolare dannunziana
che approfondisce indicazioni sia di Verlaine e
del simbolismo francese sia del preraffaellismo
inglese. Il Poeta si presenta in questo canzoniere
come un uomo sensibile, delicato e malinconico,
che rimpiange con nostalgia
un mondo
familiare e genuino, fatto di cose semplici. Il
linguaggio “paradisiaco” è sciolto e discorsivo e
ricorre ad alcuni espedienti espressivi tipici dei
simbolisti, come la ripresa a distanza di singoli
nessi o la ripetizione della medesima parolaimmagine. Va detto che, nonostante il vespaio di
critiche che l’opera allora suscitò, il carattere
fortemente sperimentale e innovativo di questo
libro lo ha reso fonte importantissima della
storia linguistica e poetica dell'intero Novecento:
come osservò Montale, tutti i poeti successivi
non poterono prescindere dalla poetica
dannunziana, non poterono non ”attraversare”
d’Annunzio.
La lirica Hortus Conclusus, dedicata alla
descrizione di un giardino chiuso e inaccessibile
come un irrecuperabile passato, dove piante,
bianche statue mute, ombre e silenzi sono
irraggiungibili, si chiude con il paragone con la
donna inaccessibile, vagheggiata dal poeta: “Così
la prima volta io vi guardai/ con questi occhi
mortali. Voi, signora,/ siete per me come un
giardino chiuso”, tema che viene ripreso nella
poesia seguente La passeggiata con un risultato
efficace che allude a una tale stanchezza morale
che porta all’impossibilità di amare: “Voi non mi
amate ed io non vi amo. Pure/ qualche dolcezza
è ne la nostra vita/ da ieri: una dolcezza
indefinita/ che vela un poco, sembra, le
sventure/ nostre e le fa, sembra, quasi lontane.
[…] Siete per me come un giardino chiuso,/ dove
nessuno è penetrato mai./ Di profondi invisibili
rosai/ giunge tale un divino odore effuso/ che
atterra ogni desìo di chi l'aspira.”
Roberto Martone - “ Io resto con il
Nulla che mi sono creato” - Olio su tela
cm. 70 x 70
La frase che ha suggerito a Martone la sua
visione surrealista e simbolica, quasi sospesa
in un vuoto esistenziale, si trova in una lettera
del 1938 a una delle sorelle (i fratelli
d’Annunzio erano cinque: Anna nata nel 1854;
Elvira nel 1861; Gabriele nel 1863; Ernestina
nel 1865; Antonio nel 1867). Però è ripetuta e
meglio approfondita nella conversazione che
Aélis riporta nel suo diario, datandola agli
ultimi due mesi di vita del Poeta. Amélie
Mazoyer, ribattezzata appunto Aélis, era la
fidata cameriera-amante e confidente che
aveva seguito dalla Francia Gabriele nel 1915
per condividere al Vittoriale con l’infelice
pianista Luisa Baccara il mortificante compito
di dirigere il traffico di nuove fiamme e
“badesse di passaggio” nel letto del suo
padrone: tutto per amore, un amore
incondizionato, protettivo e a un tempo
passionale.
Ad Aélis che tenta di indurlo ad accettare
l’esistenza dell’Aldilà e ad accogliere la
promessa della resurrezione cristiana, così
risponde Gabriele: “Voglio restare con il nulla
che mi sono creato, con questa aridità, con la
mia lussuria sfrenata”. E prosegue “Pensate se
d’un tratto dovessi rifare tutto, rinnegare tutto
per la fede. Se fossi certo dell’altra vita dovrei
anche condurre una vita da monaco.
Immaginate: rinunciare a tutto! Preferisco il
nulla, la polvere, la putredine, i vermi che ci
mangeranno. Non deve restare nulla di noi”.
Tuttavia questa risposta cinica, macabra e
perentoria non esclude la tensione di
d’Annunzio verso l’inconoscibile, come osserva
Giordano Bruno Guerri: “Gabriele credeva
nella trascendenza, era convinto di poter
sopravvivere anche al di là della carne: il culto
dei suoi morti, il turbamento davanti al
mistero dello spirito, il sonno e la morte come
ingressi verso regni insondabili suggeriscono
che la sua vita al Vittoriale fosse segnata da
questa costante investigazione”.
