Anita Ginella Appunti storici e letterari sulle opere esposte “Una storiografia semplificatrice e come lui - orba di un occhio, ha visto in d’Annunzio solo il precursore del fascismo […]. A Fiume, però, fu l’inventore di una democrazia e di una modernità che anticipava le costituzioni più avanzate della seconda metà del Novecento, oltre agli stili di vita. Se l’Italia prese di lui la componente deteriore, e se ancora oggi gli italiani riescono a vedere solo quella, forse si tratta di un limite dell’Italia e degli italiani, non di d’Annunzio”. Giordano Bruno Guerri Le schede critico-biografiche degli artisti sono riprese da GERMANO BERINGHELI (a cura di), Dizionario degli artisti liguri, De Ferrari Editore, Genova 2012, ad vocem. Giorgio Angelini - Squadra di San Marco - Smalti su cartone cm. 70 x 70 La “Serenissima” o “Squadra aerea di San Marco” della Regia Marina, composta da uno stormo di bombardieri SIA 9 B, da una dozzina di S.V.A. 9 (più il biposto S.V.A 10 che il 9 agosto 1918 porterà il poeta-soldato su Vienna) e da una squadriglia di siluranti, fu creata e comandata da d’Annunzio nell’ultimo periodo di guerra. Istituzionalizzava e premiava con una struttura più inquadrata militarmente le molteplici missioni di esplorazione e di combattimento che dall’inizio del conflitto il Poeta e i suoi compagni avevano portato a termine, iniziate per d’Annunzio il 7 agosto 1915 con il primo volo su Trieste. L’“ufficiale osservatore dell’aeroplano” d’Annunzio sarà non solo protagonista e stratega di memorabili imprese, ma sostenitore del ruolo decisivo dell’aviazione per combattimenti celesti, rapidi e creativi. Angelini mette in evidenza nel gagliardetto con il leone di San Marco il motto Ti con nu, nu con ti (Tu con noi-Noi con te; altro motto meno risaputo scelto da d’Annunzio per il suo stormo aereo era Sufficit animus – basta il coraggio) della Squadra, ripreso dal Poeta dall’orazione del 1797 del capo della comunità di Perasto proclamante l’imperitura fedeltà del piccolo porto dalmata a Venezia, nonostante l’inevitabilità della resa agli austriaci alle porte. La figura evanescente che il pittore raffigura protesa verso il gagliardetto rimanda non solo al Santo e alla sua rappresentazione voluta da d’Annunzio per la Squadra, più definita e possente di De Carolis, ma condensa anche gli aviatori, santificati dal loro eroismo, caduti nei voli e pianti dal Poeta, tra i primi i suoi piloti Giuseppe Miraglia, Francesco Baracca, Gino Allegri, Natale Palli e Luigi Bourlot. Liliana Bastia - Il cervo (da Alcyone) – tecnica mista su carta cm. 70 x 50 Acme della poesia dannunziana, Alcyone è il momento soggettivo e più intimo del ciclo delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. Rappresenta l'adesione felice alla bella stagione, dalle prime sensazioni primaverili al trionfo estivo che si disferà infine nell’autunno. Il Vate vive un momento di sospensione dalla sua ascensione eroica di superuomo, come suggerisce la prima lirica La Tregua che fa da raccordo con i due libri precedenti delle Laudi, Maia ed Elettra. Alcyone sarà il momento del riposo, dell’abbandono e della fusione panica con la natura. Pubblicato per la prima volta nel 1903 presenta grande varietà metrica e celebra con una costante perfezione verbale i miti della fertilità, della metamorfosi e della solarità. Tra le molte liriche giustamente famose delle raccolta due hanno per soggetto il cervo e la sua morte. A entrambe sembra ispirarsi Liliana Bastia per la sua immagine incisiva come un graffito primitivo. Infatti nella prima lirica Il cervo d’Annunzio ci descrive l’animale potente e vitale, forse di “insigni lombi, e assai ramoso”, “il cervo d’unghia nera/ si separa dal branco delle femmine/ e si rinselva. Dormirà fra breve/ nel letto verde, entro la macchia folta,/ soffiando dalle crespe froge il fiato/ violento che di mentastro odora”. Anche il presagio di morte immaginato dai cacciatori non scalfisce l’animale poiché gli uomini sono “inermi” e “sazi di bellezza”: dovranno accantonare “l’antico desiderio delle prede”, limitandosi ad ascoltare i bramiti notturni del cervo: “Udremo a notte le sue lunghe/ muglia, udremo la voce sua di toro:/sorgere il grido della sua lussuria/ udremo nei silenzi della luna”. Ne La morte del cervo non gli uomini, ma una figura mitica, un centauro che si materializza nuotando nel Serchio, darà la morte al cervo dopo una lotta cruenta di cui è testimone attonito il Poeta: “Entrambi inalberati, l’un confuso/ con l’altro in un viluppo, i due nemici,/ tra luci ed ombre, sotto il muto cielo/ saettato di sprazzi porporini,/ lottavano;”. I riflessi vermigli del cielo al tramonto e del sangue dei due corpi feriti sembrano essere colati dai versi dannunziani per condensarsi nell’immagine proposta da Liliana Bastia. Marina Bocchieri – O falce calante, qual mèsse di sogni ondeggia al tuo mite chiarore quaggiù - Olio su tela cm. 50x70 La lirica O falce di luna calante a cui la Bocchieri fa riferimento (riprendendone nel titolo gli ultimi 2 versi) è contenuta in Canto novo, dopo Primo vere del 1879, la prima autentica e originale dimostrazione del genio poetico di un d’Annunzio diciannovenne. La raccolta, pubblicata nel maggio 1882 per i tipi del rampante editore Angelo Sommaruga in contemporanea con i primi racconti in prosa di Terra vergine, accompagna, l’ingresso del poetino abruzzese “tutto riccioli e sorrisi” e l’occhio ancora rivolto al primo amore Giselda Zucconi (alla quale dedica il libro) nelle redazioni giornalistiche e nella mondanità della “Roma bizantina”. Era da poco giunto nella capitale dopo il brillante esito conseguito alla licenza liceale iscritto dal padre alla Facoltà di Lettere della Sapienza di Roma, anziché all’Ateneo più familiare di Firenze, proprio per allontanarlo dalla Zucconi che il giovane voleva a tutti i costi sposare. L’Università la frequenterà assai poco e non darà nessun esame, ma, secondo le previsioni paterne, dimenticherà velocemente la fidanzatina fiorentina. La figura femminile rappresentata dalla pittrice apparentemente chiusa all’ esterno, immersa e rapita nel chiarore lunare, sembra abbandonata nel silenzio a prendere possesso del mondo attraverso la propria interiorità, guidata dagli echi dei versi dannunziani. Vale la pena rileggere la lirica, divenuta giustamente famosa e giudicata da Federico Roncoroni “perfetta […] per la musicalità in cui si stemperano i versi: una musicalità distesa e placida, tutta tramata sul silenzio e tutta appoggiata sul ritmo, visto che non c’è nessuna rima a turbare il lieve succedersi delle immagini, e sulla ripresa, con una leggera variante, di un motivo melodico”. O falce di luna calante/ che brilli su l’acque deserte/ o falce d’argento, qual messe di sogni/ ondeggia a ‘l tuo mite chiarore qua giù!