International RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XXVI NUOVA SERIE - N. 84 – SETTEMBRE-DICEMBRE 2014 This Review is submitted to international peer review ISSN:1121-6530 1 Segni e comprensione International Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, oggi Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma, diretto da Angela Ales Bello. Direzione Giovanni Invitto (Direttore, [email protected]) Daniela De Leo (Co-direttore - [email protected]) Comitato di Redazione Giovanni Invitto, Università del Salento (Editor/Direttore responsabile), Angela Ales Bello, Università Lateranense; Angelo Bruno, Università del Salento; Daniela De Leo, Università del Salento; Antonio Delogu, Università di Sassari; Aniello Montano, Università di Salerno; Paola Ricci Sindoni, Università di Messina. Comitato scientifico Jean-Robert Armogathe, École Normale Supérieure de Paris (F); Renaud Barbaras, Paris I – Sorbonne (F); Francesca Brezzi, Università di Roma 3 (I); ϯBruno Callieri, Università di Roma 1 (I); Mauro Carbone, Université Jean Moulin Lyon 3 (F); Giovanni Cera, Università di Bari (I); Claudio Ciancio, Università del Piemonte Orientale (I);ϯFrançoise Collin, fondatrice di «Les Cahiers du Grif» (F); Umberto Curi, Università di Padova (I); Roger Dadoun, Université de Paris VII-Jussieu (F); Franco Ferrarotti, Università di Roma 1 (I); Renate Holub, University of California – Berkeley (Usa); Roberto Maragliano, Università Roma Tre (I); William McBride, Purdue University, West Lafayette, Indiana (Usa); Augusto Ponzio, Università di Bari (I); Pierre Taminiaux, Georgetown University (Usa); Christiane Veauvy, Cnrs (F); Sergio Vuskovic Royo, Universidad de Valparaiso (RCH); Chiara Zamboni, Università di Verona (I) 2 Staff di redazione ; Daniela De Leo (responsabile); Siegrid Agostini, Lucia De Pascalis; Maria Teresa Giampaolo. Sede Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Studi Umanistici, Università del Salento – Via M. Stampacchia – 73100 Lecce Periodico iscritto al n. 389/1986 del Registro della Stampa, Tribunale di Lecce. 3 La versione elettronica della rivista Segni e Comprensione è disponibile ai seguenti indirizzi: http://siba-ese.unisalento.it/index.php/segnicompr http: //www.segniecomprensione.it http://dipfil.unisalento.it/ http://www.mannieditori.it/rivista/segni-e-comprensione (1987-2009)" NOTE PER GLI AUTORI I contributi scientifici dal prossimo numero dovranno essere scritti in inglese, si richiede anche la versione in italiano. L’articolo deve riportare, prima del testo, il titolo, Autore e il relativo istituto di appartenenza, indirizzo per la corrispondenza e un abstract (di max 900 battute, scritto in italiano/inglese/francese) con parole-chiave (fino a 5) ed essere redatto secondo le norme redazionali riportate sul sito. 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Questi forniranno al Comitato Direttivo gli elementi necessari per valutare la correttezza e l’utilità, segnalando la necessità di modifiche o integrazioni per migliorarne le caratteristiche o evidenziando gli aspetti che, se non correttamente modificati, ne potrebbero impedire la pubblicazione. 4 News di Redazione L'Anvur ha classificato la Rivista Segni e Comprensioni come Rivista scientifica nell'Area 11 5 INDICE Saggi 8 L'uomo: progettualità e condizione. Riflessioni prefilosofiche Giovanni Invitto 11 L'Homme révolté: hier et aujourd'hui Pierre Taminiaux 26 Insostenibile leggerezza dell'identità esistenziale Daniela De Leo Note 35 Note in margine al film Il giovane favoloso: il Giacomo Leopardi di Mario Martone Nunzio Bombaci 50 Macintyre: Thomistic Aristotelianism or Aristotelian Thomism? Piergiorgio Della Pelle 66 Metodo e Metafisica nel criticismo kantiano Luca Ferrara 6 91 La poetica del fanciullino di Pascoli e la filosofia della rêverie di Bachelard Alessandro Montagna Recensioni 107 Nuovi tempi, nuovi scrittori Antonio Stanca 7 Stiamo avviando il ventisettesimo anno di questa rivista proponendo e affrontando un tema secolare ma sempre attuale: «l’uomo: progettualità e condizione». La filosofia ha, sin dal suo inizio, cercato di dare risposte a tali quesiti. La progettualità è stata sempre presente perché connaturata ad ogni soggetto umano e non è patrimonio esclusivo di uno specifico ambito di ricerca e dei soggetti che in esso operano, cioè filosofi, antropologi, teologi ecc. L’uomo vuole conoscersi, accettandosi, rifiutandosi e/o riprogrammandosi. Qui non si parla della auto-programmazione esistenziale del singolo soggetto, bensì di quella riflessione inevitabile sul «chi sono in quanto uomo? Quale “uomo” potrei o dovrei essere?». Il problema non sono tanto le modalità di risposta o i contenuti che ognuno può dare al quesito, quanto il fatto che da quel quesito non sempre gemmano consapevolezza e convinzioni adeguate. L’essere-uomo rimane a se stesso un interrogativo che spesso si ferma al momento della constatazione spicciola, della situazione di fatto. Da qui nasce il discorso della progettualità che non può non partire da una analisi fenomenologica della condizione umana in genere e da quella del singolo in particolare. La condizione umana, da sola, non risolve il problema. D’accordo: l’uomo è… ma ciò non esclude: l’uomo potrebbe essere… Però questo non è risolutivo se ci fermiamo al singolo soggetto. Nei millenni, altre forme culturali hanno dato delle SAGGI L’UOMO: PROGETTUALITÀ E CONDIZIONE. RIFLESSIONI PREFILOSOFICHE Giovanni Invitto 8 risposte a quegli interrogativi: pensiamo alle religioni, alle scienze naturali, alle varie antropologie ecc. Un altro pericolo da evitare è pensare che la ricerca filosofica possa risolvere una volta per tutte il quesito. La filosofia, scriveva un pensatore francese alla metà del secolo scorso, non è un sapere specifico, ma è una vigilanza sul sapere. Approfondiamo allora il concetto di vigilanza che, nel nostro lessico usuale, richiama forme di controllo garantista e, talvolta, persino oppressivo. Torniamo, invece, all’etimo del termine che rinvia alla veglia, al vegliare per non perdere la percezione della situazione, dello spazio di esistenza che cerchiamo di riempire e di qualificare con le nostre idee e le nostre azioni. Allora, consapevolmente o inconsapevolmente, «progettiamo» l’uomo e ci progettiamo come singolo «soggetto», il che vuol dire che non ci sentiamo oggetti neanche in condizione di assoluta assenza di libertà, per condizioni oggettive (privazione estrinseca e materiale di autodeterminazione ) o soggettive (vincoli e limiti fisici o sociali). La nostra progettualità non è sempre tematizzata, ma nella maggior parte è spontanea e non programmata. Potremmo pensare che ci siano degli stadi biologici e socioculturali – pensiamo, ad esempio, all’adolescenza e alla giovinezza – nei quali l’autoprogettualità è più presente. Forse è così se pensiamo alla qualità delle scelte che si pongono in quello stadio esistenziale: rapporto con la propria famiglia, accettazione dell’appartenenza di «genere», scelta del futuro professionale, nascita e pratica dello spazio affettivo, elaborazione di un atteggiamento nei confronti dello stato sociale e dei contesti socio-politici nei quali il soggetto è inserito. Ma il discorso si amplia se condividiamo l’idea che ogni individuo umano, al di là della sua età, elabora continuamente ipotesi per il proprio ulteriore periodo di vita e di coscienza. Qui la condizione sembrerebbe chiudere l’ipotesi di nuovi progetti 9 quando le scelte sono state già tentate, realizzate, consumate e la situazione del soggetto non comporterebbe e non autorizzerebbe nuovi progetti. Eppure è così e anche la rinunzia, voluta o automatica, alla progettualità arricchente e integrativa, è ancora un progetto di se stessi, pure se non prevede modifiche e integrazioni. Sartre affermava che l’uomo è condannato ad esser libero e qui la libertà era solo della coscienza, che poi era il Nulla, cioè il non corporeo, il non materiale. E anche il rifiuto della libertà sarebbe un atto di libertà. Ma la progettualità della coscienza si scontra, comunque, con la pesantezza dell’Essere, cioè con il dato, la materia, la corporeità. Qui subentra il discorso della «misura di sé» su cui, chi qui scrive, si è soffermato in altra sede. La progettualità sulla base della condizione deve partire dalla misura di sé, cosa non semplice perché comporta la «buona fede» che spesso è coperta non per scelta del singolo, ma per la situazione del vissuto soggettivo. 10 L’HOMME REVOLTE : HIER ET AUJOURD’HUI Pierre Taminiaux Quel sens pourrions-nous donner aujourd’hui à l’Homme révolté1, le fameux essai philosophique d’Albert Camus qui suscita en son temps de nombreuses controverses et discussions houleuses 2 ? Ce livre fut en effet souvent mal accueilli, dans la mesure où il s’opposait à bien des égards à la pensée politique dominante de l’après-guerre en France. Celleci accordait en général une légitimité suprême au marxisme et à ses constructions idéologiques. La Guerre Froide venait d’être déclenchée par les Etats-Unis et leurs principaux alliés occidentaux : elle impliquait une division profonde et radicale entre deux camps, celui de l’Union Soviétique et celui de l’Amérique, et au-delà, entre deux visions du monde qui semblaient irréconciliables. Il est clair que pour les intellectuels français les plus importants de l’époque, de Sartre à Merleau-Ponty, aucune pensée politique digne de ce nom ne pouvait faire abstraction de l’idée-même de révolution, quelle qu’ait pu être son application concrète dans le système soviétique qui était encore celui de Staline au début des années cinquante. Albert Camus se permit donc d’enfreindre une forme d’interdit ou de tabou en osant mettre en question la validité à la fois intellectuelle et morale d’une telle notion. Son attitude ambiguë vis-à-vis de la guerre d’Algérie participa de la même perspective, dans la mesure où Camus affirma son soutien au peuple algérien tout en s’opposant à la lutte armée du FLN contre l’armée française et son occupation colonialiste. Une telle position fut presque impossible à soutenir, dans la mesure où elle incluait implicitement l’acceptation de rapports de force entre l’Etat français et les populations du tiers-monde. Pour 11 Camus, en quelque sorte, les Algériens n’avaient pas droit à leur combat révolutionnaire : la liberté qu’il leur souhaita dans l’absolu ne put donc être qu’une liberté de principe, certes basée sur des considérations morales, mais indifférente pourtant aux réalités matérielles d’une guerre qui aboutit nécessairement à l’oppression des peuples colonisés et à la perte de nombreuses vies humaines. En d’autres termes, ce que Camus avait poursuivi avec obstination dans l’action de la résistance à travers son travail de journaliste, c’est-à-dire le combat pour la liberté mené par tous les moyens possibles, y compris la violence contre l’occupant nazi, fut après la guerre et surtout dans les années cinquante contredit à la fois par la thématique essentielle de L’Homme révolté et par son attitude de retrait vis-à-vis du conflit algérien. Les critiques de Camus, dont Sartre, dénoncèrent ainsi les limites philosophiques d’un humanisme qui ne pouvait comprendre que l’homme, dans des circonstances extrêmes et indépendantes de sa volonté, en était conduit à « se salir les mains 3». De la Révolution française à la Révolution russe jusqu’aux révolutions anti-impérialistes et anticolonialistes des années cinquante et soixante, de l’Algérie à Cuba, l’histoire prouva que le changement le plus radical au service du peuple ne pouvait s’accomplir que par l’utilisation de la force, ce que Sartre avait bien exprimé, en particulier, dans son introduction aux Damnés de la terre de Franz Fanon4. D’autres circonstances particulièrement dramatiques jetèrent une ombre sur le discours de Camus dans L’Homme révolté. On peut ainsi songer au développement du maccarthysme et de la chasse aux sorcières aux Etats-Unis, qui exprimèrent à la même époque le caractère politiquement et moralement suspect d’un anticommunisme forcené. Pour atteindre sa véritable liberté, l’homme devait parfois emprunter des voies radicales, et donc révolutionnaires, dans la mesure 12 où il était souvent confronté à des pouvoirs répressifs qui l’empêchaient de s’exprimer et de penser de manière personnelle, et ce y compris à l’intérieur de sociétés dites démocratiques. Il est clair que les racines méditerranéennes de Camus influencèrent son anticommunisme et sa méfiance profonde vis-à-vis du projet révolutionnaire quel qu’il soit. Il était lui même issu d’une culture dominée par des valeurs patriarcales et communautaires traditionnelles. La Révolution, en d’autres termes, fut dans l’histoire des idées en Occident une notion éminemment européenne, issue d’abord des Lumières et donc essentiellement de penseurs français et ensuite de Marx et donc de la philosophie germanique. Elle ne connut pas le même retentissement dans les cultures africaines ou arabes, qui étaient par tradition des cultures peu sensibles à une vision purement linéaire de l’histoire dans le sens hégélien d’un processus irréversible. Le FLN, en ce sens, constitua une excroissance idéologique du socialisme et du communisme européen en Algérie. De la même manière, le discours révolutionnaire de Franz Fanon sur les peuples du Tiers-Monde eut pour base théorique la pensée marxiste. Pour Camus, la révolution était en quelque sorte un modèle venu d’ailleurs, c’est-à-dire de la vieille Europe fatiguée d’elle-même et qui rêvait d’un changement social et politique sans limite précisément parce qu’elle était embourbée dans des rapports de pouvoir et des structures d’autorité étouffants, ceux issus de l’Ancien Régime (selon les Lumières) et de la Révolution industrielle (selon Marx). L’Homme révolté, en ce sens, s’opposa à une forme typiquement européenne de pensée politique, tout en revendiquant paradoxalement un héritage humaniste lui aussi européen. Quelques soixante années plus tard, une relecture de cet ouvrage s’impose dans la mesure où l’Europe a mis fin à 13 ses propres rêves de révolution en renversant les derniers pouvoirs communistes à l’Est. On pourrait même aller plus loin et affirmer que l’Europe, aujourd’hui, est sans doute le moins révolutionnaire de tous les continents, si l’on compare par exemple la situation politique générale des démocraties du vieux continent (et leur stagnation manifeste) avec des phénomènes récents tels que le printemps arabe ou des mouvements insurrectionnels régionaux tels que le mouvement zapatiste au Mexique. L’idéal d’un changement radical issu du peuple, en effet, est aujourd’hui largement marginalisé et mis en veilleuse par l’instauration d’un nouveau modèle européen libéral imposé par les exigences du capitalisme mondialisé et dont l’Union Européenne représente en grande partie les intérêts. Est-ce à dire, pourtant, que les populations européennes qui souffrent actuellement de la crise ne rêvent pas de nouvelles formes d’économie et d’organisation sociale ? Evidemment que non. Ce qui s’est estompé au travers des développements politiques de ces deux dernières décennies, c’est l’idée que la révolution détiendrait le monopole de la légitimité politique de gauche. On sait que Camus opposa à ce qu’il considérait la dictature et la rigidité idéologique de celle-ci une thématique fiévreuse de la révolte, plus attentive à l’expression de la subjectivité et mieux capable, selon lui, d’incarner le besoin éternel et universel de liberté de l’homme. Il s’agit d’une action libre de toute idéologie stricte, qui s’inscrit ainsi mieux dans l’esprit de notre temps. Pourtant, elle représente une position critique face à la société occidentale et à ses valeurs, celles de la consommation, du profit et de la réussite individuelle. Le thème de la révolte chez Camus était clairement marqué par une sensibilité néo-humaniste, c’est-àdire par la nécessité de réhabiliter l’humain au cœur du politique, après les grands totalitarismes du XXe siècle et la barbarie de la seconde guerre mondiale. L’existentialisme, 14 ainsi, était bien un humanisme, pour reprendre la formule de Sartre, mais chez Camus, par contraste, cet humanisme impliquait nécessairement une conception éthique du politique et le refus de toute logique selon laquelle la fin pouvait justifier les moyens, une logique que défendit par exemple MerleauPonty dans Humanisme et terreur5. Il s’insérait dans une période d’intenses conflits idéologiques, non seulement entre l’Europe occidentale et les Etats-Unis, d’une part, et l’Europe de l’Est, d’autre part, entre le modèle de la démocratie libérale et celui du communisme, mais aussi entre différentes visions de l’intellectuel engagé et de gauche. Le courant dominant de l’immédiat après-guerre, en effet, soutenait une perspective révolutionnaire issue du modèle de l’Union Soviétique. Dans ce contexte historique très particulier, Camus faisait figure de franc-tireur. La fin supposée des idéologies à l’aube du XXIe siècle, c’est-à-dire le déclin irrésistible et achevé de leur légitimité politique, pourtant, ne doit pas signifier la fin du combat de l’homme contre les injustices qui l’entourent constamment. Elle ne peut servir de prétexte à la passivité et à l’indifférence. En ce sens, la figure de l’intellectuel engagé qu’incarnèrent Camus comme Sartre, n’appartient pas seulement au passé. Il est évident qu’elle doit s’adapter aujourd’hui aux exigences d’un ordre culturel dans lequel les media de grande diffusion jouent un rôle bien plus grand que dans les années cinquante. Néanmoins, elle demeure d’actualité dans la mesure où les carences politiques des pouvoirs publics, en particulier dans leur capacité à représenter les volontés et les désirs profonds du peuple français, ont aujourd’hui atteint un nouveau seuil. L’engagement, ainsi, doit toujours se penser comme une réaction nette et sans équivoque contre toutes les formes de domination quelles qu’elles soient. L’homme révolté fut mal interprété en son temps comme une critique générale des idées de gauche en France. 15 Or, le modèle qui y est présenté est éminemment méditerranéen (la pensée de midi et son humanisme solaire) et donc à bien des égards issu du berceau de la démocratie occidentale, c’est-à-dire la Grèce, dans sa recherche d’une mesure et d’une raison à la fois morale et politique face à l’insensé de l’histoire du XXe siècle. Il est ainsi parfaitement compatible avec des positions progressistes. Ce besoin de raison et de mesure ne caractérisa certes pas la figure de l’intellectuel de gauche engagé en France des années trente aux années cinquante. La montée du fascisme dans les années trente, en effet, suscita des réactions épidermiques et aboutit à l’expérience du gouvernement du Front Populaire, d’une part, et à l’affirmation des liens de nombreux écrivains et artistes à la politique de l’Union Soviétique en plein cœur pourtant, de la répression stalinienne, d’autre part. Cette époque dans laquelle Camus grandit et exprima ses propres idées déboucha ainsi sur une radicalisation sans précèdent de la vie et de la pensée politique, selon un esprit du ‘tout ou rien’ qui comportait une dimension autodestructrice ou sacrificielle. L’idéal révolutionnaire rendit bien compte de ce phénomène généralisé, dans des temps de ténèbres où l’homme était condamné, au-delà de tout compromis, à choisir son camp sans ambiguïté. Dès lors, l’intellectuel de gauche engagé opta souvent dans ces années troublées pour des formes d’idéologie profondément anti-démocratiques, c’est-à-dire très éloignées du modèle rationnel et cohérent qui avait justement été celui de la Grèce antique et de l’espace méditerranéen par extension. Cela peut s’expliquer par le fait qu’il eut à affronter l’image d’une démocratie décadente et souvent stérile, celle de la troisième République dans ses derniers soubresauts. Jamais dans l’histoire française moderne, en ce sens, le modèle démocratique et son parti-pris de rationalité politique ne fut-il 16 autant discuté et rejeté par un groupe d’hommes et de femmes qui n’avaient pourtant que le mot : ‘liberté’ à la bouche. La République française était en quelque sorte devenue dysfonctionnelle et surtout incapable de constituer un front commun devant la menace fasciste internationale. En outre, la grave crise économique issue du Krach de Wall Street qui secoua l’Europe (et donc la France) à cette époque avait pu être interprétée par ceux-ci comme la conséquence directe d’un type de société où la démocratie n’avait pu que justifier et soutenir les pires excès du capitalisme. Les années trente engendrèrent alors une crise d’autorité qui fut avant tout celles des institutions de la République, et donc de pouvoirs représentatifs de la démocratie française. C’est cette crise d’autorité que méditèrent en particulier les membres du Collège de Sociologie dont Georges Bataille et Roger Caillois6. La période de la Libération, paradoxalement, ne mit pas fin à ce soupçon porté par les intellectuels de gauche sur la démocratie libérale moderne. Car elle déboucha très vite sur l’affirmation agressive d’une politique impérialiste et colonialiste de la part des mêmes états démocratiques qui avaient quelques années auparavant lutté contre le nazisme et triomphé de lui, en particulier les Etats-Unis et la France, de la guerre de Corée à la guerre d’Indochine. C’est sans doute dans cette obstination à ne considérer que la violence politique issue soit du fascisme soit du communisme (ou alors celle de la révolution française dans l’histoire plus ancienne) que la pensée de Camus démontra ses limites. Car elle ne put rendre compte de ce qu’il faut bien appeler la démesure politique des républiques modernes, démesure issue le plus souvent de leurs dérives expansionnistes dans le tiers-monde et ailleurs. A cet égard, l’Amérique ne fut pas seulement le pays qui libéra l’Europe en faisant débarquer ses soldats sur les plages de Normandie : il 17 fut aussi le premier (et le dernier) état moderne à avoir utilisé la bombe atomique sur des populations civiles innocentes à Hiroshima et à Nagasaki. Pour le Camus de L’Homme revolté, le mal radical s’incarnait dans la Révolution, comme il s’incarnait chez Hannah Arendt dans les grands totalitarismes du XXe siècle7. Or, le XXe siècle est justement le siècle qui nous a montré que le mal le plus profond pouvait naître malgré tout de la raison la plus équilibrée. Ainsi le marxisme constitua-t-il une pensée fondamentalement rationaliste et matérialiste ancrée dans la tradition occidentale des Lumières, ce qui n’empêcha pas certains leaders de s’en inspirer (et de le manipuler) pour produire des systèmes politiques éminemment répressifs et meurtriers. Par ailleurs, la démesure absolue et sans antécédent du nazisme reposa en grande partie sur le pouvoir de la science et de la technique modernes. On sait à cet égard le rôle important que jouèrent les médecins nazis dans les diverses expérimentations pratiquées sur les prisonniers des camps de concentration. On sait également que des scientifiques allemands de premier plan, de Werner Heisenberg à Werner Von Braun, apportèrent par leurs connaissances uniques une contribution essentielle à l’édification de l’impressionnant arsenal de guerre (et donc à la machine de mort à grande échelle) du régime. Quant à l’idéologie coloniale, il est bien évident qu’elle fut essentiellement en Europe le produit des démocraties britanniques et françaises. A cet égard, ce sont les gens de gauche inspirés par les nouvelles idées socialistes, en grande majorité, qui, au XIXe siècle, sous la troisième République, célébrèrent avec le plus de vigueur et d’enthousiasme le projet colonial au nom d’un universalisme soutenu par les valeurs de progrès et de liberté individuelle. La raison humaniste, ici, 18 engendra paradoxalement l’une des pires formes de domination et d’oppression de la modernité. La révolte porte moins de violence en elle que la révolution. Elle n’est donc pas nihiliste, au sens où elle échappe à la volonté de puissance. Camus s’oppose dans cette perspective à l’héritage philosophique nietzschéen, mais aussi à celui de Sade, plus directement révolutionnaire. Elle se distingue également de la tradition romantique que perpétuaient encore, selon Camus, des poètes comme Rimbaud et Lautréamont dans leur exaltation du mal et du crime. Elle n’est pas non plus soumise à une autorité ni à un parti. Elle implique une attitude de résistance face à la société et à ses lois ainsi qu’un rejet moral profond de « l’horreur tranquille du monde ». Sa valeur-clé est la liberté individuelle, mais pas celle que l’idéologie néolibérale dominante prône aujourd’hui, soit la liberté issue du pouvoir de l’argent, du commerce et du libre-échange. Il s’agit de défendre au contraire une liberté conçue en termes éthiques et spirituels plutôt qu’économiques et matériels. En outre, le temps de la révolte est différent de celui des grandes révolutions du XXe siècle. Par opposition au communisme, en particulier, il ne souligne pas le pouvoir transcendant de l’histoire et l’accomplissement de son processus. Il surgit plutôt dans le ici et maintenant, dans le présent pur de l’action politique. C’est la raison pour laquelle il est plus proche du flux naturel de l’existence humaine. Les images prédéterminées d’un avenir parfait et d’un devenir de l’homme à l’intérieur d’une communauté idéale étaient en quelque sorte des illusions produites par les idéologies révolutionnaires. La révolte, dès lors, correspond mieux à une époque post-historique comme la nôtre. Elle implique le sentiment d’une urgence irrépressible et cherche à saisir le présent sous sa forme la plus éphémère et la plus instable. 