Laura Mascardi - La pioggia nel pineto
(da Alcyone)- Acquarello su tela cm. 70 x 70
La sinfonia musicale della poesia forse più
celebre di d’Annunzio è tradotta da Laura
Mascardi in un impetuoso acquarello astratto,
formula che ben riproduce il disciogliersi
dell’io nella natura e l’ immersione totale nelle
cose descritto dai versi dannunziani.
Nella lirica in versi sciolti celebrante il
rapporto panico dell’uomo con l’ambiente
naturale si susseguono sensazioni uditive,
visive, olfattive, tattili, ritmate dai verbi “taci”
“piove” “ascolta” “odi”, e vi “si realizza –
scrive Antonino Pagliaro - pienamente la
fusione del ritmo dell’immagine nel ritmo
delle parole, così che la poesia dannunziana vi
acquista una terza dimensione e può dirsi
perfetta”.
La rielaborazione panica della
passeggiata nella pineta sotto la pioggia estiva
di
Gabriele
ed
Ermione–Eleonora,
raffinatissima e suggestiva, è giustamente
considerata, insieme a molte altre liriche di
Alcyone ( da L’oleandro a Le Ore marine, Il
novilunio, Innanzi l’alba, Lungo l’Affrico nella sera
di giugno dopo la pioggia, Versilia, L’Otre, Undulna,
Il fanciullo, L’onda, La sera fiesolana, La morte del
cervo…) come ha scritto Mario Marcazzan “il
vero dono di d’Annunzio, quello per cui il suo
nome si iscriverà nel libro d’oro della poesia
accanto a quello dei grandissimi poeti; quello
per cui se la lirica del Novecento è destinata ad
avere una sua storia, dovrà un giorno iscrivere
d’Annunzio, più ancora che Pascoli o Carducci,
a proprio capostipite”. Tant’è che come
osserva Natalino Sapegno d’Annunzio sarà
imprescindibile anche per i poeti che gli
furono più ostili: ”Il suo repertorio di
immagini, la fluidità aperta del discorso
costituiscono ancora larga parte del materiale
fantastico e l’avvio di ogni ricerca formale”.
Maurizio Roman Melis – Rimani –
collage e tecnica mista su tavola cm. 45 x 70
Se è vero che la poesia scelta da Maurizio
Roman Melis appartiene alla riedizione,
mutata e abbreviata, del Canto novo del 1896
dei fratelli Treves, secondo tale data la
donna alla quale il poeta si rivolge è
Eleonora Duse. La relazione fra la Divina e il
Poeta data infatti dal settembre 1895. Vi
sono assonanze e concetti similari espressi
ne Il Fuoco da Stelio Effrena (alter ego di
Gabriele) a Foscarina (ossia Eleonora).
Ancora nel Libro segreto si può leggere,
quasi un contro canto ai versi di Rimani, lo
smarrimento che l’assenza di Eleonora
(Ghisola, Ghisolabella, Isa, Perdita secondo
il vezzo dannunziano di ribattezzare le sue
donne, come rinate grazie alla sua
vicinanza) procurava al Poeta : ““Ghisola è
partita. Son solo e innominato nelle
barbarie. Ella m'aveva chiesto ier notte
nell'orrore strepitoso e fumoso della
partenza: -Stelio, non vi trema il cuore, per
la prima volta?-[...] Risposi, senza voce, di
là dal libro, di là dalla poesia, di là dalla mia
passione di vivere e di sopravvivere, di là
dal mio bisogno di essere amato: -mi trema
ogni volta, quando partite, quando
giungete, quando temo di perdervi, quando
son certo che non vi perderò-”. Sembrano
proprio tali sensazioni dell’assenza e della
solitudine, che i versi di Rimani vogliono
scongiurare, a essere colte nella simbolica
ed ermetica trasposizione di Melis.
La poesia è tra quelle maggiormente
apprezzate dal popolo del web, anche in una
versione che curiosamente mette al maschile
l’oggetto dell’amore del Poeta, del quale invece
non si conoscono amori o pulsioni
omosessuali: “Rimani! Riposati accanto a me./
Non te ne andare./ Io ti veglierò. Io ti
proteggerò./ Ti pentirai di tutto fuorché
d'essere
venuta
a
me,
liberamente,
fieramente./ Ti amo. Non ho nessun pensiero
che non sia tuo;/ non ho nel sangue nessun
desiderio che non sia per te./ Lo sai. Non vedo
nella mia vita altra compagna, non vedo altra
gioia/ Rimani./ Riposati. Non temere di nulla./
Dormi stanotte sul mio cuore.
