ANNO XXVI NUOVA SERIE - N. 84 – SETTEMBRE

International
RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XXVI
NUOVA SERIE - N. 84 – SETTEMBRE-DICEMBRE
2014
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review
ISSN:1121-6530
1
Segni e comprensione International
Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di
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2
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3
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(1987-2009)"
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4
News di Redazione
L'Anvur ha classificato la Rivista Segni e Comprensioni come
Rivista scientifica nell'Area 11
5
INDICE
Saggi
8
L'uomo: progettualità e condizione. Riflessioni prefilosofiche
Giovanni Invitto
11
L'Homme révolté: hier et aujourd'hui
Pierre Taminiaux
26
Insostenibile leggerezza dell'identità esistenziale
Daniela De Leo
Note
35
Note in margine al film Il giovane favoloso: il Giacomo Leopardi
di Mario Martone
Nunzio Bombaci
50
Macintyre: Thomistic Aristotelianism or Aristotelian Thomism?
Piergiorgio Della Pelle
66
Metodo e Metafisica nel criticismo kantiano
Luca Ferrara
6
91
La poetica del fanciullino di Pascoli e la filosofia della rêverie di
Bachelard
Alessandro Montagna
Recensioni
107
Nuovi tempi, nuovi scrittori
Antonio Stanca
7
Stiamo avviando il ventisettesimo anno di questa rivista
proponendo e affrontando un tema secolare ma sempre
attuale: «l’uomo: progettualità e condizione». La filosofia ha,
sin dal suo inizio, cercato di dare risposte a tali quesiti. La
progettualità è stata sempre presente perché connaturata ad
ogni soggetto umano e non è patrimonio esclusivo di uno
specifico ambito di ricerca e dei soggetti che in esso operano,
cioè filosofi, antropologi, teologi ecc.
L’uomo vuole conoscersi, accettandosi, rifiutandosi e/o
riprogrammandosi. Qui non si parla della auto-programmazione
esistenziale del singolo soggetto, bensì di quella riflessione
inevitabile sul «chi sono in quanto uomo? Quale “uomo” potrei
o dovrei essere?». Il problema non sono tanto le modalità di
risposta o i contenuti che ognuno può dare al quesito, quanto il
fatto che da quel quesito non sempre gemmano
consapevolezza e convinzioni adeguate. L’essere-uomo
rimane a se stesso un interrogativo che spesso si ferma al
momento della constatazione spicciola, della situazione di
fatto. Da qui nasce il discorso della progettualità che non può
non partire da una analisi fenomenologica della condizione
umana in genere e da quella del singolo in particolare.
La condizione umana, da sola, non risolve il problema.
D’accordo: l’uomo è… ma ciò non esclude: l’uomo potrebbe
essere… Però questo non è risolutivo se ci fermiamo al singolo
soggetto. Nei millenni, altre forme culturali hanno dato delle
SAGGI
L’UOMO: PROGETTUALITÀ E CONDIZIONE.
RIFLESSIONI PREFILOSOFICHE
Giovanni Invitto
8
risposte a quegli interrogativi: pensiamo alle religioni, alle
scienze naturali, alle varie antropologie ecc. Un altro pericolo
da evitare è pensare che la ricerca filosofica possa risolvere
una volta per tutte il quesito. La filosofia, scriveva un pensatore
francese alla metà del secolo scorso, non è un sapere
specifico, ma è una vigilanza sul sapere. Approfondiamo allora
il concetto di vigilanza che, nel nostro lessico usuale, richiama
forme di controllo garantista e, talvolta, persino oppressivo.
Torniamo, invece, all’etimo del termine che rinvia alla veglia, al
vegliare per non perdere la percezione della situazione, dello
spazio di esistenza che cerchiamo di riempire e di qualificare
con le nostre idee e le nostre azioni.
Allora,
consapevolmente
o
inconsapevolmente,
«progettiamo» l’uomo e ci progettiamo come singolo
«soggetto», il che vuol dire che non ci sentiamo oggetti
neanche in condizione di assoluta assenza di libertà, per
condizioni oggettive (privazione estrinseca e materiale di
autodeterminazione ) o soggettive (vincoli e limiti fisici o
sociali). La nostra progettualità non è sempre tematizzata, ma
nella maggior parte è spontanea e non programmata.
Potremmo pensare che ci siano degli stadi biologici e
socioculturali – pensiamo, ad esempio, all’adolescenza e alla
giovinezza – nei quali l’autoprogettualità è più presente. Forse
è così se pensiamo alla qualità delle scelte che si pongono in
quello stadio esistenziale: rapporto con la propria famiglia,
accettazione dell’appartenenza di «genere», scelta del futuro
professionale, nascita e pratica dello spazio affettivo,
elaborazione di un atteggiamento nei confronti dello stato
sociale e dei contesti socio-politici nei quali il soggetto è
inserito.
Ma il discorso si amplia se condividiamo l’idea che ogni
individuo umano, al di là della sua età, elabora continuamente
ipotesi per il proprio ulteriore periodo di vita e di coscienza. Qui
la condizione sembrerebbe chiudere l’ipotesi di nuovi progetti
9
quando le scelte sono state già tentate, realizzate, consumate
e la situazione del soggetto non comporterebbe e non
autorizzerebbe nuovi progetti. Eppure è così e anche la
rinunzia, voluta o automatica, alla progettualità arricchente e
integrativa, è ancora un progetto di se stessi, pure se non
prevede modifiche e integrazioni. Sartre affermava che l’uomo
è condannato ad esser libero e qui la libertà era solo della
coscienza, che poi era il Nulla, cioè il non corporeo, il non
materiale. E anche il rifiuto della libertà sarebbe un atto di
libertà.
Ma la progettualità della coscienza si scontra,
comunque, con la pesantezza dell’Essere, cioè con il dato, la
materia, la corporeità. Qui subentra il discorso della «misura di
sé» su cui, chi qui scrive, si è soffermato in altra sede. La
progettualità sulla base della condizione deve partire dalla
misura di sé, cosa non semplice perché comporta la «buona
fede» che spesso è coperta non per scelta del singolo, ma per
la situazione del vissuto soggettivo.
10
L’HOMME REVOLTE : HIER ET AUJOURD’HUI
Pierre Taminiaux
Quel sens pourrions-nous donner aujourd’hui à
l’Homme révolté1, le fameux essai philosophique d’Albert
Camus qui suscita en son temps de nombreuses controverses
et discussions houleuses 2 ? Ce livre fut en effet souvent mal
accueilli, dans la mesure où il s’opposait à bien des égards à la
pensée politique dominante de l’après-guerre en France. Celleci accordait en général une légitimité suprême au marxisme et
à ses constructions idéologiques. La Guerre Froide venait
d’être déclenchée par les Etats-Unis et leurs principaux alliés
occidentaux : elle impliquait une division profonde et radicale
entre deux camps, celui de l’Union Soviétique et celui de
l’Amérique, et au-delà, entre deux visions du monde qui
semblaient irréconciliables.
Il est clair que pour les intellectuels français les plus
importants de l’époque, de Sartre à Merleau-Ponty, aucune
pensée politique digne de ce nom ne pouvait faire abstraction
de l’idée-même de révolution, quelle qu’ait pu être son
application concrète dans le système soviétique qui était
encore celui de Staline au début des années cinquante. Albert
Camus se permit donc d’enfreindre une forme d’interdit ou de
tabou en osant mettre en question la validité à la fois
intellectuelle et morale d’une telle notion. Son attitude ambiguë
vis-à-vis de la guerre d’Algérie participa de la même
perspective, dans la mesure où Camus affirma son soutien au
peuple algérien tout en s’opposant à la lutte armée du FLN
contre l’armée française et son occupation colonialiste. Une
telle position fut presque impossible à soutenir, dans la mesure
où elle incluait implicitement l’acceptation de rapports de force
entre l’Etat français et les populations du tiers-monde. Pour
11
Camus, en quelque sorte, les Algériens n’avaient pas droit à
leur combat révolutionnaire : la liberté qu’il leur souhaita dans
l’absolu ne put donc être qu’une liberté de principe, certes
basée sur des considérations morales, mais indifférente
pourtant aux réalités matérielles d’une guerre qui aboutit
nécessairement à l’oppression des peuples colonisés et à la
perte de nombreuses vies humaines.
En d’autres termes, ce que Camus avait poursuivi avec
obstination dans l’action de la résistance à travers son travail
de journaliste, c’est-à-dire le combat pour la liberté mené par
tous les moyens possibles, y compris la violence contre
l’occupant nazi, fut après la guerre et surtout dans les années
cinquante contredit à la fois par la thématique essentielle de
L’Homme révolté et par son attitude de retrait vis-à-vis du
conflit algérien.
Les critiques de Camus, dont Sartre, dénoncèrent ainsi
les limites philosophiques d’un humanisme qui ne pouvait
comprendre que l’homme, dans des circonstances extrêmes et
indépendantes de sa volonté, en était conduit à « se salir les
mains 3». De la Révolution française à la Révolution russe
jusqu’aux révolutions anti-impérialistes et anticolonialistes des
années cinquante et soixante, de l’Algérie à Cuba, l’histoire
prouva que le changement le plus radical au service du peuple
ne pouvait s’accomplir que par l’utilisation de la force, ce que
Sartre avait bien exprimé, en particulier, dans son introduction
aux Damnés de la terre de Franz Fanon4.
D’autres circonstances particulièrement dramatiques
jetèrent une ombre sur le discours de Camus dans L’Homme
révolté. On peut ainsi songer au développement du
maccarthysme et de la chasse aux sorcières aux Etats-Unis,
qui exprimèrent à la même époque le caractère politiquement
et moralement suspect d’un anticommunisme forcené. Pour
atteindre sa véritable liberté, l’homme devait parfois emprunter
des voies radicales, et donc révolutionnaires, dans la mesure
12
où il était souvent confronté à des pouvoirs répressifs qui
l’empêchaient de s’exprimer et de penser de manière
personnelle, et ce y compris à l’intérieur de sociétés dites
démocratiques.
Il est clair que les racines méditerranéennes de Camus
influencèrent son anticommunisme et sa méfiance profonde
vis-à-vis du projet révolutionnaire quel qu’il soit. Il était lui
même issu d’une culture dominée par des valeurs patriarcales
et communautaires traditionnelles. La Révolution, en d’autres
termes, fut dans l’histoire des idées en Occident une notion
éminemment européenne, issue d’abord des Lumières et donc
essentiellement de penseurs français et ensuite de Marx et
donc de la philosophie germanique.
Elle ne connut pas le même retentissement dans les
cultures africaines ou arabes, qui étaient par tradition des
cultures peu sensibles à une vision purement linéaire de
l’histoire dans le sens hégélien d’un processus irréversible. Le
FLN, en ce sens, constitua une excroissance idéologique du
socialisme et du communisme européen en Algérie. De la
même manière, le discours révolutionnaire de Franz Fanon sur
les peuples du Tiers-Monde eut pour base théorique la pensée
marxiste.
Pour Camus, la révolution était en quelque sorte un
modèle venu d’ailleurs, c’est-à-dire de la vieille Europe fatiguée
d’elle-même et qui rêvait d’un changement social et politique
sans limite précisément parce qu’elle était embourbée dans
des rapports de pouvoir et des structures d’autorité étouffants,
ceux issus de l’Ancien Régime (selon les Lumières) et de la
Révolution industrielle (selon Marx). L’Homme révolté, en ce
sens, s’opposa à une forme typiquement européenne de
pensée politique, tout en revendiquant paradoxalement un
héritage humaniste lui aussi européen.
Quelques soixante années plus tard, une relecture de
cet ouvrage s’impose dans la mesure où l’Europe a mis fin à
13
ses propres rêves de révolution en renversant les derniers
pouvoirs communistes à l’Est. On pourrait même aller plus loin
et affirmer que l’Europe, aujourd’hui, est sans doute le moins
révolutionnaire de tous les continents, si l’on compare par
exemple la situation politique générale des démocraties du
vieux continent (et leur stagnation manifeste) avec des
phénomènes récents tels que le printemps arabe ou des
mouvements insurrectionnels régionaux tels que le mouvement
zapatiste au Mexique. L’idéal d’un changement radical issu du
peuple, en effet, est aujourd’hui largement marginalisé et mis
en veilleuse par l’instauration d’un nouveau modèle européen
libéral imposé par les exigences du capitalisme mondialisé et
dont l’Union Européenne représente en grande partie les
intérêts.
Est-ce à dire, pourtant, que les populations
européennes qui souffrent actuellement de la crise ne rêvent
pas de nouvelles formes d’économie et d’organisation sociale ?
Evidemment que non. Ce qui s’est estompé au travers des
développements politiques de ces deux dernières décennies,
c’est l’idée que la révolution détiendrait le monopole de la
légitimité politique de gauche. On sait que Camus opposa à ce
qu’il considérait la dictature et la rigidité idéologique de celle-ci
une thématique fiévreuse de la révolte, plus attentive à
l’expression de la subjectivité et mieux capable, selon lui,
d’incarner le besoin éternel et universel de liberté de l’homme.
Il s’agit d’une action libre de toute idéologie stricte, qui
s’inscrit ainsi mieux dans l’esprit de notre temps. Pourtant, elle
représente une position critique face à la société occidentale et
à ses valeurs, celles de la consommation, du profit et de la
réussite individuelle. Le thème de la révolte chez Camus était
clairement marqué par une sensibilité néo-humaniste, c’est-àdire par la nécessité de réhabiliter l’humain au cœur du
politique, après les grands totalitarismes du XXe siècle et la
barbarie de la seconde guerre mondiale. L’existentialisme,
14
ainsi, était bien un humanisme, pour reprendre la formule de
Sartre, mais chez Camus, par contraste, cet humanisme
impliquait nécessairement une conception éthique du politique
et le refus de toute logique selon laquelle la fin pouvait justifier
les moyens, une logique que défendit par exemple MerleauPonty dans Humanisme et terreur5.
Il s’insérait dans une période d’intenses conflits
idéologiques, non seulement entre l’Europe occidentale et les
Etats-Unis, d’une part, et l’Europe de l’Est, d’autre part, entre le
modèle de la démocratie libérale et celui du communisme,
mais aussi entre différentes visions de l’intellectuel engagé et
de gauche. Le courant dominant de l’immédiat après-guerre,
en effet, soutenait une perspective révolutionnaire issue du
modèle de l’Union Soviétique. Dans ce contexte historique très
particulier, Camus faisait figure de franc-tireur.
La fin supposée des idéologies à l’aube du XXIe siècle,
c’est-à-dire le déclin irrésistible et achevé de leur légitimité
politique, pourtant, ne doit pas signifier la fin du combat de
l’homme contre les injustices qui l’entourent constamment. Elle
ne peut servir de prétexte à la passivité et à l’indifférence. En
ce sens, la figure de l’intellectuel engagé qu’incarnèrent Camus
comme Sartre, n’appartient pas seulement au passé. Il est
évident qu’elle doit s’adapter aujourd’hui aux exigences d’un
ordre culturel dans lequel les media de grande diffusion jouent
un rôle bien plus grand que dans les années cinquante.
Néanmoins, elle demeure d’actualité dans la mesure où les
carences politiques des pouvoirs publics, en particulier dans
leur capacité à représenter les volontés et les désirs profonds
du peuple français, ont aujourd’hui atteint un nouveau seuil.
L’engagement, ainsi, doit toujours se penser comme une
réaction nette et sans équivoque contre toutes les formes de
domination quelles qu’elles soient.
L’homme révolté fut mal interprété en son temps
comme une critique générale des idées de gauche en France.
15
Or, le modèle qui y est présenté est éminemment
méditerranéen (la pensée de midi et son humanisme solaire) et
donc à bien des égards issu du berceau de la démocratie
occidentale, c’est-à-dire la Grèce, dans sa recherche d’une
mesure et d’une raison à la fois morale et politique face à
l’insensé de l’histoire du XXe siècle. Il est ainsi parfaitement
compatible avec des positions progressistes.
Ce besoin de raison et de mesure ne caractérisa certes
pas la figure de l’intellectuel de gauche engagé en France des
années trente aux années cinquante. La montée du fascisme
dans les années trente, en effet, suscita des réactions
épidermiques et aboutit à l’expérience du gouvernement du
Front Populaire, d’une part, et à l’affirmation des liens de
nombreux écrivains et artistes à la politique de l’Union
Soviétique en plein cœur pourtant, de la répression stalinienne,
d’autre part. Cette époque dans laquelle Camus grandit et
exprima ses propres idées déboucha ainsi sur une
radicalisation sans précèdent de la vie et de la pensée
politique, selon un esprit du ‘tout ou rien’ qui comportait une
dimension
autodestructrice
ou
sacrificielle.
L’idéal
révolutionnaire rendit bien compte de ce phénomène
généralisé, dans des temps de ténèbres où l’homme était
condamné, au-delà de tout compromis, à choisir son camp
sans ambiguïté.
Dès lors, l’intellectuel de gauche engagé opta souvent
dans ces années troublées pour des formes d’idéologie
profondément anti-démocratiques, c’est-à-dire très éloignées
du modèle rationnel et cohérent qui avait justement été celui de
la Grèce antique et de l’espace méditerranéen par extension.
Cela peut s’expliquer par le fait qu’il eut à affronter l’image
d’une démocratie décadente et souvent stérile, celle de la
troisième République dans ses derniers soubresauts. Jamais
dans l’histoire française moderne, en ce sens, le modèle
démocratique et son parti-pris de rationalité politique ne fut-il
16
autant discuté et rejeté par un groupe d’hommes et de femmes
qui n’avaient pourtant que le mot : ‘liberté’ à la bouche. La
République française était en quelque sorte devenue
dysfonctionnelle et surtout incapable de constituer un front
commun devant la menace fasciste internationale.
En outre, la grave crise économique issue du Krach de
Wall Street qui secoua l’Europe (et donc la France) à cette
époque avait pu être interprétée par ceux-ci comme la
conséquence directe d’un type de société où la démocratie
n’avait pu que justifier et soutenir les pires excès du
capitalisme. Les années trente engendrèrent alors une crise
d’autorité qui fut avant tout celles des institutions de la
République, et donc de pouvoirs représentatifs de la
démocratie française. C’est cette crise d’autorité que
méditèrent en particulier les membres du Collège de Sociologie
dont Georges Bataille et Roger Caillois6.
La période de la Libération, paradoxalement, ne mit pas
fin à ce soupçon porté par les intellectuels de gauche sur la
démocratie libérale moderne. Car elle déboucha très vite sur
l’affirmation agressive d’une politique impérialiste et colonialiste
de la part des mêmes états démocratiques qui avaient
quelques années auparavant lutté contre le nazisme et
triomphé de lui, en particulier les Etats-Unis et la France, de la
guerre de Corée à la guerre d’Indochine.
C’est sans doute dans cette obstination à ne considérer
que la violence politique issue soit du fascisme soit du
communisme (ou alors celle de la révolution française dans
l’histoire plus ancienne) que la pensée de Camus démontra
ses limites. Car elle ne put rendre compte de ce qu’il faut bien
appeler la démesure politique des républiques modernes,
démesure issue le plus souvent de leurs dérives
expansionnistes dans le tiers-monde et ailleurs. A cet égard,
l’Amérique ne fut pas seulement le pays qui libéra l’Europe en
faisant débarquer ses soldats sur les plages de Normandie : il
17
fut aussi le premier (et le dernier) état moderne à avoir utilisé la
bombe atomique sur des populations civiles innocentes à
Hiroshima et à Nagasaki.
Pour le Camus de L’Homme revolté, le mal radical
s’incarnait dans la Révolution, comme il s’incarnait chez
Hannah Arendt dans les grands totalitarismes du XXe siècle7.
Or, le XXe siècle est justement le siècle qui nous a montré que
le mal le plus profond pouvait naître malgré tout de la raison la
plus équilibrée. Ainsi le marxisme constitua-t-il une pensée
fondamentalement rationaliste et matérialiste ancrée dans la
tradition occidentale des Lumières, ce qui n’empêcha pas
certains leaders de s’en inspirer (et de le manipuler) pour
produire des systèmes politiques éminemment répressifs et
meurtriers.
Par ailleurs, la démesure absolue et sans antécédent
du nazisme reposa en grande partie sur le pouvoir de la
science et de la technique modernes. On sait à cet égard le
rôle important que jouèrent les médecins nazis dans les
diverses expérimentations pratiquées sur les prisonniers des
camps de concentration. On sait également que des
scientifiques allemands de premier plan, de Werner
Heisenberg à Werner Von Braun, apportèrent par leurs
connaissances uniques une contribution essentielle à
l’édification de l’impressionnant arsenal de guerre (et donc à la
machine de mort à grande échelle) du régime.
Quant à l’idéologie coloniale, il est bien évident qu’elle
fut essentiellement en Europe le produit des démocraties
britanniques et françaises. A cet égard, ce sont les gens de
gauche inspirés par les nouvelles idées socialistes, en grande
majorité, qui, au XIXe siècle, sous la troisième République,
célébrèrent avec le plus de vigueur et d’enthousiasme le projet
colonial au nom d’un universalisme soutenu par les valeurs de
progrès et de liberté individuelle. La raison humaniste, ici,
18
engendra paradoxalement l’une des pires formes de
domination et d’oppression de la modernité.
La révolte porte moins de violence en elle que la
révolution. Elle n’est donc pas nihiliste, au sens où elle
échappe à la volonté de puissance. Camus s’oppose dans
cette perspective à l’héritage philosophique nietzschéen, mais
aussi à celui de Sade, plus directement révolutionnaire. Elle se
distingue également de la tradition romantique que
perpétuaient encore, selon Camus, des poètes comme
Rimbaud et Lautréamont dans leur exaltation du mal et du
crime. Elle n’est pas non plus soumise à une autorité ni à un
parti.
Elle implique une attitude de résistance face à la
société et à ses lois ainsi qu’un rejet moral profond de
« l’horreur tranquille du monde ». Sa valeur-clé est la liberté
individuelle, mais pas celle que l’idéologie néolibérale
dominante prône aujourd’hui, soit la liberté issue du pouvoir de
l’argent, du commerce et du libre-échange. Il s’agit de défendre
au contraire une liberté conçue en termes éthiques et spirituels
plutôt qu’économiques et matériels.
En outre, le temps de la révolte est différent de celui
des grandes révolutions du XXe siècle. Par opposition au
communisme, en particulier, il ne souligne pas le pouvoir
transcendant de l’histoire et l’accomplissement de son
processus. Il surgit plutôt dans le ici et maintenant, dans le
présent pur de l’action politique. C’est la raison pour laquelle il
est plus proche du flux naturel de l’existence humaine. Les
images prédéterminées d’un avenir parfait et d’un devenir de
l’homme à l’intérieur d’une communauté idéale étaient en
quelque sorte des illusions produites par les idéologies
révolutionnaires. La révolte, dès lors, correspond mieux à une
époque post-historique comme la nôtre. Elle implique le
sentiment d’une urgence irrépressible et cherche à saisir le
présent sous sa forme la plus éphémère et la plus instable.
19
La révolte constitue une attitude de transgression et de
contradiction plutôt que de véritable destruction. Elle découle
d’une prise de conscience nécessaire du mal dans le monde.
Elle renvoie en outre à un sujet fragmenté malgré son désir
d’unité. Cette crise d’identité se reflète aujourd’hui aux EtatsUnis dans un mouvement de révolte comme le mouvement
Occupy, auquel ont participé de nombreuses victimes du krach
financier de 2008. Elle est à bien des égards le résultat d’un
ordre socio-économique dit global qui provoque souvent des
processus arbitraires d’indifférenciation et de perte de repères
autant professionnels que personnels.