/ Aneliti brevi di foglie/ di fiori di flutti da ’l bosco/ esalano a ‘l mare: non canto, non grido,/ non suono pe ‘l vasto silenzio va./ Oppresso d’amor, di piacere/ Il popol de’ vivi s’addorme…/ O falce calante, qual messe di sogni/ ondeggia a ‘l tuo mite chiarore qua giù! Paolo Chimeri Chimera - Scultura in ferro cm. 116 x 70 x 30 Quasi giocando con il proprio cognome lo scultore Chimeri presenta la propria interpretazione della Chimera, l’essere mitologico al quale d’Annunzio aveva dedicato la raccolta poetica omonima che nel 1890 Treves pubblicò nel volume l’Isotteo e La Chimera. Solo per ragioni editoriali i due titoli vanno insieme, ma si tratta di raccolte autonome, che rimandano solo in parte al volume del 1886 Isaotta Guttadauro e altre poesie. Nelle liriche dell’ Isotteo, dove si affidava ai moduli stilistici dei quattrocentisti toscani, il Poeta intendeva interpretare il sogno di una vita passata; ne La Chimera invece si proponeva di cantare il proprio presente, costruendo una specie di itinerario dell’anima verso la purificazione, tra raffigurazioni simboliche e manifesti richiami alle arti visive. Sul piano dello sperimentalismo espressivo in realtà i due libri non presentano molte varianti, poiché il secondo prosegue le raffinatezze linguistiche e tecniche del primo, accrescendone tuttavia le inclinazioni parnassiane e la languida sensualità. Nel prologo così d’Annunzio descrive, evidenziandone i poteri seduttivi e letali, il mostro del mito che dà titolo alla raccolta: “Quando, furia d’amore, in labirinti/ di rose la bellissima Chimera/ traeva sitibondi in una schiera/ i bianchi efebi a la sua chioma avvinti/ ridevan essi di lor sangue tinti/ a l’ugna e al bacio de l’ardente fiera;/ poi tra la fiamma de la gran criniera/ mancavan come languidi giacinti. Va sottolineato che un’altra Chimera resterà memorabile per Gabriele, quella raffigurata dalla statua di bronzo del Museo Etrusco di Firenze, all’ombra della quale durante le vacanze pasquali del 1877 visse con la giovane Clemenza Coccolini il suo “primo assalto a un mistero carnale”, l’indimenticabile “ora della Chimera” che avrebbe ricordato nel 1924 come La Chimera e l’altra bocca Milly Coda - Peccato di maggio (Il Fanciullino - da Intermezzo di Rime) – Olio su tela, cm.80x80 La mossa scena amorosa ordita da Milly Coda, facente parte della serie Il Fanciullino in questo caso dal titolo rimodulato in Il peccato di maggio, sembra evocare il primo amplesso amoroso fra Gabriele e la duchessina Maria Harduin di Gallese, tradotto interamente e poco cavallerescamente dal Poeta nella lunga lirica cui la pittrice fa riferimento. I languori di lei e gli ardori e le pulsioni sensualmente erotiche di lui nel bosco, sotto le stelle di maggio, trovarono dapprima spazio sulle pagine del periodico “Cronaca Bizantina”, quindi furono incluse nella raccolta Intermezzo di rime del luglio 1883, suscitando grande scandalo. Al “peccato di maggio” seguirà la “fuitina” dei due giovani amanti, fermata a Firenze dalla polizia, e quindi il matrimonio riparatore, celebrato il 28 luglio 1883: lei aveva 19 anni, lui 20 ed erano per i tempi entrambi minorenni. L’aristocratica Maria, bionda, bellissima e giovanissima si ritroverà incinta, ripudiata dal padre, improvvisamente precipitata nell’indigenza, ma innamorata pazza del suo Gabriele, il giovanottino ancora vestito della bellezza della gioventù, descritto da Matilde Serao simile in modo impressionante al San Giovannino adolescente attribuito a Donatello. Per il primo anno di matrimonio, vissuto in Abruzzo, Maria ha tutto per sé il Poeta “tutto riccioli e sorrisi” che l’aveva sedotta. Ma il ritorno a Roma nel novembre del 1884 modifica la situazione. Gabriele diviene redattore de “La Tribuna”. Sulle pagine del quotidiano fondato da un anno da Maffeo Sciarra Colonna, d’Annunzio racconta la Roma umbertina, preziosa e decadente e fa le prove per la scrittura che utilizzerà nel suo primo romanzo, Il Piacere, dove molte pagine sono riprese integralmente dalle cronache per il periodico romano. Ma è soprattutto ansioso di spezzare la monogamia! E, pur vivendo con la moglie, riprende la sua vita da scapolo affamato di avventure. Nel frattempo, anche se l’amore va scemando, rimette per due volte incinta Maria. Le continue infedeltà, tra scenate e pianti, sono dolorosamente subite dalla duchessina fintanto che rimangono sul piano sessuale e non coinvolgono la sfera sentimentale. Le diventa invece insopportabile il legame che Gabriele instaura con Elvira Fraternali Leoni,(Barbarella), una relazione che presto si trasforma in un grande amore. Maria aspetta il terzo figlio, Veniero: il bimbo nascerà mentre il padre assente si incontra a Venezia con Barbarella. Dopo un tentativo di suicidio, Maria infine si separerà definitivamente dal marito. Affermerà più tardi: “Il mio carissimo Gabriele era un marito fisicamente incapace di essere fedele”. Piergiorgio Colombara – ICARO - Scultura in ottone e legno cm. 45 x 50 x 100 «Chi raccoglierà l’ala icaria?