MELIS Maurizio Roman
(Santiago del Cile 1957)
Nato in Cile da madre cilena e padre sardo, vi
trascorre gli anni dell’infanzia e della prima
giovinezza.. La sua formazione artistica nasce e si
perfeziona sotto la guida del padre Amerigo,
anch’egli pittore. Si trasferisce in Italia, a Genova, nel
1975, e continua gli studi con la pittrice Renata Soro.
Da anni protagonista della scena artistica nazionale,
espone i suoi lavori in mostre personali e collettive.
La sua arte recupera il segno, soprattutto arcaico, in
cui la tecnica mista con l’ocra della terra, evoca
mondi primordiali e lontani. I suoi lavori più recenti
sono straordinariamente essenziali ed espressivi,
animati da sottili “vibrazioni” dell’anima che affiorano
sulla tela, rimanendovi imprigionate come ricordi
presi in trappola dalle pieghe della memoria.
Vive e lavora a Genova.
Opere in permanenza: Genova ITALIA; Nevada
U.S.A.; Bruxelles BELGIO; Berlino GERMANIA;
Santiago CILE.
Marcello Mogni – I giochi della
seduzione – Olio su tela cm. 60 x 70
I rapporti fra d’Annunzio e Mussolini, evocati
da Marcello Mogni, sono stati definiti come
una cordiale inimicizia. La più recente e
avvertita storiografia si attarda sempre meno
su un d'Annunzio decadente e presunto
protofascista, e sempre più evidenzia il
d'Annunzio modernizzatore e libertario.
Finita la guerra è d’Annunzio la figura
preminente nel panorama dell’Italia vittoriosa
ma prostrata economicamente e socialmente
dagli esiti del conflitto. Sul poeta-soldato,
l’eroe mutilato di guerra, carico di
onorificenze e di 2 medaglie d’oro, 3 d’argento
e 2 di bronzo, si appuntano molte aspettative
politiche. Il caporale maggiore dei bersaglieri
Mussolini (già transfuga socialista ed ex
direttore dell’“Avanti”, ritornato dal fronte
alla direzione del “Popolo d’Italia” fin dal ’17,
che può esibire soltanto la sua ferita di guerra)
non ha ancora consolidato il suo neonato
Movimento dei Fasci di Combattimento
(fondato il 23 marzo 1919).
Le prime
avvisaglie del rapporto sdrucciolevole tra i due
si avvertiranno durante l’occupazione di
Fiume, la città del Carnaro rivendicata all’Italia
e occupata dal poeta dal 12 settembre 1919: la
lettera del Comandante d’Annunzio a
Mussolini, piena di insulti e rivendicazioni sul
mancato sostegno all’impresa fiumana, verrà
purgata delle parti offensive e recriminatorie
e così modificata pubblicata su “Il Popolo
d’Italia” dal direttore Mussolini, trasmutata
nell’elogio alla solidarietà del Movimento dei
Fasci di Combattimento.
Il
fascismo
riprenderà
molte
delle
immaginifiche invenzioni oratorie e retoriche
di d’Annunzio (dall’ Eia eia alalà al discorso dal
balcone) ma non ne comprenderà mai la
poetica sostanza visionaria, mentre il poeta
mostrerà solo
una cortese accettazione
superficiale
alle istanze del fascismo
trionfante, ma realmente non vi aderirà,
ordinando anzi ai suoi sostenitori di tenersene
ben lontani.
Ritiratosi a Gardone Riviera, deluso,
sconfortato e controllato quotidianamente
dalle occhiute spie fasciste, il poeta resterà per
Mussolini un problema minore: “Gabriele
d'Annunzio è come un dente marcio o lo si
estirpa o lo si ricopre d'oro...io preferisco
ricoprirlo d'oro”.
Sergio Palladini - Il silenzio di Ferrara Tecnica mista su tavola cm. 50 x 49
L’artista riesce a ricreare, con una sapiente
orchestrazione di geometrismi affogati ed
esaltati da una tavolozza di azzurri, di blu e di
grigi,
l’atmosfera
metafisica,
aerea,
trasparente e sospesa con cui d’Annunzio
celebra Ferrara, come contenuta e delimitata
in una “chiara/ sfera d'aere ed acque/ ove si
chiude la mia malinconia divina,/ musicalmente”.