Ce qu’un tel mouvement prouve également, c’est
qu’une révolte individuelle contre les revers du destin finit
toujours par se constituer en communauté, dans la mesure
précisément où d’autres hommes et d’autres femmes partagent
la même expérience douloureuse. Comme l’écrit Camus :
« Dans l’épreuve quotidienne qui est la nôtre, la révolte joue le
même rôle que le « Cogito » dans l’ordre de la pensée. Elle est
la première évidence. Mais cette évidence tire l’individu de sa
solitude. Elle est un lieu commun qui fonde sur tous les
hommes sa première valeur. Je me révolte, donc nous
sommes. 8 »
La révolte, contrairement à la révolution (jacobine ou
bolchévique) n’est pas homogène
d’un point de vue
idéologique : elle s’accorde encore une fois mieux à une
époque privée de véritable centre et d’unité politique. En ce
sens, elle respecte un principe fondamental de diversité qui se
retrouve dans le mouvement Occupy, auquel ont participé des
citoyens de tous âges et de toutes conditions qui ne
représentaient ni un seul parti ni une seule organisation
politique. Cette diversité garantit alors une indépendance
d’esprit qui fut si chère à Camus et à sa pensée morale. Elle
s’inscrit par ailleurs dans une agora issue de l’héritage grec,
20
c’est-à-dire dans une utilisation de l’espace public à des fins
politiques qui donne à entendre une parole commune.
En outre, la révolte n’est pas à proprement parler utile :
elle ne sert pas un but pratique mais possède une nécessité de
nature philosophique et existentielle. Elle est bien ainsi d’ordre
métaphysique, comme le soulignait Camus : « La révolte
métaphysique est le mouvement par lequel un homme se
dresse contre sa condition et la création toute entière. Elle est
métaphysique parce qu’elle conteste les fins de l’homme et la
création 9 ».
Camus cite à ce sujet la révolte de l’esclave contre ses
maîtres : « L’esclave rebelle affirme qu’il y a quelque chose en
lui qui n’accepte pas la manière dont son maître le traite 10 ».
On peut assister aujourd’hui, dans notre univers mondialisé, à
de telles révoltes. Les maîtres de notre temps, en effet, ce sont
en particulier les spéculateurs financiers de Wall Street
auxquels les citoyens américains s’opposent à travers le
mouvement
Occupy.
Celui-ci
n’est
pas
purement
circonstanciel : il signifie au contraire le refus universel et
éternel de la domination. Dans un monde soumis au vertige
inégalitaire, tout être humain peut en effet ressentir un jour le
besoin de se dresser contre les pouvoirs qui représentent les
1% au sommet de l’échelle sociale.
Ce qui a changé, entre le monde dans lequel vivait
Camus et le monde actuel, entre les années cinquante et le
début du XXIe siècle, c’est la nature-même du mal radical
auquel l’homme révolté s’oppose. Celui-ci n’est plus ni le
communisme ni le fascisme (le nazisme), comme dans la
pensée de l’écrivain existentialiste, mais bien le
fondamentalisme religieux, d’une part (en particulier islamique)
et le fondamentalisme économique (l’ultra-capitalisme issu de
la mondialisation), d’autre part. Le communisme et le nazisme
étaient tout deux des produits intellectuels et politiques de
l’Europe. Par contraste, les nouveaux totalitarismes
21
proviennent soit de l’Orient, soit d’une vision du monde
transnationale et intercontinentale qui implique la disparition
des frontières et la négation des spécificités culturelles et
sociales.
La pensée de Camus, bien que critique des idéologies
européennes de son temps, s’inscrivait néanmoins dans une
histoire des idées profondément liée au vieux continent, une
histoire qui allait selon lui de Lucrèce et Épicure à Scheler et
Rousseau. En ce sens, elle se serait sans doute acharnée de
la même manière, aujourd’hui, contre ces nouvelles menaces
visant directement les valeurs humanistes de l’Europe et de
l’Occident en général. La révolte, ainsi, constitue toujours une
réaction fondamentale contre le totalitarisme quel qu’il soit, au
nom d’un idéal indestructible de liberté intellectuelle et morale.
Ces totalitarismes actuels, par opposition aux grands
fléaux du siècle dernier, ne s’incarnent plus dans des états
hautement hiérarchisés et concentrés : ils participent par
contraste de pouvoirs supra-politiques, soit culturels et
religieux, soit financiers. La terreur et le malheur qu’ils
engendrent sont dès lors plus difficiles à saisir et surtout à
combattre, en raison de leur caractère disséminé.
La critique qu’il faut adresser à Camus, alors, ce n’est
pas d’avoir démonté les mythes révolutionnaires de son
époque, comme le croyait Sartre, car sur ce point et selon
l’expression consacrée, l’histoire lui a donné raison. Les failles
de son discours apparurent ailleurs, plus particulièrement dans
les quelques pages consacrées au surréalisme, dont le ton fut
parfois outrancier.
Il commença ainsi par évoquer avec une certaine
hésitation, étant donné « le fond et la noblesse de son
exigence11 », la dictature présumée d’André Breton : « Son
mouvement a mis en principes l’établissement d’une ‘autorité
impitoyable’ et d’une dictature, le fanatisme politique, le refus
de la libre discussion et la nécessité de la peine de mort 12 ».
22
Quels que furent les dérapages idéologiques de Breton et de
ses collègues, (et ceux-ci furent incontestables), ils
n’envoyèrent pourtant personne au bûcher. Breton, dès lors, ne
fut ni un Robespierre ni un Saint-Just, ni encore moins un
Staline ou un Beria.
En outre, il eut tendance à exagérer le soi-disant
nihilisme esthétique du surréalisme, quand il écrivit : « Dès ses
origines, le surréalisme, évangile du désordre, s’est trouvé
dans l’obligation de créer un ordre. Mais il n’a d’abord songé
qu’à détruire, par la poésie d’abord sur le plan de l’imprécation,
par des marteaux matériels ensuite. Le procès du monde réel
est devenu logiquement le procès de la création 13 ».
Ce procès de la création ne fut jamais, chez Breton et
les poètes surréalistes, de Desnos à Soupault, qu’un procès de
la création strictement réaliste dans la culture occidentale. Il
constitua, bien, ainsi, un véritable projet artistique, à la fois
littéraire et plastique, soutenu par l’invention de formes
nouvelles et originales. On peut penser que les idées de
Camus sur le surréalisme furent à cet égard influencées par
René Char, ce poète à la parole à la fois raisonnée et lyrique
qui fut au départ proche des surréalistes avant de se séparer
d’eux et qui, à l’époque de L’Homme révolté, était déjà devenu
un ami personnel d’Albert Camus.
Pourtant, Camus eut raison quand il constata
l’incompatibilité du marxisme et du surréalisme, dans la
mesure où le marxisme demandait la soumission de
l’irrationnel à la rationalité révolutionnaire, alors que pour les
surréalistes, la révolution elle-même était irrationnelle (« Les
surréalistes s’étaient levés pour défendre l’irrationnel jusqu'à la
mort 14»). Elle était bien un mythe absolu, une expérience
prioritairement poétique avant d’être politique (« La vie
véritable comme l’amour », pour reprendre les mots d’Eluard
cités par Camus). Le surréalisme exigea une unité
23
fondamentale du monde alors que les marxistes
revendiquèrent, eux, une totalité.
Camus reconnut ensuite que le surréalisme ne fut pas
action, mais « ascèse et expérience spirituelle15 » » et « une
impossible sagesse16 » avant d’être une force de transgression
et de « sommation morale », pour reprendre l’expression de
Georges Bataille sur les origines du mouvement. Cette
sagesse fut celle d’une quête de l’au-delà dans le rêve et la
poésie, en contradiction avec la raison qui, « passée à l’action,
fait déferler ses armées sur le monde 17 ».
Malgré quelques tensions et incompréhensions, une
rencontre de l’existentialisme et du surréalisme est donc
malgré tout possible, car tous deux furent animés par l’urgence
de la révolte dans une époque de négation profonde des
valeurs spirituelles qu’ils recherchaient (celle des deux conflits
mondiaux), même s’ils choisirent des voies et des moyens
esthétiques
radicalement
différents
pour
l’exprimer.
L’existentialisme, en effet, se détourna de l’imaginaire au nom
d’un soupçon intellectuel qui était surtout motivé par l’exigence
d’un engagement incessant dans le monde. Le culte surréaliste
du rêve et des images inconscientes constitua pour Camus (et
à tort, selon moi) une forme d’esquive et de retrait par rapport
aux exigences morales de l’écrivain.
Le rêve, cependant, loin d’une échappée gratuite hors
du monde, était bien pour les surréalistes le meilleur moyen de
le retrouver tout en le transcendant par l’œuvre du langage
littéraire et poétique. Il s’agissait d’atteindre un point suprême,
« un certain point de l’esprit d’où la vie et la mort, le réel et
l’imaginaire, le passé et le futur…cessent d’être perçus
contradictoirement. », pour reprendre les mots-mêmes de
Breton cités par Camus 18. La révolte, en ce sens, détenait à
tout moment une raison d’être: elle exprimait une vérité
éternelle, au-delà des circonstances particulières de l’existence
humaine.
24
1
J’utiliserai dans le cadre de cet article la version publiée dans le
volume des Essais d’Albert Camus, Paris: Gallimard, Bibliothèque de
La Pléiade, introduction par R. Quilliot, 1977.
2
La revue Les Temps Modernes constitua dans ce contexte un
forum de discussion essentiel à l’époque de la parution de cet
ouvrage.
3
Je veux évidemment faire allusion ici à la pièce de théâtre de
Sartre, Les Mains Sales, qui constitua une réflexion aboutie sur le
sens possible de l’action politique violente.
4
Franz Fanon, Les Damnés de la terre, Paris: Francois Maspéro,
1968.
5
Maurice Merleau-Ponty, Humanisme et terreur, Paris: Gallimard,
Collection idées, Introduction de Claude Lefort, 1980.
6
Voir à ce sujet Denis Hollier, Le Collège de Sociologie, Paris:
Gallimard, 1979.
7
Voir à ce sujet Hannah Arendt, Les Origines du totalitarisme suivi de
Eichmann à Jerusalem, préface de Pierre Bouretz, Paris: Gallimard,
“Quarto”, 2002.
8
Albert Camus, L’homme révolté, Bibliothèque de La Pléiade, p.
432.
9
Ivi, p. 435.
10
Ibidem.
11
Ivi, p. 503.
12
Ibidem.
13
Ivi, p. 501.
14
Ivi, p. 505.
15
Ibidem.
16
Ivi, p. 507.
17
Ibidem.
18
Ivi, p. 506.
25
INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'IDENTITA
ESISTENZIALE
Daniela De Leo
I Latini dissero persona - prosopon - la maschera di
legno portata sempre sulla scena dagli attori nei teatri
dell'antica Grecia. E proprio questo senso fu introdotto nel
linguaggio filosofico dallo stoicismo popolare per indicare i
compiti rappresentati dall'uomo nella vita. Ma evocando la
maschera, sembrava che lo stesso termine persona implicasse
il carattere apparente e non sostanziale della stessa. Di qui
nacquero le lunghe dispute trinitarie che caratterizzarono la
storia dei primi secoli del Cristianesimo e che portarono alle
decisioni del Concilio di Nicea.
Per evitare il riferimento di persona alla maschera, gli
scrittori greci adottarono invece di prosopon la parola
hypostasis che nel suo significato di supporto ben rivela le
preoccupazioni che ne suggerirono la scelta. Ma circa il
carattere accidentale che la relazione sembra avere per sua
natura, molti padri della Chiesa non trovarono di meglio che
negare che la persona fosse relazione e insistere sulla sua
sostanzialità.
Così, ad esempio, Sant'Agostino affermando che
persona significa semplicemente "sostanza" e che perciò il
Padre è persona rispetto a sè non rispetto al Figlio19.
A partire da Cartesio, mentre si indebolisce o viene
meno il carattere sostanziale della persona, si accentua la sua
natura di relazione e specialmente di autorelazione o relazione
dell'uomo con se stesso. Il concetto di persona in questo senso
26
si identifica con il concetto di Io come coscienza e viene
prevalentemente analizzato a proposito di ciò che si chiama
l'identità personale, cioè l'unità e la continuità della vita
cosciente dell'io.
Contro questa interpretazione che riduce l'essere
dell'uomo alla coscienza stanno le posizioni filosofiche che
polemizzano contro la forma più radicale di questa
interpretazione, che è lo hegelismo. La stessa dottrina morale
kantiana aveva dato del concetto di persona una
caratterizzazione in termini di etero-relazione, cioè di relazione
con gli altri. Quando Kant diceva che gli esseri ragionevoli sono
chiamati persone perché la loro natura li indica già come fini in
se stessi, val a dire come qualcosa che non può essere
adoperato unicamente come mezzo, faceva consistere la
natura della persona dal punto di vista morale, nel rapporto
inter-soggettivo.
Tuttavia soltanto con la fenomenologia il concetto di
persona come etero-relazione fa il suo ingresso esplicito in
filosofia. Già Husserl, considerando l'io come il polo di tutta la
vita intenzionale attiva e passiva accentuava quella relazione
ad altro in cui l'intenzionalità consiste. Ma è soprattutto con
Scheler che la persona viene esplicitamente definita come
rapporto con il mondo. Tale concetto è stato assunto come
punto di partenza dell'analisi esistenziale di Heidegger: la
quale si è precisamente imperniata sul concetto della persona
umana, cioè dell'esserci, come rapporto con il mondo.
In sintesi questo percorso riflessivo, ha portato nel
corso dei secoli, a far subire una evoluzione semantica al
termine di persona: dal termine persona come sostanzialità, a
quello di entità della vita cosciente dell'io - autorelazione - fino
a giungere a quello di caratterizzare la persona in termini di
etero-relazione.
Così, superata l'utopia dell'autotrasparenza del
soggetto a se stesso, si elabora una concezione dell'identità
27
personale come risultato di un luogo ermeneutico del soggetto
nel mondo. È questo un modo di pensare l'identità non più in
termini di autoposizione soggettiva di stampo cartesiano, ma di
etero determinazone, in cui l'alterità è implicata a un livello
originario nel processo di costituzione del sé.
La prospettiva sull'identità risulta, in tal modo, spostata
alla radice: l'appartenenza originaria del soggetto a se stesso,
data quasi per scontata, si ribalta nell'estraneità di un io
costitutivamente e originariamente decentrato da sé.
Pertanto, con il termine identità personale, si indica non
la semplice invarianza nel tempo delle strutture sostanziali
dell'individuo, ma piuttosto il dipanarsi, attraverso il tempo di
una struttura etica della temporalità.
L'identità è correlata al concetto di relazione il cui
elemento essenziale rimane la struttura temporale
dell'esistenza ed è inquadrata come categoria della pratica,
come relazionalità in un contesto di azione.
Dire l'identità di un individuo vuol dire rispondere alla
domanda: chi ha fatto questa azione? Chi è l'agente,
l'autore?20
Allora, l'identità dell'individuo umano non è qualcosa di
dato, che si possa cogliere in un'intuizione intellettuale o che si
possa racchiudere in una definizione; essa si struttura
nell'azione, manifestata agli altri individui attraverso molteplici
segni.
L'uomo non può non agire, in quanto non può non voler
rispondere alla domanda circa la propria identità e una risposta
la può avere solo nello spazio pubblico del discorso e
dell'azione, nel rapporto con gli altri individui. L'io ha quindi
dimora nei suoi atti.
"L'identità del chi è a sua volta un'identità narrativa.
Senza il soccorso della narrazione, il problema dell'identità
personale è in effetti votato ad una antinomia senza soluzione:
o si pone un soggetto identico a se stesso nella diversità dei
28
suoi stati, oppure si ritiene, seguendo Hume e Nietzsche, che
questo soggetto identico non è altro che una illusione
sostanzialista, la cui eliminazione lascia apparire solo un puro
diverso di cognizioni, di emozioni, di volizioni"21.
Si cadrebbe, seguendo la strada nietzscheana22,
nell'angusta ripetitività dell'eterno ritorno, che involvendo la
progettazione della struttura temporale dell'esistenza,
paralizzerebbe la stessa evoluzione esistenziale dell'identità.
Se ogni secondo della nostra vita si ripete un numero
infinito di volte, siamo inchiodati all'eternità.
"Nel mondo dell'eterno ritorno, su ogni gesto grava il
peso di una insostenibile responsabilità. Ecco perché
Nietzsche chiamava l'ida dell'eterno ritorno il fardello più
pesante"23.
In questa visione di stampo nietzscheano ogni scelta è
così gravata da un peso sotto cui soccombe ogni nostra
azione, parola, pensiero e le conseguenze della stessa che
sono destinate ad attualizzarsi all'infinito sempre uguali. In tale
contesto la ripetizione diventa una sorta di categoria
esistenziale, imprigiona all'interno di un cliché che,
riproponendosi sempre uguale, conduce all'inaridimento e alla
perdita di quello stesso senso che sembrava essere acquisito e
fa del soggetto identità una illusione sostanzialista.
Ma, anche seguendo l'impostazione della ripetitività
degli stessi eventi, vi è all'interno di questa apparente rigida
ripetitività, un microcosmo temporale in cui medesimezza e
alterità si incontrano, in quanto ciò che si ripete deve essere
già stato per essere ripetuto e pertanto nella configurazione di
qualcos'altro rispetto a ciò di cui è ripetizione, non è più
identico, ma è sempre un qualcosa di diverso, di nuovo rispetto
all'originale.
Nello stesso processo di ripetizione ci si allontana, così
dal modello originale. e nel momento in cui ci si relaziona con il
passato (una sorta di husserliana ritenzione e rimemorazzione)
29
nella situatività del presente (ora/limite della durata temporale),
si delinea progressivamente l'identità e si definisce in una
direzione anziché in un'altra. Noi siamo il nostro passato, ma
noi siamo per il nostro passato, per i nostri vissuti. Il passato è
ciò che più di ogni altra cosa è, noi dobbiamo costantemente
confrontarci
con
esso
accettandolo,
riordinandolo,
confermandolo o rinnegandolo.
E anche in un'ottica di "ripetizione" non si può avere
una sterile, rigida identità sostanziale.
Persino percorrendo la strada delle ripetitività si
intravede la costruzione dell'identità personale come dialogo
continuo con la memoria, questa, infatti, mantenendo integro il
passato, impedisce la disgregazione dell'io stesso e quindi la
ricostruzione di nuovi io fittizi. E l'identità nuovamente è
inscritta nel processo temporale. È attraverso un qui-ed-ora
che appartiene al passato e alla memoria che si delinea la
direzione verso la costruzione dell'identità, che non è una
ripetizione immutabile del passato, ma è proprio la direzione
che svela l'impossibilità del ritorno e precisamente del ritorno a
quel sè compiuto e concluso. E, dunque, anche argomentando
del necessario e dell'immutabile si è schiusa l'argomentazione
che la necessità, intesa nel suo senso più classico di ciò che è
così e non può essere altrimenti, è un'illusione, una vuota
credenza alla quale l'essere umano si aggrappa per non dover
fronteggiare la propria fragilità.
Quelle che in prima battuta sembravano essere
strutture immutabili del reale, l'eterno ritorno, la ripetizione, si
sono rivelate null'altro che costruzioni fittizie, che l'essere
umano applica a posteriori sulla realtà per ordinarla e dunque,
in qualche modo, fronteggiarla.
Ciò ci induce a giungere ad affermare che l'essere non
è quella totalità piena, armonica ed equilibrata. Tutto ciò che
sappiamo è che l'essere è: è al modo della totalità indistinta
all'interno della quale ci muoviamo, che la nostra ragione non
30
può comprendere senza cadere in ragionamenti aporetici e
dunque sterili.
L'identità di tale essere è quella di un Esserci, un
essere nel mondo che sviluppa con esso e in esso delle
relazioni personali, istituisce dei rapporti di causa-effetto,
disegna una propria mappa di orientamento identitario, una
mappa sempre provvisoria e in continua ridefinizione, perché
provvisorie sono le condizioni stesse del mondo in cui siamo
situati.
Ed è in questa provvisorietà che si configura la libertà
della costruzione dell'identità: nell'infinito numero di
interpretazioni possibili del contesto in cui l'essere è situato,
degli oggetti che gli sono intorno ed entrano in relazione con
lui, secondo priorità e gerarchie del tutto personali.
Essere liberi vuol dire costruire, progettarsi, e non c'è
costruire più originario di quello che parte dalle fondamenta.
Così l'essere si autogiustifica costituendosi in una
progettualità identitaria che diventa una identità narrativa:
all'identità compresa nel senso di un medesimo - idem - si
sostituisce l'identità, compresa nel senso di un se stesso - ipse.
A differenza dell'identità del medesimo, l'identità costitutiva
dell'ipseità, può includere il cambiamento.
È la messa in atto di un progetto in cui l'identità si
costruisce in un continuo mettere il sè in relazione con gli altri.
Progettare significa scegliere, restringendo le infinite
possibilità ad un'unica possibilità da attuare. Scegliere implica
la libertà di prevedere il prevedibile come l'imprevedibile, le
conseguenze desiderate ed indesiderate.
"L'imprevedibilità [...] scaturisce simultaneamente
dall'oscurità del cuore umano", cioè dalla fondamentale fluidità
dell'uomo che non può garantire oggi chi sarà domani, e
dall'impossibilità di predire le conseguenze di un atto in una
comunità di eguali dove tutti hanno la stessa facoltà di agire"24.
31
L'imprevedibilità si rivela, dunque, come ciò che sfugge
per principio alla razionalità umana, è la vita stessa, è
attraverso di essa che si schiude il percorso di costruzione
dell'identità del sè.
L'uomo è, dunque, libero, ma gode di una libertà in cui
l'esistenza precede l'essenza, in una continua tensione verso
la pienezza di un sé che non tarda a rivelare la propria
fondamentale inconsistenza, frutto della rettificazione senza
fine di un racconto anteriore per mezzo di un racconto ulteriore.
Tale modello di identità narrativa conduce a concepire
la persona come una totalità sempre aperta che ricompone in
sé il conflitto sempre aperto tra identico e diverso, ma in modo
assoluto.
L'io ha in sé una passività che è la condizione di
possibilità per l'assunzione della propria identità.
L'essere umano è sempre costitutivamente aperto e la
sua
azione
è
inquadrata
in
una
fenomenologia
dell'intersoggettività. L'identità non costituisce un atto
immediato, originario dell'autodeterminazione dell'io, ma il
risultato della dialettica incessante tra il sé e l'altro.
L'identità del soggetto implica in modo costitutivo,
quindi, il riconoscimento dell'alterità. Conoscere se stesso
significa sempre riconoscersi attraverso la mediazione
dell'alterità (nei vari segni in cui essa si manifesta: il tu, il
contesto storico sociale di appartenenza, il linguaggio), dopo
una fase di estraneità rispetto a se stesso.
È in questa metafora del "riconoscimento" che si
costituisce l'identità: "Il riconoscimento è una struttura del sé
riflettente sul movimento che porta la stima di sé verso la
sollecitudine e questa verso la giustizia. Il riconoscimento
introduce la diade e la pluralità nella costituzione stessa del
sé"25.
32
Quel doppio movimento: il movimento estatico dell'io,
verso l'altro e il movimento di ritorno del soggetto a sé,
attraverso il riconoscimento dell'altro.
"Non è forse nella mia identità più autentica che io
chiedo di essere riconosciuto?"26
In questo costitutivo porsi e cercarsi, l'uomo
sperimenta,
costantemente,
l'insostenibile
leggerezza
dell'identità esistenziale.