/ Chi con più forte / lega saprà rigiugnere le penne/ sparse per ritentare il folle volo?» (Ala sul mare, in Alcyone). Nei versi che ricordano l’impresa amara di Icaro già nel 1903 d’Annunzio, precorrendo i Futuristi cantori del “volo scivolante degli aeroplani”, sembra presagire i numerosi “folli voli” che lo vedranno protagonista in pace e in guerra e avranno il loro acme nelle numerose missioni di esplorazione e di bombardamento, fra le quali spicca la spedizione aerea più famosa del 9 agosto 1918, l’incruento volo su Vienna. Attento e interessato a ogni novità del progresso umano d’Annunzio nell’aprile del 1909 accorrerà al campo di Centocelle a Roma per assistere alle evoluzioni aeree di Wilburg Wright, uno dei fratelli precursori del volo. Nel settembre dello stesso anno sarà fra i primi in Europa e nel mondo a sperimentare personalmente il volo nel Circuito aereo di Montichiari (Brescia), alla presenza del re e della regina e di altre 50.000 persone (compreso Franz Kafka che ne scriverà). “E’ una cosa divina. Non penso che a volare ancora” sarà il commento a caldo di Gabriele (e così sarà). Intanto aveva portato a termine il romanzo Forse che sì, forse che no, sottotitolo il romanzo dell’ala, imperniato sulla figura di un aviatore e aveva tracciato le cartelle della conferenza Per il dominio dei cieli da portare in tour per proclamare l’importanza dell’aviazione in numerose città italiane, anche a Genova nel marzo 1910, dove interromperà la tournée oratoria e partirà per il “volontario esilio” francese. Lo scultore condensa nel fragile aereo S.V.A. 9, il “velivolo” della spedizione aerea su Vienna, intrappolato nella gabbia dorata della limitatezza e caducità umana, allusiva delle evoluzioni e delle traiettorie aeree, l’ebbrezza del Poeta per il volo e la sua lungimiranza sulle potenzialità dell’aviazione che, donando “rapidità” e “vittoria sul triste peso”, avrebbero mutato per sempre la mentalità degli uomini, ricongiungendoli al cielo abitato dagli dei. Ilario Cuoghi – gira l’elica…romba il motor… - Scultura in rame, ottone alluminio, cm. 60x45x15 Il ritornello della canzone popolare che dopo essere passata anche per la versione fascista, restando sempre immutato il titolo-refrain diverrà in una nuova declinazione canto dei paracadutisti della Folgore, sembra essere stato scelto da Ilario Cuoghi per alludere con la sua poderosa elica simbolica, resa dinamica dal montaggio dei materiali, al d’Annunzio paladino della modernità, moderno sportman, automobilista e pioniere dell’aviazione. Ancor più la scultura di Cuoghi fa pensare al Comandante della Squadra aerea San Marco e alle sue molte imprese aviatorie durante la Grande Guerra. Neppure le conseguenze dell’ammaraggio forzato e violento del 16 gennaio 1916 nelle acque di Grado riuscirono a fermarlo: il poeta, sbalzato violentemente in avanti, aveva battuto la tempia e il sopracciglio destro contro la mitragliatrice di prua, subendo di lì a poco il distacco della retina e la perdita dell’occhio destro. Dopo mesi di forzata immobilità al buio (dedicati alla scrittura alla cieca del Notturno) l’”Orbo Veggente” o “Monocolo alato”, nonostante il parere contrario di medici e autorità militari, riuscì a riprendere i suoi voli che ancora l’avrebbero portato nei cieli di Trieste, della Dalmazia, del Trentino, e su su fino a quello di Vienna e poi della Francia occupata dai “crucchi”. Ora lo SVA 10 del volo su Vienna, l’impresa aviatoria più eclatante e di fama mondiale del Poeta, pende inerte dal vasto soffitto dell’Auditorium del Vittoriale, isterilito come uno dei tanti “giocattoli” che il regime concesse al Vate per tenerlo tranquillo, docile e isolato nella reggia-prigione del Vittoriale. E la sua elica non gira più, se non nella visione del nostro scultore. Gigi degli Abbati - Eros e Tanatos Tecnica mista su faesite cm 54x54 Nello sguardo monocolo, velato e malizioso della donna di Gigi degli Abbati, femmina in attesa che offre immobile la propria nudità all’amante sospeso nella contemplazione, si può scorgere un’eroina dannunziana come Ippolita Sanzio, la protagonista del Trionfo della morte, pronta a “succhiare l’anima” a Giorgo Aurispa e a condurlo attraverso il sesso negli antri oscuri dell’abisso, fin dove eros e thanatos si confondono e si identificano. La scrittura di d’Annunzio è spesso permeata di erotismo e sensualità, e molte volte allude alla complementarietà di amore e morte, che per il pescarese sono le due facce dello stesso sentimento poiché l’amore può essere vissuto appieno solo da chi non ha paura di morire. Ma non è solo questo aspetto un po’ riduttivo che interessa il Poeta, che sente la morte come l’esperienza più grande, più dell’amore, più dell’arte, più dell’eroismo, ma anche quella che non consente ritorni. Più volte si è sognato e rappresentato morto, e nella Stanza del Lebbroso al Vittoriale ha voluto un letto imprigionante e stretto, simile a una bara (o una cuna) quasi a fare le prove di Gabriele “tentato di morire”. L’indagine e la contemplazione della morte sono una costante dei suoi libri più erotici, dal Piacere a L’Innocente, al Trionfo della morte. Non teme di rappresentare comportamenti sessuali forti e carnali (che portano i suoi protagonisti a un’estenuazione confinante con la morte) traducendoli nella prosa dei romanzi o nelle poesie o mettendoli in scena teatralmente. Specie nel teatro crea drammi di lussuria, amore e morte, in contrasto con la morale borghese, quali La città morta, la Francesca da Rimini, La figlia di Iorio, Parisina, Fedra, La Nave, Il Ferro… La quasi totalità dei suoi drammi diviene paradigma di eros e thanatos. Walter Di Giusto - Sfinge Mediterranea (La notte apollinea)– Olio su tela cm.100x100 Il sonetto La notte apollinea che ha ispirato Di Giusto, un inedito pubblicato da Emilio Mariano sulla “Nuova Antologia” nel 1951, venne composto da d’Annunzio il 20 febbraio del 1898 a Santa Margherita, dove soggiornava all’ Hotel Miramare con Eleonora Duse. Gabriele era reduce da Parigi, dove il 21 gennaio Sarah Bernhardt al Théatre de la Renaissance aveva impersonato l’Anna de La città morta, per la prima volta sulle scene. L’aver assegnato a un’altra primadonna, acerrima rivale dell’italiana, la parte di protagonista della tragedia d’esordio era stata causa della rottura della relazione, iniziata nel 1895, tra la Divina Duse e il Poeta. Però, con la promessa mantenuta di scrivere per lei il dramma Sogno d’un mattino primaverile e soprattutto con la stesura del contratto esclusivo per la tournée italiana della Città morta, Gabriele ed Eleonora si erano riappacificati. Appena tornato da Parigi il poeta l’aveva raggiunto a Santa Margherita, dove l’attrice soggiornava per dare sollievo alla sua latente tubercolosi. I due amanti ritrovati trascorsero alcuni giorni vagando per la Riviera, da Santa Margherita a Nizza, a Cannes. Da questo rinnovato incontro sgorgano i versi dedicati al Tigullio: “Il monte ingombra col suo dorso enorme/I cieli. E tu non l’odi respirare?