19 La révolte constitue une attitude de transgression et de contradiction plutôt que de véritable destruction. Elle découle d’une prise de conscience nécessaire du mal dans le monde. Elle renvoie en outre à un sujet fragmenté malgré son désir d’unité. Cette crise d’identité se reflète aujourd’hui aux EtatsUnis dans un mouvement de révolte comme le mouvement Occupy, auquel ont participé de nombreuses victimes du krach financier de 2008. Elle est à bien des égards le résultat d’un ordre socio-économique dit global qui provoque souvent des processus arbitraires d’indifférenciation et de perte de repères autant professionnels que personnels. Ce qu’un tel mouvement prouve également, c’est qu’une révolte individuelle contre les revers du destin finit toujours par se constituer en communauté, dans la mesure précisément où d’autres hommes et d’autres femmes partagent la même expérience douloureuse. Comme l’écrit Camus : « Dans l’épreuve quotidienne qui est la nôtre, la révolte joue le même rôle que le « Cogito » dans l’ordre de la pensée. Elle est la première évidence. Mais cette évidence tire l’individu de sa solitude. Elle est un lieu commun qui fonde sur tous les hommes sa première valeur. Je me révolte, donc nous sommes. 8 » La révolte, contrairement à la révolution (jacobine ou bolchévique) n’est pas homogène d’un point de vue idéologique : elle s’accorde encore une fois mieux à une époque privée de véritable centre et d’unité politique. En ce sens, elle respecte un principe fondamental de diversité qui se retrouve dans le mouvement Occupy, auquel ont participé des citoyens de tous âges et de toutes conditions qui ne représentaient ni un seul parti ni une seule organisation politique. Cette diversité garantit alors une indépendance d’esprit qui fut si chère à Camus et à sa pensée morale. Elle s’inscrit par ailleurs dans une agora issue de l’héritage grec, 20 c’est-à-dire dans une utilisation de l’espace public à des fins politiques qui donne à entendre une parole commune. En outre, la révolte n’est pas à proprement parler utile : elle ne sert pas un but pratique mais possède une nécessité de nature philosophique et existentielle. Elle est bien ainsi d’ordre métaphysique, comme le soulignait Camus : « La révolte métaphysique est le mouvement par lequel un homme se dresse contre sa condition et la création toute entière. Elle est métaphysique parce qu’elle conteste les fins de l’homme et la création 9 ». Camus cite à ce sujet la révolte de l’esclave contre ses maîtres : « L’esclave rebelle affirme qu’il y a quelque chose en lui qui n’accepte pas la manière dont son maître le traite 10 ». On peut assister aujourd’hui, dans notre univers mondialisé, à de telles révoltes. Les maîtres de notre temps, en effet, ce sont en particulier les spéculateurs financiers de Wall Street auxquels les citoyens américains s’opposent à travers le mouvement Occupy. Celui-ci n’est pas purement circonstanciel : il signifie au contraire le refus universel et éternel de la domination. Dans un monde soumis au vertige inégalitaire, tout être humain peut en effet ressentir un jour le besoin de se dresser contre les pouvoirs qui représentent les 1% au sommet de l’échelle sociale. Ce qui a changé, entre le monde dans lequel vivait Camus et le monde actuel, entre les années cinquante et le début du XXIe siècle, c’est la nature-même du mal radical auquel l’homme révolté s’oppose. Celui-ci n’est plus ni le communisme ni le fascisme (le nazisme), comme dans la pensée de l’écrivain existentialiste, mais bien le fondamentalisme religieux, d’une part (en particulier islamique) et le fondamentalisme économique (l’ultra-capitalisme issu de la mondialisation), d’autre part. Le communisme et le nazisme étaient tout deux des produits intellectuels et politiques de l’Europe. Par contraste, les nouveaux totalitarismes 21 proviennent soit de l’Orient, soit d’une vision du monde transnationale et intercontinentale qui implique la disparition des frontières et la négation des spécificités culturelles et sociales. La pensée de Camus, bien que critique des idéologies européennes de son temps, s’inscrivait néanmoins dans une histoire des idées profondément liée au vieux continent, une histoire qui allait selon lui de Lucrèce et Épicure à Scheler et Rousseau. En ce sens, elle se serait sans doute acharnée de la même manière, aujourd’hui, contre ces nouvelles menaces visant directement les valeurs humanistes de l’Europe et de l’Occident en général. La révolte, ainsi, constitue toujours une réaction fondamentale contre le totalitarisme quel qu’il soit, au nom d’un idéal indestructible de liberté intellectuelle et morale. Ces totalitarismes actuels, par opposition aux grands fléaux du siècle dernier, ne s’incarnent plus dans des états hautement hiérarchisés et concentrés : ils participent par contraste de pouvoirs supra-politiques, soit culturels et religieux, soit financiers. La terreur et le malheur qu’ils engendrent sont dès lors plus difficiles à saisir et surtout à combattre, en raison de leur caractère disséminé. La critique qu’il faut adresser à Camus, alors, ce n’est pas d’avoir démonté les mythes révolutionnaires de son époque, comme le croyait Sartre, car sur ce point et selon l’expression consacrée, l’histoire lui a donné raison. Les failles de son discours apparurent ailleurs, plus particulièrement dans les quelques pages consacrées au surréalisme, dont le ton fut parfois outrancier. Il commença ainsi par évoquer avec une certaine hésitation, étant donné « le fond et la noblesse de son exigence11 », la dictature présumée d’André Breton : « Son mouvement a mis en principes l’établissement d’une ‘autorité impitoyable’ et d’une dictature, le fanatisme politique, le refus de la libre discussion et la nécessité de la peine de mort 12 ». 22 Quels que furent les dérapages idéologiques de Breton et de ses collègues, (et ceux-ci furent incontestables), ils n’envoyèrent pourtant personne au bûcher. Breton, dès lors, ne fut ni un Robespierre ni un Saint-Just, ni encore moins un Staline ou un Beria. En outre, il eut tendance à exagérer le soi-disant nihilisme esthétique du surréalisme, quand il écrivit : « Dès ses origines, le surréalisme, évangile du désordre, s’est trouvé dans l’obligation de créer un ordre. Mais il n’a d’abord songé qu’à détruire, par la poésie d’abord sur le plan de l’imprécation, par des marteaux matériels ensuite. Le procès du monde réel est devenu logiquement le procès de la création 13 ». Ce procès de la création ne fut jamais, chez Breton et les poètes surréalistes, de Desnos à Soupault, qu’un procès de la création strictement réaliste dans la culture occidentale. Il constitua, bien, ainsi, un véritable projet artistique, à la fois littéraire et plastique, soutenu par l’invention de formes nouvelles et originales. On peut penser que les idées de Camus sur le surréalisme furent à cet égard influencées par René Char, ce poète à la parole à la fois raisonnée et lyrique qui fut au départ proche des surréalistes avant de se séparer d’eux et qui, à l’époque de L’Homme révolté, était déjà devenu un ami personnel d’Albert Camus. Pourtant, Camus eut raison quand il constata l’incompatibilité du marxisme et du surréalisme, dans la mesure où le marxisme demandait la soumission de l’irrationnel à la rationalité révolutionnaire, alors que pour les surréalistes, la révolution elle-même était irrationnelle (« Les surréalistes s’étaient levés pour défendre l’irrationnel jusqu'à la mort 14»). Elle était bien un mythe absolu, une expérience prioritairement poétique avant d’être politique (« La vie véritable comme l’amour », pour reprendre les mots d’Eluard cités par Camus). Le surréalisme exigea une unité 23 fondamentale du monde alors que les marxistes revendiquèrent, eux, une totalité. Camus reconnut ensuite que le surréalisme ne fut pas action, mais « ascèse et expérience spirituelle15 » » et « une impossible sagesse16 » avant d’être une force de transgression et de « sommation morale », pour reprendre l’expression de Georges Bataille sur les origines du mouvement. Cette sagesse fut celle d’une quête de l’au-delà dans le rêve et la poésie, en contradiction avec la raison qui, « passée à l’action, fait déferler ses armées sur le monde 17 ». Malgré quelques tensions et incompréhensions, une rencontre de l’existentialisme et du surréalisme est donc malgré tout possible, car tous deux furent animés par l’urgence de la révolte dans une époque de négation profonde des valeurs spirituelles qu’ils recherchaient (celle des deux conflits mondiaux), même s’ils choisirent des voies et des moyens esthétiques radicalement différents pour l’exprimer. L’existentialisme, en effet, se détourna de l’imaginaire au nom d’un soupçon intellectuel qui était surtout motivé par l’exigence d’un engagement incessant dans le monde. Le culte surréaliste du rêve et des images inconscientes constitua pour Camus (et à tort, selon moi) une forme d’esquive et de retrait par rapport aux exigences morales de l’écrivain. Le rêve, cependant, loin d’une échappée gratuite hors du monde, était bien pour les surréalistes le meilleur moyen de le retrouver tout en le transcendant par l’œuvre du langage littéraire et poétique. Il s’agissait d’atteindre un point suprême, « un certain point de l’esprit d’où la vie et la mort, le réel et l’imaginaire, le passé et le futur…cessent d’être perçus contradictoirement. », pour reprendre les mots-mêmes de Breton cités par Camus 18. La révolte, en ce sens, détenait à tout moment une raison d’être: elle exprimait une vérité éternelle, au-delà des circonstances particulières de l’existence humaine. 24 1 J’utiliserai dans le cadre de cet article la version publiée dans le volume des Essais d’Albert Camus, Paris: Gallimard, Bibliothèque de La Pléiade, introduction par R. Quilliot, 1977. 2 La revue Les Temps Modernes constitua dans ce contexte un forum de discussion essentiel à l’époque de la parution de cet ouvrage. 3 Je veux évidemment faire allusion ici à la pièce de théâtre de Sartre, Les Mains Sales, qui constitua une réflexion aboutie sur le sens possible de l’action politique violente. 4 Franz Fanon, Les Damnés de la terre, Paris: Francois Maspéro, 1968. 5 Maurice Merleau-Ponty, Humanisme et terreur, Paris: Gallimard, Collection idées, Introduction de Claude Lefort, 1980. 6 Voir à ce sujet Denis Hollier, Le Collège de Sociologie, Paris: Gallimard, 1979. 7 Voir à ce sujet Hannah Arendt, Les Origines du totalitarisme suivi de Eichmann à Jerusalem, préface de Pierre Bouretz, Paris: Gallimard, “Quarto”, 2002. 8 Albert Camus, L’homme révolté, Bibliothèque de La Pléiade, p. 432. 9 Ivi, p. 435. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 503. 12 Ibidem. 13 Ivi, p. 501. 14 Ivi, p. 505. 15 Ibidem. 16 Ivi, p. 507. 17 Ibidem. 18 Ivi, p. 506. 25 INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'IDENTITA ESISTENZIALE Daniela De Leo I Latini dissero persona - prosopon - la maschera di legno portata sempre sulla scena dagli attori nei teatri dell'antica Grecia. E proprio questo senso fu introdotto nel linguaggio filosofico dallo stoicismo popolare per indicare i compiti rappresentati dall'uomo nella vita. Ma evocando la maschera, sembrava che lo stesso termine persona implicasse il carattere apparente e non sostanziale della stessa. Di qui nacquero le lunghe dispute trinitarie che caratterizzarono la storia dei primi secoli del Cristianesimo e che portarono alle decisioni del Concilio di Nicea. Per evitare il riferimento di persona alla maschera, gli scrittori greci adottarono invece di prosopon la parola hypostasis che nel suo significato di supporto ben rivela le preoccupazioni che ne suggerirono la scelta. Ma circa il carattere accidentale che la relazione sembra avere per sua natura, molti padri della Chiesa non trovarono di meglio che negare che la persona fosse relazione e insistere sulla sua sostanzialità. Così, ad esempio, Sant'Agostino affermando che persona significa semplicemente "sostanza" e che perciò il Padre è persona rispetto a sè non rispetto al Figlio19. A partire da Cartesio, mentre si indebolisce o viene meno il carattere sostanziale della persona, si accentua la sua natura di relazione e specialmente di autorelazione o relazione dell'uomo con se stesso. Il concetto di persona in questo senso 26 si identifica con il concetto di Io come coscienza e viene prevalentemente analizzato a proposito di ciò che si chiama l'identità personale, cioè l'unità e la continuità della vita cosciente dell'io. Contro questa interpretazione che riduce l'essere dell'uomo alla coscienza stanno le posizioni filosofiche che polemizzano contro la forma più radicale di questa interpretazione, che è lo hegelismo. La stessa dottrina morale kantiana aveva dato del concetto di persona una caratterizzazione in termini di etero-relazione, cioè di relazione con gli altri. Quando Kant diceva che gli esseri ragionevoli sono chiamati persone perché la loro natura li indica già come fini in se stessi, val a dire come qualcosa che non può essere adoperato unicamente come mezzo, faceva consistere la natura della persona dal punto di vista morale, nel rapporto inter-soggettivo. Tuttavia soltanto con la fenomenologia il concetto di persona come etero-relazione fa il suo ingresso esplicito in filosofia. Già Husserl, considerando l'io come il polo di tutta la vita intenzionale attiva e passiva accentuava quella relazione ad altro in cui l'intenzionalità consiste. Ma è soprattutto con Scheler che la persona viene esplicitamente definita come rapporto con il mondo. Tale concetto è stato assunto come punto di partenza dell'analisi esistenziale di Heidegger: la quale si è precisamente imperniata sul concetto della persona umana, cioè dell'esserci, come rapporto con il mondo. In sintesi questo percorso riflessivo, ha portato nel corso dei secoli, a far subire una evoluzione semantica al termine di persona: dal termine persona come sostanzialità, a quello di entità della vita cosciente dell'io - autorelazione - fino a giungere a quello di caratterizzare la persona in termini di etero-relazione. Così, superata l'utopia dell'autotrasparenza del soggetto a se stesso, si elabora una concezione dell'identità 27 personale come risultato di un luogo ermeneutico del soggetto nel mondo. È questo un modo di pensare l'identità non più in termini di autoposizione soggettiva di stampo cartesiano, ma di etero determinazone, in cui l'alterità è implicata a un livello originario nel processo di costituzione del sé. La prospettiva sull'identità risulta, in tal modo, spostata alla radice: l'appartenenza originaria del soggetto a se stesso, data quasi per scontata, si ribalta nell'estraneità di un io costitutivamente e originariamente decentrato da sé. Pertanto, con il termine identità personale, si indica non la semplice invarianza nel tempo delle strutture sostanziali dell'individuo, ma piuttosto il dipanarsi, attraverso il tempo di una struttura etica della temporalità. L'identità è correlata al concetto di relazione il cui elemento essenziale rimane la struttura temporale dell'esistenza ed è inquadrata come categoria della pratica, come relazionalità in un contesto di azione. Dire l'identità di un individuo vuol dire rispondere alla domanda: chi ha fatto questa azione? Chi è l'agente, l'autore?20 Allora, l'identità dell'individuo umano non è qualcosa di dato, che si possa cogliere in un'intuizione intellettuale o che si possa racchiudere in una definizione; essa si struttura nell'azione, manifestata agli altri individui attraverso molteplici segni. L'uomo non può non agire, in quanto non può non voler rispondere alla domanda circa la propria identità e una risposta la può avere solo nello spazio pubblico del discorso e dell'azione, nel rapporto con gli altri individui. L'io ha quindi dimora nei suoi atti. "L'identità del chi è a sua volta un'identità narrativa. Senza il soccorso della narrazione, il problema dell'identità personale è in effetti votato ad una antinomia senza soluzione: o si pone un soggetto identico a se stesso nella diversità dei 28 suoi stati, oppure si ritiene, seguendo Hume e Nietzsche, che questo soggetto identico non è altro che una illusione sostanzialista, la cui eliminazione lascia apparire solo un puro diverso di cognizioni, di emozioni, di volizioni"21. Si cadrebbe, seguendo la strada nietzscheana22, nell'angusta ripetitività dell'eterno ritorno, che involvendo la progettazione della struttura temporale dell'esistenza, paralizzerebbe la stessa evoluzione esistenziale dell'identità. Se ogni secondo della nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all'eternità. "Nel mondo dell'eterno ritorno, su ogni gesto grava il peso di una insostenibile responsabilità. Ecco perché Nietzsche chiamava l'ida dell'eterno ritorno il fardello più pesante"23. In questa visione di stampo nietzscheano ogni scelta è così gravata da un peso sotto cui soccombe ogni nostra azione, parola, pensiero e le conseguenze della stessa che sono destinate ad attualizzarsi all'infinito sempre uguali. In tale contesto la ripetizione diventa una sorta di categoria esistenziale, imprigiona all'interno di un cliché che, riproponendosi sempre uguale, conduce all'inaridimento e alla perdita di quello stesso senso che sembrava essere acquisito e fa del soggetto identità una illusione sostanzialista. Ma, anche seguendo l'impostazione della ripetitività degli stessi eventi, vi è all'interno di questa apparente rigida ripetitività, un microcosmo temporale in cui medesimezza e alterità si incontrano, in quanto ciò che si ripete deve essere già stato per essere ripetuto e pertanto nella configurazione di qualcos'altro rispetto a ciò di cui è ripetizione, non è più identico, ma è sempre un qualcosa di diverso, di nuovo rispetto all'originale. Nello stesso processo di ripetizione ci si allontana, così dal modello originale. e nel momento in cui ci si relaziona con il passato (una sorta di husserliana ritenzione e rimemorazzione) 29 nella situatività del presente (ora/limite della durata temporale), si delinea progressivamente l'identità e si definisce in una direzione anziché in un'altra. Noi siamo il nostro passato, ma noi siamo per il nostro passato, per i nostri vissuti. Il passato è ciò che più di ogni altra cosa è, noi dobbiamo costantemente confrontarci con esso accettandolo, riordinandolo, confermandolo o rinnegandolo. E anche in un'ottica di "ripetizione" non si può avere una sterile, rigida identità sostanziale. Persino percorrendo la strada delle ripetitività si intravede la costruzione dell'identità personale come dialogo continuo con la memoria, questa, infatti, mantenendo integro il passato, impedisce la disgregazione dell'io stesso e quindi la ricostruzione di nuovi io fittizi. E l'identità nuovamente è inscritta nel processo temporale. È attraverso un qui-ed-ora che appartiene al passato e alla memoria che si delinea la direzione verso la costruzione dell'identità, che non è una ripetizione immutabile del passato, ma è proprio la direzione che svela l'impossibilità del ritorno e precisamente del ritorno a quel sè compiuto e concluso. E, dunque, anche argomentando del necessario e dell'immutabile si è schiusa l'argomentazione che la necessità, intesa nel suo senso più classico di ciò che è così e non può essere altrimenti, è un'illusione, una vuota credenza alla quale l'essere umano si aggrappa per non dover fronteggiare la propria fragilità. Quelle che in prima battuta sembravano essere strutture immutabili del reale, l'eterno ritorno, la ripetizione, si sono rivelate null'altro che costruzioni fittizie, che l'essere umano applica a posteriori sulla realtà per ordinarla e dunque, in qualche modo, fronteggiarla. Ciò ci induce a giungere ad affermare che l'essere non è quella totalità piena, armonica ed equilibrata. Tutto ciò che sappiamo è che l'essere è: è al modo della totalità indistinta all'interno della quale ci muoviamo, che la nostra ragione non 30 può comprendere senza cadere in ragionamenti aporetici e dunque sterili. L'identità di tale essere è quella di un Esserci, un essere nel mondo che sviluppa con esso e in esso delle relazioni personali, istituisce dei rapporti di causa-effetto, disegna una propria mappa di orientamento identitario, una mappa sempre provvisoria e in continua ridefinizione, perché provvisorie sono le condizioni stesse del mondo in cui siamo situati. Ed è in questa provvisorietà che si configura la libertà della costruzione dell'identità: nell'infinito numero di interpretazioni possibili del contesto in cui l'essere è situato, degli oggetti che gli sono intorno ed entrano in relazione con lui, secondo priorità e gerarchie del tutto personali. Essere liberi vuol dire costruire, progettarsi, e non c'è costruire più originario di quello che parte dalle fondamenta. Così l'essere si autogiustifica costituendosi in una progettualità identitaria che diventa una identità narrativa: all'identità compresa nel senso di un medesimo - idem - si sostituisce l'identità, compresa nel senso di un se stesso - ipse. A differenza dell'identità del medesimo, l'identità costitutiva dell'ipseità, può includere il cambiamento. È la messa in atto di un progetto in cui l'identità si costruisce in un continuo mettere il sè in relazione con gli altri. Progettare significa scegliere, restringendo le infinite possibilità ad un'unica possibilità da attuare. Scegliere implica la libertà di prevedere il prevedibile come l'imprevedibile, le conseguenze desiderate ed indesiderate. "L'imprevedibilità [...] scaturisce simultaneamente dall'oscurità del cuore umano", cioè dalla fondamentale fluidità dell'uomo che non può garantire oggi chi sarà domani, e dall'impossibilità di predire le conseguenze di un atto in una comunità di eguali dove tutti hanno la stessa facoltà di agire"24. 