1
De Trinitate, VII, 6.
Cfr. H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press
1958.
3
P. Ricoeur, trad. it. Tempo e racconto III. Il tempo raccontato, Jaca
Book, Milano 1988, p. 375
4
F. Nietzsche, Aforisma 341, in trad. it. La gaia scienza Idilli di
Messina, Bur, Milano 2000.
"E come, se un demone ti perseguitasse giorno e notte finanche nella
più solitaria delle tue solitudini, e ti dicesse: 'Questa vita, così come la
vivi adesso e l'hai vissuta, ancora una, infinite volte dovrai viverla; e
non ci sarà nulla di nuovo, quindi, ma al contrario ogni dolore e ogni
piacere, e ogni pensiero, ogni sospiro e tutto ciò che v'è di ineffabile,
grande e piccolo, nella tua vita, deve ritornare per te, e tutto nello
stesso ordine e nella stessa successione - e altrettanto questo ragno
e la luce della luna tra gli alberi, e altrettanto questo istante e io
stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza incessantemente viene
capovolta - e tu con lei, cenere dalla cenere!'- (Come) Non ti
getteresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone, che
parlava così? O tu ha vissuto una volta un istante prodigioso, tanto
che potresti rispondergli: 'Tu sei un dio, e io non ho mai sentito cosa
2
33
più divina!'.Se quel pensiero si imponesse con la forza su di te, esso
ti trasformerebbe, così come sei, e forse ti annienterebbe; la
domanda, riguardo tutto e ciascuna cosa: 'Vuoi tu, dunque, questa
cosa ancora una volta e ancora innumerevoli volte?" peserebbe sul
tuo agire come il peso più pesante! Oppure come dovresti rendere te
e la tua vita grata a te stesso, per non esigere più niente se non
quest'ultima, eterna conferma, questo suggello?'", Ivi.
5
M. Kundera, trad. it. L'insostenibile leggerezza dell'essere, Adelphi,
Milano 2001, p. 13.
6
H. Arendt, trad. it. Vita activa: la condizione umana, Bompiani,
Milano 1989, p. 180.
7
P. Ricoeur, trad. it. Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p.
407.
8
Id., trad. it. Percorsi del riconoscimento, Raffaele Cortina, Milano
2005, p. 5.
34
NOTE
NOTE IN MARGINE AL FILM IL GIOVANE
FAVOLOSO:
IL GIACOMO LEOPARDI DI MARIO MARTONE
Nunzio Bombaci
1. Gli anni recanatesi
Il 16 ottobre è uscito nelle sale Il giovane favoloso,
l’atteso film di su Giacomo Leopardi, che ha conseguito
apprezzamenti molto lusinghieri al recente festival
cinematografico di Venezia. Anche i discendenti del poeta
hanno elogiato l’opera alla quale, peraltro, hanno
collaborato, offrendo la possibilità di girare buona parte del
film nel palazzo Leopardi.
Sulla rete si possono leggere le critiche più diverse del
film, dagli elogi sperticati alle stroncature più nette. Va detto
comunque che il regista Mario Martone non ha inteso offrire
al pubblico una biografia di Giacomo Leopardi, ma una sua
interpretazione della personalità umana e poetica
dell’autore. Pertanto, egli ha ritenuto di potere trascurare
alcuni periodi della sua vita e di soffermarsi in particolare su
altri. Per lo scrivente, si tratta di una interpretazione nel
complesso pregevole e abbastanza verosimile. Anche in
passato, il regista ha mostrato un grande interesse per
Leopardi, e ha realizzato una pregevole pièce teatrale tratta
dalle Operette morali. Il suo film può sperare in un giudizio
fondamentalmente positivo pure da parte dei cultori del
poeta che abbiano letto non solo le sue opere, ma anche le
celebri pagine critiche che al riguardo hanno scritto studiosi
di rango, come Francesco De Sanctis, Walter Binni,
35
Francesco Flora, Giovanni Getto, Natalino Sapegno, Luigi
Russo ed altri.
L’attore Elio Germano, nei panni del «giovane favoloso»,
appare abbastanza convincente, sebbene la sua gestualità
sia sembrata a taluni pletorica e incongrua. Si è trattato per
lui di un ruolo estremamente difficile, poiché ha dovuto
immedesimarsi in un uomo nel cui corpo sempre più
martoriato dalla malattia continua a vivere un mondo di
pensieri e di affetti vivissimi, un mondo vivant jusqu’à la
mort, se è lecito ricorrere a un’espressione di Paul Ricoeur.
Forse quella gestualità “eccessiva” trae origine proprio dal
contrasto tra un corpo sempre più debole e una vita interiore
indomita.
Il film dà ampio spazio al periodo all’adolescenza e della
prima giovinezza del poeta, segnate da sette anni di «studio
matto e disperatissimo». Vengono completamente trascurati
il primo soggiorno a Roma nonché i periodi trascorsi a
Milano, Bologna e Pisa. Si tratta talora di omissioni
importanti. Va detto che i mesi trascorsi dal poeta a Roma,
dagli zii Antici, lo deludono profondamente, poiché sino
allora egli credeva che al di fuori di Recanati il mondo fosse
pieno di attrattive per un giovane volto a scoprire la
pienezza della vita. A Roma egli non incontra validi
interlocutori, ma degli intellettuali che gli sembrano «meri
eruditi». Almeno la commozione di Giacomo dinanzi alla
tomba di Torquato Tasso, che segna il momento più
significativo del primo soggiorno a Roma, avrebbe meritato
una scena del film. E, ancora di più, l’avrebbe meritata pure
il periodo vissuto a Pisa, poiché in questa città, dal clima
particolarmente mite, i malanni fisici concedono un po’ di
tregua al poeta. Proprio a Pisa, questi vive un periodo di
grande fervore creativo, espresso ne Il risorgimento e A
Silvia.
36
Nelle scene iniziali del film vediamo i piccoli Giacomo,
Carlo e Paolina giocare all’aperto. Nel film non si riscontra
alcun interesse per le peculiarità caratteriali di Carlo e di
Paolina, che appaiono quindi umbrae rispetto al
primogenito. In nell’età fugacissima dell’infanzia e della
prima fanciullezza Giacomo individua tutta la felicità che egli
ha potuto godere. Egli è convinto, anzi, che si tratti
dell’unica età felice concessa a innumerevoli esseri umani
Nel prosieguo dell’opera, come era lecito attendersi, ci
viene presentato un ragazzo dall’ingegno precocissimo ed
eccezionale, spronato allo studio dal padre, il conte
Monaldo, interpretato da Massimo Popolizio. I suoi figli
trascorrono lunghe ore nella sua biblioteca, che comprende
oltre ventimila volumi, ed è aperta al pubblico. Tuttavia, i
Leopardi sono gli unici a fruirne. Invero, il carattere pubblico
della biblioteca costituisce una risposta a una domanda che
i recanatesi non hanno mai formulato. Altre iniziative,
intraprese da Monaldo in qualità di amministratore locale in
favore dei concittadini, avranno un riscontro più significativo.
Monaldo è un uomo generoso. Probabilmente non è un
“mediocre”, come lo considera Natalino Sapegno. E gli si
arreca un torto se lo si considera semplicisticamente un
reazionario, poiché ammette la necessità di qualche riforma
in favore del popolo, purché sia decretata dall’alto. Come il
film evidenzia, Monaldo è, piuttosto, un avversario del
liberalismo, ed è convinto che la libertà auspicata dagli spiriti
più progressisti del suo tempo sia in realtà “dissoluzione”.
Per lui, l’unica libertà possibile si esplica nel conformarsi alla
dottrina della Chiesa. Probabilmente, egli sarà stato tra i più
convinti estimatori del papa Gregorio XVI che nell’enciclica
Mirari vos, del 1832, qualifica come deliramentum «la
cosiddetta libertà di pensiero».
In quanto uomo estremamente fedele alla Chiesa,
Monaldo è stato autorizzato dalle autorità ecclesiastiche a
37
comprare e custodire nella sua biblioteca alcuni libri proibiti
ai fedeli, come i pamphlets degli illuministi. Oltre ai classici,
il giovane Giacomo può leggere dunque le opere di
d’Holbach, La Mettrie, Helvétius, e subisce pertanto
l’influsso delle loro tesi materialiste e sensiste. In fondo,
esse presentano delle assonanze con il pensiero di
Lucrezio, ovvero di uno dei classici latini che egli ama.
La biblioteca di Monaldo è ricca, ma antiquata, e non
comprende le opere dei romantici. È legittimo chiedersi
quale sarebbe stata la poetica di Leopardi se da giovane
avesse potuto leggere autori come Coleridge, Shelley,
Keats, oppure Novalis e Hölderlin. Forse, avrebbe rinvenuto
in questi poeti degli spiriti in consonanza con il proprio e
l’epoca in cui viveva gli sarebbe sembrata meno estranea.
Ma qui ci muoviamo nel campo infido delle ipotesi. Al più, si
può dire che se la biblioteca di Monaldo fosse stata un po’
più aggiornata, il “pensiero” di Leopardi sarebbe stato meno
permeato da una concezione fondamentalmente sensista
della felicità. È azzardato aggiungere che sarebbe stato
meno infelice, ma probabilmente l’espressione della sua
infelicità avrebbe assunto un timbro diverso. Forse, sarebbe
stato più consapevole del valore spirituale della sua stessa
poesia e avrebbe elaborato in modo meno tetro l’esperienza
della sua solitudine e della malattia.
Opportunamente, nel film di Martone viene dato rilievo
alle dinamiche familiari che vigono nel palazzo Leopardi:
l’affetto e la complicità dei quasi coetanei Giacomo, Carlo e
Paolina, la presenza ossessiva del padre e del precettore, la
lontananza fisica e affettiva della madre, Adelaide Antici.
Il Monaldo del film ama molto il figlio primogenito, ne
apprezza l’ingegno, e vorrebbe che questi ricambiasse ogni
tanto i suoi gesti di tenerezza, ma l’adolescente è scontroso
nei suoi riguardi. Egli si augura che Giacomo rimanga a
Recanati e diventi il filologo di rango che egli non è riuscito
38
ad essere, appagando così in qualche modo il suo
narcisismo frustrato. Un fratello della madre, invece, spera
che egli metta il suo ingegno al servizio della Chiesa,
deponendo il suo atteggiamento apertamente anticlericale.
Giacomo cerca intanto la sua strada, aborrendo l’uno e
l’altro progetto. Il conflitto con Monaldo non può che
inasprirsi. Il giovane tenta anche di fuggire da Recanati, ma
viene subito scoperto dal padre. Giacomo non realizzerà il
sogno di Monaldo, e la sua autonomia risveglia
probabilmente nel padre la «ferita narcisista», Nessuno dei
suoi figli diventerà il filologo che egli vagheggia, rinchiuso a
vita in quella biblioteca che tanto ha pesato sulle finanze del
casato Leopardi.
La marchese Adelaide Antici appare poco nel film. Del
resto, è la grande assente nella vita dei figli. Ostenta
indifferenza anche nei confronti delle opere scritte da
Giacomo. Al più, è capace di accorgersi di lui e di
rimproverarlo per l’uso maldestro delle posate. È noto che i
biografi di Leopardi la descrivono come una donna gelida,
nevrotica e bigotta. L’attrice che la interpreta, Raffaella
Giordano, esprime soprattutto il suo carattere gelido. Forse,
il bisogno di amore non è uguale in tutti i bambini, ed è
Giacomo, più degli altri suoi figli, a soffrire per la mancanza
in lei di qualsivoglia sguardo improntato alla tenerezza. In lui
la sensibilità è vivissima, forse più della stessa intelligenza,
e il film evidenzia anche questo aspetto della sua indole.
Una sensibilità siffatta risente profondamente della
mancanza di quell’amore primario che per lo psicoanalista
ungherese Michael Balint può essere offerto dalla madre o,
comunque, da una figura materna. L’amore primario è, in
realtà, un amore puramente recettivo: si tratta del bisogno
di essere amato, dell’eros di un essere estremamente
indigente quale è il bambino. Nell’essere umano, la capacità
di amare l’altro si affermerà più tardi, se l’amore primario
39
viene soddisfatto, e costituisce una “estroversione” di esso.
Lo stesso Balint afferma che la carenza di amore primario è
all’origine di un disturbo fondamentale (Grundstörung) della
persona che permane, in qualche modo, per tutta la vita. È,
questo, un disturbo che si manifesta segnatamente nella
vita di relazione. Nei rapporti con gli altri - come attesta,
peraltro, l’epistolario - Giacomo ricercherà sempre l’amore
negatogli nella prima infanzia dalla figura materna. Nelle
lettere ai familiari e agli amici, egli chiede – anzi, supplica di essere amato, più che affermare il suo amore e il suo
affetto per l’altro.
Spesso si osserva che nelle famiglie caratterizzate da
una marcata anomalia dei rapporti interpersonali le
conseguenze ricadono particolarmente su uno dei suoi
componenti. Qui è soprattutto Giacomo a pagare per tutti.
Più di Carlo e di Paolina, egli risente dell’assenza della
madre e della presenza eccessiva e improvvida del padre.
Giacomo sembra quasi un «servo sofferente» laico, sul
quale gravano le conseguenze di un contesto relazionale
abnorme, intessuto di silenzi, di omissioni, ma anche di
intrusioni nel sacrario della libertà personale e quindi di
pesanti condizionamenti psicologici.
I biografi riferiscono che quello di Monaldo con Adelaide
fu un matrimonio d’amore, osteggiato dai parenti di lui per la
scarsità della dote arrecata dai marchesi Antici. Se si è
trattato di un amore reciproco, si può dire che l’algida
marchesa ha amato qualcuno almeno una volta nella sua
vita. Per il resto, il suo contegno richiama alla mente coloro
con riguardo ai quali il poeta francese Charles Péguy ha
detto: «Credono di amare Dio perché non amano nessuno».
Nel film, il carattere bigotto di Adelaide si rivela nella
scena in cui rende le condoglianze alla famiglia del
cocchiere, dopo la morte della giovane Teresa. Sia il tono
che il significato delle sue parole sono agghiaccianti. Per lei,
40
non è importante se si muore da vecchi o in giovane età.
L’importante, dunque, non è “quando”, ma “come” si muore.
Pertanto, ella chiede al padre disperato - che è interpretato
dal conte Vanni Leopardi - se la defunta ha manifestato una
rassegnazione cristiana durante la malattia e se ha ricevuto
i sacramenti.
La morte di Teresa è vissuta con ben altra intensità dal
figlio Giacomo che in tale circostanza ha un’allucinazione
(non è la sola, nel film). Vede per un attimo Teresa, già
deposta nella bara, aprire gli occhi. Alcuni anni dopo,
Teresa gli ispirerà il canto A Silvia.
Ancora per quanto attiene agli anni recanatesi, il regista
pone in luce l’importanza del carteggio intrattenuto dal
giovane Giacomo con Pietro Giordani, il primo studioso
italiano a riconoscere il suo ingegno eccezionale. Giordani è
un letterato raffinato, di impronta classicista, che comunque
attribuisce alla letteratura il compito di elevare il tenore della
vita civile. In sintesi, si può dire che egli interiorizzi
l’essenziale dell’eredità spirituale di un Giuseppe Parini. Nei
confronti del giovane, come attestano i brani dell’epistolari
recitati nel film, Giordani si rivela una valida guida
intellettuale, esortandolo a studiare in modo metodico e a
scrivere in prosa ancora prima di comporre versi. Al tempo,
l’attenzione di Giacomo è contesa tra gli studi eruditi, le
traduzioni e le prime poesie. Nel complesso, negli anni
recanatesi il film lo presenta più come un erudito che come
un poeta. D’altronde, è lo stesso Leopardi a scrivere di
essersi convertito, solo dopo molti anni di studio,
«dall’erudizione al bello» e, in seguito, «dal bello al vero».
Allorché Giordani rende visita al giovane, Monaldo nutre
il sospetto che possa inculcare al figlio le sue idee liberali. Si
tratta di un sospetto poco fondato: Giacomo non aderirà mai
al liberalismo. Ricercherà, piuttosto, un suo spazio di libertà,
lontano da Recanati.
41
Quando può finalmente allontanarsi da Recanati,
Giacomo è da tempo fortemente segnato dalla malattia. Ai
giorni nostri, gli studiosi tendono a ritenere che egli fosse
affetto dal morbo di Pott, ovvero da una forma tubercolosi
ossea che colpisce segnatamente le vertebre. Il film sembra
dare credito a questa ipotesi, allorché pone in evidenza,
oltre alle emottisi, i disturbi visivi, la debolezza muscolare
sempre più grave, i dolori diffusi e, infine, l’idrotorace che
porterà il poeta alla morte.
2. A Firenze e a Napoli
Dopo avere presentato il giovane Leopardi, talora
promeneur solitaire nelle campagne recanatesi, talaltra
recluso nel «paterno ostello», il film opera un “salto” di circa
dieci anni nella vita del poeta. Lo rivediamo quindi a Firenze,
quasi trentenne. Conosce già Antonio Ranieri (l’attore
Michele Riondino), un esule napoletano scaltro e donnaiolo
con il quale stringe un sodalizio che durerà sette anni, sino
alla morte. Del periodo fiorentino, il film pone in rilievo il
rapporto di Giacomo con gli intellettuali liberali del circolo
dell’Antologia e l’amore non corrisposto per l’avvenente
Fanny Targioni Tozzetti, animatrice di uno dei più prestigiosi
salotti della città, la quale ha una relazione con Antonio
Ranieri. Nel film, l’ineffabile Fanny è rappresentata come
moglie infedele e, al contempo, madre tenerissima.
Significativamente, il marito non vi appare mai.
La donna sembra stimare le qualità intellettuali di
Giacomo, il quale cerca ogni occasione per incontrarla. Sa
che Fanny colleziona scritti autografi di letterati illustri, e
gliene procura alcuni. Non si accorge che ella resta
estremamente lontana da lui. Si può dire che qui il Giacomo
trentenne non si dimostra molto più maturo sul piano
42
emotivo rispetto a dieci anni prima, allorché si era invaghito
di una cugina del padre, Gertrude Cassi Lazzari (trasfigurata
poeticamente in “Nerina”) dopo avere conversato e giocato
a carte con lei. Allo scoprire la relazione di Antonio con
Fanny, la disperazione del poeta raggiunge il culmine. Il
regista lo ritrae allora dall’alto, rannicchiato in posizione
fetale, vicino alla riva dell’Arno. Si tratta di una delle scene
più suggestive del film, che è sottolineata peraltro da una
colonna sonora definita “distonica” da un critico accorto.
Sempre nel periodo fiorentino, il film evidenzia le
difficoltà che il protagonista sperimenta nei rapporti con il
circolo di intellettuali dell’Antologia. Per lo più, costoro
apprezzano in lui l’uomo di lettere, ma non ne comprendono
la poesia. A loro giudizio, non può sperare di avere un
pubblico un poeta che manifesti sempre e solo malinconia.
È necessario che pure la poesia esprima gli ideali
progressisti dell’epoca. Leopardi, tuttavia, resta sempre
estraneo a tali ideali e, anzi, li schernisce. Poiché non
condivide né le idee dei liberali né quelle dei romantici, egli
resterà sempre un uomo isolato. Resta insoddisfatta in lui,
tra le altre, un’esigenza che - come ha posto in rilievo lo
psicologo umanista Abraham Maslow - è propria di ogni
essere umano. Si tratta di quel bisogno di appartenenza che
induce l’uomo ad aggregarsi a un gruppo di persone
accomunate da determinati interessi o valori. Come lo
stesso film di Martone attesta, Leopardi è destinato a vivere,
con infinita pena, da homo spectator, mai da homo
particeps.
Giacomo non può tollerare che altri condizionino la sua
creazione poetica e rompe i rapporti con gli intellettuali
liberali fiorentini. Tra costoro, nel film si vede per qualche
istante Niccolò Tommaseo, il quale sentenzia che nel secolo
seguente nessuno si sarebbe più ricordato di Leopardi.
Ancorché la letteratura critica relativa al poeta sia
43
amplissima, difficilmente al suo interno ci si può imbattere in
un critico più ottuso di Tommaseo, per il quale il poeta vede
dappertutto infelicità a causa della sua malattia e del suo
corpo deforme.
Qualche critico ha notato che nel film si avverte la
mancanza del poeta Leopardi. In realtà, il protagonista
recita numerosi versi delle poesie del Ciclo di Aspasia
(Aspasia è la trasfigurazione poetica di Fanny). L’esito
ultimo dell’elaborazione del dolore arrecato da un amore
non corrisposto è un’apatia, un’immobilità dell’anima che
sono descritte nei versi agghiaccianti di A se stesso, peraltro
recitati nel film: «Che se d’affetti/ orba la vita e di gentili
errori,/ è notte senza stelle a mezzo il vorno/ già del fato
mortale a me bastante/ è conforto e vendetta è che su
l’erba/ qui neghittoso, immobile giacendo,/ il mar, la terra e il
ciel miro e sorrido». Oggi vedremmo in questi «conforto e
vendetta», che si esprimono nell’indolenza e nel sorriso
beffardo, un «meccanismo di difesa dell’Io» che funge da
anestetico dell’anima, al prezzo di contrarla ancora di più in
se stessa.
Ancora prima di A se stesso, il protagonista del film
recita i versi de La sera del dì di festa («Dolce e chiara è la
notte e senza vento/E queta sovra i tetti e in mezzo agli
orti/Posa la luna, e di lontan rivela/ serena ogni
montagna..») e L’infinito. Forse si può dire che manca nel
film il Leopardi dei «grandi idilli», ovvero le opere nelle quali
trovano espressione gli elementi che caratterizzano più
profondamente la sua poetica. Vi è solo un’allusione
indiretta ad essi, e la si può rinvenire nelle poche scene che
riguardano Teresa alias Silvia, la giovane morta di tisi.
Questa omissione è in rapporto alla mancanza di riferimenti,
nel film, al periodo pisano, nel quale il poeta concepisce e
scrive alcuni dei Canti più celebri. Dopo anni di profonda
apatia, allorché risiede a Pisa, si risveglia in lui il mondo
44
degli affetti: avverte nuovamente in sé i moti di gioia e di
dolore che non provava da tempo.
A parere dello scrivente, il rilievo più significativo che
può essere espresso nei confronti del film, è proprio la
mancanza di riferimenti a questo periodo, ovvero al
ridestarsi del mondo interiore del poeta che assume per lui il
carattere di un “risorgimento”. Dopo un periodo di apparente
stasi, irrompe nuovamente nel suo spirito la facoltà creativa,
quasi come accade a Rilke durante il soggiorno nel castello
di Duino, allorché inizia a comporre le Elegie duinesi.
Giacomo, come confida alla sorella Paolina in una lettera
del 2 maggio 1828, può scrivere ora dei «versi veramente
all’antica, e con quel mio cuore di una volta». Rivive, e
trasfigura poeticamente, i sentimenti provati negli anni
recanatesi. Nei suoi momenti più elevati la sua poetica si
alimenta di questo rivivere interiormente ciò che agli altri
appare consegnato irremissibilmente al passato. Se è lecito
ricorrere al linguaggio del filosofo Wilhelm Dilthey,
trasponendolo dal campo storico a quello poetico, si può
dire che la poesia dei «grandi idilli» si nutre
fondamentalmente di un Nacherleben: la coscienza si
rivolge all’indietro e il poeta trova le parole capaci esprimere
i moti affettivi di un tempo. Il cultore di Leopardi avrebbe
preferito che il regista del film prestasse attenzione a questo
momento di grande rilievo nell’evoluzione della sua poetica,
piuttosto che ammannire numerosi aneddoti relativi agli anni
trascorsi da Leopardi tra Napoli e Torre del Greco.