/ La rupe che protendesi nel mare/ È come l’unghia del leon che dorme./ Eguale al mio pensier le mute forme/ Grandeggian nel silenzio interlunare./ Io veggo tutte sul mio cor passare/ Le bellezze del mondo a torme a torme./ Vieni! E’ l’ora dei sogni sovrumani,/ o Donna de la Vita e de la Morte./ Il prodigio su l’anima è imminente./ Più nobili dei lauri le tue mani/ Cingono le mie tempie ove più forte/ Pulsa il ritmo dell’opera nascente Il pittore nell’ispirarsi alla descrizione del Poeta del panorama notturno del Monte di Portofino, oscuro contro il cielo stellato come un gigantesco leone dormiente, trasfigura la visione dannunziana nella Sfinge che occhieggia da un paesaggio di rupi mediterranee, mentre una Nike mimetizzata fra le rocce allude ai miti della classicità cari a d’Annunzio e propri delle aree del Mare Nostrum. Sergio Giordanelli Immemori scheletri d’alberi (da Canto novo)- tecnica mista su carta cm. 56 x70 Sergio Giordanelli, come già Bocchieri, trova ispirazione nel Canto novo. Nelle 63 poesie (molte delle quali già pubblicate sui periodici romani tra il 1881 e il 1882) confluite nella raccolta edita da Angelo Sommaruga nel 1882 e illustrate da 5 incisioni di Francesco Paolo Michetti (autore anche della copertina) d’Annunzio si libera dalla sudditanza carducciana che tanto aveva condizionato il più acerbo Primo Vere. Gabriele stesso ne è consapevole e nel periodo in cui compone le prime poesie che formeranno il nuovo canto, scrive a un amico: “C’è quel mago di Carducci che mi schiacciava e un giorno sarei andato a finire anch’io come tanti giovani di belle speranze! Ho avuto la forza di ribellarmi e con un lento e laboriosissimo processo di selections sono venuto fuori io, tutto io. Non mi resta che spezzare gli ultimi lacci e poi gettarmi nel mio mare”. Dedicata a Giselda Zucconi (Elda o poeticamente Lalla, “la grande la bella l’adoratissima ispiratrice”) il primo vero amore di Gabriele che se ne considerava fidanzato, la raccolta, accanto a poesie in cui predominano i temi della sensualità e del rapporto con la natura, presenta alcune liriche imperniate su figure di diseredati che suscitano progetti di lotta sociale, risvolti polemici dell’ideologia positivistica che cadranno dall’edizione definitiva pubblicata da Treves nel 1896, purgata naturalmente anche dalla dedica a Elda. Il verso Immemori scheletri d’alberi che dà titolo alla sobria allegoria di Giordanelli, composta di lacerti di vita vegetale percorsi da impressioni di blu (melanconia o vitalità?) è contenuto nella seconda lirica del Canto, dove si legge: “…surgono li alberi qua e là morituri, a cui pugna/ ancor la vita ne le supreme cime,/ surgono: con sibili lunghi il vapor li saluta/ fuggendo e tacito io ne la triste fuga/ guardo... Oh immemori scheletri d'alberi, un giorno/ pugnaci a l'aura come virenti atleti!”. La componente dell’immedesimazione del Poeta con la natura, che avrà la sua sublimazione in Alcyone, inizia ad affacciarsi in questa opera giovanile come rapporto immediato, una positivistica esaltazione dell’affinità biologica tra vita umana, animale e vegetale. La visione del paesaggio autunnale, degli alberi spogli, intristiti dal “tedio angoscioso d'autunno” viene messo in relazione con lo stato d’animo del Poeta che deve allontanarsi da luoghi e affetti familiari, chiamato da “un intenso desio di battaglie/ a genti ignote, lungi, ad ignoto cielo!” Maria Luisa Greco - Giardino chiuso (da Poema Paradisiaco) - tecnica mista su tela cm. 60 x 80 Il riferimento alla donna come un “giardino chiuso”, serrata in se stessa, negata agli sguardi e a ogni approccio, che sembra aver ispirato Maria Luisa Greco, è ripetuto almeno due volte nella prima sezione del Poema Paradisiaco (il poema dei giardini, dal latino paradisius, giardino, che deriva dal persiano pairidaez attraverso il greco paràdeisos - παράδεισος). Composto “in pianissimo” tra il 1891 e il 1892, rappresenta la fase crepuscolare dannunziana che approfondisce indicazioni sia di Verlaine e del simbolismo francese sia del preraffaellismo inglese. Il Poeta si presenta in questo canzoniere come un uomo sensibile, delicato e malinconico, che rimpiange con nostalgia un mondo familiare e genuino, fatto di cose semplici. Il linguaggio “paradisiaco” è sciolto e discorsivo e ricorre ad alcuni espedienti espressivi tipici dei simbolisti, come la ripresa a distanza di singoli nessi o la ripetizione della medesima parolaimmagine. Va detto che, nonostante il vespaio di critiche che l’opera allora suscitò, il carattere fortemente sperimentale e innovativo di questo libro lo ha reso fonte importantissima della storia linguistica e poetica dell'intero Novecento: come osservò Montale, tutti i poeti successivi non poterono prescindere dalla poetica dannunziana, non poterono non ”attraversare” d’Annunzio. La lirica Hortus Conclusus, dedicata alla descrizione di un giardino chiuso e inaccessibile come un irrecuperabile passato, dove piante, bianche statue mute, ombre e silenzi sono irraggiungibili, si chiude con il paragone con la donna inaccessibile, vagheggiata dal poeta: “Così la prima volta io vi guardai/ con questi occhi mortali. Voi, signora,/ siete per me come un giardino chiuso”, tema che viene ripreso nella poesia seguente La passeggiata con un risultato efficace che allude a una tale stanchezza morale che porta all’impossibilità di amare: “Voi non mi amate ed io non vi amo. Pure/ qualche dolcezza è ne la nostra vita/ da ieri: una dolcezza indefinita/ che vela un poco, sembra, le sventure/ nostre e le fa, sembra, quasi lontane. […] Siete per me come un giardino chiuso,/ dove nessuno è penetrato mai./ Di profondi invisibili rosai/ giunge tale un divino odore effuso/ che atterra ogni desìo di chi l'aspira.” Roberto Martone - “ Io resto con il Nulla che mi sono creato” - Olio su tela cm. 70 x 70 La frase che ha suggerito a Martone la sua visione surrealista e