31 L'imprevedibilità si rivela, dunque, come ciò che sfugge per principio alla razionalità umana, è la vita stessa, è attraverso di essa che si schiude il percorso di costruzione dell'identità del sè. L'uomo è, dunque, libero, ma gode di una libertà in cui l'esistenza precede l'essenza, in una continua tensione verso la pienezza di un sé che non tarda a rivelare la propria fondamentale inconsistenza, frutto della rettificazione senza fine di un racconto anteriore per mezzo di un racconto ulteriore. Tale modello di identità narrativa conduce a concepire la persona come una totalità sempre aperta che ricompone in sé il conflitto sempre aperto tra identico e diverso, ma in modo assoluto. L'io ha in sé una passività che è la condizione di possibilità per l'assunzione della propria identità. L'essere umano è sempre costitutivamente aperto e la sua azione è inquadrata in una fenomenologia dell'intersoggettività. L'identità non costituisce un atto immediato, originario dell'autodeterminazione dell'io, ma il risultato della dialettica incessante tra il sé e l'altro. L'identità del soggetto implica in modo costitutivo, quindi, il riconoscimento dell'alterità. Conoscere se stesso significa sempre riconoscersi attraverso la mediazione dell'alterità (nei vari segni in cui essa si manifesta: il tu, il contesto storico sociale di appartenenza, il linguaggio), dopo una fase di estraneità rispetto a se stesso. È in questa metafora del "riconoscimento" che si costituisce l'identità: "Il riconoscimento è una struttura del sé riflettente sul movimento che porta la stima di sé verso la sollecitudine e questa verso la giustizia. Il riconoscimento introduce la diade e la pluralità nella costituzione stessa del sé"25. 32 Quel doppio movimento: il movimento estatico dell'io, verso l'altro e il movimento di ritorno del soggetto a sé, attraverso il riconoscimento dell'altro. "Non è forse nella mia identità più autentica che io chiedo di essere riconosciuto?"26 In questo costitutivo porsi e cercarsi, l'uomo sperimenta, costantemente, l'insostenibile leggerezza dell'identità esistenziale. 1 De Trinitate, VII, 6. Cfr. H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press 1958. 3 P. Ricoeur, trad. it. Tempo e racconto III. Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1988, p. 375 4 F. Nietzsche, Aforisma 341, in trad. it. La gaia scienza Idilli di Messina, Bur, Milano 2000. "E come, se un demone ti perseguitasse giorno e notte finanche nella più solitaria delle tue solitudini, e ti dicesse: 'Questa vita, così come la vivi adesso e l'hai vissuta, ancora una, infinite volte dovrai viverla; e non ci sarà nulla di nuovo, quindi, ma al contrario ogni dolore e ogni piacere, e ogni pensiero, ogni sospiro e tutto ciò che v'è di ineffabile, grande e piccolo, nella tua vita, deve ritornare per te, e tutto nello stesso ordine e nella stessa successione - e altrettanto questo ragno e la luce della luna tra gli alberi, e altrettanto questo istante e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza incessantemente viene capovolta - e tu con lei, cenere dalla cenere!'- (Come) Non ti getteresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone, che parlava così? O tu ha vissuto una volta un istante prodigioso, tanto che potresti rispondergli: 'Tu sei un dio, e io non ho mai sentito cosa 2 33 più divina!'.Se quel pensiero si imponesse con la forza su di te, esso ti trasformerebbe, così come sei, e forse ti annienterebbe; la domanda, riguardo tutto e ciascuna cosa: 'Vuoi tu, dunque, questa cosa ancora una volta e ancora innumerevoli volte?" peserebbe sul tuo agire come il peso più pesante! Oppure come dovresti rendere te e la tua vita grata a te stesso, per non esigere più niente se non quest'ultima, eterna conferma, questo suggello?'", Ivi. 5 M. Kundera, trad. it. L'insostenibile leggerezza dell'essere, Adelphi, Milano 2001, p. 13. 6 H. Arendt, trad. it. Vita activa: la condizione umana, Bompiani, Milano 1989, p. 180. 7 P. Ricoeur, trad. it. Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 407. 8 Id., trad. it. Percorsi del riconoscimento, Raffaele Cortina, Milano 2005, p. 5. 34 NOTE NOTE IN MARGINE AL FILM IL GIOVANE FAVOLOSO: IL GIACOMO LEOPARDI DI MARIO MARTONE Nunzio Bombaci 1. Gli anni recanatesi Il 16 ottobre è uscito nelle sale Il giovane favoloso, l’atteso film di su Giacomo Leopardi, che ha conseguito apprezzamenti molto lusinghieri al recente festival cinematografico di Venezia. Anche i discendenti del poeta hanno elogiato l’opera alla quale, peraltro, hanno collaborato, offrendo la possibilità di girare buona parte del film nel palazzo Leopardi. Sulla rete si possono leggere le critiche più diverse del film, dagli elogi sperticati alle stroncature più nette. Va detto comunque che il regista Mario Martone non ha inteso offrire al pubblico una biografia di Giacomo Leopardi, ma una sua interpretazione della personalità umana e poetica dell’autore. Pertanto, egli ha ritenuto di potere trascurare alcuni periodi della sua vita e di soffermarsi in particolare su altri. Per lo scrivente, si tratta di una interpretazione nel complesso pregevole e abbastanza verosimile. Anche in passato, il regista ha mostrato un grande interesse per Leopardi, e ha realizzato una pregevole pièce teatrale tratta dalle Operette morali. Il suo film può sperare in un giudizio fondamentalmente positivo pure da parte dei cultori del poeta che abbiano letto non solo le sue opere, ma anche le celebri pagine critiche che al riguardo hanno scritto studiosi di rango, come Francesco De Sanctis, Walter Binni, 35 Francesco Flora, Giovanni Getto, Natalino Sapegno, Luigi Russo ed altri. L’attore Elio Germano, nei panni del «giovane favoloso», appare abbastanza convincente, sebbene la sua gestualità sia sembrata a taluni pletorica e incongrua. Si è trattato per lui di un ruolo estremamente difficile, poiché ha dovuto immedesimarsi in un uomo nel cui corpo sempre più martoriato dalla malattia continua a vivere un mondo di pensieri e di affetti vivissimi, un mondo vivant jusqu’à la mort, se è lecito ricorrere a un’espressione di Paul Ricoeur. Forse quella gestualità “eccessiva” trae origine proprio dal contrasto tra un corpo sempre più debole e una vita interiore indomita. Il film dà ampio spazio al periodo all’adolescenza e della prima giovinezza del poeta, segnate da sette anni di «studio matto e disperatissimo». Vengono completamente trascurati il primo soggiorno a Roma nonché i periodi trascorsi a Milano, Bologna e Pisa. Si tratta talora di omissioni importanti. Va detto che i mesi trascorsi dal poeta a Roma, dagli zii Antici, lo deludono profondamente, poiché sino allora egli credeva che al di fuori di Recanati il mondo fosse pieno di attrattive per un giovane volto a scoprire la pienezza della vita. A Roma egli non incontra validi interlocutori, ma degli intellettuali che gli sembrano «meri eruditi». Almeno la commozione di Giacomo dinanzi alla tomba di Torquato Tasso, che segna il momento più significativo del primo soggiorno a Roma, avrebbe meritato una scena del film. E, ancora di più, l’avrebbe meritata pure il periodo vissuto a Pisa, poiché in questa città, dal clima particolarmente mite, i malanni fisici concedono un po’ di tregua al poeta. Proprio a Pisa, questi vive un periodo di grande fervore creativo, espresso ne Il risorgimento e A Silvia. 36 Nelle scene iniziali del film vediamo i piccoli Giacomo, Carlo e Paolina giocare all’aperto. Nel film non si riscontra alcun interesse per le peculiarità caratteriali di Carlo e di Paolina, che appaiono quindi umbrae rispetto al primogenito. In nell’età fugacissima dell’infanzia e della prima fanciullezza Giacomo individua tutta la felicità che egli ha potuto godere. Egli è convinto, anzi, che si tratti dell’unica età felice concessa a innumerevoli esseri umani Nel prosieguo dell’opera, come era lecito attendersi, ci viene presentato un ragazzo dall’ingegno precocissimo ed eccezionale, spronato allo studio dal padre, il conte Monaldo, interpretato da Massimo Popolizio. I suoi figli trascorrono lunghe ore nella sua biblioteca, che comprende oltre ventimila volumi, ed è aperta al pubblico. Tuttavia, i Leopardi sono gli unici a fruirne. Invero, il carattere pubblico della biblioteca costituisce una risposta a una domanda che i recanatesi non hanno mai formulato. Altre iniziative, intraprese da Monaldo in qualità di amministratore locale in favore dei concittadini, avranno un riscontro più significativo. Monaldo è un uomo generoso. Probabilmente non è un “mediocre”, come lo considera Natalino Sapegno. E gli si arreca un torto se lo si considera semplicisticamente un reazionario, poiché ammette la necessità di qualche riforma in favore del popolo, purché sia decretata dall’alto. Come il film evidenzia, Monaldo è, piuttosto, un avversario del liberalismo, ed è convinto che la libertà auspicata dagli spiriti più progressisti del suo tempo sia in realtà “dissoluzione”. Per lui, l’unica libertà possibile si esplica nel conformarsi alla dottrina della Chiesa. Probabilmente, egli sarà stato tra i più convinti estimatori del papa Gregorio XVI che nell’enciclica Mirari vos, del 1832, qualifica come deliramentum «la cosiddetta libertà di pensiero». In quanto uomo estremamente fedele alla Chiesa, Monaldo è stato autorizzato dalle autorità ecclesiastiche a 37 comprare e custodire nella sua biblioteca alcuni libri proibiti ai fedeli, come i pamphlets degli illuministi. Oltre ai classici, il giovane Giacomo può leggere dunque le opere di d’Holbach, La Mettrie, Helvétius, e subisce pertanto l’influsso delle loro tesi materialiste e sensiste. In fondo, esse presentano delle assonanze con il pensiero di Lucrezio, ovvero di uno dei classici latini che egli ama. La biblioteca di Monaldo è ricca, ma antiquata, e non comprende le opere dei romantici. È legittimo chiedersi quale sarebbe stata la poetica di Leopardi se da giovane avesse potuto leggere autori come Coleridge, Shelley, Keats, oppure Novalis e Hölderlin. Forse, avrebbe rinvenuto in questi poeti degli spiriti in consonanza con il proprio e l’epoca in cui viveva gli sarebbe sembrata meno estranea. Ma qui ci muoviamo nel campo infido delle ipotesi. Al più, si può dire che se la biblioteca di Monaldo fosse stata un po’ più aggiornata, il “pensiero” di Leopardi sarebbe stato meno permeato da una concezione fondamentalmente sensista della felicità. È azzardato aggiungere che sarebbe stato meno infelice, ma probabilmente l’espressione della sua infelicità avrebbe assunto un timbro diverso. Forse, sarebbe stato più consapevole del valore spirituale della sua stessa poesia e avrebbe elaborato in modo meno tetro l’esperienza della sua solitudine e della malattia. Opportunamente, nel film di Martone viene dato rilievo alle dinamiche familiari che vigono nel palazzo Leopardi: l’affetto e la complicità dei quasi coetanei Giacomo, Carlo e Paolina, la presenza ossessiva del padre e del precettore, la lontananza fisica e affettiva della madre, Adelaide Antici. Il Monaldo del film ama molto il figlio primogenito, ne apprezza l’ingegno, e vorrebbe che questi ricambiasse ogni tanto i suoi gesti di tenerezza, ma l’adolescente è scontroso nei suoi riguardi. Egli si augura che Giacomo rimanga a Recanati e diventi il filologo di rango che egli non è riuscito 38 ad essere, appagando così in qualche modo il suo narcisismo frustrato. Un fratello della madre, invece, spera che egli metta il suo ingegno al servizio della Chiesa, deponendo il suo atteggiamento apertamente anticlericale. Giacomo cerca intanto la sua strada, aborrendo l’uno e l’altro progetto. Il conflitto con Monaldo non può che inasprirsi. Il giovane tenta anche di fuggire da Recanati, ma viene subito scoperto dal padre. Giacomo non realizzerà il sogno di Monaldo, e la sua autonomia risveglia probabilmente nel padre la «ferita narcisista», Nessuno dei suoi figli diventerà il filologo che egli vagheggia, rinchiuso a vita in quella biblioteca che tanto ha pesato sulle finanze del casato Leopardi. La marchese Adelaide Antici appare poco nel film. Del resto, è la grande assente nella vita dei figli. Ostenta indifferenza anche nei confronti delle opere scritte da Giacomo. Al più, è capace di accorgersi di lui e di rimproverarlo per l’uso maldestro delle posate. È noto che i biografi di Leopardi la descrivono come una donna gelida, nevrotica e bigotta. L’attrice che la interpreta, Raffaella Giordano, esprime soprattutto il suo carattere gelido. Forse, il bisogno di amore non è uguale in tutti i bambini, ed è Giacomo, più degli altri suoi figli, a soffrire per la mancanza in lei di qualsivoglia sguardo improntato alla tenerezza. In lui la sensibilità è vivissima, forse più della stessa intelligenza, e il film evidenzia anche questo aspetto della sua indole. Una sensibilità siffatta risente profondamente della mancanza di quell’amore primario che per lo psicoanalista ungherese Michael Balint può essere offerto dalla madre o, comunque, da una figura materna. L’amore primario è, in realtà, un amore puramente recettivo: si tratta del bisogno di essere amato, dell’eros di un essere estremamente indigente quale è il bambino. Nell’essere umano, la capacità di amare l’altro si affermerà più tardi, se l’amore primario 39 viene soddisfatto, e costituisce una “estroversione” di esso. Lo stesso Balint afferma che la carenza di amore primario è all’origine di un disturbo fondamentale (Grundstörung) della persona che permane, in qualche modo, per tutta la vita. È, questo, un disturbo che si manifesta segnatamente nella vita di relazione. Nei rapporti con gli altri - come attesta, peraltro, l’epistolario - Giacomo ricercherà sempre l’amore negatogli nella prima infanzia dalla figura materna. Nelle lettere ai familiari e agli amici, egli chiede – anzi, supplica di essere amato, più che affermare il suo amore e il suo affetto per l’altro. Spesso si osserva che nelle famiglie caratterizzate da una marcata anomalia dei rapporti interpersonali le conseguenze ricadono particolarmente su uno dei suoi componenti. Qui è soprattutto Giacomo a pagare per tutti. Più di Carlo e di Paolina, egli risente dell’assenza della madre e della presenza eccessiva e improvvida del padre. Giacomo sembra quasi un «servo sofferente» laico, sul quale gravano le conseguenze di un contesto relazionale abnorme, intessuto di silenzi, di omissioni, ma anche di intrusioni nel sacrario della libertà personale e quindi di pesanti condizionamenti psicologici. I biografi riferiscono che quello di Monaldo con Adelaide fu un matrimonio d’amore, osteggiato dai parenti di lui per la scarsità della dote arrecata dai marchesi Antici. Se si è trattato di un amore reciproco, si può dire che l’algida marchesa ha amato qualcuno almeno una volta nella sua vita. Per il resto, il suo contegno richiama alla mente coloro con riguardo ai quali il poeta francese Charles Péguy ha detto: «Credono di amare Dio perché non amano nessuno». Nel film, il carattere bigotto di Adelaide si rivela nella scena in cui rende le condoglianze alla famiglia del cocchiere, dopo la morte della giovane Teresa. Sia il tono che il significato delle sue parole sono agghiaccianti. Per lei, 40 non è importante se si muore da vecchi o in giovane età. L’importante, dunque, non è “quando”, ma “come” si muore. Pertanto, ella chiede al padre disperato - che è interpretato dal conte Vanni Leopardi - se la defunta ha manifestato una rassegnazione cristiana durante la malattia e se ha ricevuto i sacramenti. La morte di Teresa è vissuta con ben altra intensità dal figlio Giacomo che in tale circostanza ha un’allucinazione (non è la sola, nel film). Vede per un attimo Teresa, già deposta nella bara, aprire gli occhi. Alcuni anni dopo, Teresa gli ispirerà il canto A Silvia. Ancora per quanto attiene agli anni recanatesi, il regista pone in luce l’importanza del carteggio intrattenuto dal giovane Giacomo con Pietro Giordani, il primo studioso italiano a riconoscere il suo ingegno eccezionale. Giordani è un letterato raffinato, di impronta classicista, che comunque attribuisce alla letteratura il compito di elevare il tenore della vita civile. In sintesi, si può dire che egli interiorizzi l’essenziale dell’eredità spirituale di un Giuseppe Parini. Nei confronti del giovane, come attestano i brani dell’epistolari recitati nel film, Giordani si rivela una valida guida intellettuale, esortandolo a studiare in modo metodico e a scrivere in prosa ancora prima di comporre versi. Al tempo, l’attenzione di Giacomo è contesa tra gli studi eruditi, le traduzioni e le prime poesie. Nel complesso, negli anni recanatesi il film lo presenta più come un erudito che come un poeta. D’altronde, è lo stesso Leopardi a scrivere di essersi convertito, solo dopo molti anni di studio, «dall’erudizione al bello» e, in seguito, «dal bello al vero». Allorché Giordani rende visita al giovane, Monaldo nutre il sospetto che possa inculcare al figlio le sue idee liberali. Si tratta di un sospetto poco fondato: Giacomo non aderirà mai al liberalismo. Ricercherà, piuttosto, un suo spazio di libertà, lontano da Recanati. 41 Quando può finalmente allontanarsi da Recanati, Giacomo è da tempo fortemente segnato dalla malattia. Ai giorni nostri, gli studiosi tendono a ritenere che egli fosse affetto dal morbo di Pott, ovvero da una forma tubercolosi ossea che colpisce segnatamente le vertebre. Il film sembra dare credito a questa ipotesi, allorché pone in evidenza, oltre alle emottisi, i disturbi visivi, la debolezza muscolare sempre più grave, i dolori diffusi e, infine, l’idrotorace che porterà il poeta alla morte. 2. A Firenze e a Napoli Dopo avere presentato il giovane Leopardi, talora promeneur solitaire nelle campagne recanatesi, talaltra recluso nel «paterno ostello», il film opera un “salto” di circa dieci anni nella vita del poeta. Lo rivediamo quindi a Firenze, quasi trentenne. Conosce già Antonio Ranieri (l’attore Michele Riondino), un esule napoletano scaltro e donnaiolo con il quale stringe un sodalizio che durerà sette anni, sino alla morte. Del periodo fiorentino, il film pone in rilievo il rapporto di Giacomo con gli intellettuali liberali del circolo dell’Antologia e l’amore non corrisposto per l’avvenente Fanny Targioni Tozzetti, animatrice di uno dei più prestigiosi salotti della città, la quale ha una relazione con Antonio Ranieri. Nel film, l’ineffabile Fanny è rappresentata come moglie infedele e, al contempo, madre tenerissima. Significativamente, il marito non vi appare mai. La donna sembra stimare le qualità intellettuali di Giacomo, il quale cerca ogni occasione per incontrarla. Sa che Fanny colleziona scritti autografi di letterati illustri, e gliene procura alcuni. Non si accorge che ella resta estremamente lontana da lui. Si può dire che qui il Giacomo trentenne non si dimostra molto più maturo sul piano 42 emotivo rispetto a dieci anni prima, allorché si era invaghito di una cugina del padre, Gertrude Cassi Lazzari (trasfigurata poeticamente in “Nerina”) dopo avere conversato e giocato a carte con lei. Allo scoprire la relazione di Antonio con Fanny, la disperazione del poeta raggiunge il culmine. Il regista lo ritrae allora dall’alto, rannicchiato in posizione fetale, vicino alla riva dell’Arno. Si tratta di una delle scene più suggestive del film, che è sottolineata peraltro da una colonna sonora definita “distonica” da un critico accorto. Sempre nel periodo fiorentino, il film evidenzia le difficoltà che il protagonista sperimenta nei rapporti con il circolo di intellettuali dell’Antologia. Per lo più, costoro apprezzano in lui l’uomo di lettere, ma non ne comprendono la poesia. A loro giudizio, non può sperare di avere un pubblico un poeta che manifesti sempre e solo malinconia. È necessario che pure la poesia esprima gli ideali progressisti dell’epoca. Leopardi, tuttavia, resta sempre estraneo a tali ideali e, anzi, li schernisce. Poiché non condivide né le idee dei liberali né quelle dei romantici, egli resterà sempre un uomo isolato. Resta insoddisfatta in lui, tra le altre, un’esigenza che - come ha posto in rilievo lo psicologo umanista Abraham Maslow - è propria di ogni essere umano. Si tratta di quel bisogno di appartenenza che induce l’uomo ad aggregarsi a un gruppo di persone accomunate da determinati interessi o valori. Come lo stesso film di Martone attesta, Leopardi è destinato a vivere, con infinita pena, da homo spectator, mai da homo particeps. Giacomo non può tollerare che altri condizionino la sua creazione poetica e rompe i rapporti con gli intellettuali liberali fiorentini. Tra costoro, nel film si vede per qualche istante Niccolò Tommaseo, il quale sentenzia che nel secolo seguente nessuno si sarebbe più ricordato di Leopardi. Ancorché la letteratura critica relativa al poeta sia 43 amplissima, difficilmente al suo interno ci si può imbattere in un critico più ottuso di Tommaseo, per il quale il poeta vede dappertutto infelicità a causa della sua malattia e del suo corpo deforme. Qualche critico ha notato che nel film si avverte la mancanza del poeta Leopardi. In realtà, il protagonista recita numerosi versi delle poesie del Ciclo di Aspasia (Aspasia è la trasfigurazione poetica di Fanny). L’esito ultimo dell’elaborazione del dolore arrecato da un amore non corrisposto è un’apatia, un’immobilità dell’anima che sono descritte nei versi agghiaccianti di A se stesso, peraltro recitati nel film: «Che se d’affetti/ orba la vita e di gentili errori,/ è notte senza stelle a mezzo il vorno/ già del fato mortale a me bastante/ è conforto e vendetta è che su l’erba/ qui neghittoso, immobile giacendo,/ il mar, la terra e il ciel miro e sorrido». Oggi vedremmo in questi «conforto e vendetta», che si esprimono nell’indolenza e nel sorriso beffardo, un «meccanismo di difesa dell’Io» che funge da anestetico dell’anima, al prezzo di contrarla ancora di più in se stessa. Ancora prima di A se stesso, il protagonista del film recita i versi de La sera del dì di festa («Dolce e chiara è la notte e senza vento/E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti/Posa la luna, e di lontan rivela/ serena ogni montagna..») e L’infinito. Forse si può dire che manca nel film il Leopardi dei «grandi idilli», ovvero le opere nelle quali trovano espressione gli elementi che caratterizzano più profondamente la sua poetica. Vi è solo un’allusione indiretta ad essi, e la si può rinvenire nelle poche scene che riguardano Teresa alias Silvia, la giovane morta di tisi. Questa omissione è in rapporto alla mancanza di riferimenti, nel film, al periodo pisano, nel quale il poeta concepisce e scrive alcuni dei Canti più celebri. Dopo anni di profonda apatia, allorché risiede a Pisa, si risveglia in lui il mondo 44 degli affetti: avverte nuovamente in sé i moti di gioia e di dolore che non provava da tempo. A parere dello scrivente, il rilievo più significativo che può essere espresso nei confronti del film, è proprio la mancanza di riferimenti a questo periodo, ovvero al ridestarsi del mondo interiore del poeta che assume per lui il carattere di un “risorgimento”. Dopo un periodo di apparente stasi, irrompe nuovamente nel suo spirito la facoltà creativa, quasi come accade a Rilke durante il soggiorno nel castello di Duino, allorché inizia a comporre le Elegie duinesi. Giacomo, come confida alla sorella Paolina in una lettera del 2 maggio 1828, può scrivere ora dei «versi veramente all’antica, e con quel mio cuore di una volta». Rivive, e trasfigura poeticamente, i sentimenti provati negli anni recanatesi. Nei suoi momenti più elevati la sua poetica si alimenta di questo rivivere interiormente ciò che agli altri appare consegnato irremissibilmente al passato. Se è lecito ricorrere al linguaggio del filosofo Wilhelm Dilthey, trasponendolo dal campo storico a quello poetico, si può dire che la poesia dei «grandi idilli» si nutre fondamentalmente di un Nacherleben: la coscienza si rivolge all’indietro e il poeta trova le parole capaci esprimere i moti affettivi di un tempo. Il cultore di Leopardi avrebbe preferito che il regista del film prestasse attenzione a questo momento di grande rilievo nell’evoluzione della sua