Ferrara è la prima a essere evocata de Le città
del silenzio, la raccolta di venticinque liriche
dedicate ad altrettante città (opposte alle Città
Terribili, le metropoli industriali. cantate in
Maia) che chiude il libro di Elettra, il secondo
libro delle Laudi del cielo del mare della terra e
degli eroi.
A confronto con gli altri versi del libro,
encomiastici ed epici celebranti in modo
oratorio e propagandistico, Garibaldi, Verdi,
Victor Hugo, Bellini, Dante, Segantini, etc., i
sonetti e le canzoni dedicati alle glorie passate
e non riproducibili nel presente di luoghi quali
Ferrara, appunto, Ravenna, Pisa si presentano
come la parte più poeticamente rilevante di
Elettra. Di ognuna delle 25 città prescelte il
Poeta esalta le epoche antiche per fissare nel
ricordo tempi e gioie perduti, in contrasto con
la contemporaneità convulsa e industriale.
La “deserta bellezza di Ferrara”, privata della corte
estense, è fermata nell’attimo del ricordo della
sua fioritura rinascimentale, delle sue donne
“morte” più illustri ( Eleonora d’Este e
Lucrezia Borgia), della pace dei suoi chiostri.
Il silenzio ferrarese si accompagna alla
nostalgia di bellezze e sogni perduti, al
rimpianto della pace claustrale e dei canti
armoniosi che vi echeggiavano (alludendo
probabilmente anche alla clausura a cui fu
costretto il Tasso, “l’usignolo ebro furente [di
pazzia e poesia]”, imprigionato nelle «lane
placide» donanti pace).
Il silenzio di Ferrara è compagno di chi
cammina solo e trasognato “col suo pensiero
ardente”, per le sue “vie piane,/ grandi come
fiumane,/
che
conducono
all'infinito”,
melanconicamente ripiegato su “il sogno di
voluttà che sta sepolto/ sotto le pietre nude con la
tua sorte”.
Paola Pastura - La pioggia sul pineto Olio su tela cm. 70 x 50
L’incanto de La pioggia nel pineto condiziona
anche il “vigoroso astrattismo” di Paola
Pastura che applica il suo estro anche nella
variazione del titolo della sua opera rispetto
alla lirica originale contenuta in Alcyone,
verosimilmente non a caso. La mutazione della
preposizione articolata starebbe infatti a
significare, come si evince anche dal segno
pittorico concentrato su luci e colori di piante
e arbusti allegoricamente stillanti acqua
purificatrice, che il suo interesse travalica i
due umani immersi nella pioggia e nei verdi
della macchia mediterranea.
Il suo
coinvolgimento è tutto concentrato su crepitii
e scrosci, la musica che il piovasco del luglio
1902 suona sulla natura vegetale, sulle “parole
più nuove/ che parlano gocciole e foglie
lontane […] piove su le tamerici/ salmastre ed
arse,/ piove su i pini/ scagliosi ed irti,/ piove
su i mirti/ divini,/ su le ginestre fulgenti/ di
fiori accolti,/ su i ginepri folti/ di coccole
aulenti […] La pioggia cade/ su la solitaria/
verdura/ con un crepitio che dura/ e varia
nell’aria/ secondo le fronde/ più rade men
rade/ […] E il pino/ ha un suono, e il mirto/
altro suono, e il ginepro/ altro ancora,
strumenti/ diversi/ sotto innumerevoli dita/
[…]Or s’ode su tutta la fronda/ crosciare/
l’argentea pioggia/ che monda,/ il croscio che
varia/ secondo la fronda/ più folta, men folta.”
Si direbbe che non solo la “favola bella/ che
ieri/ mi illuse, che oggi t’illude” sia esclusa
dalla lettura di Pastura, ma anche le voci delle
“aeree cicale” e della “figlia del limo lontana,
la rana” che si colgono nella pioggia, non
rientrino nella sua visione di una natura
esclusivamente vegetale battuta dal temporale
estivo.