simbolica, quasi sospesa in un vuoto esistenziale, si trova in una lettera del 1938 a una delle sorelle (i fratelli d’Annunzio erano cinque: Anna nata nel 1854; Elvira nel 1861; Gabriele nel 1863; Ernestina nel 1865; Antonio nel 1867). Però è ripetuta e meglio approfondita nella conversazione che Aélis riporta nel suo diario, datandola agli ultimi due mesi di vita del Poeta. Amélie Mazoyer, ribattezzata appunto Aélis, era la fidata cameriera-amante e confidente che aveva seguito dalla Francia Gabriele nel 1915 per condividere al Vittoriale con l’infelice pianista Luisa Baccara il mortificante compito di dirigere il traffico di nuove fiamme e “badesse di passaggio” nel letto del suo padrone: tutto per amore, un amore incondizionato, protettivo e a un tempo passionale. Ad Aélis che tenta di indurlo ad accettare l’esistenza dell’Aldilà e ad accogliere la promessa della resurrezione cristiana, così risponde Gabriele: “Voglio restare con il nulla che mi sono creato, con questa aridità, con la mia lussuria sfrenata”. E prosegue “Pensate se d’un tratto dovessi rifare tutto, rinnegare tutto per la fede. Se fossi certo dell’altra vita dovrei anche condurre una vita da monaco. Immaginate: rinunciare a tutto! Preferisco il nulla, la polvere, la putredine, i vermi che ci mangeranno. Non deve restare nulla di noi”. Tuttavia questa risposta cinica, macabra e perentoria non esclude la tensione di d’Annunzio verso l’inconoscibile, come osserva Giordano Bruno Guerri: “Gabriele credeva nella trascendenza, era convinto di poter sopravvivere anche al di là della carne: il culto dei suoi morti, il turbamento davanti al mistero dello spirito, il sonno e la morte come ingressi verso regni insondabili suggeriscono che la sua vita al Vittoriale fosse segnata da questa costante investigazione”. Laura Mascardi - La pioggia nel pineto (da Alcyone)- Acquarello su tela cm. 70 x 70 La sinfonia musicale della poesia forse più celebre di d’Annunzio è tradotta da Laura Mascardi in un impetuoso acquarello astratto, formula che ben riproduce il disciogliersi dell’io nella natura e l’ immersione totale nelle cose descritto dai versi dannunziani. Nella lirica in versi sciolti celebrante il rapporto panico dell’uomo con l’ambiente naturale si susseguono sensazioni uditive, visive, olfattive, tattili, ritmate dai verbi “taci” “piove” “ascolta” “odi”, e vi “si realizza – scrive Antonino Pagliaro - pienamente la fusione del ritmo dell’immagine nel ritmo delle parole, così che la poesia dannunziana vi acquista una terza dimensione e può dirsi perfetta”. La rielaborazione panica della passeggiata nella pineta sotto la pioggia estiva di Gabriele ed Ermione–Eleonora, raffinatissima e suggestiva, è giustamente considerata, insieme a molte altre liriche di Alcyone ( da L’oleandro a Le Ore marine, Il novilunio, Innanzi l’alba, Lungo l’Affrico nella sera di giugno dopo la pioggia, Versilia, L’Otre, Undulna, Il fanciullo, L’onda, La sera fiesolana, La morte del cervo…) come ha scritto Mario Marcazzan “il vero dono di d’Annunzio, quello per cui il suo nome si iscriverà nel libro d’oro della poesia accanto a quello dei grandissimi poeti; quello per cui se la lirica del Novecento è destinata ad avere una sua storia, dovrà un giorno iscrivere d’Annunzio, più ancora che Pascoli o Carducci, a proprio capostipite”. Tant’è che come osserva Natalino Sapegno d’Annunzio sarà imprescindibile anche per i poeti che gli furono più ostili: ”Il suo repertorio di immagini, la fluidità aperta del discorso costituiscono ancora larga parte del materiale fantastico e l’avvio di ogni ricerca formale”. Maurizio Roman Melis – Rimani – collage e tecnica mista su tavola cm. 45 x 70 Se è vero che la poesia scelta da Maurizio Roman Melis appartiene alla riedizione, mutata e abbreviata, del Canto novo del 1896 dei fratelli Treves, secondo tale data la donna alla quale il poeta si rivolge è Eleonora Duse. La relazione fra la Divina e il Poeta data infatti dal settembre 1895. Vi sono assonanze e concetti similari espressi ne Il Fuoco da Stelio Effrena (alter ego di Gabriele) a Foscarina (ossia Eleonora). Ancora nel Libro segreto si può leggere, quasi un contro canto ai versi di Rimani, lo smarrimento che l’assenza di Eleonora (Ghisola, Ghisolabella, Isa, Perdita secondo il vezzo dannunziano di ribattezzare le sue donne, come rinate grazie alla sua vicinanza) procurava al Poeta : ““Ghisola è partita. Son solo e innominato nelle barbarie. Ella m'aveva chiesto ier notte nell'orrore strepitoso e fumoso della partenza: -Stelio, non vi trema il cuore, per la prima volta?-[...] Risposi, senza voce, di là dal libro, di là dalla poesia, di là dalla mia passione di vivere e di sopravvivere, di là dal mio bisogno di essere amato: -mi trema ogni volta, quando partite, quando giungete, quando temo di perdervi, quando son certo che non vi perderò-”. Sembrano proprio tali sensazioni dell’assenza e della solitudine, che i versi di Rimani vogliono scongiurare, a essere colte nella simbolica ed ermetica trasposizione di Melis. La poesia è tra quelle maggiormente apprezzate dal popolo del web, anche in una versione che curiosamente mette al maschile l’oggetto dell’amore del Poeta, del quale invece non si conoscono amori o pulsioni omosessuali: “Rimani! Riposati accanto a me./ Non te ne andare./ Io ti veglierò. Io ti proteggerò./ Ti pentirai di tutto fuorché d'essere venuta a me, liberamente, fieramente./ Ti amo. Non ho nessun pensiero che non sia tuo;/ non ho nel sangue nessun desiderio che non sia per te./ Lo sai. Non vedo nella mia vita altra compagna, non vedo altra gioia/ Rimani./ Riposati. Non temere di nulla./ Dormi stanotte sul mio cuore. MELIS Maurizio Roman (Santiago del Cile 1957) Nato in Cile da madre cilena e padre sardo, vi trascorre gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza.. La sua formazione artistica nasce e si perfeziona sotto la guida del padre Amerigo, anch’egli pittore. Si trasferisce in Italia, a Genova, nel 1975, e continua gli studi con la pittrice Renata Soro. Da anni protagonista della scena artistica nazionale, espone i suoi lavori in mostre personali e collettive. La sua arte recupera il segno, soprattutto arcaico, in cui la