poetica, piuttosto che ammannire numerosi aneddoti relativi agli anni trascorsi da Leopardi tra Napoli e Torre del Greco. Nel complesso, il film privilegia proprio questi anni, nei quali si corrobora il sodalizio del poeta con Antonio Ranieri. La parte del film relativa a questo periodo è probabilmente la meno riuscita. Mario Martone, che per quanto riguarda la ricostruzione degli anni recanatesi dimostra un certo rigore filologico, qui si lascia prendere la mano dal gusto del grottesco e, come si è accennato, dell’aneddotico. Ci viene 45 presentato un Leopardi curvo sino all’inverosimile. Quel corpo appare come una metafora del cor curvatum in se del poeta, di un cuore che si è ripiegato su se stesso non solo per il dolore fisico, ma anche perché non ha avuto la possibilità si rivolgersi, nell’amore, all’altro da sé. Ancora, questo corpo così contratto è forse metafora di una vita che non si è dispiegata in un contesto relazionale adeguato. In modo lapidario, Benedetto Croce ha scritto che si è trattato di una «vita strozzata» Il poeta, che per i recanatesi era il “saccentuzzo”, per i popolani di Napoli è il “ravanuottolo”, ovvero il “ranocchio”. In un locale pubblico, un signore gli chiede se il suo “pessimismo” è conseguenza della malattia. Per il poeta, “pessimismo” e “ottimismo” sono solo «parole vuote», probabilmente perché esprimono due attitudini contrapposte nei confronti degli ideali del secolo che egli ritiene altrettanto vuoti. Leopardi risponde allora, risentito, che il suo pensiero non è correlato alla sua malattia, poiché la vita è infelice in tutte le sue espressioni. Aggiunge che l’onere della prova spetta a colui che afferma il contrario. La scena appare plausibile. Nel corso dell’Ottocento una buona parte della critica ha considerato la poesia di Leopardi la monocorde espressione di una malinconia dovuta alla malattia. Francesco De Sanctis costituisce, al riguardo, un’autorevole eccezione, quando afferma che, pur negando gli ideali di quel secolo, egli induce il lettore ad amarli: «Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto» (da F. De Sanctis, Saggi critici, vol. II) Il film di Martone ci presenta Giacomo mentre passeggia tra i vicoli di Napoli, partecipa alle feste del popolo, ingurgita gelati incurante delle proibizioni dei medici, e in un’occasione è vittima di una burla feroce, ordita peraltro da 46 Antonio Ranieri. L’affetto che questi dimostra nei confronti di Giacomo non si rivela del tutto disinteressato allo spettatore del film. Il giovane raccomanda alla sorella Paulina di custodire con la massima attenzione le carte del poeta, che in seguito pubblicherà. Nel libro pubblicato in seguito da Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, l’autore evidenzia, in modo stucchevole e quasi ossessivo, il carattere disinteressato delle cure prestate da lui prestate all’amico, nonché la dedizione dimostrata dalla sorella Paulina nei confronti del poeta. Evidentemente, Ranieri intende rispondere alle critiche mossegli riguardo al “disinteresse” della sua amicizia con il poeta, Neppure a Napoli, quindi, Giacomo incontra qualcuno che sappia davvero corrispondere al suo debordante bisogno di amore e di affetto. Se, allorché è ancora adolescente, scrive a Pietro Giordani che il suo più grande desiderio è conseguire la gloria, dieci anni dopo confesserà de visu allo stesso amico che, in realtà, ciò di cui ha più bisogno è l’amore, l’affetto, l’entusiasmo, la pienezza della vita. Le parole che nel film Leopardi rivolge a Giordani richiamano, anche nel loro tenore letterale, le espressioni che si riscontrano in una lettera da lui scritta il 25 novembre 1822, ovvero durante il primo soggiorno a Roma, al fratello Carlo («Amami…Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita»). Anche qui egli supplica l’altro affinché lo ami, perché egli ha bisogno soprattutto di essere amato. Come molti esseri umani, il poeta giunge a comprendere se stesso, e la sua esigenza più profonda – ovvero l’essere amato - attraverso un percorso accidentato e sperimentando le disillusioni più amare. Se Rilke fugge da ogni esperienza sentimentale allorché si rende conto del suo carattere estremamente impegnativo, e non vuole «essere amato» in modo esclusivo, perché ogni vincolo definitivo nuocerebbe alla sua libertà di poeta, 47 Leopardi, di converso, è alla disperata ricerca di un essere umano che lo ami. A differenza di Rilke, egli non avverte il rischio che una vita affettiva intensa possa compromettere la preminenza della creazione poetica su ogni altro aspetto dell’esistenza: semplicemente, quella vita affettiva gli è preclusa. Per alcuni critici, il Leopardi di Martone è fondamentalmente l’autore delle Operette morali. Nel film, in effetti, si riscontrano delle allusioni ad esse, ma vi è solo una “citazione” diretta, relativa al Dialogo tra la Natura e un islandese. Una delle allucinazioni di cui soffre il poeta fornisce il pretesto per la rappresentazione di una parte di questo dialogo. La Natura è ipostatizzata in un’enorme figura di creta dalle sembianze femminili. Essa rivela all’islandese/Giacomo di operare ciò che vuole, senza avvedersi delle conseguenze che il suo agire comporta per gli uomini e gli altri esseri viventi. La Natura non è “matrigna”, non è né buona né cattiva, né si può dire che sia una potenza ancipite, in quanto creatrice e distruttrice al contempo, come appare la Grande Madre nel pensiero di Carl Gustav Jung nonché in molti miti. La Natura è soltanto indifferente nei confronti dell’uomo. Indifferente, come verso Giacomo sono state la madre Adelaide e l’amata Fanny. La prima non si avvedeva dell’immane bisogno di amore provato dal figlio, la seconda sembra non avvedersi dell’amore che egli prova per lei. Inoltre, lo spettatore del film può notare che, mentre parla, la Natura si va “sbriciolando”. “perde pezzi”, ed essa non si avvede neppure di questo. In sintesi, la Natura appare allo spettatore estremamente diversa dalla physis, intesa dai filosofi greci quale principio generativo di ogni cosa che è. Qui, al contrario, la Natura è un processo di corruzione che riguarda innanzitutto se stessa. In sintesi, la Natura è una sorta di autocorruzione ignara di sé. 48 Qualche altro critico ha rilevato che il film presenta un Giacomo Leopardi fondamentalmente nichilista. In realtà, da un breve colloquio con la sorella Paolina emerge come egli identifichi l’unica verità attingibile dall’uomo in quella che si rivela nell’esercizio inesausto del dubbio. Il Leopardi di Martone sembrerebbe pertanto più uno scettico pervicace che un nichilista. Questa sua interpretazione richiama alla mente dello studioso di Leopardi quanto scrive uno dei suoi critici più autorevoli, Luigi Russo, nel saggio introduttivo all’edizione dei Canti del 1945: «Il Leopardi non fu né ottimista né pessimista, perché eternamente dubitò di tutto. Situazione che porta non già ad una sistematica filosofica, ma ad uno stato d’animo immaginativo e poetico, che può risolversi in un melodioso lamento e non in un definitivo e dogmatico catechismo». Si può aggiungere che se Martone avesse visto in Leopardi soprattutto il nichilista, non avrebbe concluso il film con alcune scene notturne del Vesuvio, accompagnate dalla recitazione – Elio Germano tiene a precisare che non si tratta di “declamazione” - dei versi de La ginestra. Non è tanto l’intellettuale nichilista ad affiorare qui, quanto il poeta consapevole dell’indifferenza della Natura nei confronti dell’uomo quanto estraneo al mito delle «magnifiche sorti e progressive», e che lancia quindi un appello agli esseri umani, affinché il vincolo di solidarietà tra di loro valga a mitigare le difficoltà della vita di ognuno. 49 MACINTYRE: THOMISTIC ARISTOTELIANISM OR ARISTOTELIAN THOMISM? Piergiorgio Della Pelle The works and the studies by Alasdair MacIntyre introduce, often, a presentation and a relecture of Aristotelian themes and ideas, placing itself in the same way (but not in the same direction) of the new contemporary interpretations on Aristotelian thought rise up in the 19th century1. However, the Scottish philosopher’s personal reading on Aristotle seems to be influenced in a meaningful way by the St. Thomas reading of the Stagirite’s philosophy2. Unlike the Heidegger’s interpretation on Aristotle, MacIntyre doesn’t fix on the problem of the return to the original and authentic reading of the ancient greek thought, cleaned by the medieval deposits, but he is concentrated on a sort of new (revised) Aristotelianism, that gives, especially in After Virtue (1981), to this old philosophy a new form and a new reading3. Insomuch as MacIntyre selfdefines his thought a Thomistic aristotelianism. But, is this really his philosophical position? Or is it more an Aristotelian thomism? I. In After Virtue, reading the path of the virtue's idea from Homer, differentiating this last one from the Aristotelian, MacIntyre writes that: 50 on Aristotles’account […] it is the telos of man as a species which determines what human qualities are virtues. We need to remember however that although Aristotle treats the acquisition and exercise of the virtues as means to an end, the relationship of means to end is internal and not external. I call a means internal to a given end when the end cannot be adequately characterized independently of a characterization of the means. So it is with the virtues and the telos which is the good life for man on Aristotle’s account.4 MacIntyre, here, advises that the distinction between internal or external means to end is not findable in Aristotle’s Nicomachean Ethics, but it’s typically of the defence by St. Thomas of the virtue’s idea of St. Augustine5. But, continuing his analysis, MacIntyre affirms that the New Testament’s account, even if it’s different «in content» from the Aristotelian one, has «the same logical and conceptual structure as Aristotle’s account»6. In the exegesis of MacIntyre, both the philosophers, Aristotle and St. Thomas, want to propose the idea that, reading the virtue as a quality, the exercise of it allows to attain the human telos, that is, the good. For the contemporary thinker this is the theoretical reason that brings the Aquinas very close to the virtue’s idea of the Stagirite. But, following his argument, seems to pop up a problem. Indeed, MacIntyre, developing the examination of the human telos of the good, says: «the good for man is of course a supernatural and not only a natural good, but supernature redeems and completes nature», and he continues: «moreover the relationship of virtues as means to the end which is human incorporation in the divine kingdom of the age to come is internal and not external, just as Aristotle»7. 51 From an historical-philosophical viewpoint, this position is problematic because, as the recent critic noticed, the ideas of the God and of the Divine by the Greeks, during the age of Plato and Aristotle, were different from those of Christianity8, here, of St. Thomas. The ancient greek concept of religion, may be seen in the word pistis, that, in the context of the polis, doesn’t take on the meaning of a direct e personal relationship with the God, but it has a juridical significance. As it is possible to see in the Socrates’ vicissitudes, the religion, or, what it is better to call religiousness, is linked to the laws of the polis, so, if someone transgresses a religious law, will be try in a law action. Therefore, historically, is possible to say that the value and the strongness of the greek religiousness, are not derived by the value and the strongness of the God (least of all of a legislator God), but they are due to the value and the strongness of the polis and its legal regulations. Looking beyond this historical fact, from a philosophical point of view, the God of the Aristotelian metaphysic, or rather the noesis noeseos (read out of the Thomistic revival), the Immobile motor, expresses an idea very far away from a personal God, it is a sort of atmosphere, something that is in another world and it influences this world, but not something that is in everyman and it influences everything. To the other side, St. Thomas, leaving from Aristotle, talks about the God of the Christian tradition, after more than a millennium of theological (and philosophical) thought. In view of these considerations, it is important to stress that MacIntyre’s analysis refers to the issues exposed in the I Book of the Nicomachean Ethics, in which Aristotle would deal with a divine good, that is the telos of the human virtue9. On one hand, is true that, for MacIntyre, in Aristotelian philosophy the good for the man is something, not only natural, but also supernatural, divine, however, on the other hand, this religious 52 dimension on the earth, for men, is guaranteed by the law of the polis. And, even if, is equally true that in the metaphysical perspective of Aristotle this good «completes nature», because it is the Uncaused Cause, the first motor, is more difficult to assert that this kind of good «redeems […] nature». Is it possible an idea of redemption in Aristotle’s philosophy? The same MacIntyre puts some reservations on that prospect when, in After virtue, relates to the John Lloyd Ackrill’s Aristotelian interpretation10. So, for the Greek philosopher the telos of the good life has its height in the contemplation, but, in the Aristotelian thought, the idea of contemplation «is still situated within an account of the good life as a whole in which a variety of human excellences have to be achieved at the various relevant stages»11. Therefore, MacIntyre continues: «this is why the notion of a final redemption of an almost entirely unregenerate life has no place in Aristotle’s scheme»12. First of all, it must be said that the reference to the concept of redemption, in both quotations, appears in the matter on Aristotelian human good and its connexion with the telos. Besides, it is important to point out that this idea, peculiar of Christianity and, here, of the Aquinas philosophy, even taken beyond the one of «final redemption»13, is not directly referable to the possible Aristotelian dichotomy between natural and supernatural. Indeed, the divine good of Aristotle, certainly completes nature in its supernatural pre-eminence, but plays unlikely the role of nature’s redeemer in its supernatural primacy. Furthermore the, viewed, idea of the «relationship of virtues as means to the end», that would be internal, is understood by MacIntyre like the «human incorporation in the divine kingdom of the age to come»14. But this point is not so instantly approvable, as the Scottish philosopher wants, if is it read «just as Aristotle»15. The Greek thinker, never deals with an 53 existence of a divine kingdom that will be in the future, or of an another divine world in which the man will be included. Even when he exposes, in the Metaphysics, his critical account on Plato’s world of ideas, he doesn’t think it like a future kingdom for the men, or for the virtuous, at most he has in the mind something like an ideal world in which there are the supreme forms of the ideas, and so, the pure virtues. In the light of this, is possible to notice that in the «parallelism» between Aristotle and New Testament, in wich the Aquinas would be the «synthesis», the MacIntyre’s reading of the Aristotelian idea of virtue is meaningfully moves on the side of the St. Thomas‘ thought16. II. Moving the attention from Aristotle to the Aquinas, in the Summa Theologiae, in the matter of natural and supernatural good, is written: non est conveniens quod Deus minus provideat his quos diligit ad supernaturale bonum habendum, quam creaturis quas diligit ad bonum naturale habendum. Creaturis autem naturalibus sic providet ut non solum moveat eas ad actus naturales, sed etiam largiatur eis formas et virtutes quasdam, quae sunt principia actuum, ut secundum seipsas inclinentur ad huiusmodi motus. Et sic motus quibus a Deo moventur, fiunt creaturis connaturales et faciles; secundum illud Sap. VIII, et disponit omnia suaviter. Multo igitur magis illis quos movet ad consequendum bonum supernaturale aeternum, infundit aliquas formas seu qualitates supernaturales, secundum quas suaviter et prompte ab ipso moveantur ad bonum aeternum consequendum. Et sic donum gratiae qualitas quaedam est.17 54 As far as is it possible to think similar the Aristotelian issue to the Thomistic one, in the passage just now quoted, it seems to be clear that the whole speech has its foundation on the New Testament’s idea of grace. This concept regulates the relationship God-man, and, in the perspective of the good, it affirms the self participation of God to his goodness: et secundum huiusmodi boni differentiam, differens consideratur dilectio Dei ad creaturam. Una quidem communis, secundum quam diligit omnia quae sunt, ut dicitur Sap. XI; secundum quam esse naturale rebus creatis largitur. Alia autem est dilectio specialis, secundum quam trahit creaturam rationalem supra conditionem naturae, ad participationem divini boni. Et secundum hanc dilectionem dicitur aliquem diligere simpliciter, quia secundum hanc dilectionem vult Deus simpliciter creaturae bonum aeternum, quod est ipse.18 The divine good here seen appears in a constitutive relationship with that kind of special love, the grace, that makes possibile the idea of a participation to and in this good. Human good and divine good are connected by a positive stretch that allows the man to aspire asymptotically to this divine good, of which he’s participated and participating. Although the idea of participation is alive in the ancient greek idea of methexis, the idea of a personal God that feels something like the love for «all the things that exist», instead, is a characteristic of the New Testament’s religion. After all, it seems to be meaningful, and it is no accident, that MacIntyre in After virtue, in the few lines devoted to the concept of grace (after the quotation of Aristotle in the context of modern philosophy) writes: «the contrast between man-as-he-happens-to-be and man-as-hecould-be-if-he-realized-his-telos remains and the divine moral law is still a schoolmaster to remove us from the former state to 55 the latter, even if, only grace enables us to respond to and obey its precepts»19. Another confirmation of the influence of St. Thomas in the Aristotle’s reading by MacIntyre may be seen also in the explication of the Aristotelian sense of the eudaimonia (translated with «difficulty» as «blessedness, happiness, prosperity»20). Underlining the relationship between this status and the good for man, in the definition of this idea, he says that: «it is the state of being well and doing well in being well, of a man’s being well-favored himself and in relation to the divine»21. It is not so difficult to understand how much the last part of this sentence is referable to the Christian God and to His direct relationship with the man, expressing the never ending ambition of the human good to the divine one. III. Leaving for a moment After Virtue, in the Preface to the italian edition of Three rivals versions of moral enquiry, published in 1993, MacIntyre claims that who, like him, supports «le posizioni dell’aristotelismo contemporaneo nella sua versione tomistica», «deve perciò essere in grado di fare due cose»: essere capace di dare ragioni valide per giungere alla conclusione che all'interno della tradizione costituita dai dibattiti argomentativi che si estendono da Socrate attraverso Platone e Aristotele fino e oltre i grandi filosofi medievali e della rinascenza scolastica, è prorio questa versione dell'aristotelismo che si è mostrata capace di giustificazione razionale attraverso l'argomentazione dialettica and essere in grado di spiegare come e perché in tradizioni rivali, nelle quali alcuni dei criteri, concetti o 56 argomentazioni centrali dell'aristotelismo tomista vengono rifiutati, una conseguenza di quel rifiuto sia la sterilità o almeno l'incoerenza, o forse entrambe, riguardo ai problemi sorti all'interno di queste tradizioni, sterilità e incoerenza che si spiegano adeguatamente solo mediante le risorse che un aristotelico tomista può proporre.22 In spite of MacIntyre’s self-declaration of Aristotelianism, in After Virtue, he criticizes the «metaphysical biology»23, that he finds in the Stagirite’s thought and that would be connected to the «Aristotle’s teleology»24: human beings, like the members of all other species, have a specific nature; and that they move by nature is such that they have certain aims and goals, such that they move by nature towards a specific telos. The good is defined in terms of their specific characteristics. Hence Aristotle’s ethics, expounded as he expounds it, presupposes his metaphysical biology.25 This teleological inclination of the human βίος is seen by MacIntyre like a limitation for the Aristotelian position, to the extent that he opposes and proposes to replace and to cross this idea introducing a social-historical dimension, linked to the concept of polis26. In other words, he doesn’t think the telos like a purpose of the human βίος, but in terms of a common good of society. This view, probably inspired by Benjamin Franklin, directs MacIntyre toward a political critique to the aristocratic connotation of that (that he calls the) metaphysical biology by 57 Aristotle27. At this point is useful to notice that MacIntyre twenty five years later After Virtue, returning on this aspect, corrects and reinforces his own point of view on this social sphere of the good-common-telos resorting, again, to the Aquinas. The continual study on the Scholastic philosopher, indeed, would have suggested to MacIntyre that his idea of a social good, opposed to the Aristotelian one, proposing merely a theory of society, wouldn’t be an effective way until it would have been expressly founded on a metaphysics. Not foreseeing this basis, for MacIntyre, the same St. Thomas’ perspective is darkened, inasmuch it is not possible to point out a theory of society without considering the idea of a human teleology towards which men move on for their own nature. So -writes MacIntyre in the Prologue to the Third Edition After Virtue After a Quarter of a Century-: «I discovered that I had, without realizing it, presupposed the truth of something very close to the account of the concept of good that Aquinas gives in question 5 in the first part of the Summa Theologiae»28. From this point of view MacIntyre, once again, searches and finds refuge and support in St. Thomas’ philosophy, going back to the teleological dimension of the good for the humans; so, he reasserts not only his steady connexion with this thinker, but even more strengthens the thesis, here suggested, of his Aristotelian thomism. As a matter of fact, in view of the above, that his position appears more like an Aristotelian thomism than a Thomistic aristotelianism. Indeed, if is true that the analysis of Aristotle’s works made by MacIntyre is deeply and steadily influenced by the lectio of the Aquinas, is not so for the interpretation of Thomistic philosophy, in which survives a christianized Aristotle. The consideration of this ancient thought doesn’t be never without the St. Thomas and New Testament outlook of a God that completes and redeems nature and infuses his grace. Under this sign, Aristotle’s philosophy is read through the Neo- 58 Scholastic concepts, compelling this origin of the thought, that is, also, and above all, a thought of the origin, in a way in which metaphysics and ethics are thinked in a system that understands the nature not on his own architecture, but in dependence relationship with a supernatural and transcendent force that is not the aristotelian noesis noeseos. Therefore, if it is true that the philosophy of MacIntyre is a revival of the thomism, seems to be certain, likewise, that his profession of aristotelism have to be read not in the sense of his selfdeclaration of a Thomistic aristotelianism, but in the direction of an Aristotelian thomism, that seems to animate his thought from After Virtue. References Giuseppe Abbà, Filosofia, vita buona e virtù, LAS, Roma 1989. - , MacIntyre e l’etica tomista, in «Studi Perugini» 3 (1997), pp. 135154; John Lloyd Ackrill, Aristotle on «eudaimonia», in Proceedings of the British Academy 60 (1974), pp. 339-359, reprinted in Amélie Oksenberg Rorty (ed. by), Essays on Aristotle’s Ethics, University of California Press, Berkeley 1980, pp. 15-33. Hannah Arendt, Vita Activa oder vom tätigen Leben, Piper, MünchenZürich 1960. Enrico Berti, La filosofia pratica di Aristotele nell’odierna filosofia anglo-americana, in Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 1992, pp. 219- 231. Janet Coleman, MacIntyre and Aquinas, in John Horton- Susan Mendus (ed. by), After Macintyre: Critical Perspectives on the Work of Alasdair Macintyre, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1994. 