Anna Ramenghi - Come Ermione …
favola bella - Olio su tela cm. 100 x 80
La Venere acefala e priva delle braccia di Anna
Ramenghi (un nudo opulento e sensuale
immerso in toni rosati e perlacei e messo in
risalto da una cornice di rose) nelle forme
rimanda alla Venere Anadiomene o Landolina
di Siracusa. Il titolo scelto dalla pittrice invece
fa riferimento a Ermione-Duse, protagonista
delle liriche di Alcyone, e, con la citazione
della “favola bella”, restringe il campo a La
pioggia nel pineto. Tuttavia il morbido erotismo
del corpo femminile e ancor più il profluvio di
rose che lo circondano, per d’Annunzio fiore
simbolo identificativo dell’ organo sessuale
femminile, sembrano travalicare la singola
amante e il dettaglio della specifica poesia, per
racchiudere in un solo simulacro femminile
(per questo senza volto) le molte donne amate
dal Poeta, grande dongiovanni tombeur de
femme (nonostante l’aspetto non all’altezza del
ruolo), fermo restando che nel ricordo sarà
proprio la Duse-Ermione quella maggiormente
rimpianta. Da tutto il suo vastissimo gineceo
“l’amoroso Gabriele” ormai anziano elencherà
come “i miei grandi amori” solo quattro
donne: “la Goloubeff (Donatella), la Mancini
(Giusini) e la Duse che lasciò tutto per me, e
anche Luisa (Baccara) che accetta questa vita
di sacrificio certamente assai dura”,
dimenticando con assoluta noncuranza
partner importanti (e molto amate per lo
spazio della relazione) della sua biografia,
presenti per alcuni anni accanto a lui che
molto avevano patito dal suo abbandono, come
la prima fidanzatina Elda Zucconi, la moglie
Maria Harduin di Gallese, l’ispiratrice de Il
Piacere Barbarella (Elvira Fraternali Leoni), la
madre di Renata (l’unica figlia femmina) Maria
Gravina Cruyllas e ancora Alessandra di
Rudinì, Olga Ossani, Amélie Mazoyer [Aélis],
Elena Sangro, Ida Rubinstein… e l’elenco
potrebbe srotolarsi ancora a lungo.
Franco Repetto - Omaggio alla vittoria
del Piave - Scultura a tuttotondo cm. 40 x 40 x
150 - lamiera di ferro smaltata
Superato l’ingresso monumentale a due archi del
Vittoriale degli Italiani, incamminandosi verso la
Prioria (la casa ora museo di d’Annunzio) si
incontra Il Pilo del Piave sormontato dal La Vittoria
del Piave di Arrigo Minerbi. L’artista ferrarese
prediletto da D’Annunzio, che gli aveva
commissionato il ritratto e il monumento funebre
di Pescara della madre Luisa, era anche sempre
presente nell’Officina (lo studio di d’Annunzio) con
il gesso del ritratto di Eleonora Duse del 1927 (il
marmo originale è oggi conservato al Museo della
Scala). Inoltre Minerbi sopperì nel marzo 1938 al
triste compito di eseguire la maschera funeraria
del Poeta.
La Vittoria del Piave di Minerbi è rappresentata
come una figura femminile nuda, dai piedi legati,
tesa inutilmente in una specie di volo mancato,
dolente per il disinganno della “vittoria mutilata” e
sofferente per le troppe perdite umane. A questa
scultura bronzea, fusa nel 1920 in tre esemplari
(Monumento ai Caduti di Cuggione; Tempio della
Vittoria a Ferrara e quello donato al Vittoriale dal
comune di Milano nel 1935) fa riferimento per il
suo Omaggio lo scultore Franco Repetto:
“Con quest'opera intendo omaggiare lo scultore
Arrigo Minerbi e la sua “Vittoria del Piave”.
Sapiente e raffinato, questo grande maestro della
scultura italiana del '900, è stato uno degli artisti
sentitamente prediletti da Gabriele d'Annunzio:
non a caso il sommo poeta, per la sua residenza al
Vittoriale sul lago di Garda, scelse questa insigne
opera di poetica commemorazione a simbolo
appunto della vittoria delle truppe italiane nel
primo conflitto mondiale.
Un'altra copia bronzea gemella della medesima
opera si trova a Ferrara, città natale dello scultore.
Ho scelto di riferirmi a questa preziosissima
scultura in quanto espressione autentica della
sensibilità del Vate.
Eleganza, sensualità, generosità, enfasi, valore,
ricordo, mito, dinamismo intellettuale e sinuosa
leggerezza. Se l'uomo si manifesta autenticamente
attraverso le proprie scelte e Gabriele d'Annunzio
per rappresentare i propri intendimenti e gusti
volle Arrigo Minerbi (anche nell'ultimo funebre
ritratto) credo di aver percorso la corretta via
dedicando questo mio lavoro al sommo Maestro.”