tecnica mista con l’ocra della terra, evoca mondi primordiali e lontani. I suoi lavori più recenti sono straordinariamente essenziali ed espressivi, animati da sottili “vibrazioni” dell’anima che affiorano sulla tela, rimanendovi imprigionate come ricordi presi in trappola dalle pieghe della memoria. Vive e lavora a Genova. Opere in permanenza: Genova ITALIA; Nevada U.S.A.; Bruxelles BELGIO; Berlino GERMANIA; Santiago CILE. Marcello Mogni – I giochi della seduzione – Olio su tela cm. 60 x 70 I rapporti fra d’Annunzio e Mussolini, evocati da Marcello Mogni, sono stati definiti come una cordiale inimicizia. La più recente e avvertita storiografia si attarda sempre meno su un d'Annunzio decadente e presunto protofascista, e sempre più evidenzia il d'Annunzio modernizzatore e libertario. Finita la guerra è d’Annunzio la figura preminente nel panorama dell’Italia vittoriosa ma prostrata economicamente e socialmente dagli esiti del conflitto. Sul poeta-soldato, l’eroe mutilato di guerra, carico di onorificenze e di 2 medaglie d’oro, 3 d’argento e 2 di bronzo, si appuntano molte aspettative politiche. Il caporale maggiore dei bersaglieri Mussolini (già transfuga socialista ed ex direttore dell’“Avanti”, ritornato dal fronte alla direzione del “Popolo d’Italia” fin dal ’17, che può esibire soltanto la sua ferita di guerra) non ha ancora consolidato il suo neonato Movimento dei Fasci di Combattimento (fondato il 23 marzo 1919). Le prime avvisaglie del rapporto sdrucciolevole tra i due si avvertiranno durante l’occupazione di Fiume, la città del Carnaro rivendicata all’Italia e occupata dal poeta dal 12 settembre 1919: la lettera del Comandante d’Annunzio a Mussolini, piena di insulti e rivendicazioni sul mancato sostegno all’impresa fiumana, verrà purgata delle parti offensive e recriminatorie e così modificata pubblicata su “Il Popolo d’Italia” dal direttore Mussolini, trasmutata nell’elogio alla solidarietà del Movimento dei Fasci di Combattimento. Il fascismo riprenderà molte delle immaginifiche invenzioni oratorie e retoriche di d’Annunzio (dall’ Eia eia alalà al discorso dal balcone) ma non ne comprenderà mai la poetica sostanza visionaria, mentre il poeta mostrerà solo una cortese accettazione superficiale alle istanze del fascismo trionfante, ma realmente non vi aderirà, ordinando anzi ai suoi sostenitori di tenersene ben lontani. Ritiratosi a Gardone Riviera, deluso, sconfortato e controllato quotidianamente dalle occhiute spie fasciste, il poeta resterà per Mussolini un problema minore: “Gabriele d'Annunzio è come un dente marcio o lo si estirpa o lo si ricopre d'oro...io preferisco ricoprirlo d'oro”. Sergio Palladini - Il silenzio di Ferrara Tecnica mista su tavola cm. 50 x 49 L’artista riesce a ricreare, con una sapiente orchestrazione di geometrismi affogati ed esaltati da una tavolozza di azzurri, di blu e di grigi, l’atmosfera metafisica, aerea, trasparente e sospesa con cui d’Annunzio celebra Ferrara, come contenuta e delimitata in una “chiara/ sfera d'aere ed acque/ ove si chiude la mia malinconia divina,/ musicalmente”. Ferrara è la prima a essere evocata de Le città del silenzio, la raccolta di venticinque liriche dedicate ad altrettante città (opposte alle Città Terribili, le metropoli industriali. cantate in Maia) che chiude il libro di Elettra, il secondo libro delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. A confronto con gli altri versi del libro, encomiastici ed epici celebranti in modo oratorio e propagandistico, Garibaldi, Verdi, Victor Hugo, Bellini, Dante, Segantini, etc., i sonetti e le canzoni dedicati alle glorie passate e non riproducibili nel presente di luoghi quali Ferrara, appunto, Ravenna, Pisa si presentano come la parte più poeticamente rilevante di Elettra. Di ognuna delle 25 città prescelte il Poeta esalta le epoche antiche per fissare nel ricordo tempi e gioie perduti, in contrasto con la contemporaneità convulsa e industriale. La “deserta bellezza di Ferrara”, privata della corte estense, è fermata nell’attimo del ricordo della sua fioritura rinascimentale, delle sue donne “morte” più illustri ( Eleonora d’Este e Lucrezia Borgia), della pace dei suoi chiostri. Il silenzio ferrarese si accompagna alla nostalgia di bellezze e sogni perduti, al rimpianto della pace claustrale e dei canti armoniosi che vi echeggiavano (alludendo probabilmente anche alla clausura a cui fu costretto il Tasso, “l’usignolo ebro furente [di pazzia e poesia]”, imprigionato nelle «lane placide» donanti pace). Il silenzio di Ferrara è compagno di chi cammina solo e trasognato “col suo pensiero ardente”, per le sue “vie piane,/ grandi come fiumane,/ che conducono all'infinito”, melanconicamente ripiegato su “il sogno di voluttà che sta sepolto/ sotto le pietre nude con la tua sorte”. Paola Pastura - La pioggia sul pineto Olio su tela cm. 70 x 50 L’incanto de La pioggia nel pineto condiziona anche il “vigoroso astrattismo” di Paola Pastura che applica il suo estro anche nella variazione del titolo della sua opera rispetto alla lirica originale contenuta in Alcyone, verosimilmente non a caso. La mutazione della preposizione articolata starebbe infatti a significare, come si evince anche dal segno pittorico concentrato su luci e colori di piante e arbusti allegoricamente stillanti acqua purificatrice, che il suo interesse travalica i due umani immersi nella pioggia e nei verdi della macchia mediterranea. Il suo coinvolgimento è tutto concentrato su crepitii e scrosci, la musica che il piovasco del luglio 1902 suona sulla natura vegetale, sulle “parole più nuove/ che parlano gocciole e foglie lontane […] piove su le tamerici/ salmastre ed arse,/ piove su i pini/ scagliosi ed irti,/ piove su i mirti/ divini,/ su le ginestre fulgenti/ di fiori accolti,/ su i ginepri folti/ di coccole aulenti […] La pioggia cade/ su la solitaria/ verdura/ con un crepitio che dura/ e varia nell’aria/ secondo le fronde/ più rade men rade/ […] E il pino/ ha un suono, e il mirto/ altro suono, e il ginepro/ altro ancora, strumenti/ diversi/ sotto innumerevoli dita/ […]Or s’ode su tutta la fronda/ crosciare/ l’argentea pioggia/ che monda,/ il croscio che varia/ secondo la fronda/ più folta, men folta.” Si direbbe che non solo la “favola bella/ che ieri/ mi illuse, che oggi t’illude” sia esclusa dalla lettura di Pastura, ma anche le voci delle “aeree cicale” e della “figlia del limo lontana, la rana” che si colgono nella pioggia, non rientrino nella sua visione di una natura esclusivamente vegetale battuta dal temporale estivo. Anna Ramenghi - Come Ermione … favola bella - Olio su tela cm. 100 x 80 La Venere acefala e priva delle braccia di Anna Ramenghi (un nudo opulento e sensuale immerso in toni rosati e perlacei e messo in risalto da una cornice di rose) nelle forme rimanda alla Venere Anadiomene o Landolina di Siracusa. Il titolo scelto dalla pittrice invece fa riferimento a Ermione-Duse, protagonista delle liriche di Alcyone, e, con la citazione della “favola bella”, restringe il campo a La pioggia nel pineto. Tuttavia il morbido erotismo del corpo femminile e ancor più il profluvio di rose che lo circondano, per d’Annunzio fiore simbolo identificativo dell’ organo sessuale femminile, sembrano travalicare la singola amante e il dettaglio della specifica poesia, per racchiudere in un solo simulacro femminile (per questo senza volto) le molte donne amate dal Poeta, grande dongiovanni tombeur de femme (nonostante l’aspetto non all’altezza del ruolo), fermo restando che nel ricordo sarà proprio la Duse-Ermione quella maggiormente rimpianta. Da tutto il suo vastissimo gineceo “l’amoroso Gabriele” ormai anziano elencherà come “i miei grandi amori” solo quattro donne: “la Goloubeff (Donatella), la Mancini (Giusini) e la Duse che lasciò tutto per me, e anche Luisa (Baccara) che accetta questa vita di sacrificio certamente assai dura”, dimenticando con assoluta noncuranza partner importanti (e molto amate per lo spazio della relazione) della sua biografia, presenti per alcuni anni accanto a lui che molto avevano patito dal suo abbandono, come la prima fidanzatina Elda Zucconi, la moglie Maria Harduin di Gallese, l’ispiratrice de Il Piacere Barbarella (Elvira Fraternali Leoni), la madre di Renata (l’unica figlia femmina) Maria Gravina Cruyllas e ancora Alessandra di Rudinì, Olga Ossani, Amélie Mazoyer [Aélis], Elena Sangro, Ida Rubinstein… e l’elenco potrebbe srotolarsi ancora a lungo. Franco Repetto - Omaggio alla vittoria del Piave - Scultura a tuttotondo cm. 40 x 40 x 150 - lamiera di ferro smaltata Superato l’ingresso monumentale a due archi del Vittoriale degli Italiani, incamminandosi verso la Prioria (la casa ora museo di d’Annunzio) si incontra Il Pilo del Piave sormontato dal La Vittoria del Piave di Arrigo Minerbi. L’artista ferrarese prediletto da D’Annunzio, che gli aveva commissionato il ritratto e il monumento funebre di Pescara della madre Luisa, era anche sempre presente nell’Officina (lo studio di d’Annunzio) con il gesso del ritratto di Eleonora Duse del 1927 (il marmo originale è oggi conservato al Museo della Scala). Inoltre Minerbi sopperì nel marzo 1938 al triste compito di eseguire la maschera funeraria del Poeta. La Vittoria del Piave di Minerbi è rappresentata come una figura femminile nuda, dai piedi legati, tesa inutilmente in una specie di volo mancato, dolente per il disinganno della “vittoria mutilata” e sofferente per le troppe perdite umane. A questa scultura bronzea, fusa nel 1920 in tre esemplari (Monumento ai Caduti di Cuggione; Tempio della Vittoria a Ferrara e quello donato al Vittoriale dal comune di Milano nel 1935) fa riferimento per il suo Omaggio lo scultore Franco Repetto: “Con quest'opera intendo omaggiare lo scultore Arrigo Minerbi e la sua “Vittoria del Piave”. Sapiente e raffinato, questo grande maestro della scultura italiana del '900, è stato uno degli artisti sentitamente prediletti da Gabriele d'Annunzio: non a caso il sommo poeta, per la sua residenza al Vittoriale sul lago di Garda, scelse questa insigne opera di poetica commemorazione a simbolo appunto della vittoria delle truppe italiane nel primo conflitto mondiale. Un'altra copia bronzea gemella della medesima opera si trova a Ferrara, città natale dello scultore. Ho scelto di riferirmi a questa preziosissima scultura in quanto espressione autentica della sensibilità del Vate. Eleganza, sensualità, generosità, enfasi, valore, ricordo, mito, dinamismo intellettuale e sinuosa leggerezza. Se l'uomo si manifesta autenticamente attraverso le proprie scelte e Gabriele d'Annunzio per rappresentare i propri intendimenti e gusti volle Arrigo Minerbi (anche nell'ultimo funebre ritratto) credo di aver percorso la corretta via dedicando questo mio lavoro al sommo Maestro.” Luigi Maria Rigon - Gabriele d’Annunzio alla scrivania - Olio su tela cm. 60 x 70 Rigon, presentandoci l’immagine del Poeta alla scrivania intento alla lettura, in un atteggiamento consueto, la guancia appoggiata alla mano, testimoniato da numerose fotografie, da quelle scattate alla Capponcina da Mario Nunes Vais a quelle più tarde riprese nell’Officina del Vittoriale (dove lo vegliava l’effigie schermata di Eleonora Duse, scolpita da Arrigo Minerbi), ci rimanda all’opera letteraria di d’Annunzio e alle sue modalità di elaborazione. La preparazione di d'Annunzio per i suoi testi (al di là di quelli poetici più istintivi e viscerali che comunque erano supportati da appunti fermati sui suoi taccuini) è molto accurata e si basa su preparazione erudita, consultazione e ricerca talvolta facilitata dalla premurosa collaborazione di volonterosi amici, segretari e bibliotecari. Per “capolavorare” poi si ritira completamente da ogni suggestione mondana e si dedica totalmente alla scrittura, come farà, per limitarmi a due soli esmpi, nel 1888 per Il Piacere ( più di sei mesi di ritiro a Francavilla al Mare nel “conventino” di Francesco Paolo Michetti, insensibile ai richiami dell’amante Barbarella –Elvira Leoni Fraternali-), come farà per l’Orazione di Quarto nell’aprile del 1915 (un mese in solitudine ad Arcachon sull’Atlantico). La prassi creativa di d’Annunzio darà adito a furiose polemiche riguardanti l’annosa questione dei plagi e dei prestiti che il Poeta si concedeva dai diversi autori compulsati, polemiche che non tenevano conto della sua capacità assimilatrice e creativamente