59 Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, J. C. B. Mohr (P. Siebeck), Tübingen 1960 - , Religion and Religiosity in Socrates, in Proceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy, University Press of America, Lanham/ London 1986, pp. 53-75. John Haldane, MacIntyre’s Thomist Revival: What Next?, in John Horton- Susan Mendus (ed. by), After Macintyre: Critical Perspectives on the Work of Alasdair Macintyre, University of Notre Dame Press, quot.. Martin Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der hermeneutische Situation), now in Phänomenologische Interpretation ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik, in GA 62, Klostermann, Frankfurt am Main 2005 - , Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einleitung in die phänomenologische Forschung (WS 1921/22), in GA 61, Klostermann, Frankfurt am Main 1987 - , Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (SS 1924), in GA 18, Klostermann, Frankfurt am Main 2002 Wilhelm Hennis, Politik und praktische Philosophie . Eine Studie zur Rekonstruktion der politischen Wissenschaft, Neuwied a. M. - Berlin 1963; Joachim Ritter, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Frankfurt a. M. 1969. Christopher Stephen Lutz, Tradition in the Ethics of Alasdair MacIntyre: Relativism, Thomism, and Philosophy, Rowman & Littlefield, Lanham 2004. Alasdair MacIntyre, After Virtues, Bristol Classical Press, London 1981, in this study quoted from the third edition‘s version by Bloomsbury Academic, London New York 2013. - , Prefazione alla edizione italiana di Tre versioni rivali di ricerca morale, Editrice Massimo, Milano. - , Prologue to the Third Edition After Virtue After a Quarter of a Century, p. XI. - , The Objectivity of Good, St. Lawrence University Press, New York 1988. - , Three Rival Versions of Moral Enquiry, Duckworth, London 1990. 60 - , Whose Justice? Which Rationality?, Duckworth, London 1988, 2 B.. St. Thomas, SummaTheologiae, Ref. engl. transl. by Fathers of the English Dominican Province in SummaTheologiae, Benziger 1 Brothers, New York 1947-1948 , then McGraw-Hill 1964-1980. 1 First of all see Martin Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der hermeneutische Situation), now in Phänomenologische Interpretation ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik, in GA 62, Klostermann, Frankfurt am Main 2005; Id., Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einleitung in die phänomenologische Forschung (WS 1921/22), in GA 61, Klostermann, Frankfurt am Main 1987; Id., Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (SS 1924), in GA 18, Klostermann, Frankfurt am Main 2002. Also see Hannah Arendt, Vita Activa oder vom tätigen Leben, Piper, München-Zürich 1960; Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, J. C. B. Mohr (P. Siebeck), Tübingen 1960; Wilhelm Hennis, Politik und praktische Philosophie . Eine Studie zur Rekonstruktion der politischen Wissenschaft, Neuwied a. M. - Berlin 1963; Joachim Ritter, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Frankfurt a. M. 1969. 2 On MacIntyre’s interpretation of St. Thomas, see Giuseppe Abbà, MacIntyre e l’etica tomista, in «Studi Perugini» 3 (1997), pp. 135-154; Janet Coleman, MacIntyre and Aquinas, in John Horton- Susan Mendus (ed. by), After Macintyre: Critical Perspectives on the Work of Alasdair Macintyre, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1994; John Haldane, MacIntyre’s Thomist Revival: What Next?, ivi;Christopher Stephen Lutz, Tradition in the Ethics of Alasdair 61 MacIntyre: Relativism, Thomism, and Philosophy, Rowman & Littlefield, Lanham 2004. 3 See Alasdair MacIntyre, After Virtues, Bristol Classical Press, London 1981, in this study quoted from the third edition‘s version by Bloomsbury Academic, London New York 2013. Besides see Enrico Berti, La filosofia pratica di Aristotele nell’odierna filosofia angloamericana, in Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 1992, pp. 219231. 4 Anzitutto, cfr. Martin Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der hermeneutische Situation), now in Phänomenologische Interpretation ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zur Ontologie und Logik, in GA 62, Klostermann, Frankfurt am Main 2005; Id., Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einleitung in die phänomenologische Forschung (WS 1921/22), in GA 61, Klostermann, Frankfurt am Main 1987; Id., Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (SS 1924), in GA 18, Klostermann, Frankfurt am Main 2002. Inoltre, cfr. Hannah Arendt, Vita Activa oder vom tätigen Leben, Piper, München-Zürich 1960; Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, J. C. B. Mohr (P. Siebeck), Tübingen 1960; Wilhelm Hennis, Politik und praktische Philosophie . Eine Studie zur Rekonstruktion der politischen Wissenschaft, Neuwied a. M. - Berlin 1963; Joachim Ritter, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Frankfurt a. M. 1969. 5 Sulla interpretazione operata da MacIntyre su San Tommaso, cfr. Giuseppe Abbà, MacIntyre e l’etica tomista, in «Studi Perugini» 3 (1997), pp. 135-154; Janet Coleman, MacIntyre and Aquinas, in John Horton- Susan Mendus (ed. by), After Macintyre: Critical Perspectives on the Work of Alasdair Macintyre, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1994; John Haldane, MacIntyre’s Thomist Revival: What Next?, ivi;Christopher Stephen Lutz, Tradition in the Ethics of Alasdair MacIntyre: Relativism, Thomism, and Philosophy, Rowman & Littlefield, Lanham 2004. 6 Cfr. Alasdair MacIntyre, After Virtues, Bristol Classical Press, London 1981, qui citato dalla versione della terza ed. di Bloomsbury Academic, London New York 2013. Inoltre, cfr. Enrico Berti, La 62 filosofia pratica di Aristotele nell’odierna filosofia anglo-americana, in Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 1992, pp. 219- 231. 7 Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. pp. 214-215. 228 tr it 8 See Ibidem. Seven years after After Virtues, MacIntyre returns on the integrative relationship between Aristotle and St. Augustine in Whose Justice? Which Rationality?, Duckworth, London 1988, p. 205. 9 Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. p. 215. 10 Ibidem. 11 See Hans-Georg Gadamer, Religion and Religiosity in Socrates, in Proceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy, University Press of America, Lanham/ London 1986, pp. 53-75. 12 See Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot., pp. 214-215. 13 Referring to John Lloyd Ackrill, Aristotle on «eudaimonia», in Proceedings of the British Academy 60 (1974), pp. 339-359, reprinted in Amélie Oksenberg Rorty (ed. by), Essays on Aristotle’s Ethics, University of California Press, Berkeley 1980, pp. 15-33. 14 Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. p. 204. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. p. 215. 18 Ibidem. 19 See Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. pp. 214-215. 20 St. Thomas, SummaTheologiae, II-I q. 110 a. 2: «it is not fitting that God should provide less for those He loves, that they may acquire supernatural good, than for creatures, whom He loves that they may acquire natural good. Now He so provides for natural creatures, that not merely does He move them to their natural acts, but He bestows upon them certain forms and powers, which are the principles of acts, in order that they may of themselves be inclined to these movements, and thus the movements whereby they are moved by God become natural and easy to creatures, according to Wis. 8:1: "she . . . ordereth all things sweetly." Much more therefore does He infuse into such as He moves towards the acquisition of supernatural good, certain forms or supernatural qualities, whereby they may be moved by Him sweetly and promptly to acquire eternal good; and thus the gift of grace is a quality». Ref. engl. transl. by Fathers of the 63 English Dominican Province in SummaTheologiae, Benziger 1 Brothers, New York 1947-1948 , then McGraw-Hill 1964-1980. 21 St. Thomas, SummaTheologiae, II-I q. 110 a. 1, ref. engl. transl.: «and according to this difference of good the love of God to the creature is looked at differently. For one is common, whereby He loves "all things that are" (Wis. 11:25), and thereby gives things their natural being. But the second is a special love, whereby He draws the rational creature above the condition of its nature to a participation of the Divine good; and according to this love He is said to love anyone simply, since it is by this love that God simply wishes the eternal good, which is Himself, for the creature». 22 Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. p. 64. 23 Ivi, p. 174. 24 Ivi, p. 188. 25 Alasdair MacIntyre, Prefazione alla edizione italiana di Tre versioni rivali di ricerca morale, Editrice Massimo, Milano 1993, p. 19. 26 Alasdair MacIntyre, quot. After Virtues, quot. p. 174. 27 Ivi, p. 189. 28 Ivi, p. 173. 29 See Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. pp. 191-197. This idea is critically examined by Giuseppe Abbà. In spite of his reading of the Aristotelian idea of virtue is not so far from the one of MacIntyre (also in the nearness with the position of St. Thomas), he opposes to the Scottish philosopher’s critic to the « unsustainable» Aristotelian “metaphysical biology” and to his “social” solution. See Giuseppe Abbà, Filosofia, vita buona e virtù, LAS, Roma 1989, pp.110-111. 30 See Alasdair MacIntyre, After Virtues, quot. p. 270. 31 Alasdair MacIntyre, Prologue to the Third Edition After Virtue After a Quarter of a Century, p. XI. St. Thomas writes: «bonum et ens sunt idem secundum rem, sed differunt secundum rationem tantum. Quod sic patet. Ratio enim boni in hoc consistit, quod aliquid sit appetibile, unde philosophus, in I Ethic., dicit quod bonum est quod omnia appetunt. Manifestum est autem quod unumquodque est appetibile secundum quod est perfectum, nam omnia appetunt suam perfectionem. Intantum est autem perfectum unumquodque, inquantum est actu, unde manifestum est quod intantum est aliquid bonum, inquantum est ens, esse enim est actualitas omnis rei, ut ex 64 superioribus patet. Unde manifestum est quod bonum et ens sunt idem secundum rem, sed bonum dicit rationem appetibilis, quam non dicit ens», ref. engl. transl. : «Goodness and being are really the same, and differ only in idea; which is clear from the following argument. The essence of goodness consists in this, that it is in some way desirable. Hence the Philosopher says (Ethic. i): "Goodness is what all desire." Now it is clear that a thing is desirable only in so far as it is perfect; for all desire their own perfection. But everything is perfect so far as it is actual. Therefore it is clear that a thing is perfect so far as it exists; for it is existence that makes all things actual, as is clear from the foregoing. Hence it is clear that goodness and being are the same really. But goodness presents the aspect of desirableness, which being does not present». 65 METODO E METAFISICA NEL CRITICISMO KANTIANO Luca Ferrara 1.La teorizzazione del rapporto tra metodo e metafisica nel periodo precritico Il complesso tentativo kantiano di individuare le conoscenze a cui può giungere la ragione indipendentemente da ogni esperienza, affinché essa possa stabilire quale metodo debba seguire per fondare la metafisica come scienza, non è un problema totalmente nuovo nella storia della speculazione occidentale, e non è una questione relativa solo al criticismo kantiano. Che la filosofia, intesa nell’accezione di metafisica, dovesse affrontare un necessario vaglio metodologico per potersi poi atteggiare a scienza era opinione comune nei filosofi dell’età moderna. La scienza moderna aveva posto nell’istanza metodologica la pietra di paragone tra ciò che era fondato e ciò che era infondato. Inoltre, ai filosofi dell’età moderna1 appariva in tutta la sua forza epistemica lo iato che si poneva tra una serie di idee metafisiche (legate da una serie di sillogismi) e la catena dei ragionamenti del matematico: la speculazione metafisica — strutturata secondo la logica aristotelica — non riusciva ad assumere un valore scientifico tale da valere2 per l’intera comunità filosofica. Le opere giovanili di Kant3 si inseriscono nel dibattito comune a diversi pensatori dell’Aufklärung sulla questione del metodo e su i suoi rapporti con la metafisica. Infatti, filosofi (come Rüdiger, Crusius, Baumgarten e Lambert) e matematici (come Eulero) avevano dato ampio rilievo nelle loro opere alla 66 questione metodologica4. Dunque, non è casuale la presenza, nei Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (il primo scritto del filosofo) di osservazioni di carattere metodologico e metafisico. Kant dichiara che «tutto questo trattato [la sua tesi di laurea] è unicamente un prodotto di questo metodo (von dieser Methode) di pensare»5 la cui assenza ha comportato «molti errori in filosofia, o quanto meno sarebbe stato un mezzo per sottrarsi ad essi molto prima.[…]la tirannia degli errori sull’intelletto umano, che talvolta è durata per secoli interi, è derivata soprattutto dalla mancanza di questo metodo o di altri che sono imparentati con esso; e che dunque ora ci si deve applicare a questo prima che ad altri per prevenire, in futuro, quel male.»6. Bisogna tener presente che in questo scritto Kant intende con il termine filosofia, sia la scienza fisica, definita nel corso del ‘600 e del ‘700 filosofia naturale, sia la metafisica. Ora al metodo viene assegnata una funzione precisa: liberare l’intelletto dall’errore nelle ricerche filosofiche. Il compito catartico, attribuito al metodo, non è una novità concettuale introdotta dal filosofo, ma il pieno riconoscimento di una funzione di un dispositivo concettuale sedimentatosi storicamente7. Ma qual è questo metodo? Come riesce a prevenire l’errore? L’intelletto cade in errore perché non presta particolare attenzione ai passaggi logici di un’argomentazione. Questo metodo viene definito da Kant come: l’arte (Kunst) di indovinare dalle premesse se una dimostrazione, disposta in un certo modo, riguardo alle conclusione conterrà in sé anche i princìpi sufficienti e completi. In questo modo inferiremo se in essa deve esserci uno sbaglio; anche se non lo scorgeremo da nessuna parte, saremo spinti a cercarlo, infatti abbiamo una causa sufficiente per presumerlo. Dunque, questa sarà una difesa contro la pericolosa propensione al consenso, che senza questo stimolo allontanerebbe tutta 67 l’attività dell’intelletto dall’indagine di un oggetto; non trovando alcuna causa per porvi dubbio8 . Il metodo si attesta come strumento logicoconcettuale capace di mettere a confronto premesse e conclusioni, in modo poi da scorgere se nei due momenti dell’argomentazione siano stati utilizzati i medesimi principi e se siano stati adoperati nella stessa maniera.9 Nel corso degli anni ’50 del ‘700, pur essendo notevole la produzione scientifica di Kant, non emergono (nelle opere di questo periodo) particolari indicazioni volte a ridefinire le istanze metodologiche elaborate nel suo primo scritto. Di tutt’altro tenore sono gli scritti del filosofo nel decennio successivo: in questi scritti è facile individuare per l’interprete una chiara tematizzazione del rapporto tra metodo e metafisica. Infatti è possibile individuare indicazioni significative in due scritti precritici degli anni ’60: L’unico argomento possibile per l’esistenza di Dio; Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale. Nella prefazione dello scritto Sull’unico argomento, il filosofo dichiara che il buon senso offre argomenti convincenti per affermare l’esistenza dell’ente supremo. Ma allora perché deve essere proposto un altro argomento da utilizzare per la dimostrazione di Dio? Da una necessità che appartiene alla struttura del soggetto conoscente. Il filosofo dichiara che l’intelletto abituato all’indagine (a differenza del buon senso che è adoperato da tutti gli uomini10) non può sottrarsi ad un suo legittimo desiderio: raggiungere qualcosa di compiuto e di chiaramente concepito in una conoscenza di tale importanza. Dunque, gli argomenti utilizzabili dal buon senso per la dimostrazione di Dio, differiscono dall’argomento utilizzabile dall’intelletto avvezzo all’indagine. Ma per conseguire una tale conoscenza: «bisogna avventurarsi entro l’abisso senza fondo che è la metafisica. Oceano tenebroso, senza sponde e senza 68 fari, in cui bisogna condursi come chi, navigando in mare non ancora solcato, non appena metta piede su qualche terra, esamina il suo cammino, e cerca se mai delle inavvertite correnti marine non abbian deviato il suo corso»11. Il filosofo tedesco adopera due metafore “marine” per indicare la natura della metafisica: “oceano tempestoso” e “abisso senza fondo”12. Indagare un tema come l’esistenza dell’Ente supremo vuol dire entrare nel campo di ricerche proprie della metafisica, ma questo ambito disciplinare si presenta non privo di difficoltà, dove ogni risultato raggiunto potrebbe essere ingannevole. Infatti, il filosofo deve fare attenzione “non appena metta piede su qualche terra” (dove “terra” può essere inteso come risultato) a delle “inavvertite correnti marine”, le quali possono aver “deviato il suo corso”, cioè se non lo abbiano condotto verso risultati non del tutto corretti. Kant, per ovviare a tale condizione nella quale si trova il filosofo, dichiara che nelle sue ricerche ha avuto « di mira specialmente il metodo per salire alla conoscenza di Dio mediante la scienza naturale»13. Ma perché adoperare proprio la scienza naturale e non il metodo della matematica per giungere alla dimostrazione dell’esistenza di Dio? Prima di tutto Kant è convinto che la metafisica non può far proprie le istanze metodologiche della matematica, perché «la smania del metodo, l’imitazione del matematico che si avanza sicuro su ben costrutta strada ha, sullo sdrucciolevole terreno della metafisica, causato dalla moltitudine di tali passi falsi, che, per quanto continuamente presenti ai nostri occhi, pure lascian poco sperare che s’apprenda da essi a star sull’avviso e ad esser più accorti»14. Inoltre, secondo il filosofo sussiste una differenza di natura tra metafisica e matematica che non permette alla prima di adoperare il metodo della seconda. Ora se il metodo della matematica non va bene in metafisica, quale metodo bisogna utilizzare nelle indagini speculative? Il metodo della scienza naturale, cioè della fisica. Ma cerchiamo di esaminare le 69 affermazioni kantiane nel seguito dell’opera e cerchiamo di capire le motivazioni profonde della scelta kantiana di una tale istanza metodologica. Dichiara il pensatore tedesco che «nel metodo (Verfahren) della corretta filosofia domina una regola (Regel) sempre osservata in pratica, anche se formalmente non espressa: in ogni ricerca delle cause di certi effetti si deve star molto attenti a conservare per quanto è possibile l’unità della natura, cioè a dedurre da un unico principio già conosciuto effetti vari, e non ammettere subito, nuove e diverse cause agenti per diversi effetti»15. Sembra che la filosofia speculativa sia più vicine alle indagini della fisica, perché in entrambe si muove dall’analisi dei fenomeni naturali, considerati come effetti, per poi giungere alle cause. Dunque, se la metafisica adotta le istanze metodologiche della scienza naturale, deve indagare l’esistenza di Dio facendo leva sul nesso causa-effetto. Perciò il principio espresso sopra, non è altro che una riformulazione del rasoio di Ockam — presente anche nelle regulae philosophandi di Newton16 — il quale può trovare una sua applicazione anche nell’ambito delle ricerche speculative. Maggiori indicazioni sul rapporto tra metodo e metafisica, si possono trovare nello scritto kantiano Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale. Nel 1763 l’Accademia delle Scienze di Berlino bandì un concorso per la classe di filosofia, il tema proposto riguardava lo studio del grado di certezza delle verità metafisiche rispetto a quelle geometriche, inoltre, chiedeva di analizzare la natura della certezza metafisica. Il saggio kantiano sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale è originato da tale questione. Il filosofo afferma che il tema proposto dall’Accademia berlinese è della massima importanza per le sorti della metafisica: «il quesito proposto è tale che, se lo si risolve in maniera adeguata, la filosofia 70 superiore [metafisica] ne avrà una forma definita»17. Continua poi il filosofo : Quando sarà fissato il metodo per mezzo del quale si potrà ottenere la massima certezza possibile in questo genere di conoscenza, […] un norma dottrinaria immutabile, in luogo del perpetuo oscillare di opinioni e di correnti scolastiche, dovrà unire tutti i pensatori in uno sforzo comune; così come il metodo di Newton nelle scienze naturali ha trasformato la sregolatezza delle ipotesi fisiche in un procedere sicuro secondo i dettami dell’esperienza e della geometria. Ma quale metodo di insegnamento dovrà avere questa trattazione stessa, in cui si vuole indicare alla metafisica il suo vero grado di certezza nonché la via per arrivarvi?18 In questo brano appare chiaramente la tematizzazione dei rapporti tra metodo e metafisica. La scelta di un metodo valido non solo gioverà alla comunità filosofica, la quale potrà pervenire quella unità che contraddistingue l’ambito delle scienze esatte, ma gioverà alla stessa metafisica che potrà conseguire un grado di certezza mai raggiunto prima. Ma il brano citato si chiude con una domanda su quale sia il metodo da adoperare nelle ricerche metafisiche. Per rispondere a tale domanda Kant muove le sue argomentazioni, confrontando il metodo adoperato in matematica per giungere alla certezza, rispetto a quello adoperato in filosofia19. Secondo il filosofo si può cogliere tale differenza enucleando le diverse modalità con le quali matematica e metafisica giungono alla definizione di un concetto. In filosofia si perviene alla definizione di un concetto isolando, comparando e riflettendo sulle note che lo compongono; mentre, in matematica, la definizione di un concetto è un processo genetico, 71 contemporaneo alla stessa nozione da definire. Infatti, afferma il filosofo che si può pervenire ad un concetto generale o attraverso un collegamento arbitrario dei concetti, oppure isolando quelle conoscenze che sono state chiarite per suddivisione. La matematica arriva sempre alle sue definizioni seguendo la prima strada.