Luigi Maria Rigon - Gabriele d’Annunzio
alla scrivania - Olio su tela cm. 60 x 70
Rigon, presentandoci l’immagine del Poeta alla
scrivania intento alla lettura, in un
atteggiamento consueto, la guancia appoggiata
alla mano,
testimoniato da numerose
fotografie, da quelle scattate alla Capponcina
da Mario Nunes Vais a quelle più tarde riprese
nell’Officina del Vittoriale (dove lo vegliava
l’effigie schermata di Eleonora Duse, scolpita
da Arrigo Minerbi), ci rimanda all’opera
letteraria di d’Annunzio e alle sue modalità di
elaborazione.
La preparazione di d'Annunzio per i suoi testi
(al di là di quelli poetici più istintivi e viscerali
che comunque erano supportati da appunti
fermati sui suoi taccuini) è molto accurata e si
basa su preparazione erudita, consultazione e
ricerca talvolta facilitata dalla premurosa
collaborazione di volonterosi amici, segretari e
bibliotecari.
Per “capolavorare” poi si ritira completamente
da ogni suggestione mondana e si dedica
totalmente alla scrittura, come farà, per
limitarmi a due soli esmpi, nel 1888 per Il
Piacere ( più di sei mesi di ritiro a Francavilla al
Mare nel “conventino” di Francesco Paolo
Michetti, insensibile ai richiami dell’amante
Barbarella –Elvira Leoni Fraternali-), come farà
per l’Orazione di Quarto nell’aprile del 1915 (un
mese in solitudine ad Arcachon sull’Atlantico).
La prassi creativa di d’Annunzio darà adito a
furiose polemiche riguardanti l’annosa
questione dei plagi e dei prestiti che il Poeta
si concedeva dai diversi autori compulsati,
polemiche che non tenevano conto della sua
capacità assimilatrice e creativamente
mimetica. D’altro canto Gabriele non si curava
molto di tali attacchi, sicuro che lo scalpore
che si faceva intorno al suo nome e alla sua
opera determinasse altrettanta pubblicità, da
lui sempre considerata una preziosa e
ricercata alleata.
Raimondo Sirotti Paesaggio da la figlia di
Jorio di Francesco Paolo Michetti
Olio su tela cm. 60 x 80
Improvvisamente in una torrida giornata
dell’estate 1883 due giovani amici abruzzesi, il
trentaduenne pittore Francesco Paolo Michetti
(detto Ciccillo) e il ventenne poeta Gabriele
d’Annunzio, vedono irrompere sulla piazza di
Tocco di Casaura, paese natale del pittore, la fuga
disperata di una giovane e bella donna
scarmigliata, inseguita da un branco di contadini e
pastori ottenebrati dal sole e dal vino e infoiati dal
desiderio. Da questa visione violenta e barbara
entrambi gli artisti a distanza di anni trarranno
ispirazione, in precedenza Michetti che presenterà
alla prima Esposizione d’Arte Internazionale di
Venezia del 1895 la sua opera La Figlia di Iorio,
aggiudicandosi il primo premio. Quindi nel 1903
d’Annunzio stenderà la sua “tragedia pastorale”,
dallo stesso titolo, tre atti in versi rappresentati in
prima nazionale il 2 marzo 1904 al Lirico di Milano,
considerati quasi unanimemente il suo capolavoro
drammatico. La grande tela a tempera di Michetti
(550x280)
ferma
l’immagine
precedente
l’inseguimento e mette in primo piano Mila di
Codra che passa timorosa, coprendosi il viso,
davanti a un gruppo immobile di contadini seduti
(tra il quale si distingue anche una figura
femminile) che segue con sguardi variamente
atteggiati i passi della meretrice di campagna.
Sullo sfondo si stagliano le cime nevose del
Morrone della Maiella, la “Montagna Magica” di
Abruzzo messe ben in risalto dal colore terso e
luminoso del cielo. Sirotti ha scelto di depurare “la
natura immutabile” da “l’uomo primitivo” che
dannunzianamente “parla il linguaggio delle
passioni elementari”, a sottolineare da un lato
l’influsso che l’ambiente naturale grava su i destini
umani e dall’altro la caducità delle passioni e
l’insignificanza dell’uomo di fronte alla natura.
Giuseppe Trielli - Petali di pioggia,
Ermione - Olio su tela cm. 90 x 90
L’indubbio fascino in Alcyone della lirica La
pioggia nel pineto ha intrigato anche Giuseppe
Trielli che nella sua opera allude alla seconda
parte della poesia, quando i due amanti si
stanno sempre più immedesimando nella
natura bagnata dalla pioggia: il processo
identificativo panico sta per compiersi.