Nel complesso, il film privilegia proprio questi anni, nei
quali si corrobora il sodalizio del poeta con Antonio Ranieri.
La parte del film relativa a questo periodo è probabilmente
la meno riuscita. Mario Martone, che per quanto riguarda la
ricostruzione degli anni recanatesi dimostra un certo rigore
filologico, qui si lascia prendere la mano dal gusto del
grottesco e, come si è accennato, dell’aneddotico. Ci viene
45
presentato un Leopardi curvo sino all’inverosimile. Quel
corpo appare come una metafora del cor curvatum in se del
poeta, di un cuore che si è ripiegato su se stesso non solo
per il dolore fisico, ma anche perché non ha avuto la
possibilità si rivolgersi, nell’amore, all’altro da sé. Ancora,
questo corpo così contratto è forse metafora di una vita che
non si è dispiegata in un contesto relazionale adeguato. In
modo lapidario, Benedetto Croce ha scritto che si è trattato
di una «vita strozzata»
Il poeta, che per i recanatesi era il “saccentuzzo”, per i
popolani di Napoli è il “ravanuottolo”, ovvero il “ranocchio”.
In un locale pubblico, un signore gli chiede se il suo
“pessimismo” è conseguenza della malattia. Per il poeta,
“pessimismo” e “ottimismo” sono solo «parole vuote»,
probabilmente perché esprimono due attitudini contrapposte
nei confronti degli ideali del secolo che egli ritiene altrettanto
vuoti. Leopardi risponde allora, risentito, che il suo pensiero
non è correlato alla sua malattia, poiché la vita è infelice in
tutte le sue espressioni. Aggiunge che l’onere della prova
spetta a colui che afferma il contrario. La scena appare
plausibile. Nel corso dell’Ottocento una buona parte della
critica ha considerato la poesia di Leopardi la monocorde
espressione di una malinconia dovuta alla malattia.
Francesco De Sanctis costituisce, al riguardo, un’autorevole
eccezione, quando afferma che, pur negando gli ideali di
quel secolo, egli induce il lettore ad amarli: «Non crede al
progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te
la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te
ne accende in petto un desiderio inesausto» (da F. De
Sanctis, Saggi critici, vol. II)
Il film di Martone ci presenta Giacomo mentre passeggia
tra i vicoli di Napoli, partecipa alle feste del popolo, ingurgita
gelati incurante delle proibizioni dei medici, e in
un’occasione è vittima di una burla feroce, ordita peraltro da
46
Antonio Ranieri. L’affetto che questi dimostra nei confronti di
Giacomo non si rivela del tutto disinteressato allo spettatore
del film. Il giovane raccomanda alla sorella Paulina di
custodire con la massima attenzione le carte del poeta, che
in seguito pubblicherà. Nel libro pubblicato in seguito da
Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi,
l’autore evidenzia, in modo stucchevole e quasi ossessivo, il
carattere disinteressato delle cure prestate da lui prestate
all’amico, nonché la dedizione dimostrata dalla sorella
Paulina nei confronti del poeta. Evidentemente, Ranieri
intende rispondere alle critiche mossegli riguardo al
“disinteresse” della sua amicizia con il poeta,
Neppure a Napoli, quindi, Giacomo incontra qualcuno
che sappia davvero corrispondere al suo debordante
bisogno di amore e di affetto. Se, allorché è ancora
adolescente, scrive a Pietro Giordani che il suo più grande
desiderio è conseguire la gloria, dieci anni dopo confesserà
de visu allo stesso amico che, in realtà, ciò di cui ha più
bisogno è l’amore, l’affetto, l’entusiasmo, la pienezza della
vita. Le parole che nel film Leopardi rivolge a Giordani
richiamano, anche nel loro tenore letterale, le espressioni
che si riscontrano in una lettera da lui scritta il 25 novembre
1822, ovvero durante il primo soggiorno a Roma, al fratello
Carlo («Amami…Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco,
entusiasmo, vita»). Anche qui egli supplica l’altro affinché lo
ami, perché egli ha bisogno soprattutto di essere amato.
Come molti esseri umani, il poeta giunge a comprendere se
stesso, e la sua esigenza più profonda – ovvero l’essere
amato - attraverso un percorso accidentato e sperimentando
le disillusioni più amare.
Se Rilke fugge da ogni esperienza sentimentale allorché
si rende conto del suo carattere estremamente impegnativo,
e non vuole «essere amato» in modo esclusivo, perché ogni
vincolo definitivo nuocerebbe alla sua libertà di poeta,
47
Leopardi, di converso, è alla disperata ricerca di un essere
umano che lo ami. A differenza di Rilke, egli non avverte il
rischio che una vita affettiva intensa possa compromettere
la preminenza della creazione poetica su ogni altro aspetto
dell’esistenza: semplicemente, quella vita affettiva gli è
preclusa.
Per alcuni critici, il Leopardi di Martone è
fondamentalmente l’autore delle Operette morali. Nel film, in
effetti, si riscontrano delle allusioni ad esse, ma vi è solo
una “citazione” diretta, relativa al Dialogo tra la Natura e un
islandese. Una delle allucinazioni di cui soffre il poeta
fornisce il pretesto per la rappresentazione di una parte di
questo dialogo. La Natura è ipostatizzata in un’enorme
figura di creta dalle sembianze femminili. Essa rivela
all’islandese/Giacomo di operare ciò che vuole, senza
avvedersi delle conseguenze che il suo agire comporta per
gli uomini e gli altri esseri viventi. La Natura non è
“matrigna”, non è né buona né cattiva, né si può dire che sia
una potenza ancipite, in quanto creatrice e distruttrice al
contempo, come appare la Grande Madre nel pensiero di
Carl Gustav Jung nonché in molti miti. La Natura è soltanto
indifferente nei confronti dell’uomo. Indifferente, come verso
Giacomo sono state la madre Adelaide e l’amata Fanny. La
prima non si avvedeva dell’immane bisogno di amore
provato dal figlio, la seconda sembra non avvedersi
dell’amore che egli prova per lei.
Inoltre, lo spettatore del film può notare che, mentre
parla, la Natura si va “sbriciolando”. “perde pezzi”, ed essa
non si avvede neppure di questo. In sintesi, la Natura
appare allo spettatore estremamente diversa dalla physis,
intesa dai filosofi greci quale principio generativo di ogni
cosa che è. Qui, al contrario, la Natura è un processo di
corruzione che riguarda innanzitutto se stessa. In sintesi, la
Natura è una sorta di autocorruzione ignara di sé.
48
Qualche altro critico ha rilevato che il film presenta un
Giacomo Leopardi fondamentalmente nichilista. In realtà, da
un breve colloquio con la sorella Paolina emerge come egli
identifichi l’unica verità attingibile dall’uomo in quella che si
rivela nell’esercizio inesausto del dubbio. Il Leopardi di
Martone sembrerebbe pertanto più uno scettico pervicace
che un nichilista. Questa sua interpretazione richiama alla
mente dello studioso di Leopardi quanto scrive uno dei suoi
critici più autorevoli, Luigi Russo, nel saggio introduttivo
all’edizione dei Canti del 1945: «Il Leopardi non fu né
ottimista né pessimista, perché eternamente dubitò di tutto.
Situazione che porta non già ad una sistematica filosofica,
ma ad uno stato d’animo immaginativo e poetico, che può
risolversi in un melodioso lamento e non in un definitivo e
dogmatico catechismo».
Si può aggiungere che se Martone avesse visto in
Leopardi soprattutto il nichilista, non avrebbe concluso il film
con alcune scene notturne del Vesuvio, accompagnate dalla
recitazione – Elio Germano tiene a precisare che non si
tratta di “declamazione” - dei versi de La ginestra. Non è
tanto l’intellettuale nichilista ad affiorare qui, quanto il poeta
consapevole dell’indifferenza della Natura nei confronti
dell’uomo quanto estraneo al mito delle «magnifiche sorti e
progressive», e che lancia quindi un appello agli esseri
umani, affinché il vincolo di solidarietà tra di loro valga a
mitigare le difficoltà della vita di ognuno.
49
MACINTYRE: THOMISTIC ARISTOTELIANISM OR
ARISTOTELIAN THOMISM?
Piergiorgio Della Pelle
The works and the studies by Alasdair MacIntyre introduce,
often, a presentation and a relecture of Aristotelian themes and
ideas, placing itself in the same way (but not in the same
direction) of the new contemporary interpretations on
Aristotelian thought rise up in the 19th century1. However, the
Scottish philosopher’s personal reading on Aristotle seems to
be influenced in a meaningful way by the St. Thomas reading
of the Stagirite’s philosophy2. Unlike the Heidegger’s
interpretation on Aristotle, MacIntyre doesn’t fix on the problem
of the return to the original and authentic reading of the ancient
greek thought, cleaned by the medieval deposits, but he is
concentrated on a sort of new (revised) Aristotelianism, that
gives, especially in After Virtue (1981), to this old philosophy a
new form and a new reading3. Insomuch as MacIntyre selfdefines his thought a Thomistic aristotelianism. But, is this
really his philosophical position? Or is it more an Aristotelian
thomism?
I.
In After Virtue, reading the path of the virtue's idea from
Homer, differentiating this last one from the Aristotelian,
MacIntyre writes that:
50
on Aristotles’account […] it is the telos of man as a
species which determines what human qualities are
virtues. We need to remember however that although
Aristotle treats the acquisition and exercise of the virtues
as means to an end, the relationship of means to end is
internal and not external. I call a means internal to a
given end when the end cannot be adequately
characterized independently of a characterization of the
means. So it is with the virtues and the telos which is the
good life for man on Aristotle’s account.4
MacIntyre, here, advises that the distinction between internal or
external means to end is not findable in Aristotle’s
Nicomachean Ethics, but it’s typically of the defence by St.
Thomas of the virtue’s idea of St. Augustine5. But, continuing
his analysis, MacIntyre affirms that the New Testament’s
account, even if it’s different «in content» from the Aristotelian
one, has «the same logical and conceptual structure as
Aristotle’s account»6. In the exegesis of MacIntyre, both the
philosophers, Aristotle and St. Thomas, want to propose the
idea that, reading the virtue as a quality, the exercise of it
allows to attain the human telos, that is, the good. For the
contemporary thinker this is the theoretical reason that brings
the Aquinas very close to the virtue’s idea of the Stagirite. But,
following his argument, seems to pop up a problem. Indeed,
MacIntyre, developing the examination of the human telos of
the good, says: «the good for man is of course a supernatural
and not only a natural good, but supernature redeems and
completes nature», and he continues: «moreover the
relationship of virtues as means to the end which is human
incorporation in the divine kingdom of the age to come is
internal and not external, just as Aristotle»7.
51
From an historical-philosophical viewpoint, this position is
problematic because, as the recent critic noticed, the ideas of
the God and of the Divine by the Greeks, during the age of
Plato and Aristotle, were different from those of Christianity8,
here, of St. Thomas. The ancient greek concept of religion,
may be seen in the word pistis, that, in the context of the polis,
doesn’t take on the meaning of a direct e personal relationship
with the God, but it has a juridical significance. As it is possible
to see in the Socrates’ vicissitudes, the religion, or, what it is
better to call religiousness, is linked to the laws of the polis, so,
if someone transgresses a religious law, will be try in a law
action. Therefore, historically, is possible to say that the value
and the strongness of the greek religiousness, are not derived
by the value and the strongness of the God (least of all of a
legislator God), but they are due to the value and the
strongness of the polis and its legal regulations. Looking
beyond this historical fact, from a philosophical point of view,
the God of the Aristotelian metaphysic, or rather the noesis
noeseos (read out of the Thomistic revival), the Immobile
motor, expresses an idea very far away from a personal God, it
is a sort of atmosphere, something that is in another world and
it influences this world, but not something that is in everyman
and it influences everything. To the other side, St. Thomas,
leaving from Aristotle, talks about the God of the Christian
tradition, after more than a millennium of theological (and
philosophical) thought.
In view of these considerations, it is important to stress that
MacIntyre’s analysis refers to the issues exposed in the I Book
of the Nicomachean Ethics, in which Aristotle would deal with a
divine good, that is the telos of the human virtue9. On one
hand, is true that, for MacIntyre, in Aristotelian philosophy the
good for the man is something, not only natural, but also
supernatural, divine, however, on the other hand, this religious
52
dimension on the earth, for men, is guaranteed by the law of
the polis. And, even if, is equally true that in the metaphysical
perspective of Aristotle this good «completes nature», because
it is the Uncaused Cause, the first motor, is more difficult to
assert that this kind of good «redeems […] nature». Is it
possible an idea of redemption in Aristotle’s philosophy? The
same MacIntyre puts some reservations on that prospect
when, in After virtue, relates to the John Lloyd Ackrill’s
Aristotelian interpretation10. So, for the Greek philosopher the
telos of the good life has its height in the contemplation, but, in
the Aristotelian thought, the idea of contemplation «is still
situated within an account of the good life as a whole in which
a variety of human excellences have to be achieved at the
various relevant stages»11. Therefore, MacIntyre continues:
«this is why the notion of a final redemption of an almost
entirely unregenerate life has no place in Aristotle’s scheme»12.
First of all, it must be said that the reference to the concept of
redemption, in both quotations, appears in the matter on
Aristotelian human good and its connexion with the telos.
Besides, it is important to point out that this idea, peculiar of
Christianity and, here, of the Aquinas philosophy, even taken
beyond the one of «final redemption»13, is not directly referable
to the possible Aristotelian dichotomy between natural and
supernatural. Indeed, the divine good of Aristotle, certainly
completes nature in its supernatural pre-eminence, but plays
unlikely the role of nature’s redeemer in its supernatural
primacy.
Furthermore the, viewed, idea of the «relationship of virtues
as means to the end», that would be internal, is understood by
MacIntyre like the «human incorporation in the divine kingdom
of the age to come»14. But this point is not so instantly
approvable, as the Scottish philosopher wants, if is it read «just
as Aristotle»15. The Greek thinker, never deals with an
53
existence of a divine kingdom that will be in the future, or of an
another divine world in which the man will be included. Even
when he exposes, in the Metaphysics, his critical account on
Plato’s world of ideas, he doesn’t think it like a future kingdom
for the men, or for the virtuous, at most he has in the mind
something like an ideal world in which there are the supreme
forms of the ideas, and so, the pure virtues. In the light of this,
is possible to notice that in the «parallelism» between Aristotle
and New Testament, in wich the Aquinas would be the
«synthesis», the MacIntyre’s reading of the Aristotelian idea of
virtue is meaningfully moves on the side of the St. Thomas‘
thought16.
II.
Moving the attention from Aristotle to the Aquinas, in the
Summa Theologiae, in the matter of natural and supernatural
good, is written:
non est conveniens quod Deus minus provideat his quos
diligit ad supernaturale bonum habendum, quam
creaturis quas diligit ad bonum naturale habendum.
Creaturis autem naturalibus sic providet ut non solum
moveat eas ad actus naturales, sed etiam largiatur eis
formas et virtutes quasdam, quae sunt principia actuum,
ut secundum seipsas inclinentur ad huiusmodi motus. Et
sic motus quibus a Deo moventur, fiunt creaturis
connaturales et faciles; secundum illud Sap. VIII, et
disponit omnia suaviter. Multo igitur magis illis quos
movet ad consequendum bonum supernaturale
aeternum, infundit aliquas formas seu qualitates
supernaturales, secundum quas suaviter et prompte ab
ipso moveantur ad bonum aeternum consequendum. Et
sic donum gratiae qualitas quaedam est.17
54
As far as is it possible to think similar the Aristotelian issue to
the Thomistic one, in the passage just now quoted, it seems to
be clear that the whole speech has its foundation on the New
Testament’s idea of grace. This concept regulates the
relationship God-man, and, in the perspective of the good, it
affirms the self participation of God to his goodness:
et secundum huiusmodi boni differentiam, differens
consideratur dilectio Dei ad creaturam. Una quidem
communis, secundum quam diligit omnia quae sunt, ut
dicitur Sap. XI; secundum quam esse naturale rebus
creatis largitur. Alia autem est dilectio specialis,
secundum quam trahit creaturam rationalem supra
conditionem naturae, ad participationem divini boni. Et
secundum hanc dilectionem dicitur aliquem diligere
simpliciter, quia secundum hanc dilectionem vult Deus
simpliciter creaturae bonum aeternum, quod est ipse.18
The divine good here seen appears in a constitutive
relationship with that kind of special love, the grace, that makes
possibile the idea of a participation to and in this good. Human
good and divine good are connected by a positive stretch that
allows the man to aspire asymptotically to this divine good, of
which he’s participated and participating. Although the idea of
participation is alive in the ancient greek idea of methexis, the
idea of a personal God that feels something like the love for
«all the things that exist», instead, is a characteristic of the
New Testament’s religion. After all, it seems to be meaningful,
and it is no accident, that MacIntyre in After virtue, in the few
lines devoted to the concept of grace (after the quotation of
Aristotle in the context of modern philosophy) writes: «the
contrast between man-as-he-happens-to-be and man-as-hecould-be-if-he-realized-his-telos remains and the divine moral
law is still a schoolmaster to remove us from the former state to
55
the latter, even if, only grace enables us to respond to and
obey its precepts»19.
Another confirmation of the influence of St. Thomas in the
Aristotle’s reading by MacIntyre may be seen also in the
explication of the Aristotelian sense of the eudaimonia
(translated with «difficulty» as «blessedness, happiness,
prosperity»20). Underlining the relationship between this status
and the good for man, in the definition of this idea, he says
that: «it is the state of being well and doing well in being well, of
a man’s being well-favored himself and in relation to the
divine»21. It is not so difficult to understand how much the last
part of this sentence is referable to the Christian God and to
His direct relationship with the man, expressing the never
ending ambition of the human good to the divine one.
III.
Leaving for a moment After Virtue, in the Preface to the
italian edition of Three rivals versions of moral enquiry,
published in 1993, MacIntyre claims that who, like him,
supports «le posizioni dell’aristotelismo contemporaneo nella
sua versione tomistica», «deve perciò essere in grado di fare
due cose»:
essere capace di dare ragioni valide per giungere alla
conclusione che all'interno della tradizione costituita dai
dibattiti argomentativi che si estendono da Socrate
attraverso Platone e Aristotele fino e oltre i grandi filosofi
medievali e della rinascenza scolastica, è prorio questa
versione dell'aristotelismo che si è mostrata capace di
giustificazione razionale attraverso l'argomentazione
dialettica
and
essere in grado di spiegare come e perché in tradizioni
rivali, nelle quali alcuni dei criteri, concetti o
56
argomentazioni
centrali
dell'aristotelismo
tomista
vengono rifiutati, una conseguenza di quel rifiuto sia la
sterilità o almeno l'incoerenza, o forse entrambe, riguardo
ai problemi sorti all'interno di queste tradizioni, sterilità e
incoerenza che si spiegano adeguatamente solo
mediante le risorse che un aristotelico tomista può
proporre.22
In spite of MacIntyre’s self-declaration of Aristotelianism, in
After Virtue, he criticizes the «metaphysical biology»23, that he
finds in the Stagirite’s thought and that would be connected to
the «Aristotle’s teleology»24:
human beings, like the members of all other species,
have a specific nature; and that they move by nature is
such that they have certain aims and goals, such that
they move by nature towards a specific telos. The good is
defined in terms of their specific characteristics. Hence
Aristotle’s ethics, expounded as he expounds it,
presupposes his metaphysical biology.25
This teleological inclination of the human βίος is seen by
MacIntyre like a limitation for the Aristotelian position, to the
extent that he opposes and proposes to replace and to cross
this idea introducing a social-historical dimension, linked to the
concept of polis26. In other words, he doesn’t think the telos like
a purpose of the human βίος, but in terms of a common good
of society. This view, probably inspired by Benjamin Franklin,
directs MacIntyre toward a political critique to the aristocratic
connotation of that (that he calls the) metaphysical biology by
57
Aristotle27. At this point is useful to notice that MacIntyre twenty
five years later After Virtue, returning on this aspect, corrects
and reinforces his own point of view on this social sphere of the
good-common-telos resorting, again, to the Aquinas. The
continual study on the Scholastic philosopher, indeed, would
have suggested to MacIntyre that his idea of a social good,
opposed to the Aristotelian one, proposing merely a theory of
society, wouldn’t be an effective way until it would have been
expressly founded on a metaphysics. Not foreseeing this basis,
for MacIntyre, the same St. Thomas’ perspective is darkened,
inasmuch it is not possible to point out a theory of society
without considering the idea of a human teleology towards
which men move on for their own nature. So -writes MacIntyre
in the Prologue to the Third Edition After Virtue After a Quarter
of a Century-: «I discovered that I had, without realizing it,
presupposed the truth of something very close to the account
of the concept of good that Aquinas gives in question 5 in the
first part of the Summa Theologiae»28. From this point of view
MacIntyre, once again, searches and finds refuge and support
in St. Thomas’ philosophy, going back to the teleological
dimension of the good for the humans; so, he reasserts not
only his steady connexion with this thinker, but even more
strengthens the thesis, here suggested, of his Aristotelian
thomism.
As a matter of fact, in view of the above, that his position
appears more like an Aristotelian thomism than a Thomistic
aristotelianism. Indeed, if is true that the analysis of Aristotle’s
works made by MacIntyre is deeply and steadily influenced by
the lectio of the Aquinas, is not so for the interpretation of
Thomistic philosophy, in which survives a christianized
Aristotle. The consideration of this ancient thought doesn’t be
never without the St. Thomas and New Testament outlook of a
God that completes and redeems nature and infuses his grace.
Under this sign, Aristotle’s philosophy is read through the Neo-
58
Scholastic concepts, compelling this origin of the thought, that
is, also, and above all, a thought of the origin, in a way in which
metaphysics and ethics are thinked in a system that
understands the nature not on his own architecture, but in
dependence relationship with a supernatural and transcendent
force that is not the aristotelian noesis noeseos. Therefore, if it
is true that the philosophy of MacIntyre is a revival of the
thomism, seems to be certain, likewise, that his profession of
aristotelism have to be read not in the sense of his selfdeclaration of a Thomistic aristotelianism, but in the direction of
an Aristotelian thomism, that seems to animate his thought
from After Virtue.
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60
- , Whose Justice? Which Rationality?, Duckworth, London 1988, 2
B..
St. Thomas, SummaTheologiae,
Ref. engl. transl. by Fathers
of the English Dominican Province in SummaTheologiae, Benziger
1
Brothers, New York 1947-1948 , then McGraw-Hill 1964-1980.
1
First of all see Martin Heidegger, Phänomenologische
Interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der hermeneutische
Situation), now in Phänomenologische Interpretation ausgewählter
Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik, in GA 62,
Klostermann, Frankfurt am Main 2005; Id., Phänomenologische
Interpretationen zu Aristoteles. Einleitung in die phänomenologische
Forschung (WS 1921/22), in GA 61, Klostermann, Frankfurt am Main
1987; Id., Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (SS 1924), in
GA 18, Klostermann, Frankfurt am Main 2002. Also see Hannah
Arendt, Vita Activa oder vom tätigen Leben, Piper, München-Zürich
1960; Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge
einer philosophischen Hermeneutik, J. C. B. Mohr (P. Siebeck),
Tübingen 1960; Wilhelm Hennis, Politik und praktische Philosophie .
Eine Studie zur Rekonstruktion der politischen Wissenschaft,
Neuwied a. M. - Berlin 1963; Joachim Ritter, Metaphysik und
Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Frankfurt a. M. 1969.