mimetica. D’altro canto Gabriele non si curava molto di tali attacchi, sicuro che lo scalpore che si faceva intorno al suo nome e alla sua opera determinasse altrettanta pubblicità, da lui sempre considerata una preziosa e ricercata alleata. Raimondo Sirotti Paesaggio da la figlia di Jorio di Francesco Paolo Michetti Olio su tela cm. 60 x 80 Improvvisamente in una torrida giornata dell’estate 1883 due giovani amici abruzzesi, il trentaduenne pittore Francesco Paolo Michetti (detto Ciccillo) e il ventenne poeta Gabriele d’Annunzio, vedono irrompere sulla piazza di Tocco di Casaura, paese natale del pittore, la fuga disperata di una giovane e bella donna scarmigliata, inseguita da un branco di contadini e pastori ottenebrati dal sole e dal vino e infoiati dal desiderio. Da questa visione violenta e barbara entrambi gli artisti a distanza di anni trarranno ispirazione, in precedenza Michetti che presenterà alla prima Esposizione d’Arte Internazionale di Venezia del 1895 la sua opera La Figlia di Iorio, aggiudicandosi il primo premio. Quindi nel 1903 d’Annunzio stenderà la sua “tragedia pastorale”, dallo stesso titolo, tre atti in versi rappresentati in prima nazionale il 2 marzo 1904 al Lirico di Milano, considerati quasi unanimemente il suo capolavoro drammatico. La grande tela a tempera di Michetti (550x280) ferma l’immagine precedente l’inseguimento e mette in primo piano Mila di Codra che passa timorosa, coprendosi il viso, davanti a un gruppo immobile di contadini seduti (tra il quale si distingue anche una figura femminile) che segue con sguardi variamente atteggiati i passi della meretrice di campagna. Sullo sfondo si stagliano le cime nevose del Morrone della Maiella, la “Montagna Magica” di Abruzzo messe ben in risalto dal colore terso e luminoso del cielo. Sirotti ha scelto di depurare “la natura immutabile” da “l’uomo primitivo” che dannunzianamente “parla il linguaggio delle passioni elementari”, a sottolineare da un lato l’influsso che l’ambiente naturale grava su i destini umani e dall’altro la caducità delle passioni e l’insignificanza dell’uomo di fronte alla natura. Giuseppe Trielli - Petali di pioggia, Ermione - Olio su tela cm. 90 x 90 L’indubbio fascino in Alcyone della lirica La pioggia nel pineto ha intrigato anche Giuseppe Trielli che nella sua opera allude alla seconda parte della poesia, quando i due amanti si stanno sempre più immedesimando nella natura bagnata dalla pioggia: il processo identificativo panico sta per compiersi. Ermione, il cui volto nel dipinto di Trielli è la vestigia di umanità più identificabile nel groviglio di acqua e vegetazione che sta per rissucchiarla, è ormai “non bianca/ ma quasi fatta virente,/ par da scorza tu esca” e “il cuore nel petto è come pesca/ intatta,/ tra le palpebre gli occhi/ son come polle tra l’erbe,/ i denti negli alveoli/ son come mandorle acerbe”. La trentasettenne Divina Eleonora Duse (di cinque anni maggiore di Gabriele), trasfigurata nelle Laudi alcionie in Ermione, era entrata nella vita di d’Annunzio nel settembre del 1895. Fu un grande amore, cantato come “incantesimo solare”, ma fu anche un incontro professionale: al Poeta l’unione artistica con la più acclamata attrice del tempo prospettava un pubblico più vasto e, dopo le affermazioni delle sue opere poetiche e dei suoi romanzi, gli apriva una nuova possibilità di successi drammaturgici; all’attrice, reduce dal tranquillo menage anche lavorativo con Arrigo Boito, d’Annunzio si presentava come la risposta al suo bisogno di cambiare e cimentarsi in innovative esperienze artistiche: rappresentava la liberazione da un ripetitivo repertorio teatrale che le era venuto a noia. Di questo amore importante, durato nove anni, fino al 1904, resta, oltre ai versi a lei dedicati, la rielaborazione che d’Annunzio ne fece nel romanzo Il Fuoco ambientato in una Venezia bellissima e affascinante, scoperta nei suoi angoli meno conosciuti e scritto durante l’acme della passione tra i due [1896- 1900]. Nevio Zanardi Da “Parisina” (testo di G. d’Annunzio, musica di P. Mascagni) Tecnica mista su tela cm. 70 x 100 Il musicista Nevio Zanardi non poteva non riferirsi ai numerosi e vistosi interessi musicali di d’Annunzio. La passione per la musica è una costante della vita del Poeta, presente nella sua opera letteraria e intessuta a interventi e accostamenti al mondo musicale: i dibattiti contro Nietzsche sul caso Wagner; le cronache musicali su la “Tribuna”; le collaborazioni con i massimi compositori del tempo (Casella, Puccini, Malipiero…); le poesie messe in musica non solo dall’amico Francesco Paolo Tosti; le sue opere teatrali musicate e portate sulle scene da autori quali Respighi, Pizzetti, Montemezzi, Zandonai, Debussy, Honneger, Franchetti, Mascagni. Proprio al rapporto con quest’ultimo fa riferimento il pittore ricordando Parisina, la tragedia in quattro atti in versi, composta da d’Annunzio nel marzo 1912 durante il “volontario esilio” francese. Inizialmente il dramma ebbe vita solo come libretto per l’opera composta da Pietro Mascagni. Il Maestro livornese, voluto dall’editore Sonzogno, non da d’Annunzio che nel 1892 lo aveva qualificato come “capobanda”, si dedicò con abnegazione alla creazione dell’opera trasferendosi in Francia per essere a stretto contatto con il Poeta. Era angustiato dal pensiero di non essere all’altezza del compito e inoltre era depresso per l’abbandono della moglie, che aveva scoperto la sua relazione con una giovane corista. Strettamente controllato dall’autore, Mascagni non tralasciò alcun verso del testo dannunziano che narrava dell’amore incestuoso tra Parisina, moglie di Nicolò d’Este, e il figliastro Ugo. La prima (e unica) rappresentazione alla Scala il 15 dicembre 1913 (promossa dal bel manifesto di Gaetano Previati, conservato anche alla Wolsoniana di Genova-Nervi) fu sommersa dai fischi. Soprattutto il pubblico era deluso dalla musica di Mascagni, dopo i fasti della Cavalleria rusticana. D’Annunzio dedicò giorni interi al tentativo di consolare lo sfiduciato musicista, visitandolo con frequenza nella casa vicino Parigi dove viveva con la figlia adolescente Emy.
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