[…]Il concetto che io spiego [in matematica] in tal modo non è dato prima della definizione, ma nasce da essa. In genere un cono può significare tutto ciò che si vuole, ma in matematica nasce dalla rappresentazione arbitraria di un triangolo rettangolo che ruota attorno a uno dei lati. È evidente che in questo caso e in tutti gli altri la spiegazione è originata dalla sintesi.20 Mentre per le definizioni filosofiche il concetto delle cose è già dato, ma in modo confuso e non sufficientemente determinato. Bisogna suddividerlo, confrontare nei vari casi le note che si sono separate con il concetto dato, per poi determinare e render compiuta questa idea astratta. […] Occorre considerare questa idea nelle sue varie relazioni onde scoprire per suddivisione le sue note, collegare tra loro varie note astratte da essa onde vedere se risultano in un concetto sufficiente, e poi confrontarle per vedere se per caso l’una non racchiuda parzialmente in sé le altre. 21 La matematica e la filosofia si distinguono nel modo in cui giungono ai concetti generali: la prima per sintesi arbitraria; la seconda per analisi. La distinzione che introduce Kant non è di poco conto, perché si colloca in una posizione opposta rispetto alla tradizione speculativa di matrice leibnizianowolffiana. Inoltre l’apporto del filosofo non si riduceva ad 72 accogliere istanze teoretiche presenti nei filosofi a lui coevi o di poco precedenti, come Rüdiger e Crusius, ma risulta di gran lunga più originale, perché individua differenze strutturali tra metafisica e matematica. Infatti, secondo Kant la differenza tra matematica e metafisica non si riduce alla diversa formazione dei concetti ( tramite sintesi nella prima, tramite analisi nella seconda) ma si spiega tenendo presente anche il modo di rappresentare il concetto. Kant riconduce le differenti modalità argomentative delle due discipline a due diverse modalità che ha il soggetto di rappresentare un concetto generale: i concetti matematici generali sono suscettibili di essere rappresentati in concreto; mentre i concetti generali in metafisica sono rappresentati in astratto. Inoltre, in matematica, qualora si faccia uso di segni per rappresentare le nozioni comuni, come nell’algebra, questi segni hanno un rapporto univoco con la cosa che rappresentano. Viceversa, i concetti filosofici, i quali non sono rappresentabili che in astratto, adoperano le parole come segni, ma da ciò ne discende che il rapporto tra significato e significante ne è sempre inficiato, perché spesso si usano i medesimi termini per indicare concetti simili. Questo differente rapporto che hanno la matematica e la metafisica con i concetti universali si traduce nell’impossibilità della seconda di seguire il metodo della prima. Tale differenza metodologica tra queste due discipline, non solo non permette alla prima di seguire il metodo della seconda, ma si fa ancora più palese quando si giudica la filosofia guardando al risultato. Infatti, amaramente, afferma Kant: «le conoscenze filosofiche per lo più hanno il destino delle opinioni e sono come meteore il cui sfavillio non promette lunga durata: Esse scompaiono mentre la matematica resta. Senza alcun dubbio la metafisica è la più difficile di tutte le scienze umane: solo che non ne è stata ancora scritta mai nessuna»22. Ma la chiusura pessimistica della prima meditazione del saggio kantiano, viene subito smentita dal filosofo stesso. 73 Infatti, nella seconda meditazione, Kant afferma che è possibile pervenire ad un buon grado di certezza nelle definizioni filosofiche, adoperando un nuovo metodo, il quale è «in fondo uguale a quello introdotto dal Newton nelle scienze naturali, e che vi è stato di tanta utilità. Ivi è detto che con esperienze sicure, e nel caso anche con l’ausilio della geometria, si devono ricercare le regole secondo le quali si svolgono certi fenomeni della natura»23. Parimenti bisogna procedere in metafisica: «mediante una sicura esperienza interna, cioè mediante una coscienza immediata ed evidente, bisogna ricercare quelle note che sicuramente si trovano nel concetto di una qualche qualità generale, e quand’anche non si conosce l’essere intero dell’oggetto, pure ci si potrà servire con sicurezza di quelle note per derivare molti elementi della cosa»24. Il filosofo assimila il metodo della metafisica a quello newtoniano. Ciò è possibile facendo leva su un dato euristico comune tra metafisica e filosofia naturale: l’analisi dei fenomeni. Dunque, mutando metodo è possibile scrivere una metafisica, ma non come scienza dell’incondizionato, ma come «la scienza dei primi principi della conoscenza»25, poiché il suo oggetto di indagine sono gli atti della mente, i quali a loro volta possono essere assimilati ai fenomeni studiati dal fisico. Il fenomeno mentale e il fenomeno naturale sono parimenti dati che si presentano all’apparato percettivo del soggetto indagante. I fenomeni studiati in entrambe le discipline sono dati oggettivi: non possono essere costruiti dall’osservatore. Molto probabilmente, Kant ha presente le pagine che lo scienziato di Cambridge dedica all’analisi del moto dei corpi: il fenomeno naturale viene scomposto nelle forze a cui è soggetto. Ora anche il filosofo è chiamato a svolgere un studio simile a quello del fisico. Ma come? Il filosofo deve muovere dal quelle note del concetto che percepisce in modo chiaro ed evidente, sicché una volta che è pervenuto a questa certezza interiore, può dedurre le altre note della nozione generale e 74 passare a definire il concetto dato. Ma tale processo a sua volta si fonda sulla natura della mente umana, la quale, essendo assimilabile a qualsiasi altro fenomeno naturale, è «sottoposta a certe regole»26. 2. Dalla Dottrina trascendentale del metodo alla rivoluzione copernicana L’elaborazione teoretica dei concetti di metodo e metafisica durante il periodo precritico si presenta sotto diversi aspetti contigua a quella del periodo critico27. Nel corso degli anni ’60, il filosofo era giunto ad una serie di convinzioni sulla natura della metafisica e sulla funzione del metodo. Inoltre, il pensatore tedesco aveva considerato anche i rapporti tra metafisica e metodo ed aveva individuato nell’uso del metodo matematico in metafisica, uno degli errori più comuni che inficiava le argomentazioni filosofiche, condannando la metafisica ad un situazione di stallo. Per uscire da questa impasse, il filosofo proponeva di adottare nelle ricerche speculative il metodo della fisica, un metodo, il cui procedere analitico, si poneva agli antipodi del procedere sintetico della matematica. Inoltre, presente in molti degli scritti precritici, era la consapevolezza di Kant di trovarsi in un’epoca storica dove la crisi della metafisica aveva assunto una portata di carattere epocale, alla quale bisognava porre assolutamente rimedio28. Ora gli esisti a cui era pervenuto il filosofo nella sua speculazione, legata al periodo precritico, sulla natura del metodo, della metafisica e sul loro rapporto, non avendo assunto un carattere definitivo, erano di per sé suscettibili di nuovi sviluppi. Infatti, considerata da questa prospettiva la 75 Critica della ragion pura sviluppa e amplia istanze già presenti nel periodo precritico, in modo particolare nella Dottrina trascendentale del metodo. Kant definisce la dottrina trascendentale del metodo come «la determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragion pura »29. Dunque sembrerebbe che lo scopo che deve assumere questa seconda parte dell’opera kantiana sia volta a individuare non tanto una serie di regole, ma una serie di condizioni, le quali, una volta soddisfatte, consentano di progettare un sistema. Ora queste condizioni hanno un carattere formale, perché non riguardano il contenuto, dunque sono condizioni negative: prescrivono alla ragione ciò che non deve fare se vuole pervenire alla costituzione di un sistema. Tali condizioni negativa vengono trattate dal filosofo nel primo capitolo della Dottrina trascendentale del metodo: la Disciplina della ragion pura. Il concetto di disciplina, prescrivendo ciò che non va fatto, è per sua stessa definizione un concetto negativo. Il capitolo sulla Disciplina della ragion pura si articola a sua volta in quattro sezioni. Nella prima sezione (la disciplina della ragion pura nell’uso dogmatico) il filosofo tematizza quella forma di disciplina che la ragione si deve autoimporre, quando vuole adottare un metodo rigorosamente dimostrativo (dogmatico) secondo principi apodittici. Kant è dell’avviso che la ragione nelle dimostrazioni matematiche adotta un procedimento argomentativo, il quale non può essere mutuato nelle ricerche speculative. Secondo il filosofo: la matematica fornisce l’esempio più luminoso di una ragione che si estende felicemente da sé senza aiuto dell’esperienza. Gli esempi sono contagiosi, segnatamente per la medesima facoltà, che naturalmente si lusinga di avere in altri casi quella stessa fortuna che le è toccata in uno. 76 Quindi la ragione pura spera potersi estendere nell’uso trascendentale altrettanto felicemente e fondatamente, quanto le è accaduto nell’uso matematico, specialmente se essa applica lì lo stesso metodo, che qui è stato di così evidente utilità.30 Kant riprende un tema che aveva già affrontato negli scritti precritici: l’uso del metodo matematico in metafisica. Negli scritti precritici aveva affermato che non si poteva adoperare nella speculazione il metodo adoperato in matematica, perché in matematica il concetto universale viene costruito, mentre in metafisica il concetto universale viene scomposto nelle sue note. Ora nel passo che abbiamo citato Kant, non solo tiene presente il risultato delle sue ricerche degli anni ’60, ma avanza un’ipotesi sulla radice di questa seduzione metodologica — “gli esempi sono contagiosi” — che affetta la ragione nel suo speculativo. Nella matematica e nella metafisica vi è un uso puro della ragione, quindi la ragione crede di poter adottare il medesimo metodo nella sue ricerche su Dio, l’anima e il mondo. La questione metodologica viene ricondotta dal filosofo alla struttura del soggetto conoscente. Ma vediamo come il pensatore tedesco tenga insieme il risultato, a cui era pervenuto nel corso degli anni ’60, e la nuova soluzione a cui è giunto nella prima Critica: la conoscenza filosofica è conoscenza razionale per concetti, la matematica per costruzione di concetti. Ora, costruire un concetto significa: esporre a priori un’intuizione [Anschauung] a esso corrispondente. Per la costruzione di un concetto si richiede dunque un’intuizione non empirica, che per conseguenza, in quanto intuizione, è un oggetto singolo, ma deve 77 nondimeno, come costruzione d’un concetto (di una rappresentazione universale), esprimere nella rappresentazione qualche cosa che valga universalmente per tutte le intuizioni possibili, appartenenti allo stesso concetto. Così io costruisco un triangolo, rappresentando un oggetto corrispondente a questo concetto mercé la semplice immaginazione (Einbildung) nell’intuizione pura, o, secondo questa, anche sulla carta nell’intuizione empirica, ma ambedue le volte del tutto a priori, senza averne tolto il modello da nessuna esperienza. La singola figura descritta è empirica, e nondimeno serve ad esprimere il concetto senza pregiudizio della sua universalità, poiché in questa intuizione empirica si guarda sempre all’operazione (Handlung) della costruzione del concetto.31 Alla base del metodo matematico vi è un uso puro della ragione, ma tale uso non può essere traslato nel campo della metafisica32. Ora, il Kant precritico era giunto già a questa conclusione (come abbiamo fatto presente sopra), infatti si era limitato ad indicare l’origine di tale impossibilità (di mutuate il metodo matematico nel campo speculativo) nell’uso delle nozioni universali — la matematica avanza per costruzione di concetti, tramite una sintesi arbitraria, la filosofia per scomposizione dei medesimi — . Il Kant critico, a differenza di quello precritico, individua la radice di questi due diversi usi puri della ragione33. La ragione in matematica gode della possibilità di mostrare il concetto nell’intuizione, lo può rappresentare in concreto. Il concetto può essere raffigurato sensibilmente, tramite un’intuizione a priori. Quando il matematico pensa un concetto può costruirlo nell’intuizione. Il matematico ha il vantaggio di poter far leva su un molteplice 78 puro a priori (presentato da spazio e tempo, forme pure dell’intuizione), indipendente dall’esperienza, dunque, pur muovendosi dentro la sua mente ne esce fuori, proprio perché i concetti geometrici, come i concetti aritmetici, sono suscettibili di essere raffigurati, nell’atto stesso nel quale vengono pensati34. Nell’uso matematico la ragione non è solo in rapporto con sé, come in metafisica, ma è in rapporto ad altre facoltà: l’intuizione e l’immaginazione35. Ma queste facoltà, pur essendo indipendenti dall’esperienza, permettono al matematico di dimostrare in modo empirico le sue scoperte. Ma allora perché il momento empirico (il disegno della figura geometrica sul foglio, il semplice calcolo aritmetico svolto alla lavagna), necessario al matematico per comunicare la sua scoperta, non inficia l’universalità del concetto che rende noto? La risposta di Kant è sorprendente: nell’intuizione empirica che permette al matematico di mostrare la sua scoperta “si guarda sempre all’operazione della costruzione del concetto”. L’universalità non è situata nel concetto, ma riposa nell’uso a priori delle facoltà che hanno dato luogo alla costruzione del concetto, ma questa costruzione in matematica equivale alla definizione36. Ora la distinzione kantiana tra i diversi usi puri della ragione, la quale non permette alla metafisica di seguire il metodo della matematica, è fondata (nelle due discipline) dal diverso rapporto tra le facoltà del soggetto conoscente con il concetto generale rappresentato e intenzionato, ma tale studio kantiano delle facoltà e il relativo iato metodologico che esso comporta sono a loro volta il frutto di una scelta metodologica. La critica della ragion pura è «trattato sul metodo»37. Questo metodo che essa pone ad oggetto delle sue ricerche è la rivoluzione copernicana attuata dalla matematica e dalla fisica, la quale deve essere mutuata entro il campo delle ricerche speculative38. Ma allora le argomentazioni kantiane sembrano assumere un carattere circolare: la metafisica non può seguire il metodo matematico, ma tale impossibilità — fondata sulla 79 natura e l’uso delle facoltà del soggetto conoscente — è stata possibile proprio seguendo il metodo matematico. Si aprono due vie all’interprete: o nell’argomentazione kantiana, sulla quale si regge la distinzione metodologica matematicametafisica è celata una contraddizione, perché la metafisica vi perviene assumendo un metodo che poi dice di non poter seguire; oppure i termini usati dal filosofo assumono un valore diverso, nei diversi luoghi dove vengono adottati. Noi proveremo a seguire la seconda via. L’accezione metodo va intesa almeno in due sensi. Nel primo deve essere inteso come un procedimento argomentativo: le modalità con le quali si attua una dimostrazione39. In un secondo significato si intende la logica della scoperta. Dunque, il metodo assume una duplice valenza: dimostrativa ed euristica. Questi due significati non si elidono, ma si conciliano. La difficoltà nel distinguere i due momenti è data dalla natura stessa della matematica (e della fisica moderna), dove i due momenti metodologici si implicano vicendevolmente. Kant scinde qusti due aspetti del metodo, e ne analizza gli effetti quando questi vengono mutuati entro il campo delle ricerche speculative. Secondo Kant la metafisica non può adoperare il metodo argomentativo della matematica — come ha dimostrato nella Disciplina della ragione nel suo dogmatico — ; mentre se adotta il metodo euristico-gnoseologico (la rivoluzione copernicana), implicito in ogni dimostrazione, calcolo aritmetico o esperimento fisico, la metafisica può pervenire ad un grado di certezza paragonabile a quello raggiunto dalla scienze esatte. Inoltre Kant mette in relazione questi due aspetti del metodo con i due significati di metafisica, presenti nella tradizione speculativa dell’Aufklärung : metafisica generale o ontologia; metafisica speciale40. Con il primo significato del termine si intende la teoria dell’ente in quanto ente; mentre con il secondo si intende la scienza dell’incondizionato (cosmologia, psicologia, teologia). Ora è nel campo della 80 metafisica generale che il metodo di pensare, proprio della matematica e della fisica permette all’ontologia di conseguire un grado di certezza paragonabile a quello delle scienze. La critica della ragione pura deve attuare quella svolta nel modo di pensare che ha fatto progredire matematica e fisica: «il mutato metodo nel modo di pensare, e cioè: che nei delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che noi vi mettiamo»41. Ora « in metafisica [metafisica generale] si può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda l’intuizione degli oggetti. Se l’intuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe saperne qualcosa a priori; se l’oggetto invece (in quanto oggetto del senso) si regola sulla natura della nostra facoltà intuitiva, mi posso benissimo rappresentare questa possibilità»42 e lo stesso si può dire dei concetti dell’intelletto, sui quali si devono regolare gli oggetti dell’esperienza, perché l’esperienza «è un modo di conoscenza che richiede il concorso dell’intelletto, del quale devo presupporre in me stesso la regola prima che gli oggetti[dell’esperienza] mi siano dati e perciò a priori; e questa regola si esprime in concetti a priori, sui quali tutti gli oggetti dell’esperienza devono necessariamente regolarsi»43. Il discorso kantiano non presuppone tanto lo studio della sensibilità e dell’intelletto, ma piuttosto presuppone la svolta metodologica attuata dal filosofo, perché se si studiassero le facoltà del soggetto conoscente in modo pre-critico, esse dovrebbero adeguarsi all’oggetto, quindi non potrebbero fondare una conoscenza a priori, ma una conoscenza sempre passibile di continue revisioni e aggiunte, in quanto dipendente dalle mutevoli manifestazioni dell’oggetto esterno (considerato come cosa in sé). Perciò l’attuazione della rivoluzione copernicana è «conforme al desiderio [della ragione], e promette alla metafisica, nella sua prima parte , dove ella si occupa dei concetti a priori, di cui possono esser dati nell’esperienza 81 oggetti ad essa adeguati, il cammino sicuro di una scienza»44. Il filosofo afferma che questo metodo riesce a soddisfare il desiderio della ragione di una metafisica come scienza, ma questo risultato deve essere limitato solo alla sua prima parte, cioè alla metafisica generale. Dunque è proprio Kant ad affermare che la svolta metodologica, mutuata entro le ricerche speculative comporta un risultato positivo. Il filosofo, per un verso ha esplicitato un presupposto metodologico comune alla matematica e della fisica (che gli oggetti dell’esperienza devono regolarsi sulla struttura gnoseologica del soggetto conoscente ); per un altro, tramite la sua opera, tenta di fondare e di legittimare questo presupposto non dichiarato delle scienze esatte. Infatti Kant sostiene che questo mutato metodo di pensare comporta due risultati: la possibilità di una conoscenza a priori; la legittimazione delle leggi a priori della natura45. Ora questi due esiti sono il frutto di una medesima ricerca: la Dottrina trascendentale degli elementi. Ma allora si chiariscono meglio — alla luce della nozione di metodo — due aspetti. In primo luogo, va notato che il significato della definizione kantiana attribuita della Dottrina trascendentale del metodo — come ricerca volta a definire le condizioni formali di un sistema della ragione — deve essere considerato contiguo e complementare alla Dottrina trascendentale degli elementi, perché, indicando le condizioni materiali, sostanziali di un sistema della ragione (le articolazione della facoltà conoscitiva), assolve in modo diverso alla medesima funzione metodologica. Poi va osservato che, una tale bi-partizione della Critica della ragione pura, pur rispondendo ad una duplice esigenza metodologica, si origina da un solo principio metodologico: la rivoluzione copernicana. 82 Conclusione Dunque se la metafisica in generale è possibile come scienza, grazie ad un metodo valido — la rivoluzione copernicana — , il metodo assumerà nei confronti della metafisica il compito di fondarla, sicché il metodo si fa esso stesso metafisica, momento costitutivo della sua genesi. Perciò il filosofo definirà in una lettera a Marcus Herz il metodo «la metafisica della metafisica»46. Agli inizi della speculazione moderna il metodo appariva un strumento epistemologico importato da un campo in parte eterogeneo alle discipline filosofiche, sicché sembrava che il compito dei filosofi si esaurisse nella capacità di apprendere il metodo e trasferirlo nelle loro ricerche metafisiche. Ma tale presupposto di fondo della speculazione in età moderna, viene completamente rovesciato nel criticismo: nella scienza, come nella matematica, è presente un dato metodologico, ma questo dato metodologico nel momento in cui viene enucleato ed esaminato dal lavoro del filosofo, si invera come dato metafisico. La polarità metodo-metafisica che aveva contrassegnato in modo inequivocabile i tratti dell’età moderna, viene superata dal criticismo kantiano, Infatti allo sguardo del filosofo, il metodo è metafisica, sia nel momento in cui si palesa il suo valore euristico nelle scienze, sia quando viene assunto come un particolare modo di indagine teoretica(la presenza della Rivoluzione copernicana attuata in modo inconsapevole nella matematica e nella fisica, attuata in modo consapevole in metafisica). Parimenti la metafisica è metodo nel momento in cui manifesta il suo valore fondativo, rispetto alle scienze, quando assume come suo compito l’analisi della ragione umana e infine quando mostra storicamente che la ragione umana47, in ogni filosofia nella quale si è manifestata, si è data sempre un metodo, in quanto il 83 metodo in fondo è sempre cooriginario alla ragione umana e quindi ineludibile in ogni questione metafisica. 1 Ritenendo ormai superata sul piano storiografico la distinzione scolastica dei filosofi dell’età moderna in empiristi e razionalisti, preferiamo adoperare il termine “filosofi dell’età moderna” per indicare gli autori che hanno contrassegnato lo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico tra il XVII secolo e il XVIII secolo. Tale accezione ci sembra che restituisca meglio l’idea di una comune temperie speculativa entro cui si muovono gli autori di suddetto periodo, cfr., S. Vanni Rovighi, Storia della filosofia moderna, Brescia, La scuola, 1976; C. Esposito, Filosofia moderna, Milano, Raffaello Cortina editore, 1997; S. D’Agostino, Sistemi filosofici moderni, Pisa, Ets, 2013. 2 A tal proposito si tenga presente sia il passo del Discorso sul metodo dove Cartesio dichiara le sue riserve sul valore euristico della logica tradizionale: «la logica e i suoi sillogismi e la maggior parte degli altri suoi ammaestramenti servono piuttosto a spiegare agli altri le cose che già si sanno» A.T. VI, p.17, tr.it. a cura di L. Urbani Ulivi, Milano, Rusconi, 1997, p.19 . 3 Per quanto riguarda il periodo precritico di Kant abbiamo tenuto presente la seguente bibliografia:M. Campo, La genesi del criticismo kantiano, Varese 1953; E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, tr.it. a cura di M. Dal Pra, Firenze, La Nuova Italia, 1997; H.J. De Vleeschauwer, L’evoluzione del pensiero di Kant, tr. it. a cura di A. Fadini, Bari-Roma, Laterza, 1976; G.Tonelli, Elementi metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768: saggio di sociologia della conoscenza, Torino, Edizioni di filosofia, 1959; S. Vanni Rovighi, Introduzione allo studio di Kant, Bresci, La Scuola Editrice, 1968; A. Lamacchia, La filosofia della religione in Kant, Bari, Lacaita, 1969; A. Lamacchia, Bari, Percorsi kantiani, 1990; P.Basso, Il secolo geometrico la questione del metodo matematico in filosofia da Spinoza a Kant, Firenze, Le Lettere, 2004, pp. 187-203. Per quanto 84 riguarda la letteratura straniera,vanno tenuti presenti due studi che insistono con particolare attenzione sulla questione del metodo e sull’importanza da attribuire alla fase precritica nel sviluppo del criticismo: Schönfeld, Martin. The Young Kant: The Precritical Project. Oxford: Oxfor University Press, 2000; Rockmore, Tom, editor. New Essays on the Precritical Kant. Amherst, NY:Humanity Books, 2001. 