2
On MacIntyre’s interpretation of St. Thomas, see Giuseppe Abbà,
MacIntyre e l’etica tomista, in «Studi Perugini» 3 (1997), pp. 135-154;
Janet Coleman, MacIntyre and Aquinas, in John Horton- Susan
Mendus (ed. by), After Macintyre: Critical Perspectives on the Work of
Alasdair Macintyre, University of Notre Dame Press, Notre Dame
1994; John Haldane, MacIntyre’s Thomist Revival: What Next?,
ivi;Christopher Stephen Lutz, Tradition in the Ethics of Alasdair
61
MacIntyre: Relativism, Thomism, and Philosophy, Rowman &
Littlefield, Lanham 2004.
3
See Alasdair MacIntyre, After Virtues, Bristol Classical Press,
London 1981, in this study quoted from the third edition‘s version by
Bloomsbury Academic, London New York 2013. Besides see Enrico
Berti, La filosofia pratica di Aristotele nell’odierna filosofia angloamericana, in Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 1992, pp. 219231.
4
Anzitutto,
cfr.
Martin
Heidegger,
Phänomenologische
Interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der hermeneutische
Situation), now in Phänomenologische Interpretation ausgewählter
Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik, in GA 62,
Klostermann, Frankfurt am Main 2005; Id., Phänomenologische
Interpretationen zu Aristoteles. Einleitung in die phänomenologische
Forschung (WS 1921/22), in GA 61, Klostermann, Frankfurt am Main
1987; Id., Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (SS 1924), in
GA 18, Klostermann, Frankfurt am Main 2002. Inoltre, cfr. Hannah
Arendt, Vita Activa oder vom tätigen Leben, Piper, München-Zürich
1960; Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge
einer philosophischen Hermeneutik, J. C. B. Mohr (P. Siebeck),
Tübingen 1960; Wilhelm Hennis, Politik und praktische Philosophie .
Eine Studie zur Rekonstruktion der politischen Wissenschaft,
Neuwied a. M. - Berlin 1963; Joachim Ritter, Metaphysik und
Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Frankfurt a. M. 1969.
5
Sulla interpretazione operata da MacIntyre su San Tommaso, cfr.
Giuseppe Abbà, MacIntyre e l’etica tomista, in «Studi Perugini» 3
(1997), pp. 135-154; Janet Coleman, MacIntyre and Aquinas, in
John Horton- Susan Mendus (ed. by), After Macintyre: Critical
Perspectives on the Work of Alasdair Macintyre, University of Notre
Dame Press, Notre Dame 1994; John Haldane, MacIntyre’s Thomist
Revival: What Next?, ivi;Christopher Stephen Lutz, Tradition in the
Ethics of Alasdair MacIntyre: Relativism, Thomism, and Philosophy,
Rowman & Littlefield, Lanham 2004.
6
Cfr. Alasdair MacIntyre, After Virtues, Bristol Classical Press,
London 1981, qui citato dalla versione della terza ed. di Bloomsbury
Academic, London New York 2013. Inoltre, cfr. Enrico Berti, La
62
filosofia pratica di Aristotele nell’odierna filosofia anglo-americana, in
Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 1992, pp. 219- 231.
7
Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. pp. 214-215. 228 tr it
8
See Ibidem. Seven years after After Virtues, MacIntyre returns on
the integrative relationship between Aristotle and St. Augustine in
Whose Justice? Which Rationality?, Duckworth, London 1988, p.
205.
9
Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. p. 215.
10
Ibidem.
11
See Hans-Georg Gadamer, Religion and Religiosity in Socrates, in
Proceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy,
University Press of America, Lanham/ London 1986, pp. 53-75.
12
See Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot., pp. 214-215.
13
Referring to John Lloyd Ackrill, Aristotle on «eudaimonia», in
Proceedings of the British Academy 60 (1974), pp. 339-359, reprinted
in Amélie Oksenberg Rorty (ed. by), Essays on Aristotle’s Ethics,
University of California Press, Berkeley 1980, pp. 15-33.
14
Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. p. 204.
15
Ibidem.
16
Ibidem.
17
Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. p. 215.
18
Ibidem.
19
See Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. pp. 214-215.
20
St. Thomas, SummaTheologiae, II-I q. 110 a. 2: «it is not fitting that
God should provide less for those He loves, that they may acquire
supernatural good, than for creatures, whom He loves that they may
acquire natural good. Now He so provides for natural creatures, that
not merely does He move them to their natural acts, but He bestows
upon them certain forms and powers, which are the principles of acts,
in order that they may of themselves be inclined to these movements,
and thus the movements whereby they are moved by God become
natural and easy to creatures, according to Wis. 8:1: "she . . .
ordereth all things sweetly." Much more therefore does He infuse into
such as He moves towards the acquisition of supernatural good,
certain forms or supernatural qualities, whereby they may be moved
by Him sweetly and promptly to acquire eternal good; and thus the
gift of grace is a quality».
Ref. engl. transl. by Fathers of the
63
English Dominican Province in SummaTheologiae, Benziger
1
Brothers, New York 1947-1948 , then McGraw-Hill 1964-1980.
21
St. Thomas, SummaTheologiae, II-I q. 110 a. 1, ref. engl. transl.:
«and according to this difference of good the love of God to the
creature is looked at differently. For one is common, whereby He
loves "all things that are" (Wis. 11:25), and thereby gives things their
natural being. But the second is a special love, whereby He draws the
rational creature above the condition of its nature to a participation of
the Divine good; and according to this love He is said to love anyone
simply, since it is by this love that God simply wishes the eternal
good, which is Himself, for the creature».
22
Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. p. 64.
23
Ivi, p. 174.
24
Ivi, p. 188.
25
Alasdair MacIntyre, Prefazione alla edizione italiana di Tre
versioni rivali di ricerca morale, Editrice Massimo, Milano 1993, p. 19.
26
Alasdair MacIntyre, quot. After Virtues, quot. p. 174.
27
Ivi, p. 189.
28
Ivi, p. 173.
29
See Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. pp. 191-197. This idea
is critically examined by Giuseppe Abbà. In spite of his reading of the
Aristotelian idea of virtue is not so far from the one of MacIntyre (also
in the nearness with the position of St. Thomas), he opposes to the
Scottish philosopher’s critic to the « unsustainable» Aristotelian
“metaphysical biology” and to his “social” solution. See Giuseppe
Abbà, Filosofia, vita buona e virtù, LAS, Roma 1989, pp.110-111.
30
See Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. p. 270.
31
Alasdair MacIntyre, Prologue to the Third Edition After Virtue After a
Quarter of a Century, p. XI. St. Thomas writes: «bonum et ens sunt
idem secundum rem, sed differunt secundum rationem tantum. Quod
sic patet. Ratio enim boni in hoc consistit, quod aliquid sit appetibile,
unde philosophus, in I Ethic., dicit quod bonum est quod omnia
appetunt. Manifestum est autem quod unumquodque est appetibile
secundum quod est perfectum, nam omnia appetunt suam
perfectionem. Intantum est autem perfectum unumquodque,
inquantum est actu, unde manifestum est quod intantum est aliquid
bonum, inquantum est ens, esse enim est actualitas omnis rei, ut ex
64
superioribus patet. Unde manifestum est quod bonum et ens sunt
idem secundum rem, sed bonum dicit rationem appetibilis, quam non
dicit ens», ref. engl. transl. : «Goodness and being are really the
same, and differ only in idea; which is clear from the following
argument. The essence of goodness consists in this, that it is in some
way desirable. Hence the Philosopher says (Ethic. i): "Goodness is
what all desire." Now it is clear that a thing is desirable only in so far
as it is perfect; for all desire their own perfection. But everything is
perfect so far as it is actual. Therefore it is clear that a thing is perfect
so far as it exists; for it is existence that makes all things actual, as is
clear from the foregoing. Hence it is clear that goodness and being
are the same really. But goodness presents the aspect of
desirableness, which being does not present».
65
METODO E METAFISICA NEL CRITICISMO KANTIANO
Luca Ferrara
1.La teorizzazione del rapporto tra metodo e metafisica nel
periodo precritico
Il complesso tentativo kantiano di individuare le
conoscenze a cui può giungere la ragione indipendentemente
da ogni esperienza, affinché essa possa stabilire quale metodo
debba seguire per fondare la metafisica come scienza, non è
un problema totalmente nuovo nella storia della speculazione
occidentale, e non è una questione relativa solo al criticismo
kantiano. Che la filosofia, intesa nell’accezione di metafisica,
dovesse affrontare un necessario vaglio metodologico per
potersi poi atteggiare a scienza era opinione comune nei
filosofi dell’età moderna. La scienza moderna aveva posto
nell’istanza metodologica la pietra di paragone tra ciò che era
fondato e ciò che era infondato. Inoltre, ai filosofi dell’età
moderna1 appariva in tutta la sua forza epistemica lo iato che si
poneva tra una serie di idee metafisiche (legate da una serie
di sillogismi) e la catena dei ragionamenti del matematico: la
speculazione metafisica — strutturata secondo la logica
aristotelica — non riusciva ad assumere un valore scientifico
tale da valere2 per l’intera comunità filosofica.
Le opere giovanili di Kant3 si inseriscono nel dibattito
comune a diversi pensatori dell’Aufklärung sulla questione del
metodo e su i suoi rapporti con la metafisica. Infatti, filosofi
(come Rüdiger, Crusius, Baumgarten e Lambert) e matematici
(come Eulero) avevano dato ampio rilievo nelle loro opere alla
66
questione metodologica4. Dunque, non è casuale la presenza,
nei Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (il primo
scritto del filosofo) di osservazioni di carattere metodologico e
metafisico. Kant dichiara che «tutto questo trattato [la sua tesi
di laurea] è unicamente un prodotto di questo metodo (von
dieser Methode) di pensare»5 la cui assenza ha comportato
«molti errori in filosofia, o quanto meno sarebbe stato un
mezzo per sottrarsi ad essi molto prima.[…]la tirannia degli
errori sull’intelletto umano, che talvolta è durata per secoli
interi, è derivata soprattutto dalla mancanza di questo metodo
o di altri che sono imparentati con esso; e che dunque ora ci si
deve applicare a questo prima che ad altri per prevenire, in
futuro, quel male.»6. Bisogna tener presente che in questo
scritto Kant intende con il termine filosofia, sia la scienza fisica,
definita nel corso del ‘600 e del ‘700 filosofia naturale, sia la
metafisica. Ora al metodo viene assegnata una funzione
precisa: liberare l’intelletto dall’errore nelle ricerche filosofiche.
Il compito catartico, attribuito al metodo, non è una novità
concettuale introdotta dal filosofo, ma il pieno riconoscimento di
una funzione di un dispositivo concettuale sedimentatosi
storicamente7. Ma qual è questo metodo? Come riesce a
prevenire l’errore? L’intelletto cade in errore perché non presta
particolare attenzione ai passaggi logici di un’argomentazione.
Questo metodo viene definito da Kant come:
l’arte (Kunst) di indovinare dalle premesse se una
dimostrazione, disposta in un certo modo, riguardo alle
conclusione conterrà in sé anche i princìpi sufficienti e
completi. In questo modo inferiremo se in essa deve
esserci uno sbaglio; anche se non lo scorgeremo da
nessuna parte, saremo spinti a cercarlo, infatti abbiamo
una causa sufficiente per presumerlo. Dunque, questa
sarà una difesa contro la pericolosa propensione al
consenso, che senza questo stimolo allontanerebbe tutta
67
l’attività dell’intelletto dall’indagine di un oggetto; non
trovando alcuna causa per porvi dubbio8 .
Il metodo si attesta come strumento logicoconcettuale capace di mettere a confronto premesse e
conclusioni, in modo poi da scorgere se nei due momenti
dell’argomentazione siano stati utilizzati i medesimi principi e
se siano stati adoperati nella stessa maniera.9
Nel corso degli anni ’50 del ‘700, pur essendo
notevole la produzione scientifica di Kant, non emergono (nelle
opere di questo periodo) particolari indicazioni volte a ridefinire
le istanze metodologiche elaborate nel suo primo scritto. Di
tutt’altro tenore sono gli scritti del filosofo nel decennio
successivo: in questi scritti è facile individuare per l’interprete
una chiara tematizzazione del rapporto tra metodo e
metafisica. Infatti è possibile individuare indicazioni significative
in due scritti precritici degli anni ’60: L’unico argomento
possibile per l’esistenza di Dio; Indagine sulla distinzione dei
principi della teologia naturale e della morale.
Nella prefazione dello scritto Sull’unico argomento, il
filosofo dichiara che il buon senso offre argomenti convincenti
per affermare l’esistenza dell’ente supremo. Ma allora perché
deve essere proposto un altro argomento da utilizzare per la
dimostrazione di Dio? Da una necessità che appartiene alla
struttura del soggetto conoscente. Il filosofo dichiara che
l’intelletto abituato all’indagine (a differenza del buon senso che
è adoperato da tutti gli uomini10) non può sottrarsi ad un suo
legittimo desiderio: raggiungere qualcosa di compiuto e di
chiaramente concepito in una conoscenza di tale importanza.
Dunque, gli argomenti utilizzabili dal buon senso per la
dimostrazione di Dio, differiscono dall’argomento utilizzabile
dall’intelletto avvezzo all’indagine. Ma per conseguire una tale
conoscenza: «bisogna avventurarsi entro l’abisso senza fondo
che è la metafisica. Oceano tenebroso, senza sponde e senza
68
fari, in cui bisogna condursi come chi, navigando in mare non
ancora solcato, non appena metta piede su qualche terra,
esamina il suo cammino, e cerca se mai delle inavvertite
correnti marine non abbian deviato il suo corso»11. Il filosofo
tedesco adopera due metafore “marine” per indicare la natura
della metafisica: “oceano tempestoso” e “abisso senza
fondo”12. Indagare un tema come l’esistenza dell’Ente supremo
vuol dire entrare nel campo di ricerche proprie della metafisica,
ma questo ambito disciplinare si presenta non privo di difficoltà,
dove ogni risultato raggiunto potrebbe essere ingannevole.
Infatti, il filosofo deve fare attenzione “non appena metta piede
su qualche terra” (dove “terra” può essere inteso come
risultato) a delle “inavvertite correnti marine”, le quali possono
aver “deviato il suo corso”, cioè se non lo abbiano condotto
verso risultati non del tutto corretti. Kant, per ovviare a tale
condizione nella quale si trova il filosofo, dichiara che nelle sue
ricerche ha avuto « di mira specialmente il metodo per salire
alla conoscenza di Dio mediante la scienza naturale»13.
Ma perché adoperare proprio la scienza naturale e
non il metodo della matematica per giungere alla dimostrazione
dell’esistenza di Dio? Prima di tutto Kant è convinto che la
metafisica non può far proprie le istanze metodologiche della
matematica, perché «la smania del metodo, l’imitazione del
matematico che si avanza sicuro su ben costrutta strada ha,
sullo sdrucciolevole terreno della metafisica, causato dalla
moltitudine di tali passi falsi, che, per quanto continuamente
presenti ai nostri occhi, pure lascian poco sperare che
s’apprenda da essi a star sull’avviso e ad esser più accorti»14.
Inoltre, secondo il filosofo sussiste una differenza di natura tra
metafisica e matematica che non permette alla prima di
adoperare il metodo della seconda. Ora se il metodo della
matematica non va bene in metafisica, quale metodo bisogna
utilizzare nelle indagini speculative? Il metodo della scienza
naturale, cioè della fisica. Ma cerchiamo di esaminare le
69
affermazioni kantiane nel seguito dell’opera e cerchiamo di
capire le motivazioni profonde della scelta kantiana di una tale
istanza metodologica. Dichiara il pensatore tedesco che «nel
metodo (Verfahren) della corretta filosofia domina una regola
(Regel) sempre osservata in pratica, anche se formalmente
non espressa: in ogni ricerca delle cause di certi effetti si deve
star molto attenti a conservare per quanto è possibile l’unità
della natura, cioè a dedurre da un unico principio già
conosciuto effetti vari, e non ammettere subito, nuove e diverse
cause agenti per diversi effetti»15. Sembra che la filosofia
speculativa sia più vicine alle indagini della fisica, perché in
entrambe si muove dall’analisi dei fenomeni naturali,
considerati come effetti, per poi giungere alle cause. Dunque,
se la metafisica adotta le istanze metodologiche della scienza
naturale, deve indagare l’esistenza di Dio facendo leva sul
nesso causa-effetto. Perciò il principio espresso sopra, non è
altro che una riformulazione del rasoio di Ockam — presente
anche nelle regulae philosophandi di Newton16 — il quale può
trovare una sua applicazione anche nell’ambito delle ricerche
speculative.
Maggiori indicazioni sul rapporto tra metodo e
metafisica, si possono trovare nello scritto kantiano Indagine
sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della
morale. Nel 1763 l’Accademia delle Scienze di Berlino bandì
un concorso per la classe di filosofia, il tema proposto
riguardava lo studio del grado di certezza delle verità
metafisiche rispetto a quelle geometriche, inoltre, chiedeva di
analizzare la natura della certezza metafisica. Il saggio
kantiano sulla distinzione dei principi della teologia naturale e
della morale è originato da tale questione. Il filosofo afferma
che il tema proposto dall’Accademia berlinese è della massima
importanza per le sorti della metafisica: «il quesito proposto è
tale che, se lo si risolve in maniera adeguata, la filosofia
70
superiore [metafisica] ne avrà una forma definita»17. Continua
poi il filosofo :
Quando sarà fissato il metodo per mezzo del
quale si potrà ottenere la massima certezza possibile in
questo genere di conoscenza, […] un norma dottrinaria
immutabile, in luogo del perpetuo oscillare di opinioni e di
correnti scolastiche, dovrà unire tutti i pensatori in uno
sforzo comune; così come il metodo di Newton nelle
scienze naturali ha trasformato la sregolatezza delle
ipotesi fisiche in un procedere sicuro secondo i dettami
dell’esperienza e della geometria. Ma quale metodo di
insegnamento dovrà avere questa trattazione stessa, in
cui si vuole indicare alla metafisica il suo vero grado di
certezza nonché la via per arrivarvi?18
In
questo
brano
appare
chiaramente
la
tematizzazione dei rapporti tra metodo e metafisica. La scelta
di un metodo valido non solo gioverà alla comunità filosofica, la
quale potrà pervenire quella unità che contraddistingue l’ambito
delle scienze esatte, ma gioverà alla stessa metafisica che
potrà conseguire un grado di certezza mai raggiunto prima. Ma
il brano citato si chiude con una domanda su quale sia il
metodo da adoperare nelle ricerche metafisiche. Per
rispondere a tale domanda Kant muove le sue argomentazioni,
confrontando il metodo adoperato in matematica per giungere
alla certezza, rispetto a quello adoperato in filosofia19. Secondo
il filosofo si può cogliere tale differenza enucleando le diverse
modalità con le quali matematica e metafisica giungono alla
definizione di un concetto. In filosofia si perviene alla
definizione di un concetto isolando, comparando e riflettendo
sulle note che lo compongono; mentre, in matematica, la
definizione di un concetto è un processo genetico,
71
contemporaneo alla stessa nozione da definire. Infatti, afferma
il filosofo che si può pervenire ad un concetto generale
o attraverso un collegamento arbitrario dei
concetti, oppure isolando quelle conoscenze che sono
state chiarite per suddivisione. La matematica arriva
sempre alle sue definizioni seguendo la prima
strada.[…]Il concetto che io spiego [in matematica] in tal
modo non è dato prima della definizione, ma nasce da
essa. In genere un cono può significare tutto ciò che si
vuole, ma in matematica nasce dalla rappresentazione
arbitraria di un triangolo rettangolo che ruota attorno a
uno dei lati. È evidente che in questo caso e in tutti gli
altri la spiegazione è originata dalla sintesi.20
Mentre per le definizioni filosofiche
il concetto delle cose è già dato, ma in modo
confuso e non sufficientemente determinato. Bisogna
suddividerlo, confrontare nei vari casi le note che si sono
separate con il concetto dato, per poi determinare e
render compiuta questa idea astratta. […] Occorre
considerare questa idea nelle sue varie relazioni onde
scoprire per suddivisione le sue note, collegare tra loro
varie note astratte da essa onde vedere se risultano in un
concetto sufficiente, e poi confrontarle per vedere se per
caso l’una non racchiuda parzialmente in sé le altre. 21
La matematica e la filosofia si distinguono nel modo in
cui giungono ai concetti generali: la prima per sintesi arbitraria;
la seconda per analisi. La distinzione che introduce Kant non è
di poco conto, perché si colloca in una posizione opposta
rispetto alla tradizione speculativa di matrice leibnizianowolffiana. Inoltre l’apporto del filosofo non si riduceva ad
72
accogliere istanze teoretiche presenti nei filosofi a lui coevi o di
poco precedenti, come Rüdiger e Crusius, ma risulta di gran
lunga più originale, perché individua differenze strutturali tra
metafisica e matematica. Infatti, secondo Kant la differenza tra
matematica e metafisica non si riduce alla diversa formazione
dei concetti ( tramite sintesi nella prima, tramite analisi nella
seconda) ma si spiega tenendo presente anche il modo di
rappresentare il concetto. Kant riconduce le differenti modalità
argomentative delle due discipline a due diverse modalità che
ha il soggetto di rappresentare un concetto generale: i concetti
matematici generali sono suscettibili di essere rappresentati in
concreto; mentre i concetti generali in metafisica sono
rappresentati in astratto. Inoltre, in matematica, qualora si
faccia uso di segni per rappresentare le nozioni comuni, come
nell’algebra, questi segni hanno un rapporto univoco con la
cosa che rappresentano. Viceversa, i concetti filosofici, i quali
non sono rappresentabili che in astratto, adoperano le parole
come segni, ma da ciò ne discende che il rapporto tra
significato e significante ne è sempre inficiato, perché spesso
si usano i medesimi termini per indicare concetti simili. Questo
differente rapporto che hanno la matematica e la metafisica
con i concetti universali si traduce nell’impossibilità della
seconda di seguire il metodo della prima. Tale differenza
metodologica tra queste due discipline, non solo non permette
alla prima di seguire il metodo della seconda, ma si fa ancora
più palese quando si giudica la filosofia guardando al risultato.
Infatti, amaramente, afferma Kant: «le conoscenze filosofiche
per lo più hanno il destino delle opinioni e sono come meteore
il cui sfavillio non promette lunga durata: Esse scompaiono
mentre la matematica resta. Senza alcun dubbio la metafisica
è la più difficile di tutte le scienze umane: solo che non ne è
stata ancora scritta mai nessuna»22.
Ma la chiusura pessimistica della prima meditazione
del saggio kantiano, viene subito smentita dal filosofo stesso.
73
Infatti, nella seconda meditazione, Kant afferma che è possibile
pervenire ad un buon grado di certezza nelle definizioni
filosofiche, adoperando un nuovo metodo, il quale è «in fondo
uguale a quello introdotto dal Newton nelle scienze naturali, e
che vi è stato di tanta utilità. Ivi è detto che con esperienze
sicure, e nel caso anche con l’ausilio della geometria, si
devono ricercare le regole secondo le quali si svolgono certi
fenomeni della natura»23. Parimenti bisogna procedere in
metafisica: «mediante una sicura esperienza interna, cioè
mediante una coscienza immediata ed evidente, bisogna
ricercare quelle note che sicuramente si trovano nel concetto di
una qualche qualità generale, e quand’anche non si conosce
l’essere intero dell’oggetto, pure ci si potrà servire con
sicurezza di quelle note per derivare molti elementi della
cosa»24. Il filosofo assimila il metodo della metafisica a quello
newtoniano. Ciò è possibile facendo leva su un dato euristico
comune tra metafisica e filosofia naturale: l’analisi dei
fenomeni. Dunque, mutando metodo è possibile scrivere una
metafisica, ma non come scienza dell’incondizionato, ma come
«la scienza dei primi principi della conoscenza»25, poiché il suo
oggetto di indagine sono gli atti della mente, i quali a loro volta
possono essere assimilati ai fenomeni studiati dal fisico. Il
fenomeno mentale e il fenomeno naturale sono parimenti dati
che si presentano all’apparato percettivo del soggetto
indagante. I fenomeni studiati in entrambe le discipline sono
dati oggettivi: non possono essere costruiti dall’osservatore.