Ermione, il cui volto nel dipinto di Trielli è la
vestigia di umanità più identificabile nel
groviglio di acqua e vegetazione che sta per
rissucchiarla, è ormai “non bianca/ ma quasi
fatta virente,/ par da scorza tu esca” e “il
cuore nel petto è come pesca/ intatta,/ tra le
palpebre gli occhi/ son come polle tra l’erbe,/ i
denti negli alveoli/ son come mandorle
acerbe”.
La trentasettenne Divina Eleonora Duse (di
cinque anni maggiore di Gabriele), trasfigurata
nelle Laudi alcionie in Ermione, era entrata
nella vita di d’Annunzio nel settembre del
1895. Fu un grande amore, cantato come
“incantesimo solare”, ma fu anche un incontro
professionale: al Poeta l’unione artistica con la
più acclamata attrice del tempo prospettava
un pubblico più vasto e, dopo le affermazioni
delle sue opere poetiche e dei suoi romanzi, gli
apriva una nuova possibilità di successi
drammaturgici;
all’attrice,
reduce
dal
tranquillo menage anche lavorativo con Arrigo
Boito, d’Annunzio si presentava come la
risposta al suo bisogno di cambiare e
cimentarsi in innovative esperienze artistiche:
rappresentava la liberazione da un ripetitivo
repertorio teatrale che le era venuto a noia.
Di questo amore importante, durato nove anni,
fino al 1904, resta, oltre ai versi a lei dedicati,
la rielaborazione che d’Annunzio ne fece nel
romanzo Il Fuoco ambientato in una Venezia
bellissima e affascinante, scoperta nei suoi
angoli meno conosciuti e scritto durante
l’acme della passione tra i due [1896- 1900].
Nevio Zanardi Da “Parisina” (testo di G.
d’Annunzio, musica di P. Mascagni)
Tecnica mista su tela cm. 70 x 100
Il musicista Nevio Zanardi non poteva non
riferirsi ai numerosi e vistosi interessi musicali
di d’Annunzio. La passione per la musica è una
costante della vita del Poeta, presente nella
sua opera letteraria e intessuta a interventi e
accostamenti al mondo musicale: i dibattiti
contro Nietzsche sul caso Wagner; le cronache
musicali su la “Tribuna”; le collaborazioni con
i massimi compositori del tempo (Casella,
Puccini, Malipiero…); le poesie messe in
musica non solo dall’amico Francesco Paolo
Tosti; le sue opere teatrali musicate e portate
sulle scene da autori quali Respighi, Pizzetti,
Montemezzi, Zandonai, Debussy, Honneger,
Franchetti, Mascagni.
Proprio al rapporto con quest’ultimo fa
riferimento il pittore ricordando Parisina, la
tragedia in quattro atti in versi, composta da
d’Annunzio nel marzo 1912 durante il
“volontario esilio” francese. Inizialmente il
dramma ebbe vita solo come libretto per
l’opera composta da Pietro Mascagni.
Il Maestro livornese, voluto dall’editore
Sonzogno, non da d’Annunzio che nel 1892 lo
aveva qualificato come “capobanda”, si dedicò
con abnegazione alla creazione dell’opera
trasferendosi in Francia per essere a stretto
contatto con il Poeta. Era angustiato dal
pensiero di non essere all’altezza del compito e
inoltre era depresso per l’abbandono della
moglie, che aveva scoperto la sua relazione
con una giovane corista.
Strettamente controllato dall’autore, Mascagni
non tralasciò alcun verso del testo
dannunziano
che
narrava
dell’amore
incestuoso tra Parisina, moglie di Nicolò
d’Este, e il figliastro Ugo. La prima (e unica)
rappresentazione alla Scala il 15 dicembre
1913 (promossa dal bel manifesto di Gaetano
Previati, conservato anche alla Wolsoniana di
Genova-Nervi)
fu sommersa dai fischi.
Soprattutto il pubblico era deluso dalla musica
di Mascagni, dopo i fasti della Cavalleria
rusticana.
D’Annunzio dedicò giorni interi al tentativo di
consolare lo sfiduciato musicista, visitandolo
con frequenza nella casa vicino Parigi dove
viveva con la figlia adolescente Emy.