4 Cfr., R. Ciafardone, L’illuminismo tedesco: metodo filosofico e premesse etico-teologiche(1690-1765) , Rieti, Il Velino, 1978; Id., L’illuminismo tedesco, Milano, Loescher, 1985. 5 Citiamo le opere di Kant facendo riferimento all’edizione dell’Accademia di Berlino, Kant’s gesammelte Schriften(=KGS), hrsg. von der Preußischen Akademie der Wissenschaften, Berlin 1902 ss, indicando con cifra romana il numero del volume e con cifra araba il numero di pagina; mentre per quanto riguarda la Critica della ragion pura indicheremo con A la prima edizione e con B la seconda edizione, secondo l’impaginazione originale. Per comodità indicheremo prima la traduzione in lingua italiana delle opere di Kant e tra parentesi tonde l’edizione in lingua originale. I. Kant, Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, tr. it. a cura di I. Petrocchi, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2000, p. 120 (KGS I, 94). 6 Ivi, p. 121 (95). 7 La principale funzione che viene assegnata al metodo, dai filosofi dell’età moderna, è catartica. Per rendersi conto di ciò basta un semplice esame dei titoli delle principali opere della filosofia moderna, per ravvisare in esse la presenza diretta o indiretta del termine metodo:Cartesio (Discorso sul metodo), Spinoza (Trattato sull’emendazione dell’intelletto) Hume (Trattato sulla natura umana, per introdurre il metodo delle scienze sperimentali nelle discipline morali). 8 I. Kant, Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, cit., p. 122 (KGS I, 97). 9 Bisogna tener presente quanto Kant ha dichiarato nel paragrafo 88 dei Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (che precede il paragrafo citato): « si deve avere un metodo per mezzo del quale con un attento esame generale dei princìpi su cui è stata costruita una 85 certa opinione e con il confronto degli stessi princìpi con la conclusione che da essi trae, si possa inferire, in ogni caso, se anche la natura delle premesse contiene in sé tutto quanto si richiede a riguardo alle dottrine desunte da quelle premesse», cit., p. 120 (KGS. I, 93). 10 Si tenga presente la celebre affermazione cartesiana : «Il buon senso è la cosa meglio distribuita al mondo […] la capacità di distinguere il vero dal falso, che è ciò che propriamente si chiama buon senso o ragione , è naturalmente uguale in tutti gli uomini», A.T. VI, 1-2, Discorso sul metodo, tr .it. a cura di Lucia Urbani Ulivi, Milano, Rusconi, p. 13. 11 I. Kant, L’unico argomento per la dimostrazione di Dio, in Scritti precritici, tr. it. a cura P. Carabellese, riveduta da H. Hohenegger e R. Assunto, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp.105-106 (KGS, II 65-66) . 12 Queste relazione metaforica, istituita dal filosofo tra metafisica e oceano, ritorna anche nel suo pensiero maturo, si tenga presente a tal proposito ciò che dice il filosofo nel secondo libro dell’Analitica trascendentale: «il territorio della verità, circondato da un oceano vasto e tempestoso, il vero e proprio sito della parvenza, lì dove molti banchi di nebbia , e i ghiacci che vanno disciogliendosi simulano nuovi territori» , I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, rivista da V. Mathieu, Bari-Roma, Laterza, 2000, p. 451 (A236/B295). 13 E. Kant, L’unico argomento per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, cit., p. 108 (KGS, II, 68) 14 Ivi., p. 112 (72). 15 Ivi, p. 157 (113). 16 Si tenga presente la prima regola del metodo sperimentale secondo lo scienziato inglese: «delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e bastano a spiegare i fenomeni», I. Newton, Principi matematici della filosofia della natura, tr. it. a cura di A. Pala, Utet, Torino 1965, p. 605. 17 I. Kant, Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, in Scritti precritici, cit., p. 217 (KGS, II, 27). 18 Ibidem. 86 19 Kant adopera il termine filosofia sia come sinonimo di metafisica, sia come l’insieme di tutte le discipline filosofiche. Inoltre, si tenga presente ciò che afferma Kant nella prima parte dello scritto in questione dove il filosofo adopera il termine filosofia come concetto più vasto che comprende sotto di sé il termine metafisica. Infatti, dichiara Kant: «Se ora guardiamo alla filosofia, qual è la differenza che salta agli occhi? In tutte le sue discipline, e specialmente nella metafisica, ogni suddivisione che può aver luogo è anche necessaria» Ivi, p.223 (280). Inoltre, nella seconda parte dello scritto definisce la metafisica come «una filosofia sui primi principi della nostra conoscenza; ciò che quindi è stato esposto nella meditazione precedente circa il confronto tra conoscenza matematica e filosofia, avrà valore anche nei riguardi della metafisica» Ivi, p. 227 (283). 20 Ivi, 219 (207). 21 Ibidem. 22 Ivi, p. 226 (283). 23 Ivi, p. 230 (286). 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 227(284). 26 Ivi, p. 235(291). 27 Per quanto riguarda il rapporto tra metodo e metafisica nella Critica della ragion pura si veda: E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, vol.II, tomo terzo, tr.it. a cura di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1978; M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr.it. a cura di M.E. Reina, Laterza, Bari-Roma 2000; M. Barale, Kant e il metodo della filosofia, Ets, Pisa 1988. Sui rapporti tra metodo e metafisica in ambito precritico si tengano presente G. Tonelli, Elementi metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768, cit., e M. Sgarbi, 2010. Per quanto riguarda la letteratura secondaria straniera vanno tenuti presenti i seguenti studi: Heinrich, Dieter. “Kant’s Notion of a Deduction and the Methodological Backgroundof the First Critique.” In Kant’s Transcendental Deductions, ed. E.Förster, pp. 29–46. Stanford: Stanford University Press, 1989 Ameriks, Karl. “The Critique of Metaphysics: Kant and Traditional Ontology.” In The Cambridge Companion to Kant, ed. Paul Guyer. Cambridge: Cambridge University Press, 1992; Chenet François-Xavier, L’assise de l’ontologie critique: l’esthétique transcendental, Lille, Presses 87 Universitaries de Lille, 1994; Kuhen M., Watkins E., Kant's Critique of Pure Reason: Background Source Materials, Cambridge, Cambridge University Press, 2009. 28 Cfr., R. Ciafardone, La Critica della ragion pura di Kant. Introduzione alla lettura, Milano, Carocci editore, 1996, pp. 48-54. 29 I. Kant, , Critica della ragion pura, cit., p. 443(A708/B736). 30 Ivi, 446, (A713/B741). 31 Ibidem. 32 Cfr., in particolare sulla matematica nella Dottrina trascendentale del metodo: Kant’ philosophy of mathemtics. Modern Essays, a cura di; G. Brittan, Kluwer, Dordrecht 1992; Lisa Shabel, Kant on the ‘Symbolic Construction’ of Mathematical Concepts, “Studies in History and Philosophy of Science”, 29 (1998), pp. 589-621, 1998; Kant’s Philosophy of Mathematics, in A companion to Kant, a cura di G. Bird, Malden, Blackwell Publishing Ltd, pp. 222-236, 2006; L. Shabel, Kant’s Philosophy of Mathematics, in P. Guyer (cur.), The Cambridge Companion to Kant and Modern Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2006, 94-128. Per l’influsso di Segner sulla concezione kantiana della matematica e per un aggiornamento bibliografico, cfr., M. Sgarbi, Matematica e filosofia trascendentale in Kant.Note a margine di una fonte dimenticata della Kritik der reinen Vernunft, in “Philosophical Readings”, II,1, (2010) pp. 209-225. 33 Può apparire singolare l’accezione kantiana del termine ragione in questo contesto, perché assegna a questa facoltà funzioni che sono proprie dell’intelletto come la costruzione simbolico-ostensiva, propria dell’uso dell’intelletto in matematica. Ma il filosofo sta adoperando il termine ragione in senso lato, quindi è incluso anche l’intelletto in quest’accezione della facoltà ragione. Inoltre, bisogna tener presente che in entrambe le facoltà è possibile una costruzione concettuale, cfr., G. Giannetto, Pensiero e disegno. Leibniz e Kant, Napoli, Loffredo editore, 1990, p.196. Dunque è opportuno che l’interprete consideri in questo contesto anche l’Analitica trascendentale. 34 Cfr., «Io non mi posso rappresentare una linea, per piccola che sia, senza tracciarla nel pensiero» p.150(A163/B204). 35 Cfr., «su questa sintesi successiva dell’immaginazione produttiva nella produzione delle figure si fonda la matematica dell’estensione (geometria)» Ibidem. 88 36 Si tenga presente la precisazione kantiana: « questo singolo[la figura geometrica o il numero] è determinato da certe condizioni universali della costruzione», Ivi, 447 (A714/B742). 37 Ivi, p. 20 (BXXIII). 38 «In quel tentativo di cambiare il procedimento seguito fin qui in metafisica, e proprio nel senso di operare in essa una completa rivoluzione seguendo l’esempio dei geometri e dei fisici, consiste il compito di questa critica della ragion pura speculativa» Ibidem. 39 «rispetto al metodo, se si vuol dare a un qualcosa questo nome, deve essere un procedimento secondo principi» p. 521 (A856/B884). Inoltre, si può intendere per metodo l’esposizione dell’ argomento trattato, sicché si può parlare o di metodo sintetico o di metodo analitico Cfr., I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica, tr. it. a cura di P. Carabellese, Roma-Bari, Laterza, 2000, p.21(KGS, IV, 263). 40 Cfr., su i diversi significati metafisica, ontologia e trascendentale, I. Kant, Realtà ed esistenza, a cura di A. Rigobello, , Torino, San Paolo edizioni, 1998, (KGS, XXVII, 531-577). 41 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Critica della ragion pura, cit., p.18 (B XX). 42 Ivi, pp.17-18 (B XIX-XX). 43 Ivi, p.18(BXX). 44 Ibidem. 45 Cfr., Ivi, pp.18-19(XX-XXI). Inoltre, si tenga presente ciò che dichiara Kant riguardo all’effetto positivo della rivoluzione copernicana sull’ontologia: « la metafisica ha anche la rara felicità, della quale nessun altra scienza razionale, che abbia a che fare con oggetti, può partecipare: che, se per mezzo di questa critica, vien messa sulla via sicura della scienza, essa può abbracciare completamente tutto il campo delle conoscenze che le appartengono» Ibid., pp.20-21 (BXXIII-XXIV). 46 I. Kant, Epistolario, tr. it. a cura di O. Meo, Il melangolo, Genova 1990, p. 105 (X, 270). 47 In diversi luoghi della Critica della ragion pura, il filosofo tedesco parla di tre momenti della storia della filosofia: dogmatismo; scetticismo; criticismo. Ognuno si caratterizza per aver adottato un particolare metodo e ciascuno rivela un aspetto della ragione. Si cfr., 89 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., pp. 6-7(AIX-AX) e pp.470472(A768/B796-A769/B797). Inoltre, bisogna tener presente che il filosofo teorizza tre stadi che la filosofia deve attraversare per giungere alla metafisica: «il primo fu lo stadio del dogmatismo, il secondo dello scetticismo e il terzo quello del criticismo della ragion pura», in Quali sono i reali progressi compiuti dalla metafisica dai tempi di Leibniz e Wolff, in Scritti sul criticismo, tr. it. a cura di G. De Flaviis, Bari-Roma, Laterza, 1991, p. 158 (KGS, XX, 264). Inoltre va tenuto presente che questa successione non è arbitraria, perché è fondata sulla natura della ragione umana, cfr., Ibidem. 90 La poetica del fanciullino di Pascoli e la filosofia della rêverie di Bachelard Alessandro Montagna Introduzione Lo scopo del presente articolo sarà quello di delineare analogie tra la poetica pascoliana del fanciullino (teorizzata dapprima sulla rivista Marzocco nel 1897, poi confluita nella raccolta che reca il titolo di Pensieri e discorsi del 19071) e la poetica della rêverie elaborata dal filosofo francese Gaston Bachelard (Bar-sur-Aube 1884 – Parigi 1962) al momento di dover sviluppare un progetto di comprensione del fenomeno dell’immaginazione poetica. Bachelard è un filosofo di formazione scientifica che per ristrettezze economiche ha svolto dapprima il mestiere di impiegato postale, per poi diventare, in seguito alla laurea in matematica, docente di fisica e chimica nei licei, e successivamente (nel frattempo si era laureato anche in Filosofia), professore universitario di Filosofia, inizialmente a Digione ed infine alla Sorbona di Parigi. I suoi interessi spaziano con la massima flessibilità dalla scienza, alla psicanalisi e, soprattutto, alla poesia2. Molti filosofi, letterati e artisti (anche architetti3) si ritengono debitori di insegnamenti, segno di una eredità filosofica di un considerevole spessore. Nelle biografie di Bachelard si fa notare come il filosofo titolare alla Sorbona della cattedra di Storia e filosofia della scienza, avesse insistentemente voluto una cattedra in vista di un corso libero il cui argomento fosse l’ambito 91 dell’immaginazione poetica4. Il termine rêverie attualmente e volutamente non tradotto nelle opere di e su Bachelard significa letteralmente “sogno”, “fantasticheria” nella lingua italiana, anche se la portata del termine bachelardiano è difficile da ridurre alla connotazione di uno tra i due termini rilevati, in quanto sarebbe riduttivo. Ad ogni modo, la figura letteraria del fanciullino è strettamente connessa con la valorizzazione delle piccole cose sostenuta a più riprese da Pascoli e che trova in Bachelard una sorta di epigono sostenitore. Per questo motivo sarà dedicato un capitolo, precisamente il terzo, ai simboli scelti per la poetica pascoliana e gli studi sull’immaginario e dell’intuizione poetica propri del Bachelard. Tutto questo condurrà a ripensare alla scienza in senso meno rigido e pedissequo, in nome di una valorizzazione delle esigenze spirituali della vita. A quest’ultimo problema verrà dedicato il quarto capitolo del nostro studio. 92 1. Fanciullino e rêverie. Caratteristiche di un confronto tra tematiche affini. Le opere composte da Gaston Bachelard oggetto di riferimento per instaurare una tale similitudine di motivi sono, pertanto, relative alla produzione bachelardiana circa lo studio degli archetipi di immaginazione (un filone che si sviluppa nella tarda composizione bachelardiana e che si pone come complementare agli studi dedicati, invece, al problema epistemologico): L’intuizione dell’istante. La psicanalisi del fuoco, Lautréamont, Psicanalisi delle acque, Psicanalisi dell’aria, La terra e le forze, La terra e il riposo, La poetica dello spazio, La poetica della rêverie, Il diritto di sognare, La fiamma di una candela. Per maggiori assonanze con le tematiche pascoliane sarà data priorità d’analisi a La poetica dello spazio unita ad alcuni contributi di un’altra opera, La poetica della rêverie, in quanto oltre alle tematiche del sogno, si privilegia lo studio di domini legati alle immagini di casa, nido, guscio, infanzia e poesia particolarmente vicine ai simboli particolarmente presenti e cari a Pascoli. In queste opere scaturite dalla volontà espressa dal filosofo docente della Sorbona di porre sotto la lente d’ingrandimento le tematiche che fuoriescono dal dominio della scienza, emerge lo studio della poesia come atto di meraviglia. Quest’ultima si dimostra fonte di immaginazione e studiabile tramite una sorta di fenomenologia dell’atto poetico e interpretabile mutuando concetti dalla psicanalisi degli archetipi individuali, nonché collettivi (soprattutto junghiana). Si può sostenere che la domanda fondamentale che irrora e fa da filo conduttore tra i vari testi che abbiamo citato poc’anzi è una sola: “dove nasce la poesia”, e di conseguenza, qual è il suo luogo di nascita e di elezione. Nell’opus di Bachelard vengono indagati vari elementi fisici (i quattro elementi anticamente intesi dai pre-socratici come arché, principio vitale), ma anche e soprattutto, nella prospettiva strutturalista bachelardiana, carichi di vissuto: sia l’acqua, sia lo spazio e l’immensità intima della casa (terra), sia i grandi orizzonti del cielo (aria), sia, infine, il fuoco che consuma come il tempo che passa. Al momento di formulare delle argomentazioni a favore delle proprie tesi, Bachelard ricorre sovente a metafore poetiche e a stupori avvertiti dai filosofi dinnanzi ai grandi fenomeni della natura. E’ effettivamente un carattere della filosofia, così come della poesia, quello di stupirsi degli eventi sorprendenti di ciò che ci circonda. Esse nascono entrambe dalla meraviglia come ci ricorda Aristotele e la meraviglia accomuna tutti gli uomini5, che di conseguenza sono filosofi e poeti. Queste ultime due proprietà umane vengono spesso ad accostarsi nel pensiero dello Stagirita, il quale reputa la poesia più filosofica rispetto alla storia, in quanto essa descrive 93 l’universale piuttosto che il particolare (inscritto in uno spazio e in tempo ben definiti)6. Con questa riflessione Aristotele viene reputato il primo filosofo che giustifica il ricorso all’universo della poesia, controbattendo l’ottica platonica (ben esemplificata nel dialogo dello Ione7) che critica la poesia, frutto non della ricerca della verità, bensì della volontà di affascinare il lettore8. La poetica del fanciullino consiste nella fuga nel mondo dell’infanzia. In tal modo diviene possibile far scaturire temi e simboli tipici della poesia molto cari a Pascoli, quali il nido (che in Bachelard viene attribuito un capitolo ne La poetica dello spazio), la casa, la siepe, la nebbia. Questi elementi riportano ad un mondo chiuso, ricco di affetti, porto sicuro e rifugio dalla violenza dilagante e malvagia. Pascoli risente del tramonto del positivismo e delle tensioni sociali che poi portarono alla guerra e cerca nella memoria e nell’orizzonte agreste un rifugio consolatorio. Tipico del fanciullino (capp. I – III) è vedere tutto ciò che lo circonda con meraviglia, scorgere la poesia nelle cose stesse, nelle grandi come nelle più piccole. Proprio grazie a queste piccole cose, Pascoli perviene a scoprire l’essenza delle cose e la verità degli affetti. A tal proposito sia di stimolo istaurare un parallelo con Gaston Bachelard. Egli, analogamente al letterato italiano, ritiene che il poeta sia capace di vedere la stessa cosa, sia con il microscopio che con il telescopio9. Spesso Pascoli ripercorre con la memoria il mondo agreste, che fa spesso da sfondo nelle sue poesie. Il fanciullino è colui che parla ai sassi, agli animali e agli alberi, mentre il sognatore bachelardiano viene interrogato e ha come interlocutori oggetti quotidiani dimenticati, ma che conservano il valore di testimonianza di passato e di senso. Egli è inoltre in grado di commuoversi dinnanzi alle piccole cose che gli suscitano forti emozioni. Il poeta diviene tale solo quando dice ciò che il fanciullo detta dentro (quello che gli ispira, cfr. cap. XI), analogamente a 94 come gli stilnovisti e Dante venivano ispirati dall’amore e dalla visione della donna angelo. Il fanciullino pascoliano diventa ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare. Il poeta è solamente poeta, non è né un oratore né un predicatore. Non è nemmeno un filosofo, non è uno storico, ma nemmeno un maestro o un uomo di stato. A costruire il poeta vale più il suo sentimento e la sua visione che il modo mediante il quale li trasmette agli altri. Il poeta è in grado di esprimere la parola che tutti avevano sulla punta della lingua, ma che nessuno sarebbe riuscito a comunicare. Non è lui che sale su di una sedia per arringare e per convincere gli altri che lui solo possiede la verità. Egli, infatti, non trascina, ma è trascinato, non persuade, ma è persuaso. In Pascoli, come anche in Bachelard, si prende spunto da immagini semplici legate a cose “umili” come oggetti (Pascoli: bucato, aratro ecc… / Bachelard: cassapanche, astucci, gusci ecc…), animali (Pascoli: galline, rondini ecc… /Bachelard: paguro, tartaruga, uccelli ecc…), luoghi e usi e costumi semplici. Entrambi questi autori provengono da famiglie di umili origini e talvolta rievocano con emozione la vita contadina. Bachelard nacque a Bar-sur-Aube, nella regione dello Champagne, nella Francia meridionale, mentre il Pascoli a San Mauro di Romagna. La realtà contadina e la casa natale diventano una sorta di baluardo inattaccabile, regioni degli affetti ed emblemi di significati e valori fondamentali. Bachelard rievoca la sua casa ormai onirica, il suo primo universo del mondo e l’odore dell’uva che percepiva in quei luoghi10. Secondo Pascoli in ognuno di noi è albergato lo spirito del fanciullino, ma solo il poeta è capace di conservare e a fare emergere tale spirito. La sua poesia sarà, di conseguenza, voce dell’innocenza e dello stupore. Essere fanciullino significa saper vedere le cose con un’altra prospettiva, con un’altra e differente visione del mondo rispetto all’ottica degli adulti. Vedere il mondo in modo infantile significa far parlare 95 l’innocenza, la genuinità, l’assenza di pregiudizio che scaturisce da uno sguardo puro sulla vita. Così delineato non può che farci pensare alle argomentazioni presenti ne Il piccolo principe di Antoine de Saint Exupéry11, in cui la critica agli interessi degli adulti viene contrapposta alla dimensione di stupore e di innocente bontà del bambino, capace di trovare aforismi e pensieri che gli adulti, a suo avviso, hanno ormai perduto, anche se non irrimediabilmente. La stessa parola stupore, con parole sinonimiche annesse, ripetuta spesso dal Pascoli, viene frequentemente impiegata da Bachelard. Quest’ultimo ne L’intuizione dell’istante. La psicanalisi del fuoco giunge ad affermare con chiarezza: “La poesia è stupore”12, una breve frase che lo stesso Pascoli avrebbe potuto sottoscrivere senza indugi. Similmente, il sognatore bachelardiano è un soggetto che sa stupirsi ed entusiasmarsi di fronte ad ogni oggetto, seppur semplice e apparentemente dimenticato, ad ogni visione sublime dello spettacoli che la natura ci riserva (ad ogni chiaro di luna, ad ogni onda che si infrange sulla spiaggia, ad ogni notte con i lampi ecc…). Inoltre la sua visione epifanica si dimostra quasi del tutto a-temporale, in quanto a ricordare è il sogno, è l’archetipo quindi, che affonda le sue radici in un passato a-temporale e arcaico, collettivo e a cui tutti possono attingere facendo riaffiorare istanti carichi di senso ed emozionanti. La visione è anche a-linguistica e pre-razionale. In questi istanti occorre ricordare con lo sguardo innocente e profondamente ricettivo e non ci può aiutare né l’intelletto né la cosiddetta “memoria involontaria” proustiana. La dimensione astorica che accomuna Bachelard e Pascoli in questi momenti essenziali della vita può essere definita, seguendo il suggerimento di Capovilla, “atavica”13. Questa ossimorica “memoria immemoriale”, comune ai due autori, come viene definita da Bachelard in diversi passi dei suoi scritti, affonda le sue origini nel passato indefinito del racconto degli avi, 96 anch’essi influenzati da qualcosa di più remoto ancora: una sorta di immaginario collettivo arcaico accomunante tutti gli uomini. Nella disamina filosofica condotta da Bachelard si ritrovano varie affermazioni di poeti e poesie, in quanto l’ obiettivo che si è prefissato è quello di ritrovare il luogo nel quale l’immaginazione si fa scrittura, verso, poesia in ultima istanza. La casa viene considerata come un luogo d’elezione per il poeta sognatore, che si mette a scrivere, solitario, con la luce di una candela. Tra gli angoli di casa, tra gli oggetti amati che ci circondano e ci parlano di noi, dei nostri affetti, dei nostri ricordi, desideriamo aspirare a proteggerci e lasciarci cullare come in un “guscio” e in un “nido” evitando i rischi del “fuori” esattamente come in Pascoli (pensiamo al “casolare” nella poesia Temporale e la casa come “occhio” che si apre e si chiude nella notte “nera” e temporalesca ne Il lampo). La casa, come ci rammenta Bachelard, rappresenta l’inizio del nostro essere al mondo: “la vita comincia bene, incomincia racchiusa, protetta, al calduccio nel grembo della casa”14. In questa atmosfera “vivono gli esseri protettori”15 anticipando il tema della maternità della casa, nella quale si sta al sicuro e si evitano drammi cosmici e intemperie. Alcuni studiosi si sono resi conto delle possibili implicazioni di un parallelo tra il fanciullino pascoliano e il sognatore bachelardiano, senza tuttavia, approfondire il paragone. Ad esempio, la studiosa di psicologia Maria Elvira De Caroli aveva messo in evidenza come: “La rêverie ci porta, secondo Bachelard verso una “infanzia immobile” e poche righe sotto collega l’argomento bachelardiano con Pascoli: “il poeta è qualcosa di molto simile al “fanciullino” che ricostruisce, nella lieta solitudine, il rapporto diretto con il cosmo, quel rapporto immediato che l’età adulta, con le esigenze della ragione e del principio di realtà, lentamente ma inesorabilmente distrugge”16. E’ inoltre da ricordare senz’altro il 97 critico pascoliano Alfonso Traina, il quale sottolinea e pone in correlazione la poetica del nido tra le poesie di Pascoli con l’analisi condotta da Bachelard17. Questi studi non fanno che spezzare una lancia in favore della tesi sostenuta da Barbara Giovannelli18 che ritiene la poetica del fanciullino una base per comprendere meglio la poetica pasco liana a tutto tondo, prediligendo questa tipologia di studio anziché una riduttiva interpretazione etico-civile sui valori positivi da perseguire. La letteratura critica su Pascoli aveva posto invece rilevanza sul secondo aspetto fino a decenni fa, iniziando da poco a riscoprire la valenza di senso molto più estesa che può incarnare la figura del fanciullino. 