Molto probabilmente, Kant ha presente le pagine che lo
scienziato di Cambridge dedica all’analisi del moto dei corpi: il
fenomeno naturale viene scomposto nelle forze a cui è
soggetto. Ora anche il filosofo è chiamato a svolgere un studio
simile a quello del fisico. Ma come? Il filosofo deve muovere
dal quelle note del concetto che percepisce in modo chiaro ed
evidente, sicché una volta che è pervenuto a questa certezza
interiore, può dedurre le altre note della nozione generale e
74
passare a definire il concetto dato. Ma tale processo a sua
volta si fonda sulla natura della mente umana, la quale,
essendo assimilabile a qualsiasi altro fenomeno naturale, è
«sottoposta a certe regole»26.
2.
Dalla Dottrina trascendentale del metodo
alla rivoluzione copernicana
L’elaborazione teoretica dei concetti di metodo e
metafisica durante il periodo precritico si presenta sotto diversi
aspetti contigua a quella del periodo critico27. Nel corso degli
anni ’60, il filosofo era giunto ad una serie di convinzioni sulla
natura della metafisica e sulla funzione del metodo. Inoltre, il
pensatore tedesco aveva considerato anche i rapporti tra
metafisica e metodo ed aveva individuato nell’uso del metodo
matematico in metafisica, uno degli errori più comuni che
inficiava le argomentazioni filosofiche, condannando la
metafisica ad un situazione di stallo. Per uscire da questa
impasse, il filosofo proponeva di adottare nelle ricerche
speculative il metodo della fisica, un metodo, il cui procedere
analitico, si poneva agli antipodi del procedere sintetico della
matematica. Inoltre, presente in molti degli scritti precritici, era
la consapevolezza di Kant di trovarsi in un’epoca storica dove
la crisi della metafisica aveva assunto una portata di carattere
epocale, alla quale bisognava porre assolutamente rimedio28.
Ora gli esisti a cui era pervenuto il filosofo nella sua
speculazione, legata al periodo precritico, sulla natura del
metodo, della metafisica e sul loro rapporto, non avendo
assunto un carattere definitivo, erano di per sé suscettibili di
nuovi sviluppi. Infatti, considerata da questa prospettiva la
75
Critica della ragion pura sviluppa e amplia istanze già presenti
nel periodo precritico, in modo particolare nella Dottrina
trascendentale del metodo.
Kant definisce la dottrina trascendentale del metodo
come «la determinazione delle condizioni formali di un sistema
completo della ragion pura »29. Dunque sembrerebbe che lo
scopo che deve assumere questa seconda parte dell’opera
kantiana sia volta a individuare non tanto una serie di regole,
ma una serie di condizioni, le quali, una volta soddisfatte,
consentano di progettare un sistema. Ora queste condizioni
hanno un carattere formale, perché non riguardano il
contenuto, dunque sono condizioni negative: prescrivono alla
ragione ciò che non deve fare se vuole pervenire alla
costituzione di un sistema. Tali condizioni negativa vengono
trattate dal filosofo nel primo capitolo della Dottrina
trascendentale del metodo: la Disciplina della ragion pura. Il
concetto di disciplina, prescrivendo ciò che non va fatto, è per
sua stessa definizione un concetto negativo. Il capitolo sulla
Disciplina della ragion pura si articola a sua volta in quattro
sezioni. Nella prima sezione (la disciplina della ragion pura
nell’uso dogmatico) il filosofo tematizza quella forma di
disciplina che la ragione si deve autoimporre, quando vuole
adottare un metodo rigorosamente dimostrativo (dogmatico)
secondo principi apodittici. Kant è dell’avviso che la ragione
nelle dimostrazioni matematiche adotta un procedimento
argomentativo, il quale non può essere mutuato nelle ricerche
speculative. Secondo il filosofo:
la matematica fornisce l’esempio più
luminoso di una ragione che si estende felicemente
da sé senza aiuto dell’esperienza. Gli esempi sono
contagiosi, segnatamente per la medesima facoltà,
che naturalmente si lusinga di avere in altri casi
quella stessa fortuna che le è toccata in uno.
76
Quindi la ragione pura spera potersi estendere
nell’uso trascendentale altrettanto felicemente e
fondatamente, quanto le è accaduto nell’uso
matematico, specialmente se essa applica lì lo
stesso metodo, che qui è stato di così evidente
utilità.30
Kant riprende un tema che aveva già affrontato negli
scritti precritici: l’uso del metodo matematico in metafisica.
Negli scritti precritici aveva affermato che non si poteva
adoperare nella speculazione il metodo adoperato in
matematica, perché in matematica il concetto universale viene
costruito, mentre in metafisica il concetto universale viene
scomposto nelle sue note. Ora nel passo che abbiamo citato
Kant, non solo tiene presente il risultato delle sue ricerche degli
anni ’60, ma avanza un’ipotesi sulla radice di questa seduzione
metodologica — “gli esempi sono contagiosi” — che affetta la
ragione nel suo speculativo. Nella matematica e nella
metafisica vi è un uso puro della ragione, quindi la ragione
crede di poter adottare il medesimo metodo nella sue ricerche
su Dio, l’anima e il mondo. La questione metodologica viene
ricondotta dal filosofo alla struttura del soggetto conoscente.
Ma vediamo come il pensatore tedesco tenga insieme il
risultato, a cui era pervenuto nel corso degli anni ’60, e la
nuova soluzione a cui è giunto nella prima Critica:
la conoscenza filosofica è conoscenza
razionale per concetti, la matematica per
costruzione di concetti. Ora, costruire un concetto
significa:
esporre
a
priori
un’intuizione
[Anschauung] a esso corrispondente. Per la
costruzione di un concetto si richiede dunque
un’intuizione non empirica, che per conseguenza,
in quanto intuizione, è un oggetto singolo, ma deve
77
nondimeno, come costruzione d’un concetto (di una
rappresentazione universale), esprimere nella
rappresentazione qualche cosa che valga
universalmente per tutte le intuizioni possibili,
appartenenti allo stesso concetto. Così io
costruisco un triangolo, rappresentando un oggetto
corrispondente a questo concetto mercé la
semplice immaginazione (Einbildung) nell’intuizione
pura, o, secondo questa, anche sulla carta
nell’intuizione empirica, ma ambedue le volte del
tutto a priori, senza averne tolto il modello da
nessuna esperienza. La singola figura descritta è
empirica, e nondimeno serve ad esprimere il
concetto senza pregiudizio della sua universalità,
poiché in questa intuizione empirica si guarda
sempre all’operazione (Handlung) della costruzione
del concetto.31
Alla base del metodo matematico vi è un uso puro
della ragione, ma tale uso non può essere traslato nel campo
della metafisica32. Ora, il Kant precritico era giunto già a questa
conclusione (come abbiamo fatto presente sopra), infatti si era
limitato ad indicare l’origine di tale impossibilità (di mutuate il
metodo matematico nel campo speculativo) nell’uso delle
nozioni universali — la matematica avanza per costruzione di
concetti, tramite una sintesi arbitraria, la filosofia per
scomposizione dei medesimi — . Il Kant critico, a differenza di
quello precritico, individua la radice di questi due diversi usi
puri della ragione33. La ragione in matematica gode della
possibilità di mostrare il concetto nell’intuizione, lo può
rappresentare in concreto. Il concetto può essere raffigurato
sensibilmente, tramite un’intuizione a priori. Quando il
matematico pensa un concetto può costruirlo nell’intuizione. Il
matematico ha il vantaggio di poter far leva su un molteplice
78
puro a priori (presentato da spazio e tempo, forme pure
dell’intuizione), indipendente dall’esperienza, dunque, pur
muovendosi dentro la sua mente ne esce fuori, proprio perché i
concetti geometrici, come i concetti aritmetici, sono suscettibili
di essere raffigurati, nell’atto stesso nel quale vengono
pensati34. Nell’uso matematico la ragione non è solo in
rapporto con sé, come in metafisica, ma è in rapporto ad altre
facoltà: l’intuizione e l’immaginazione35. Ma queste facoltà, pur
essendo
indipendenti
dall’esperienza,
permettono
al
matematico di dimostrare in modo empirico le sue scoperte.
Ma allora perché il momento empirico (il disegno della figura
geometrica sul foglio, il semplice calcolo aritmetico svolto alla
lavagna), necessario al matematico per comunicare la sua
scoperta, non inficia l’universalità del concetto che rende noto?
La risposta di Kant è sorprendente: nell’intuizione empirica che
permette al matematico di mostrare la sua scoperta “si guarda
sempre all’operazione della costruzione del concetto”.
L’universalità non è situata nel concetto, ma riposa nell’uso a
priori delle facoltà che hanno dato luogo alla costruzione del
concetto, ma questa costruzione in matematica equivale alla
definizione36. Ora la distinzione kantiana tra i diversi usi puri
della ragione, la quale non permette alla metafisica di seguire il
metodo della matematica, è fondata (nelle due discipline) dal
diverso rapporto tra le facoltà del soggetto conoscente con il
concetto generale rappresentato e intenzionato, ma tale studio
kantiano delle facoltà e il relativo iato metodologico che esso
comporta sono a loro volta il frutto di una scelta metodologica.
La critica della ragion pura è «trattato sul metodo»37. Questo
metodo che essa pone ad oggetto delle sue ricerche è la
rivoluzione copernicana attuata dalla matematica e dalla fisica,
la quale deve essere mutuata entro il campo delle ricerche
speculative38. Ma allora le argomentazioni kantiane sembrano
assumere un carattere circolare: la metafisica non può seguire
il metodo matematico, ma tale impossibilità — fondata sulla
79
natura e l’uso delle facoltà del soggetto conoscente — è stata
possibile proprio seguendo il metodo matematico. Si aprono
due vie all’interprete: o nell’argomentazione kantiana, sulla
quale si regge la distinzione metodologica matematicametafisica è celata una contraddizione, perché la metafisica vi
perviene assumendo un metodo che poi dice di non poter
seguire; oppure i termini usati dal filosofo assumono un valore
diverso, nei diversi luoghi dove vengono adottati.
Noi proveremo a seguire la seconda via. L’accezione
metodo va intesa almeno in due sensi. Nel primo deve essere
inteso come un procedimento argomentativo: le modalità con le
quali si attua una dimostrazione39. In un secondo significato si
intende la logica della scoperta. Dunque, il metodo assume
una duplice valenza: dimostrativa ed euristica. Questi due
significati non si elidono, ma si conciliano. La difficoltà nel
distinguere i due momenti è data dalla natura stessa della
matematica (e della fisica moderna), dove i due momenti
metodologici si implicano vicendevolmente. Kant scinde qusti
due aspetti del metodo, e ne analizza gli effetti quando questi
vengono mutuati entro il campo delle ricerche speculative.
Secondo Kant la metafisica non può adoperare il metodo
argomentativo della matematica — come ha dimostrato nella
Disciplina della ragione nel suo dogmatico — ; mentre se
adotta il metodo euristico-gnoseologico (la rivoluzione
copernicana), implicito in ogni dimostrazione, calcolo aritmetico
o esperimento fisico, la metafisica può pervenire ad un grado
di certezza paragonabile a quello raggiunto dalla scienze
esatte. Inoltre Kant mette in relazione questi due aspetti del
metodo con i due significati di metafisica, presenti nella
tradizione speculativa dell’Aufklärung : metafisica generale o
ontologia; metafisica speciale40. Con il primo significato del
termine si intende la teoria dell’ente in quanto ente; mentre con
il secondo si intende la scienza dell’incondizionato
(cosmologia, psicologia, teologia). Ora è nel campo della
80
metafisica generale che il metodo di pensare, proprio della
matematica e della fisica permette all’ontologia di conseguire
un grado di certezza paragonabile a quello delle scienze.
La critica della ragione pura deve attuare quella
svolta nel modo di pensare che ha fatto progredire matematica
e fisica: «il mutato metodo nel modo di pensare, e cioè: che nei
delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che
noi vi mettiamo»41. Ora « in metafisica [metafisica generale] si
può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda
l’intuizione degli oggetti. Se l’intuizione si deve regolare sulla
natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe saperne
qualcosa a priori; se l’oggetto invece (in quanto oggetto del
senso) si regola sulla natura della nostra facoltà intuitiva, mi
posso benissimo rappresentare questa possibilità»42
e lo
stesso si può dire dei concetti dell’intelletto, sui quali si devono
regolare gli oggetti dell’esperienza, perché l’esperienza «è un
modo di conoscenza che richiede il concorso dell’intelletto, del
quale devo presupporre in me stesso la regola prima che gli
oggetti[dell’esperienza] mi siano dati e perciò a priori; e questa
regola si esprime in concetti a priori, sui quali tutti gli oggetti
dell’esperienza devono necessariamente regolarsi»43. Il
discorso kantiano non presuppone tanto lo studio della
sensibilità e dell’intelletto, ma piuttosto presuppone la svolta
metodologica attuata dal filosofo, perché se si studiassero le
facoltà del soggetto conoscente in modo pre-critico, esse
dovrebbero adeguarsi all’oggetto, quindi non potrebbero
fondare una conoscenza a priori, ma una conoscenza sempre
passibile di continue revisioni e aggiunte, in quanto dipendente
dalle mutevoli manifestazioni dell’oggetto esterno (considerato
come cosa in sé).
Perciò l’attuazione della rivoluzione copernicana è
«conforme al desiderio [della ragione], e promette alla
metafisica, nella sua prima parte , dove ella si occupa dei
concetti a priori, di cui possono esser dati nell’esperienza
81
oggetti ad essa adeguati, il cammino sicuro di una scienza»44.
Il filosofo afferma che questo metodo riesce a soddisfare il
desiderio della ragione di una metafisica come scienza, ma
questo risultato deve essere limitato solo alla sua prima parte,
cioè alla metafisica generale.
Dunque è proprio Kant ad
affermare che la svolta metodologica, mutuata entro le ricerche
speculative comporta un risultato positivo. Il filosofo, per un
verso ha esplicitato un presupposto metodologico comune alla
matematica e della fisica (che gli oggetti dell’esperienza
devono regolarsi sulla struttura gnoseologica del soggetto
conoscente ); per un altro, tramite la sua opera, tenta di
fondare e di legittimare questo presupposto non dichiarato
delle scienze esatte. Infatti Kant sostiene che questo mutato
metodo di pensare comporta due risultati: la possibilità di una
conoscenza a priori; la legittimazione delle leggi a priori della
natura45. Ora questi due esiti sono il frutto di una medesima
ricerca: la Dottrina trascendentale degli elementi. Ma allora si
chiariscono meglio — alla luce della nozione di metodo — due
aspetti. In primo luogo, va notato che il significato della
definizione kantiana attribuita della Dottrina trascendentale del
metodo — come ricerca volta a definire le condizioni formali di
un sistema della ragione — deve essere considerato contiguo
e complementare alla Dottrina trascendentale degli elementi,
perché, indicando le condizioni materiali, sostanziali di un
sistema della ragione (le articolazione della facoltà
conoscitiva), assolve in modo diverso alla medesima funzione
metodologica. Poi va osservato che, una tale bi-partizione
della Critica della ragione pura, pur rispondendo ad una duplice
esigenza metodologica, si origina da un solo principio
metodologico: la rivoluzione copernicana.
82
Conclusione
Dunque se la metafisica in generale è possibile come
scienza, grazie ad un metodo valido — la rivoluzione
copernicana — , il metodo assumerà nei confronti della
metafisica il compito di fondarla, sicché il metodo si fa esso
stesso metafisica, momento costitutivo della sua genesi. Perciò
il filosofo definirà in una lettera a Marcus Herz il metodo «la
metafisica della metafisica»46.
Agli inizi della speculazione moderna il metodo
appariva un strumento epistemologico importato da un campo
in parte eterogeneo alle discipline filosofiche, sicché sembrava
che il compito dei filosofi si esaurisse nella capacità di
apprendere il metodo e trasferirlo nelle loro ricerche
metafisiche. Ma tale presupposto di fondo della speculazione in
età moderna, viene completamente rovesciato nel criticismo:
nella scienza, come nella matematica, è presente un dato
metodologico, ma questo dato metodologico nel momento in
cui viene enucleato ed esaminato dal lavoro del filosofo, si
invera come dato metafisico. La polarità metodo-metafisica che
aveva contrassegnato in modo inequivocabile i tratti dell’età
moderna, viene superata dal criticismo kantiano, Infatti allo
sguardo del filosofo, il metodo è metafisica, sia nel momento in
cui si palesa il suo valore euristico nelle scienze, sia quando
viene assunto come un particolare modo di indagine
teoretica(la presenza della Rivoluzione copernicana attuata in
modo inconsapevole nella matematica e nella fisica, attuata in
modo consapevole in metafisica). Parimenti la metafisica è
metodo nel momento in cui manifesta il suo valore fondativo,
rispetto alle scienze, quando assume come suo compito
l’analisi della ragione umana e infine quando mostra
storicamente che la ragione umana47, in ogni filosofia nella
quale si è manifestata, si è data sempre un metodo, in quanto il
83
metodo in fondo è sempre cooriginario alla ragione umana e
quindi ineludibile in ogni questione metafisica.
1
Ritenendo ormai superata sul piano storiografico la distinzione
scolastica dei filosofi dell’età moderna in empiristi e razionalisti,
preferiamo adoperare il termine “filosofi dell’età moderna” per
indicare gli autori che hanno contrassegnato lo sviluppo del pensiero
filosofico e scientifico tra il XVII secolo e il XVIII secolo. Tale
accezione ci sembra che restituisca meglio l’idea di una comune
temperie speculativa entro cui si muovono gli autori di suddetto
periodo, cfr., S. Vanni Rovighi, Storia della filosofia moderna, Brescia,
La scuola, 1976; C. Esposito, Filosofia moderna, Milano, Raffaello
Cortina editore, 1997; S. D’Agostino, Sistemi filosofici moderni, Pisa,
Ets, 2013.
2
A tal proposito si tenga presente sia il passo del Discorso sul
metodo dove Cartesio dichiara le sue riserve sul valore euristico della
logica tradizionale: «la logica e i suoi sillogismi e la maggior parte
degli altri suoi ammaestramenti servono piuttosto a spiegare agli altri
le cose che già si sanno» A.T. VI, p.17, tr.it. a cura di L. Urbani Ulivi,
Milano, Rusconi, 1997, p.19 .
3
Per quanto riguarda il periodo precritico di Kant abbiamo tenuto
presente la seguente bibliografia:M. Campo, La genesi del criticismo
kantiano, Varese 1953; E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, tr.it. a
cura di M. Dal Pra, Firenze, La Nuova Italia, 1997; H.J. De
Vleeschauwer, L’evoluzione del pensiero di Kant, tr. it. a cura di A.
Fadini, Bari-Roma, Laterza, 1976; G.Tonelli, Elementi metodologici e
metafisici in Kant dal 1745 al 1768: saggio di sociologia della
conoscenza, Torino, Edizioni di filosofia, 1959; S. Vanni Rovighi,
Introduzione allo studio di Kant, Bresci, La Scuola Editrice, 1968; A.
Lamacchia, La filosofia della religione in Kant, Bari, Lacaita, 1969; A.
Lamacchia, Bari, Percorsi kantiani, 1990; P.Basso, Il secolo
geometrico la questione del metodo matematico in filosofia da
Spinoza a Kant, Firenze, Le Lettere, 2004, pp. 187-203. Per quanto
84
riguarda la letteratura straniera,vanno tenuti presenti due studi che
insistono con particolare attenzione sulla questione del metodo e
sull’importanza da attribuire alla fase precritica nel sviluppo del
criticismo: Schönfeld, Martin. The Young Kant: The Precritical
Project. Oxford: Oxfor University Press, 2000; Rockmore, Tom,
editor. New Essays on the Precritical Kant. Amherst, NY:Humanity
Books, 2001.
4
Cfr., R. Ciafardone, L’illuminismo tedesco: metodo filosofico e
premesse etico-teologiche(1690-1765) , Rieti, Il Velino, 1978; Id.,
L’illuminismo tedesco, Milano, Loescher, 1985.
5
Citiamo le opere di Kant facendo riferimento all’edizione
dell’Accademia di Berlino, Kant’s gesammelte Schriften(=KGS), hrsg.
von der Preußischen Akademie der Wissenschaften, Berlin 1902 ss,
indicando con cifra romana il numero del volume e con cifra araba il
numero di pagina; mentre per quanto riguarda la Critica della ragion
pura indicheremo con A la prima edizione e con B la seconda
edizione, secondo l’impaginazione originale. Per comodità
indicheremo prima la traduzione in lingua italiana delle opere di Kant
e tra parentesi tonde l’edizione in lingua originale. I. Kant, Pensieri
sulla vera valutazione delle forze vive, tr. it. a cura di I. Petrocchi,
Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2000, p. 120
(KGS I, 94).
6
Ivi, p. 121 (95).
7
La principale funzione che viene assegnata al metodo, dai filosofi
dell’età moderna, è catartica. Per rendersi conto di ciò basta un
semplice esame dei titoli delle principali opere della filosofia
moderna, per ravvisare in esse la presenza diretta o indiretta del
termine metodo:Cartesio (Discorso sul metodo), Spinoza (Trattato
sull’emendazione dell’intelletto) Hume (Trattato sulla natura umana,
per introdurre il metodo delle scienze sperimentali nelle discipline
morali).
8
I. Kant, Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, cit., p. 122
(KGS I, 97).
9
Bisogna tener presente quanto Kant ha dichiarato nel paragrafo 88
dei Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (che precede il
paragrafo citato): « si deve avere un metodo per mezzo del quale con
un attento esame generale dei princìpi su cui è stata costruita una
85
certa opinione e con il confronto degli stessi princìpi con la
conclusione che da essi trae, si possa inferire, in ogni caso, se anche
la natura delle premesse contiene in sé tutto quanto si richiede a
riguardo alle dottrine desunte da quelle premesse», cit., p. 120 (KGS.
I, 93).
10
Si tenga presente la celebre affermazione cartesiana : «Il buon
senso è la cosa meglio distribuita al mondo […] la capacità di
distinguere il vero dal falso, che è ciò che propriamente si chiama
buon senso o ragione , è naturalmente uguale in tutti gli uomini», A.T.
VI, 1-2, Discorso sul metodo, tr .it. a cura di Lucia Urbani Ulivi,
Milano, Rusconi, p. 13.
11
I. Kant, L’unico argomento per la dimostrazione di Dio, in Scritti
precritici, tr. it. a cura P. Carabellese, riveduta da H. Hohenegger e R.
Assunto, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp.105-106 (KGS, II 65-66) .
12
Queste relazione metaforica, istituita dal filosofo tra metafisica e
oceano, ritorna anche nel suo pensiero maturo, si tenga presente a
tal proposito ciò che dice il filosofo nel secondo libro dell’Analitica
trascendentale: «il territorio della verità, circondato da un oceano
vasto e tempestoso, il vero e proprio sito della parvenza, lì dove molti
banchi di nebbia , e i ghiacci che vanno disciogliendosi simulano
nuovi territori» , I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. a cura di G.
Gentile e G. Lombardo-Radice, rivista da V. Mathieu, Bari-Roma,
Laterza, 2000, p. 451 (A236/B295).
13
E. Kant, L’unico argomento per una dimostrazione dell’esistenza di
Dio, cit., p. 108 (KGS, II, 68)
14
Ivi., p. 112 (72).
15
Ivi, p. 157 (113).
16
Si tenga presente la prima regola del metodo sperimentale
secondo lo scienziato inglese: «delle cose naturali non devono
essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e
bastano a spiegare i fenomeni», I. Newton, Principi matematici della
filosofia della natura, tr. it. a cura di A. Pala, Utet, Torino 1965, p.
605.
17
I. Kant, Indagine sulla distinzione dei principi della teologia
naturale e della morale, in Scritti precritici, cit., p. 217 (KGS, II, 27).
18
Ibidem.
86
19
Kant adopera il termine filosofia sia come sinonimo di metafisica,
sia come l’insieme di tutte le discipline filosofiche. Inoltre, si tenga
presente ciò che afferma Kant nella prima parte dello scritto in
questione dove il filosofo adopera il termine filosofia come concetto
più vasto che comprende sotto di sé il termine metafisica. Infatti,
dichiara Kant: «Se ora guardiamo alla filosofia, qual è la differenza
che salta agli occhi? In tutte le sue discipline, e specialmente nella
metafisica, ogni suddivisione che può aver luogo è anche
necessaria» Ivi, p.223 (280). Inoltre, nella seconda parte dello scritto
definisce la metafisica come «una filosofia sui primi principi della
nostra conoscenza; ciò che quindi è stato esposto nella meditazione
precedente circa il confronto tra conoscenza matematica e filosofia,
avrà valore anche nei riguardi della metafisica» Ivi, p. 227 (283).
20
Ivi, 219 (207).
21
Ibidem.
22
Ivi, p. 226 (283).
23
Ivi, p. 230 (286).
24
Ibidem.
25
Ivi, p. 227(284).
26
Ivi, p. 235(291).
27
Per quanto riguarda il rapporto tra metodo e metafisica nella Critica
della ragion pura si veda: E. Cassirer, Storia della filosofia moderna,
vol.II, tomo terzo, tr.it. a cura di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1978; M.
Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr.it. a cura di M.E.
Reina, Laterza, Bari-Roma 2000; M. Barale, Kant e il metodo della
filosofia, Ets, Pisa 1988. Sui rapporti tra metodo e metafisica in
ambito precritico si tengano presente G. Tonelli, Elementi
metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768, cit., e M. Sgarbi,
2010. Per quanto riguarda la letteratura secondaria straniera vanno
tenuti presenti i seguenti studi: Heinrich, Dieter. “Kant’s Notion of a
Deduction and the Methodological Backgroundof the First Critique.”
In Kant’s Transcendental Deductions, ed. E.Förster, pp. 29–46.
Stanford: Stanford University Press, 1989 Ameriks, Karl. “The
Critique of Metaphysics: Kant and Traditional Ontology.” In The
Cambridge Companion to Kant, ed. Paul Guyer. Cambridge:
Cambridge University Press, 1992; Chenet François-Xavier, L’assise
de l’ontologie critique: l’esthétique transcendental, Lille, Presses
87
Universitaries de Lille, 1994; Kuhen M., Watkins E., Kant's Critique of
Pure Reason: Background Source Materials, Cambridge, Cambridge
University Press, 2009.
28
Cfr., R. Ciafardone, La Critica della ragion pura di Kant.
Introduzione alla lettura, Milano, Carocci editore, 1996, pp. 48-54.
29
I. Kant, , Critica della ragion pura, cit., p. 443(A708/B736).
30
Ivi, 446, (A713/B741).
31
Ibidem.
32
Cfr., in particolare sulla matematica nella Dottrina trascendentale
del metodo: Kant’ philosophy of mathemtics. Modern Essays, a cura
di; G. Brittan, Kluwer, Dordrecht 1992; Lisa Shabel, Kant on the
‘Symbolic Construction’ of Mathematical Concepts, “Studies in
History and Philosophy of Science”, 29 (1998), pp. 589-621, 1998;
Kant’s Philosophy of Mathematics, in A companion to Kant, a cura di
G. Bird, Malden, Blackwell Publishing Ltd, pp. 222-236, 2006; L.
Shabel, Kant’s Philosophy of Mathematics, in P. Guyer (cur.), The
Cambridge Companion to Kant and Modern Philosophy, Cambridge
University Press, Cambridge 2006, 94-128. Per l’influsso di Segner
sulla concezione kantiana della matematica e per un aggiornamento
bibliografico, cfr., M. Sgarbi, Matematica e filosofia trascendentale in
Kant.Note a margine di una fonte dimenticata della Kritik der reinen
Vernunft, in “Philosophical Readings”, II,1, (2010) pp. 209-225.
33
Può apparire singolare l’accezione kantiana del termine ragione in
questo contesto, perché assegna a questa facoltà funzioni che sono
proprie dell’intelletto come la costruzione simbolico-ostensiva, propria
dell’uso dell’intelletto in matematica. Ma il filosofo sta adoperando il
termine ragione in senso lato, quindi è incluso anche l’intelletto in
quest’accezione della facoltà ragione. Inoltre, bisogna tener presente
che in entrambe le facoltà è possibile una costruzione concettuale,
cfr., G. Giannetto, Pensiero e disegno. Leibniz e Kant, Napoli,
Loffredo editore, 1990, p.196. Dunque è opportuno che l’interprete
consideri in questo contesto anche l’Analitica trascendentale.
34
Cfr., «Io non mi posso rappresentare una linea, per piccola che sia,
senza tracciarla nel pensiero» p.150(A163/B204).
35
Cfr., «su questa sintesi successiva dell’immaginazione produttiva
nella produzione delle figure si fonda la matematica dell’estensione
(geometria)» Ibidem.
88
36
Si tenga presente la precisazione kantiana: « questo singolo[la
figura geometrica o il numero] è determinato da certe condizioni
universali della costruzione», Ivi, 447 (A714/B742).
37
Ivi, p. 20 (BXXIII).
38
«In quel tentativo di cambiare il procedimento seguito fin qui in
metafisica, e proprio nel senso di operare in essa una completa
rivoluzione seguendo l’esempio dei geometri e dei fisici, consiste il
compito di questa critica della ragion pura speculativa» Ibidem.
39
«rispetto al metodo, se si vuol dare a un qualcosa questo nome,
deve essere un procedimento secondo principi» p. 521 (A856/B884).
Inoltre, si può intendere per metodo l’esposizione dell’ argomento
trattato, sicché si può parlare o di metodo sintetico o di metodo
analitico Cfr., I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica, tr. it. a
cura di P. Carabellese, Roma-Bari, Laterza, 2000, p.21(KGS, IV,
263).
40
Cfr., su i diversi significati metafisica, ontologia e trascendentale, I.
Kant, Realtà ed esistenza, a cura di A. Rigobello, , Torino, San Paolo
edizioni, 1998, (KGS, XXVII, 531-577).
41
I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Critica della ragion pura, cit.,
p.18 (B XX).
42
Ivi, pp.17-18 (B XIX-XX).
43
Ivi, p.18(BXX).
44
Ibidem.
45
Cfr., Ivi, pp.18-19(XX-XXI). Inoltre, si tenga presente ciò che
dichiara Kant riguardo all’effetto positivo della rivoluzione
copernicana sull’ontologia: « la metafisica ha anche la rara felicità,
della quale nessun altra scienza razionale, che abbia a che fare con
oggetti, può partecipare: che, se per mezzo di questa critica, vien
messa sulla via sicura della scienza, essa può abbracciare
completamente tutto il campo delle conoscenze che le
appartengono» Ibid., pp.20-21 (BXXIII-XXIV).
46
I. Kant, Epistolario, tr. it. a cura di O. Meo, Il melangolo, Genova
1990, p. 105 (X, 270).
47
In diversi luoghi della Critica della ragion pura, il filosofo tedesco
parla di tre momenti della storia della filosofia: dogmatismo;
scetticismo; criticismo. Ognuno si caratterizza per aver adottato un
particolare metodo e ciascuno rivela un aspetto della ragione. Si cfr.,
89
I. Kant, Critica della ragion pura, cit., pp. 6-7(AIX-AX) e pp.470472(A768/B796-A769/B797). Inoltre, bisogna tener presente che il
filosofo teorizza tre stadi che la filosofia deve attraversare per
giungere alla metafisica: «il primo fu lo stadio del dogmatismo, il
secondo dello scetticismo e il terzo quello del criticismo della ragion
pura», in Quali sono i reali progressi compiuti dalla metafisica dai
tempi di Leibniz e Wolff, in Scritti sul criticismo, tr. it. a cura di G. De
Flaviis, Bari-Roma, Laterza, 1991, p. 158 (KGS, XX, 264). Inoltre va
tenuto presente che questa successione non è arbitraria, perché è
fondata sulla natura della ragione umana, cfr., Ibidem.
90
La poetica del fanciullino di Pascoli e la filosofia della
rêverie di Bachelard
Alessandro Montagna
Introduzione
Lo scopo del presente articolo sarà quello di delineare
analogie tra la poetica pascoliana del fanciullino (teorizzata
dapprima sulla rivista Marzocco nel 1897, poi confluita nella
raccolta che reca il titolo di Pensieri e discorsi del 19071) e la
poetica della rêverie elaborata dal filosofo francese Gaston
Bachelard (Bar-sur-Aube 1884 – Parigi 1962) al momento di
dover sviluppare un progetto di comprensione del fenomeno
dell’immaginazione poetica.
Bachelard è un filosofo di formazione scientifica che per
ristrettezze economiche ha svolto dapprima il mestiere di
impiegato postale, per poi diventare, in seguito alla laurea in
matematica, docente di fisica e chimica nei licei, e
successivamente (nel frattempo si era laureato anche in
Filosofia), professore universitario di Filosofia, inizialmente a
Digione ed infine alla Sorbona di Parigi. I suoi interessi
spaziano con la massima flessibilità dalla scienza, alla
psicanalisi e, soprattutto, alla poesia2. Molti filosofi, letterati e
artisti (anche architetti3) si ritengono debitori di insegnamenti,
segno di una eredità filosofica di un considerevole spessore.
Nelle biografie di Bachelard si fa notare come il filosofo
titolare alla Sorbona della cattedra di Storia e filosofia della
scienza, avesse insistentemente voluto una cattedra in vista di
un corso libero il cui argomento fosse l’ambito
91
dell’immaginazione poetica4. Il termine rêverie attualmente e
volutamente non tradotto nelle opere di e su Bachelard
significa letteralmente “sogno”, “fantasticheria” nella lingua
italiana, anche se la portata del termine bachelardiano è
difficile da ridurre alla connotazione di uno tra i due termini
rilevati, in quanto sarebbe riduttivo.
Ad ogni modo, la figura letteraria del fanciullino è
strettamente connessa con la valorizzazione delle piccole cose
sostenuta a più riprese da Pascoli e che trova in Bachelard una
sorta di epigono sostenitore. Per questo motivo sarà dedicato
un capitolo, precisamente il terzo, ai simboli scelti per la
poetica pascoliana e gli studi sull’immaginario e dell’intuizione
poetica propri del Bachelard. Tutto questo condurrà a ripensare
alla scienza in senso meno rigido e pedissequo, in nome di una
valorizzazione delle esigenze spirituali della vita. A quest’ultimo
problema verrà dedicato il quarto capitolo del nostro studio.
92
1. Fanciullino e rêverie. Caratteristiche di un confronto
tra tematiche affini.
Le opere composte da Gaston Bachelard oggetto di
riferimento per instaurare una tale similitudine di motivi sono,
pertanto, relative alla produzione bachelardiana circa lo studio
degli archetipi di immaginazione (un filone che si sviluppa nella
tarda composizione bachelardiana e che si pone come
complementare agli studi dedicati, invece, al problema
epistemologico): L’intuizione dell’istante. La psicanalisi del
fuoco, Lautréamont, Psicanalisi delle acque, Psicanalisi
dell’aria, La terra e le forze, La terra e il riposo, La poetica dello
spazio, La poetica della rêverie, Il diritto di sognare, La fiamma
di una candela.
Per maggiori assonanze con le tematiche pascoliane
sarà data priorità d’analisi a La poetica dello spazio unita ad
alcuni contributi di un’altra opera, La poetica della rêverie, in
quanto oltre alle tematiche del sogno, si privilegia lo studio di
domini legati alle immagini di casa, nido, guscio, infanzia e
poesia particolarmente vicine ai simboli particolarmente
presenti e cari a Pascoli.
In queste opere scaturite dalla volontà espressa dal
filosofo docente della Sorbona di porre sotto la lente
d’ingrandimento le tematiche che fuoriescono dal dominio della
scienza, emerge lo studio della poesia come atto di meraviglia.
Quest’ultima si dimostra fonte di immaginazione e studiabile
tramite una sorta di fenomenologia dell’atto poetico e
interpretabile mutuando concetti dalla psicanalisi degli archetipi
individuali, nonché collettivi (soprattutto junghiana). Si può
sostenere che la domanda fondamentale che irrora e fa da filo
conduttore tra i vari testi che abbiamo citato poc’anzi è una
sola: “dove nasce la poesia”, e di conseguenza, qual è il suo
luogo di nascita e di elezione. Nell’opus di Bachelard vengono
indagati vari elementi fisici (i quattro elementi anticamente
intesi dai pre-socratici come arché, principio vitale), ma anche
e soprattutto, nella prospettiva strutturalista bachelardiana,
carichi di vissuto: sia l’acqua, sia lo spazio e l’immensità intima
della casa (terra), sia i grandi orizzonti del cielo (aria), sia,
infine, il fuoco che consuma come il tempo che passa.
Al momento di formulare delle argomentazioni a favore
delle proprie tesi, Bachelard ricorre sovente a metafore
poetiche e a stupori avvertiti dai filosofi dinnanzi ai grandi
fenomeni della natura. E’ effettivamente un carattere della
filosofia, così come della poesia, quello di stupirsi degli eventi
sorprendenti di ciò che ci circonda. Esse nascono entrambe
dalla meraviglia come ci ricorda Aristotele e la meraviglia
accomuna tutti gli uomini5, che di conseguenza sono filosofi e
poeti. Queste ultime due proprietà umane vengono spesso ad
accostarsi nel pensiero dello Stagirita, il quale reputa la poesia
più filosofica rispetto alla storia, in quanto essa descrive
93
l’universale piuttosto che il particolare (inscritto in uno spazio e
in tempo ben definiti)6. Con questa riflessione Aristotele viene
reputato il primo filosofo che giustifica il ricorso all’universo
della poesia, controbattendo l’ottica platonica (ben
esemplificata nel dialogo dello Ione7) che critica la poesia,
frutto non della ricerca della verità, bensì della volontà di
affascinare il lettore8.
La poetica del fanciullino consiste nella fuga nel mondo
dell’infanzia. In tal modo diviene possibile far scaturire temi e
simboli tipici della poesia molto cari a Pascoli, quali il nido (che
in Bachelard viene attribuito un capitolo ne La poetica dello
spazio), la casa, la siepe, la nebbia. Questi elementi riportano
ad un mondo chiuso, ricco di affetti, porto sicuro e rifugio dalla
violenza dilagante e malvagia. Pascoli risente del tramonto del
positivismo e delle tensioni sociali che poi portarono alla guerra
e cerca nella memoria e nell’orizzonte agreste un rifugio
consolatorio. Tipico del fanciullino (capp. I – III) è vedere tutto
ciò che lo circonda con meraviglia, scorgere la poesia nelle
cose stesse, nelle grandi come nelle più piccole. Proprio grazie
a queste piccole cose, Pascoli perviene a scoprire l’essenza
delle cose e la verità degli affetti. A tal proposito sia di stimolo
istaurare un parallelo con Gaston Bachelard. Egli,
analogamente al letterato italiano, ritiene che il poeta sia
capace di vedere la stessa cosa, sia con il microscopio che con
il telescopio9. Spesso Pascoli ripercorre con la memoria il
mondo agreste, che fa spesso da sfondo nelle sue poesie.
Il fanciullino è colui che parla ai sassi, agli animali e agli
alberi, mentre il sognatore bachelardiano viene interrogato e ha
come interlocutori oggetti quotidiani dimenticati, ma che
conservano il valore di testimonianza di passato e di senso.
Egli è inoltre in grado di commuoversi dinnanzi alle piccole
cose che gli suscitano forti emozioni.
Il poeta diviene tale solo quando dice ciò che il fanciullo
detta dentro (quello che gli ispira, cfr. cap. XI), analogamente a
94
come gli stilnovisti e Dante venivano ispirati dall’amore e dalla
visione della donna angelo. Il fanciullino pascoliano diventa
ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare. Il
poeta è solamente poeta, non è né un oratore né un
predicatore. Non è nemmeno un filosofo, non è uno storico, ma
nemmeno un maestro o un uomo di stato. A costruire il poeta
vale più il suo sentimento e la sua visione che il modo
mediante il quale li trasmette agli altri. Il poeta è in grado di
esprimere la parola che tutti avevano sulla punta della lingua,
ma che nessuno sarebbe riuscito a comunicare. Non è lui che
sale su di una sedia per arringare e per convincere gli altri che
lui solo possiede la verità. Egli, infatti, non trascina, ma è
trascinato, non persuade, ma è persuaso.
In Pascoli, come anche in Bachelard, si prende spunto
da immagini semplici legate a cose “umili” come oggetti
(Pascoli: bucato, aratro ecc… / Bachelard: cassapanche,
astucci, gusci ecc…), animali (Pascoli: galline, rondini ecc…
/Bachelard: paguro, tartaruga, uccelli ecc…), luoghi e usi e
costumi semplici. Entrambi questi autori provengono da
famiglie di umili origini e talvolta rievocano con emozione la vita
contadina. Bachelard nacque a Bar-sur-Aube, nella regione
dello Champagne, nella Francia meridionale, mentre il Pascoli
a San Mauro di Romagna. La realtà contadina e la casa natale
diventano una sorta di baluardo inattaccabile, regioni degli
affetti ed emblemi di significati e valori fondamentali. Bachelard
rievoca la sua casa ormai onirica, il suo primo universo del
mondo e l’odore dell’uva che percepiva in quei luoghi10.
Secondo Pascoli in ognuno di noi è albergato lo spirito
del fanciullino, ma solo il poeta è capace di conservare e a fare
emergere tale spirito. La sua poesia sarà, di conseguenza,
voce dell’innocenza e dello stupore. Essere fanciullino significa
saper vedere le cose con un’altra prospettiva, con un’altra e
differente visione del mondo rispetto all’ottica degli adulti.
Vedere il mondo in modo infantile significa far parlare
95
l’innocenza, la genuinità, l’assenza di pregiudizio che
scaturisce da uno sguardo puro sulla vita. Così delineato non
può che farci pensare alle argomentazioni presenti ne Il piccolo
principe di Antoine de Saint Exupéry11, in cui la critica agli
interessi degli adulti viene contrapposta alla dimensione di
stupore e di innocente bontà del bambino, capace di trovare
aforismi e pensieri che gli adulti, a suo avviso, hanno ormai
perduto, anche se non irrimediabilmente.
La stessa parola stupore, con parole sinonimiche
annesse, ripetuta spesso dal Pascoli, viene frequentemente
impiegata da Bachelard. Quest’ultimo ne L’intuizione
dell’istante. La psicanalisi del fuoco giunge ad affermare con
chiarezza: “La poesia è stupore”12, una breve frase che lo
stesso Pascoli avrebbe potuto sottoscrivere senza indugi.
Similmente, il sognatore bachelardiano è un soggetto
che sa stupirsi ed entusiasmarsi di fronte ad ogni oggetto,
seppur semplice e apparentemente dimenticato, ad ogni
visione sublime dello spettacoli che la natura ci riserva (ad ogni
chiaro di luna, ad ogni onda che si infrange sulla spiaggia, ad
ogni notte con i lampi ecc…). Inoltre la sua visione epifanica si
dimostra quasi del tutto a-temporale, in quanto a ricordare è il
sogno, è l’archetipo quindi, che affonda le sue radici in un
passato a-temporale e arcaico, collettivo e a cui tutti possono
attingere facendo riaffiorare istanti carichi di senso ed
emozionanti. La visione è anche a-linguistica e pre-razionale.
In questi istanti occorre ricordare con lo sguardo innocente e
profondamente ricettivo e non ci può aiutare né l’intelletto né la
cosiddetta “memoria involontaria” proustiana. La dimensione astorica che accomuna Bachelard e Pascoli in questi momenti
essenziali della vita può essere definita, seguendo il
suggerimento di Capovilla, “atavica”13. Questa ossimorica
“memoria immemoriale”, comune ai due autori, come viene
definita da Bachelard in diversi passi dei suoi scritti, affonda le
sue origini nel passato indefinito del racconto degli avi,
96
anch’essi influenzati da qualcosa di più remoto ancora: una
sorta di immaginario collettivo arcaico accomunante tutti gli
uomini.
Nella disamina filosofica condotta da Bachelard si
ritrovano varie affermazioni di poeti e poesie, in quanto l’
obiettivo che si è prefissato è quello di ritrovare il luogo nel
quale l’immaginazione si fa scrittura, verso, poesia in ultima
istanza. La casa viene considerata come un luogo d’elezione
per il poeta sognatore, che si mette a scrivere, solitario, con la
luce di una candela. Tra gli angoli di casa, tra gli oggetti amati
che ci circondano e ci parlano di noi, dei nostri affetti, dei nostri
ricordi, desideriamo aspirare a proteggerci e lasciarci cullare
come in un “guscio” e in un “nido” evitando i rischi del “fuori”
esattamente come in Pascoli (pensiamo al “casolare” nella
poesia Temporale e la casa come “occhio” che si apre e si
chiude nella notte “nera” e temporalesca ne Il lampo). La casa,
come ci rammenta Bachelard, rappresenta l’inizio del nostro
essere al mondo: “la vita comincia bene, incomincia racchiusa,
protetta, al calduccio nel grembo della casa”14. In questa
atmosfera “vivono gli esseri protettori”15 anticipando il tema
della maternità della casa, nella quale si sta al sicuro e si
evitano drammi cosmici e intemperie.
Alcuni studiosi si sono resi conto delle possibili
implicazioni di un parallelo tra il fanciullino pascoliano e il
sognatore bachelardiano, senza tuttavia, approfondire il
paragone. Ad esempio, la studiosa di psicologia Maria Elvira
De Caroli aveva messo in evidenza come: “La rêverie ci porta,
secondo Bachelard verso una “infanzia immobile” e poche
righe sotto collega l’argomento bachelardiano con Pascoli: “il
poeta è qualcosa di molto simile al “fanciullino” che
ricostruisce, nella lieta solitudine, il rapporto diretto con il
cosmo, quel rapporto immediato che l’età adulta, con le
esigenze della ragione e del principio di realtà, lentamente ma
inesorabilmente distrugge”16. E’ inoltre da ricordare senz’altro il
97
critico pascoliano Alfonso Traina, il quale sottolinea e pone in
correlazione la poetica del nido tra le poesie di Pascoli con
l’analisi condotta da Bachelard17. Questi studi non fanno che
spezzare una lancia in favore della tesi sostenuta da Barbara
Giovannelli18 che ritiene la poetica del fanciullino una base per
comprendere meglio la poetica pasco liana a tutto tondo,
prediligendo questa tipologia di studio anziché una riduttiva
interpretazione etico-civile sui valori positivi da perseguire. La
letteratura critica su Pascoli aveva posto invece rilevanza sul
secondo aspetto fino a decenni fa, iniziando da poco a
riscoprire la valenza di senso molto più estesa che può
incarnare la figura del fanciullino.