2. Bachelard, un filosofo innamorato della poesia Il considerevole numero di poeti e romanzieri citati da Bachelard come modello per i suoi trattati (spesso appartenenti alla letteratura a lui più nota, ossia quella francese) annovera diversi poeti e narratori: Rilke, Baudelaire, Bosco, Milosz, Hölderlin, Novalis, Rimbaud, Lautréamont, Eluard, Valery solo per citarne alcuni. Non manca anche il riferimento a qualche poeta italiano: D’Annunzio, Ungaretti. Probabilmente Bachelard non conosceva appieno le opere del Pascoli, ma si può essere convinti che se l’avesse letto e considerato attentamente, lo avrebbe trovato sicuramente interessante e in sintonia con i proprio modus cogitandi. Egli si rivolge ai filosofi e, in modo accorato, suggerisce loro di ascoltare e comprendere il messaggio dei poeti. A volte l’esortazione si fa più accentuata : “Bisogna ascoltare i poeti!”19. E, successivamente: “Ah! Quanto avrebbero da imparare i filosofi se si risolvessero a leggere i poeti!”20. La lettura offertaci dai poeti è pura rêverie. L’immagine descritta 98 proviene “dal cuore, dall’anima, dall’essere”21. Questa coscienza non è una coscienza razionale, bensì sognatrice. Il campo semantico di “stupore”, “infanzia”, “rêverie” rappresentano un campo semantico fortemente seguito da Bachelard, nonché una sorta di filo conduttore e massimo comun denominatore della sua filosofia dell’immaginario. Per Bachelard, l’immaginazione poetica risulta essere in grado di offrire un raffigurazione di un mondo e di un universo. E non è tutto, in quanto lo stupore nei confronti delle meraviglie del mondo richiamano la considerazione donataci dal filosofo francese secondo la quale “la filosofia sarebbe felicemente restituita ai suoi progetti infantili”22 Nella sua riflessione fenomenologica si pone il problema di ravvisare la presenza di un atto primario ed elementare di donazione di senso all’immagine che i sensi ci offrono, fedelmente connessa all’impostazione fenomenologica descritta da Husserl, il padre, assieme a Brentano, di questa corrente di pensiero. La poesia è di per un sé ingenuo stupore del tutto naturale23. Si tratta perciò di un atteggiamento di meraviglia e di sogno ad occhi aperti. Occorre, dunque, porre le cose in epoché, ossia tra parentesi, fingendo di non conoscere il loro significato che l’abitudine e la cultura conferisce loro, per scoprire che noi possediamo la capacità di dar loro senso. Afferma una concezione simile Pascoli, sostenendo che la sua voce interiore fanciullina è in grado di attribuire il nome a tutte le cose, come un nuovo Adamo (cap. III). Bachelard pare riprendere i concetti pascoliani, senza tuttavia citarne l’autore, quando sostiene che “nel corso dell’infanzia […] prendiamo coscienza con stupore del nostro essere. Scopriamo così in noi un’infanzia immobile senza divenire, liberata dai meccanismi del calendario”24. Il bambino a sua detta possiede “lo sguardo che ingrandisce”25. Questo ricorso alla dimensione infantile ricorda la compresenza latente 99 dello spirito del fanciullino nell’animo di un uomo adulto, sorta di personaggio interiore, che non invecchia spiritualmente e resta sognante e immaginativo con slanci di fantasia capaci di leggere il cuore delle cose, il valore autentico del suo sentire. Come ha modo di dichiarare il Bachelard: “le stagioni dell’infanzia coincidono con le stagioni del poeta”26. Infatti, Pascoli per avvalorare la sua tesi mostra l’esempio di Omero, Virgilio e Orazio, letterati a suo avviso con lo spirito poetico e definisce l’anziano Cilice l’ideale del poeta (cap. IX). Quando una persona diventa anziana, potrebbe nella sua ottica essere, paradossalmente, più incline a sognare come un bambino, essendosi infatti liberato del tran tran che lo assillava nella vita quotidiana di adulto e lavoratore. Come allora non pensare al fatto che Bachelard abbia composto la maggior parte di queste opere approfondendo ed enfatizzando il ruolo filosofico e artistico dell’immaginazione superata la sessantina e in seguito al suo pensionamento dalla docenza universitaria. L’infanzia bachelardiana, al pari di quella espressa da Pascoli, è infanzia dell’anima e del mondo, ossia un’infanzia ontogenetica e filogenetica se vogliamo esprimerci nel linguaggio del pedagogista Jean Piaget nell’ottica della sua epistemologia genetica. Assistiamo all’emergere di una sorta di “infanzia cosmica”27, non lontana dalle considerazioni vichiane (teorizzate nella Scienza Nuova) sulla comparsa della poesia arcaica e primitiva tipica degli albori della civiltà e connotata positivamente dal filosofo campano. Prosegue Bachelard: “Un’infanzia potenziale è in noi. Quando la ritroviamo nelle nostre rêveries più ancora che nella sua realtà, la viviamo in tutte le sue potenzialità. Sogniamo tutto quello che avrebbe potuto essere, sogniamo la storia e la leggenda”28. Alla luce di quanto abbiamo fin qui potuto considerare non stupisce che Paolo Mottana, docente di filosofia dell’educazione presso l’Università degli studi di Milano 100 Bicocca, definisca Bachelard un “pedagogista immaginale” e ad annoverarlo tra gli studiosi più fecondi nell’ambito delle scienze dell’educazione. Dapprima insiste nella rilevazione che Bachelard possa essere accostato ad uno studioso dell’infanzia: “E’ ped-agogo nella duplice veste di colui che accompagna verso un’infanzia simbolica ritrovata e di colui che conduce l’infanzia a dischiudere la sua fenomenologia immaginale”29. Dopodiché egli scrive: “Il bambino, nell’iridescenza immisurabile dei suoi sensi, come archetipo e fonte, possa anche essere l’ancoraggio irriducibile, anche se fortemente contenuto, e persino combattuto, dell’opera di Bachelard nel suo insieme e nel suo divenire”30. 3. Analogie di simboli Il riferimento alla simbologia è un “tòpos” della poetica Pascoli, il quale ricorre spesso alla cosiddetta simbologia del nido, magistralmente indagata dal critico Giorgio Bàrberi Squarotti31. Inoltre in Pascoli ogni oggetto scelto viene elevato a significato più profondo, ad una sorta di concetto. In questo egli è totalmente fedele a quelli che saranno i dettami del Bachelard, il quale suggerisce al lettore di “abbandonare il concreto per l’immaginario”32. Nella celebre poesia X Agosto, il nido risulta simbolo della casa, la dimensione degli affetti e della protezione dalle insidie del mondo esterno. Secondo Bachelard il nido rimanda necessariamente alla “casa semplice”33 e ad una rêverie della sicurezza. Il ricorso al simbolo, che sulle prime e rimanendo nell’ambito strettamente e squisitamente letterario ci fa pensare immediatamente alle corrispondenze tipiche della poetica di Baudelaire, è tuttavia presente nel Bachelard di una generazione successiva alla sua. Ciò che in Pascoli si definisce simbolo assume la terminologia di immagine in Gaston Bachelard. La poesia, 101 secondo quest’ultimo, risulta caratterizzata da queste immagini, differenti dalle metafore impiegate da Henri Bergson (sua è la metafora del cassetto per identificare emblematicamente la memoria). Nell’ipotesi bachelardiana le immagini sono “donatrici di essere”34 e non sono, come precisa Bachelard, false e arbitrarie connessioni tra enti diversi. 4. Oltre la scienza Sia in Pascoli che in Bachelard l’interesse nei confronti dello sviluppo delle scienze, seppur difficilmente contestualizzabili in quanto vissuti in tempi differenti, risulta ben delineato. Come abbiamo già ricordato, Bachelard insegnò Filosofia della scienza all’università, dal momento che possedeva due lauree, in ambiti differenti, ma complementari: la prima in matematica (che lo portò ad insegnare fisica e chimica nelle scuole superiori francesi) e la seconda in filosofia, diversi anni dopo. Infine egli si dedicò a lungo a sviluppare studi di epistemologia, perciò possiamo considerarlo un appartenente ad una filosofia post-spiritualista o un fenomenologo strutturalista, pur essendo difficile una sua definitiva collocazione in correnti di pensiero. Nel caso di Pascoli siamo a conoscenza del fatto che seppur di formazione umanistica, il Pascoli dimostra fiducia nella scienza e una spiccata abilità nella descrizione botanica di fiori e piante. Egli dimostra, quindi, interessi scientifici e di non essere un critico del positivismo tout court. Il senso di mistero presente in alcune sue poesie, tuttavia sfugge alla logica razionale positivistica. Nella poesia Il libro un ignoto lettore tenta di decifrare il libro della natura, ma non vi riesce, dal momento che tra lui e il mondo della natura esiste uno iato insuperabile. Anche in Bachelard ricorre una situazione simile, anch’egli infatti ricrea l’immagine del libro della natura nella sua ultima opera, La 102 fiamma di una candela: “Il mondo è per me […] il libro difficile rischiarato dalla fiamma di una candela. Ma la candela si spegnerà prima che il libro difficile sia capito”35. Tuttavia l’importanza conferita alla critica al positivismo come pensiero totalizzante e alla relativa pretesa della scienza di porsi come superiore ai fatti dello spirito conduce sia Pascoli che Bachelard a ripiegare sul valore concesso all’affettività e al ruolo dei sentimenti. A tal proposito Bachelard dimostra l’importanza di fondare una “filosofia dell’aggettivo” contro una filosofia del puro dato, la “filosofia del sostantivo”. Similmente Pascoli ricorre spesso al procedimento dell’analogia. Mediante questa egli sfugge al piano reale e razionale, ponendosi a valorizzare l’intuizione, capace, nel suo accostare immagini apparentemente distaccate, di farci pervenire un senso dell’esistenza umana che ci rimarrebbe altrimenti precluso se ci riferissimo soltanto alla scienza. Perciò se nido = casa, aratro = abbandono, anche in Bachelard si può notare come ogni oggetto venga a ricevere i connotati di una realtà altra, psichicamente rilevante. Bachelard invita a più riprese l’uomo a scoprire il poeta che è dentro ad ognuno, per amare la casa, gli oggetti cari, le immagini raffinate e sublimi. Ogni oggetto considerato poeticamente diviene idealmente “operatore d’immensità” ed ogni avvenimento vissuto con questo particolare stato d’animo non viene descritto tramite impressioni, bensì vissuto nella sua “immensità poetica”36. Bisogna “superare la logica per vivere quanto vi è di grande nel piccolo”37. E’ riscontrabile nel Fanciullino di Pascoli la tendenza a ricercare l’irrazionale nel fenomeno razionale. Il fanciullino dimostra di agire senza un apparente perché, seguendo appieno l’emozione che lo porta a passare rapidamente e spontaneamente dal pianto e al riso. “Il pensiero, frammento di vita, non deve dettare le sue regole alla vita”38 ribadisce e gli fa eco Bachelard. La scienza è importante, ma non bisogna 103 precludersi altre prospettive, altrimenti si fa di essa un’unica e totalizzante dimensione della ragione. Conclusione Nel presente articolo ci siamo soffermati a riscontrare possibili analogie tra la poetica di Giovanni Pascoli relativa al fanciullino (e, in senso esteso, alla “filosofia” delle piccole cose e al rapporto con la ragione scientifica oggetti d’indagine negli ultimi due paragrafi) e la fenomenologia dell’immaginazione elaborata da Gaston Bachelard. Entrambi desiderano inaugurare un nuovo modo di interrogare il mondo e di guardare cose ed eventi della vita con occhi diversi, più sognanti e meno logico-raziocinatori. Una nuova Weltanshauung (visione del mondo) poetica e sognatrice viene a nascere in loro, in ultima istanza. Per far questo essi esortano il lettore a confrontarsi con un mondo di cose che grazie alla nostra fantasia parlano ed interagiscono con noi, di un mondo semplice, di affetti, di intimità e di raffinata gentilezza onde pervenire ad una considerazione molto più seria e profonda sull’esistenza e sull’essenza umana, per scoprire quanto bello sia provare brividi ed emozioni che la vita ci sa riservare, senza peraltro dover creare a teorie complesse o euristiche sulla psiche umana. L’appello di Pascoli e Bachelard non può non lasciarci indifferenti siccome il loro messaggio tocca le regioni più intime della nostra anima e mira al cuore del lettore. 1 G. Pascoli, Pensieri e discorsi, Zanichelli, Bologna, 1907, p. 1-55 (per comodità, da questo momento in poi, le parti oggetto di citazione saranno esposti all’interno del testo indicando il capitolo, dal I al XX, 104 così da facilitare al lettore la ricerca di passi salienti nella propria edizione di riferimento). 2 G. Piana, La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione, Guerini e associati, Milano, 1988 3 Si pensi all’architetto milanese Aldo Rossi e al suo progettare seguendo l’impostazione archetipica mutuata da Bachelard. 4 S. Mele, La ricerca del sapere, vol. 3, D’Anna, Firenze, 2011, p. 590 5 Cfr. Aristotele, Metafisica, libro I, 982b, 10-25, trad. it. G. Giannantoni, Laterza, Bari 1971 6 Aristotele, Poetica, (a cura di D. Lanza) Bur Rizzoli, Milano, 1987 (cap. 9, 51b 1-11) 7 Platone, Ione in Tutti gli scritti (a cura di G. Reale), Bompiani, Milano, 2000 8 A. Montagna, La filosofia presente nella letteratura italiana, Eidon, Genova, 2013, p. 9 9 G. Bachelard, La poetica dello spazio, trad. it. E. Catalano, Dedalo, Bari, 2006, p. 205 10 Ivi, pp. 40-43 11 A. (de) Saint - Exupéry, Il piccolo principe, trad. it. N. Bompiani Bregoli, Bompiani, Milano, 1998. Il riferimento al mondo infantile assunto come modello per gli adulti è anche presente nella poesia di Aldo Palazzeschi e, in una certa misura, anche in Umberto Saba. 12 G. Bachelard, L’intuzione dell’istante. La psicanalisi del fuoco, trad. it. G. Silvestri Stevan, Dedalo, Bari, 1987, p. 35 13 G. Capovilla, Pascoli, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 91 14 Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 35 15 Ibidem. 16 M. E. De Caroli, Una briglia all’emozione. Creatività e psicanalisi, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 61 17 A. Traina, Il latino di Pascoli, Pàtron, Bologna, 2006, p. 115 18 B. Giovannelli, Giovanni Pascoli, Goodmood, Padova, 2013, p. 36 19 Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 117 20 Ivi, p. 243 21 Ivi, p. 7. 22 G. Bachelard, Il diritto di sognare, trad it. M. Bianchi, Dedalo, Bari, 1975, p. 194 105 23 G. Bachelard, La poetica della rêverie, trad, it. G. Silvestri Stevan, Dedalo, Bari, 1972, p. 10 24 Ibidem, p. 106 25 Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 188 26 Bachelard, La poetica della rêverie, cit., p. 122 27 Ivi, p. 110 28 Ivi, p. 106 2 9 P. Mottana, Bachelard paid-agogo immaginale, in Bachelardiana, n. 1, Il Melangolo, Genova, 2006, pp. 89-96 30 Ibidem 31 G. Bàrberi Squarotti, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, D’Anna, Messina-Firenze, 1966 32 Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 117 33 Ivi, p. 127 34 Ivi, p. 102 35 G. Bachelard, La fiamma di una candela, trad. it. G. Alberti, SE, Milano, 1996, p. 53. 36 Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 246 37 Ivi, p. 183 38 G. Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 47. 106 Esordisce come poeta nel 1985, a ventinove anni, nel 1990 comincia a scrivere romanzi, nel 1996 approda al teatro, al 2004 risalgono i primi racconti, al 2005 le prime sceneggiature e i primi film. Ha cinquantotto anni, è nato a Villa Ramallo (Argentina) nel 1956, si chiama Sergio Bizzio. Molto, tanto e in tanti modi ha già prodotto. Da alcune sue narrazioni sono stati tratti film che hanno avuto riconoscimenti ai Festival di New York, Tokyo e Cannes. Poeta, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, regista è Bizzio e in ogni genere della sua estesa produzione impegnato si mostra a trattare temi legati alla moderna condizione umana, sociale, politica, alla vita dei nostri tempi, ai problemi che sono sopravvenuti, che l’hanno resa difficile nei modi, nei rapporti, nei pensieri, nelle azioni, attento è sempre a far vedere come lo spirito, l’animo umano siano oggi travagliati da situazioni, eventi che prima non c’erano, a rappresentare circostanze molto complicate e sempre con chiarezza, con lucidità. Dice, nelle sue opere, Bizzio dei segreti più riposti senza mai perdere di vista quel che accade in superficie, porta alla luce i misteri della vita e li fa stare insieme a quanto altro si vede, si sente, si fa. Niente RECENSIONI NUOVI TEMPI, NUOVI SCRITTORI Antonio Stanca 107 rimane nascosto, sconosciuto per questo autore, anche l’inverosimile, l’assurdo fa egli rientrare tra le cose del mondo, fa diventare naturale. Cariche di continui risvolti, di immediati colpi di scena risultano, pertanto, le storie narrate dal Bizzio specie nei suoi romanzi, difficili da risolvere diventano le situazioni da esse contenute siano di carattere privato o pubblico, individuale o sociale. Spesso non s’intravedono possibilità per superare il problema che si è creato, per evitare il pericolo che è sopravvenuto e tuttavia la disgrazia non è mai totale perchè questo scrittore fa pure pensare che si possa uscirne. Ed un segnale di tale sotterranea speranza, di tale nascosta fiducia è quell’umorismo che, pur se amaro, percorre tante scene delle sue narrazioni e ne fa delle operazioni rivolte a cogliere una morale, a ricavare un insegnamento da quanto di triste, di grave, di strano, di assurdo può succedere oggi nella vita. Molti significati ha la scrittura del Bizzio, è la sua maniera di essere scrittore, è il suo tipo di umanesimo, è quello che ne ha fatto uno dei maggiori scrittori viventi, quello che va da romanzi diventati celebri quali Rabbia del 2004, Era il paradiso del 2007, Realtà del 2008 ai più recenti Lo scrittore mangiato del 2010 e Borgestein del 2012¹. Quest’ultima opera conferma lo stile del Bizzio, la sua tendenza a procedere tramite periodi brevi, rapidi e sempre precisi, esatti, sempre compiuti. Sembra di assistere ad una serie interminabile di piccoli passi avanti, di scatti, che portano sempre più vicino alla scoperta, alla rivelazione delle tante verità che l’opera contiene e che sono celate in ognuno dei suoi personaggi, dei suoi luoghi, dei suoi tempi, dei suoi avvenimenti. 108 Il protagonista di Borgestein è uno psichiatra che per strada è stato assalito ed accoltellato, senza che si sappia mai perché, da un suo paziente, lo strano poeta Borgestein, e che per paura di un nuovo assalto e di rimanerne vittima decide di lasciare la città e recarsi per qualche tempo in montagna dove da poco ha acquistato una casa che non ha ancora visto perché ha trattato solo con un’agenzia immobiliare. Si allontana, quindi, anche dalla moglie Julia con la quale, in verità, non ha più un buon rapporto. Julia è un’attrice di teatro, è famosa e poco tempo concede al marito ed alla loro casa in città. Per lui, però, la casa di montagna si rivelerà piena di sorprese e di problemi: accanto c’è una cascata che produce un rumore assordante, nei suoi dintorni circolano due pericolosi puma, dei quali uno è stato catturato di recente, in essa abita un pappagallo che ogni tanto ha bisogno di sentirsi attraversato da una breve scarica di corrente elettrica che si procura inserendo una zampetta in una presa, ad una certa distanza una troupe cinematografica sta girando senza nessun riserbo alcune scene di un film pornografico, per fortuna riesce a sfuggire ad un nuovo assalto di quel Borgestein, suo paziente, che lo ha rintracciato. Sono tante le situazioni, tanti i problemi con i quali lo psichiatra, che era in fuga da problemi, dovrà convivere. Ma ora cercherà di porre rimedio soprattutto quando si renderà conto che in quella casa è destinato a rimanere per sempre visto che la moglie si è messa con un altro anche se gli ha detto che aspetta un bambino da lui. Rinuncerà al suo lavoro precedente, chiuderà l’ambulatorio, comincerà a trasportare pietre per ridurre la profondità della buca nella 109 quale l’acqua della cascata precipita e di conseguenza il rumore che provoca, farà istituire posti di guardia per la cattura del puma rimasto in libertà, diventerà amico del pappagallo, scenderà in paese, s’incontrerà, si frequenterà con persone del posto, cercherà, insomma, di ridurre i tanti disagi che la nuova situazione gli comporta specie se sta da solo. «A volte mi aiutavano a raccogliere pietre e a trasportarle verso la buca, ma solo ogni tanto. Preferivano guardare. Gloria scrisse una Ode allo psichiatra che riempie la fonte, e mi fece dono del manoscritto su carta pergamena. Credo che non fosse granché e mi commosse».² Tutto questo fa rientrare Bizzio in un romanzo di poco più di cento pagine! Tutto questo fa succedere! Tanta vita muove! Con tanta abilità si muove tra tanta vita! A volte non si riesce a distinguere tra realtà e immaginazione, ricordo e visione, parola e azione, colore e suono, vita e morte. Avvia egli un processo che diventa vulcanico ma mai confuso perchè lo controlla sempre, lo svolge con destrezza, lo fa sembrare sempre vero pur nelle assurdità, gli procura sempre una ragione, un senso. Sempre lo conduce verso un esito anche se impensabile era sembrato questo. Pure questa storia avrà un esito che sarà diverso dall’allarmante situazione che si era creata: il rumore della cascata si ridurrà grazie al lavoro compiuto dal protagonista, il secondo puma sarà catturato, il pappagallo farà famiglia, il pericoloso Borgestein sarà rinchiuso in una clinica e soprattutto Julia, nata la loro bambina, andrà a vivere con lui in quella casa di montagna. 110 Tutto è stato strano, a volte assurdo, ma tutto si è concluso anche stavolta. Anche stavolta Bizzio ha colto ogni minimo aspetto, risvolto di una vicenda diventata insolita, l’ha resa vera, anche stavolta ha fatto cronaca di ciò che non si capiva. 1 Questo romanzo è stato pubblicato in Italia ad Aprile del 2014 dalla casa editrice La Linea di Bologna. La traduzione è di Raul Schenardi (pp.147). 2 Ivi, p. 80. 111
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