2. Bachelard, un filosofo innamorato della poesia
Il considerevole numero di poeti e romanzieri citati da
Bachelard come modello per i suoi trattati (spesso appartenenti
alla letteratura a lui più nota, ossia quella francese) annovera
diversi poeti e narratori: Rilke, Baudelaire, Bosco, Milosz,
Hölderlin, Novalis, Rimbaud, Lautréamont, Eluard, Valery solo
per citarne alcuni. Non manca anche il riferimento a qualche
poeta italiano: D’Annunzio, Ungaretti. Probabilmente Bachelard
non conosceva appieno le opere del Pascoli, ma si può essere
convinti che se l’avesse letto e considerato attentamente, lo
avrebbe trovato sicuramente interessante e in sintonia con i
proprio modus cogitandi.
Egli si rivolge ai filosofi e, in modo accorato, suggerisce
loro di ascoltare e comprendere il messaggio dei poeti. A volte
l’esortazione si fa più accentuata : “Bisogna ascoltare i
poeti!”19. E, successivamente: “Ah! Quanto avrebbero da
imparare i filosofi se si risolvessero a leggere i poeti!”20. La
lettura offertaci dai poeti è pura rêverie. L’immagine descritta
98
proviene “dal cuore, dall’anima, dall’essere”21. Questa
coscienza non è una coscienza razionale, bensì sognatrice.
Il campo semantico di “stupore”, “infanzia”, “rêverie”
rappresentano un campo semantico fortemente seguito da
Bachelard, nonché una sorta di filo conduttore e massimo
comun denominatore della sua filosofia dell’immaginario.
Per Bachelard, l’immaginazione poetica risulta essere in
grado di offrire un raffigurazione di un mondo e di un universo.
E non è tutto, in quanto lo stupore nei confronti delle meraviglie
del mondo richiamano la considerazione donataci dal filosofo
francese secondo la quale “la filosofia sarebbe felicemente
restituita ai suoi progetti infantili”22
Nella sua riflessione fenomenologica si pone il
problema di ravvisare la presenza di un atto primario ed
elementare di donazione di senso all’immagine che i sensi ci
offrono, fedelmente connessa all’impostazione fenomenologica
descritta da Husserl, il padre, assieme a Brentano, di questa
corrente di pensiero. La poesia è di per un sé ingenuo stupore
del tutto naturale23. Si tratta perciò di un atteggiamento di
meraviglia e di sogno ad occhi aperti. Occorre, dunque, porre
le cose in epoché, ossia tra parentesi, fingendo di non
conoscere il loro significato che l’abitudine e la cultura
conferisce loro, per scoprire che noi possediamo la capacità di
dar loro senso. Afferma una concezione simile Pascoli,
sostenendo che la sua voce interiore fanciullina è in grado di
attribuire il nome a tutte le cose, come un nuovo Adamo (cap.
III).
Bachelard pare riprendere i concetti pascoliani, senza
tuttavia citarne l’autore, quando sostiene che “nel corso
dell’infanzia […] prendiamo coscienza con stupore del nostro
essere. Scopriamo così in noi un’infanzia immobile senza
divenire, liberata dai meccanismi del calendario”24. Il bambino a
sua detta possiede “lo sguardo che ingrandisce”25. Questo
ricorso alla dimensione infantile ricorda la compresenza latente
99
dello spirito del fanciullino nell’animo di un uomo adulto, sorta
di personaggio interiore, che non invecchia spiritualmente e
resta sognante e immaginativo con slanci di fantasia capaci di
leggere il cuore delle cose, il valore autentico del suo sentire.
Come ha modo di dichiarare il Bachelard: “le stagioni
dell’infanzia coincidono con le stagioni del poeta”26. Infatti,
Pascoli per avvalorare la sua tesi mostra l’esempio di Omero,
Virgilio e Orazio, letterati a suo avviso con lo spirito poetico e
definisce l’anziano Cilice l’ideale del poeta (cap. IX). Quando
una persona diventa anziana, potrebbe nella sua ottica essere,
paradossalmente, più incline a sognare come un bambino,
essendosi infatti liberato del tran tran che lo assillava nella vita
quotidiana di adulto e lavoratore. Come allora non pensare al
fatto che Bachelard abbia composto la maggior parte di queste
opere approfondendo ed enfatizzando il ruolo filosofico e
artistico dell’immaginazione superata la sessantina e in seguito
al suo pensionamento dalla docenza universitaria.
L’infanzia bachelardiana, al pari di quella espressa da
Pascoli, è infanzia dell’anima e del mondo, ossia un’infanzia
ontogenetica e filogenetica se vogliamo esprimerci nel
linguaggio del pedagogista Jean Piaget nell’ottica della sua
epistemologia genetica. Assistiamo all’emergere di una sorta di
“infanzia cosmica”27, non lontana dalle considerazioni vichiane
(teorizzate nella Scienza Nuova) sulla comparsa della poesia
arcaica e primitiva tipica degli albori della civiltà e connotata
positivamente dal filosofo campano.
Prosegue Bachelard: “Un’infanzia potenziale è in noi.
Quando la ritroviamo nelle nostre rêveries più ancora che nella
sua realtà, la viviamo in tutte le sue potenzialità. Sogniamo
tutto quello che avrebbe potuto essere, sogniamo la storia e la
leggenda”28.
Alla luce di quanto abbiamo fin qui potuto considerare
non stupisce che Paolo Mottana, docente di filosofia
dell’educazione presso l’Università degli studi di Milano
100
Bicocca, definisca Bachelard un “pedagogista immaginale” e
ad annoverarlo tra gli studiosi più fecondi nell’ambito delle
scienze dell’educazione. Dapprima insiste nella rilevazione che
Bachelard possa essere accostato ad uno studioso
dell’infanzia: “E’ ped-agogo nella duplice veste di colui che
accompagna verso un’infanzia simbolica ritrovata e di colui che
conduce l’infanzia a dischiudere la sua fenomenologia
immaginale”29. Dopodiché egli scrive: “Il bambino,
nell’iridescenza immisurabile dei suoi sensi, come archetipo e
fonte, possa anche essere l’ancoraggio irriducibile, anche se
fortemente contenuto, e persino combattuto, dell’opera di
Bachelard nel suo insieme e nel suo divenire”30.
3. Analogie di simboli
Il riferimento alla simbologia è un “tòpos” della poetica
Pascoli, il quale ricorre spesso alla cosiddetta simbologia del
nido, magistralmente indagata dal critico Giorgio Bàrberi
Squarotti31. Inoltre in Pascoli ogni oggetto scelto viene elevato
a significato più profondo, ad una sorta di concetto. In questo
egli è totalmente fedele a quelli che saranno i dettami del
Bachelard, il quale suggerisce al lettore di “abbandonare il
concreto per l’immaginario”32. Nella celebre poesia X Agosto, il
nido risulta simbolo della casa, la dimensione degli affetti e
della protezione dalle insidie del mondo esterno. Secondo
Bachelard il nido rimanda necessariamente alla “casa
semplice”33 e ad una rêverie della sicurezza. Il ricorso al
simbolo, che sulle prime e rimanendo nell’ambito strettamente
e squisitamente letterario ci fa pensare immediatamente alle
corrispondenze tipiche della poetica di Baudelaire, è tuttavia
presente nel Bachelard di una generazione successiva alla
sua. Ciò che in Pascoli si definisce simbolo assume la
terminologia di immagine in Gaston Bachelard. La poesia,
101
secondo quest’ultimo, risulta caratterizzata da queste
immagini, differenti dalle metafore impiegate da Henri Bergson
(sua è la metafora del cassetto per identificare
emblematicamente la memoria). Nell’ipotesi bachelardiana le
immagini sono “donatrici di essere”34 e non sono, come precisa
Bachelard, false e arbitrarie connessioni tra enti diversi.
4. Oltre la scienza
Sia in Pascoli che in Bachelard l’interesse nei confronti
dello
sviluppo
delle
scienze,
seppur
difficilmente
contestualizzabili in quanto vissuti in tempi differenti, risulta ben
delineato. Come abbiamo già ricordato, Bachelard insegnò
Filosofia della scienza all’università, dal momento che
possedeva due lauree, in ambiti differenti, ma complementari:
la prima in matematica (che lo portò ad insegnare fisica e
chimica nelle scuole superiori francesi) e la seconda in
filosofia, diversi anni dopo. Infine egli si dedicò a lungo a
sviluppare studi di epistemologia, perciò possiamo considerarlo
un appartenente ad una filosofia post-spiritualista o un
fenomenologo strutturalista, pur essendo difficile una sua
definitiva collocazione in correnti di pensiero. Nel caso di
Pascoli siamo a conoscenza del fatto che seppur di formazione
umanistica, il Pascoli dimostra fiducia nella scienza e una
spiccata abilità nella descrizione botanica di fiori e piante. Egli
dimostra, quindi, interessi scientifici e di non essere un critico
del positivismo tout court. Il senso di mistero presente in alcune
sue poesie, tuttavia sfugge alla logica razionale positivistica.
Nella poesia Il libro un ignoto lettore tenta di decifrare il libro
della natura, ma non vi riesce, dal momento che tra lui e il
mondo della natura esiste uno iato insuperabile. Anche in
Bachelard ricorre una situazione simile, anch’egli infatti ricrea
l’immagine del libro della natura nella sua ultima opera, La
102
fiamma di una candela: “Il mondo è per me […] il libro difficile
rischiarato dalla fiamma di una candela. Ma la candela si
spegnerà prima che il libro difficile sia capito”35.
Tuttavia l’importanza conferita alla critica al positivismo
come pensiero totalizzante e alla relativa pretesa della scienza
di porsi come superiore ai fatti dello spirito conduce sia Pascoli
che Bachelard a ripiegare sul valore concesso all’affettività e al
ruolo dei sentimenti. A tal proposito Bachelard dimostra
l’importanza di fondare una “filosofia dell’aggettivo” contro una
filosofia del puro dato, la “filosofia del sostantivo”.
Similmente Pascoli ricorre spesso al procedimento
dell’analogia. Mediante questa egli sfugge al piano reale e
razionale, ponendosi a valorizzare l’intuizione, capace, nel suo
accostare immagini apparentemente distaccate, di farci
pervenire un senso dell’esistenza umana che ci rimarrebbe
altrimenti precluso se ci riferissimo soltanto alla scienza. Perciò
se nido = casa, aratro = abbandono, anche in Bachelard si può
notare come ogni oggetto venga a ricevere i connotati di una
realtà altra, psichicamente rilevante.
Bachelard invita a più riprese l’uomo a scoprire il poeta
che è dentro ad ognuno, per amare la casa, gli oggetti cari, le
immagini raffinate e sublimi. Ogni oggetto considerato
poeticamente diviene idealmente “operatore d’immensità” ed
ogni avvenimento vissuto con questo particolare stato d’animo
non viene descritto tramite impressioni, bensì vissuto nella sua
“immensità poetica”36. Bisogna “superare la logica per vivere
quanto vi è di grande nel piccolo”37.
E’ riscontrabile nel Fanciullino di Pascoli la tendenza a
ricercare l’irrazionale nel fenomeno razionale. Il fanciullino
dimostra di agire senza un apparente perché, seguendo
appieno l’emozione che lo porta a passare rapidamente e
spontaneamente dal pianto e al riso. “Il pensiero, frammento di
vita, non deve dettare le sue regole alla vita”38 ribadisce e gli fa
eco Bachelard. La scienza è importante, ma non bisogna
103
precludersi altre prospettive, altrimenti si fa di essa un’unica e
totalizzante dimensione della ragione.
Conclusione
Nel presente articolo ci siamo soffermati a riscontrare
possibili analogie tra la poetica di Giovanni Pascoli relativa al
fanciullino (e, in senso esteso, alla “filosofia” delle piccole cose
e al rapporto con la ragione scientifica oggetti d’indagine negli
ultimi due paragrafi) e la fenomenologia dell’immaginazione
elaborata da Gaston Bachelard. Entrambi desiderano
inaugurare un nuovo modo di interrogare il mondo e di
guardare cose ed eventi della vita con occhi diversi, più
sognanti
e
meno
logico-raziocinatori.
Una
nuova
Weltanshauung (visione del mondo) poetica e sognatrice viene
a nascere in loro, in ultima istanza. Per far questo essi
esortano il lettore a confrontarsi con un mondo di cose che
grazie alla nostra fantasia parlano ed interagiscono con noi, di
un mondo semplice, di affetti, di intimità e di raffinata gentilezza
onde pervenire ad una considerazione molto più seria e
profonda sull’esistenza e sull’essenza umana, per scoprire
quanto bello sia provare brividi ed emozioni che la vita ci sa
riservare, senza peraltro dover creare a teorie complesse o
euristiche sulla psiche umana. L’appello di Pascoli e Bachelard
non può non lasciarci indifferenti siccome il loro messaggio
tocca le regioni più intime della nostra anima e mira al cuore
del lettore.
1
G. Pascoli, Pensieri e discorsi, Zanichelli, Bologna, 1907, p. 1-55
(per comodità, da questo momento in poi, le parti oggetto di citazione
saranno esposti all’interno del testo indicando il capitolo, dal I al XX,
104
così da facilitare al lettore la ricerca di passi salienti nella propria
edizione di riferimento).
2
G. Piana, La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia
dell’immaginazione, Guerini e associati, Milano, 1988
3
Si pensi all’architetto milanese Aldo Rossi e al suo progettare
seguendo l’impostazione archetipica mutuata da Bachelard.
4
S. Mele, La ricerca del sapere, vol. 3, D’Anna, Firenze, 2011, p. 590
5
Cfr. Aristotele, Metafisica, libro I, 982b, 10-25, trad. it. G.
Giannantoni, Laterza, Bari 1971
6
Aristotele, Poetica, (a cura di D. Lanza) Bur Rizzoli, Milano, 1987
(cap. 9, 51b 1-11)
7
Platone, Ione in Tutti gli scritti (a cura di G. Reale), Bompiani,
Milano, 2000
8
A. Montagna, La filosofia presente nella letteratura italiana, Eidon,
Genova, 2013, p. 9
9
G. Bachelard, La poetica dello spazio, trad. it. E. Catalano, Dedalo,
Bari, 2006, p. 205
10
Ivi, pp. 40-43
11
A. (de) Saint - Exupéry, Il piccolo principe, trad. it. N. Bompiani
Bregoli, Bompiani, Milano, 1998. Il riferimento al mondo infantile
assunto come modello per gli adulti è anche presente nella poesia di
Aldo Palazzeschi e, in una certa misura, anche in Umberto Saba.
12
G. Bachelard, L’intuzione dell’istante. La psicanalisi del fuoco, trad.
it. G. Silvestri Stevan, Dedalo, Bari, 1987, p. 35
13
G. Capovilla, Pascoli, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 91
14
Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 35
15
Ibidem.
16
M. E. De Caroli, Una briglia all’emozione. Creatività e psicanalisi,
Franco Angeli, Milano, 2002, p. 61
17
A. Traina, Il latino di Pascoli, Pàtron, Bologna, 2006, p. 115
18
B. Giovannelli, Giovanni Pascoli, Goodmood, Padova, 2013, p. 36
19
Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 117
20
Ivi, p. 243
21
Ivi, p. 7.
22
G. Bachelard, Il diritto di sognare, trad it. M. Bianchi, Dedalo, Bari,
1975, p. 194
105
23
G. Bachelard, La poetica della rêverie, trad, it. G. Silvestri Stevan,
Dedalo, Bari, 1972, p. 10
24
Ibidem, p. 106
25
Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 188
26
Bachelard, La poetica della rêverie, cit., p. 122
27
Ivi, p. 110
28
Ivi, p. 106
2
9 P. Mottana, Bachelard paid-agogo immaginale, in Bachelardiana,
n. 1, Il Melangolo, Genova, 2006, pp. 89-96
30
Ibidem
31
G. Bàrberi Squarotti, Simboli e strutture della poesia del Pascoli,
D’Anna, Messina-Firenze, 1966
32
Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 117
33
Ivi, p. 127
34
Ivi, p. 102
35
G. Bachelard, La fiamma di una candela, trad. it. G. Alberti, SE,
Milano, 1996, p. 53.
36
Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 246
37
Ivi, p. 183
38
G. Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco,
cit., p. 47.
106
Esordisce come poeta nel 1985, a ventinove anni, nel
1990 comincia a scrivere romanzi, nel 1996 approda al teatro,
al 2004 risalgono i primi racconti, al 2005 le prime
sceneggiature e i primi film. Ha cinquantotto anni, è nato a Villa
Ramallo (Argentina) nel 1956, si chiama Sergio Bizzio. Molto,
tanto e in tanti modi ha già prodotto. Da alcune sue narrazioni
sono stati tratti film che hanno avuto riconoscimenti ai Festival
di New York, Tokyo e Cannes. Poeta, scrittore, drammaturgo,
sceneggiatore, regista è Bizzio e in ogni genere della sua
estesa produzione impegnato si mostra a trattare temi legati
alla moderna condizione umana, sociale, politica, alla vita dei
nostri tempi, ai problemi che sono sopravvenuti, che l’hanno
resa difficile nei modi, nei rapporti, nei pensieri, nelle azioni,
attento è sempre a far vedere come lo spirito, l’animo umano
siano oggi travagliati da situazioni, eventi che prima non
c’erano, a rappresentare circostanze molto complicate e
sempre con chiarezza, con lucidità. Dice, nelle sue opere,
Bizzio dei segreti più riposti senza mai perdere di vista quel
che accade in superficie, porta alla luce i misteri della vita e li
fa stare insieme a quanto altro si vede, si sente, si fa. Niente
RECENSIONI
NUOVI TEMPI, NUOVI SCRITTORI
Antonio Stanca
107
rimane nascosto, sconosciuto per questo autore, anche
l’inverosimile, l’assurdo fa egli rientrare tra le cose del mondo,
fa diventare naturale.
Cariche di continui risvolti, di immediati colpi di scena
risultano, pertanto, le storie narrate dal Bizzio specie nei suoi
romanzi, difficili da risolvere diventano le situazioni da esse
contenute siano di carattere privato o pubblico, individuale o
sociale. Spesso non s’intravedono possibilità per superare il
problema che si è creato, per evitare il pericolo che è
sopravvenuto e tuttavia la disgrazia non è mai totale perchè
questo scrittore fa pure pensare che si possa uscirne. Ed un
segnale di tale sotterranea speranza, di tale nascosta fiducia è
quell’umorismo che, pur se amaro, percorre tante scene delle
sue narrazioni e ne fa delle operazioni rivolte a cogliere una
morale, a ricavare un insegnamento da quanto di triste, di
grave, di strano, di assurdo può succedere oggi nella vita.
Molti significati ha la scrittura del Bizzio, è la sua maniera
di essere scrittore, è il suo tipo di umanesimo, è quello che ne
ha fatto uno dei maggiori scrittori viventi, quello che va da
romanzi diventati celebri quali Rabbia del 2004, Era il paradiso
del 2007, Realtà del 2008 ai più recenti Lo scrittore mangiato
del 2010 e Borgestein del 2012¹. Quest’ultima opera conferma
lo stile del Bizzio, la sua tendenza a procedere tramite periodi
brevi, rapidi e sempre precisi, esatti, sempre compiuti. Sembra
di assistere ad una serie interminabile di piccoli passi avanti, di
scatti, che portano sempre più vicino alla scoperta, alla
rivelazione delle tante verità che l’opera contiene e che sono
celate in ognuno dei suoi personaggi, dei suoi luoghi, dei suoi
tempi, dei suoi avvenimenti.
108
Il protagonista di Borgestein è uno psichiatra che per
strada è stato assalito ed accoltellato, senza che si sappia mai
perché, da un suo paziente, lo strano poeta Borgestein, e che
per paura di un nuovo assalto e di rimanerne vittima decide di
lasciare la città e recarsi per qualche tempo in montagna dove
da poco ha acquistato una casa che non ha ancora visto
perché ha trattato solo con un’agenzia immobiliare. Si
allontana, quindi, anche dalla moglie Julia con la quale, in
verità, non ha più un buon rapporto. Julia è un’attrice di teatro,
è famosa e poco tempo concede al marito ed alla loro casa in
città.
Per lui, però, la casa di montagna si rivelerà piena di
sorprese e di problemi: accanto c’è una cascata che produce
un rumore assordante, nei suoi dintorni circolano due pericolosi
puma, dei quali uno è stato catturato di recente, in essa abita
un pappagallo che ogni tanto ha bisogno di sentirsi attraversato
da una breve scarica di corrente elettrica che si procura
inserendo una zampetta in una presa, ad una certa distanza
una troupe cinematografica sta girando senza nessun riserbo
alcune scene di un film pornografico, per fortuna riesce a
sfuggire ad un nuovo assalto di quel Borgestein, suo paziente,
che lo ha rintracciato. Sono tante le situazioni, tanti i problemi
con i quali lo psichiatra, che era in fuga da problemi, dovrà
convivere. Ma ora cercherà di porre rimedio soprattutto quando
si renderà conto che in quella casa è destinato a rimanere per
sempre visto che la moglie si è messa con un altro anche se gli
ha detto che aspetta un bambino da lui. Rinuncerà al suo
lavoro precedente, chiuderà l’ambulatorio, comincerà a
trasportare pietre per ridurre la profondità della buca nella
109
quale l’acqua della cascata precipita e di conseguenza il
rumore che provoca, farà istituire posti di guardia per la cattura
del puma rimasto in libertà, diventerà amico del pappagallo,
scenderà in paese, s’incontrerà, si frequenterà con persone del
posto, cercherà, insomma, di ridurre i tanti disagi che la nuova
situazione gli comporta specie se sta da solo. «A volte mi
aiutavano a raccogliere pietre e a trasportarle verso la buca,
ma solo ogni tanto. Preferivano guardare. Gloria scrisse una
Ode allo psichiatra che riempie la fonte, e mi fece dono del
manoscritto su carta pergamena. Credo che non fosse granché
e mi commosse».²
Tutto questo fa rientrare Bizzio in un romanzo di poco più
di cento pagine! Tutto questo fa succedere! Tanta vita muove!
Con tanta abilità si muove tra tanta vita!
A volte non si riesce a distinguere tra realtà e
immaginazione, ricordo e visione, parola e azione, colore e
suono, vita e morte. Avvia egli un processo che diventa
vulcanico ma mai confuso perchè lo controlla sempre, lo
svolge con destrezza, lo fa sembrare sempre vero pur nelle
assurdità, gli procura sempre una ragione, un senso. Sempre
lo conduce verso un esito anche se impensabile era sembrato
questo. Pure questa storia avrà un esito che sarà diverso
dall’allarmante situazione che si era creata: il rumore della
cascata si ridurrà grazie al lavoro compiuto dal protagonista, il
secondo puma sarà catturato, il pappagallo farà famiglia, il
pericoloso Borgestein sarà rinchiuso in una clinica e soprattutto
Julia, nata la loro bambina, andrà a vivere con lui in quella
casa di montagna.
110
Tutto è stato strano, a volte assurdo, ma tutto si è
concluso anche stavolta. Anche stavolta Bizzio ha colto ogni
minimo aspetto, risvolto di una vicenda diventata insolita, l’ha
resa vera, anche stavolta ha fatto cronaca di ciò che non si
capiva.
1
Questo romanzo è stato pubblicato in Italia ad Aprile del 2014
dalla casa editrice La Linea di Bologna. La traduzione è di Raul
Schenardi (pp.147).
2
Ivi, p. 80.
111