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RIVISTA DI PSICOANALISI, 2013, LIX, 4
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Conversazione con Luciana Bon de Matte
MARIA PIA CHIARELLI VASSALLO
M
i sono rivolta a Luciana Bon de Matte per chiederle di supervisionare il mio lavoro. Ben presto, però, il tempo trascorso insieme ha
portato a una delicata quanto preziosa confidenza. Luciana, riflettendo sulla sua visione della psicoanalisi, ha cominciato a parlare
della intenzione di scrivere un libro sulla «teoria della tecnica»; perlomeno era
questo il titolo che desiderava dare al suo lavoro. Pensava a un libro non troppo
teorico e che fosse in grado di sollecitare nuovi pensieri collegando le esigenze
della clinica con quelle della tecnica. Soleva dire: «Se mi trovo sola di fronte ad
un foglio, mi riesce difficile scrivere, mi piace avere un interlocutore con cui
parlare, confrontarmi». Decidemmo allora, con Antonio Ciocca, di registrare
alcune conversazioni. Gli incontri si svolsero nel suo studio negli anni 20042006. Per me è un privilegio aver potuto ascoltare, condividere, documentare
una così ricca esperienza, quasi una sorta di testamento del suo pensiero psicoanalitico. Spero che il lettore resti, come me, colpito da tanta fluida, semplice
immediatezza.
La Dott.ssa Bon de Matte era accogliente, spontanea e parlava con uno spiccato accento spagnolo che ne denunciava le origini cilene. Parlava con profondità, ma ascoltava con grande attenzione generando un’esperienza di famigliarità
e di passione comunicativa.
Al dialogo psicoanalitico intercalava il racconto di frammenti della sua vita,
in particolare l’incontro con il marito e il grave lutto che la colpì negli ultimi anni.
L’intrecciarsi di argomenti scientifici con quelli personali consentiva di
cogliere la profonda commistione tra la teoria e la tecnica che utilizzava professionalmente e le vicende di vita e il contesto socio-culturale in cui era cresciuta.
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Formatasi in Argentina con Arminda Aberastury, ebbe molte opportunità di
supervisioni, di frequentazione di corsi, di partecipazione a gruppi di studio. Poi
il trasferimento in Italia le consentì di conoscere e lavorare a lungo con Armando
Ferrari. Un incontro che influenzò profondamente il suo lavoro.
Luciana Bon de Matte ha lasciato in eredità testi sulla tecnica psicoanalitica,
sull’adolescenza e sulla creatività, oltre ad un cospicuo patrimonio orale di cui
fanno parte le registrazioni delle nostre conversazioni.
In questo lavoro ho scelto di riportare direttamente alcuni brani degli incontri.
L.B.d.M.: Desidero dialogare con te sul tema della tecnica psicoanalitica, di
come me ne sono servita, esponendo anche le riflessioni che ho fatto sull’esperienza che tale tecnica promuove. Ho una grande pratica di persone che sono ricorse a
me per una seconda o terza analisi personale – spesso anche colleghi. A proposito di
questi ultimi mi chiedo quali possano essere state le situazioni affettive che non
sono state raggiunte ed esplorate nel precedente lavoro psicoanalitico. Ci sono colleghi psicoanalisti che portano avanti il lavoro con i pazienti senza che abbiano una
visione complessiva dei bisogni e delle difficoltà specifiche di quella determinata
situazione; essi sembrano essersi aggrappati alla teoria della psicoanalisi finendo
con il renderla statica in quanto lontana dalla situazione psichica reale del paziente.
Penso che in certe situazioni di lavoro non sia nemmeno rispettato il pensiero di
Freud; lui si faceva domande, scopriva e proponeva ipotesi con una capacità di lettura che non era mai stata presa in considerazione in precedenza. Alcuni psicoanalisti fanno subito ricorso all’interpretazione, tendendo così ad evitare il vissuto del
paziente e la sua trasformazione psichica. Invece è importante ascoltare ciò che
dice il paziente e non utilizzare interpretazioni impregnate di teoria. Ciò che serve è
andare a vedere cosa accade al paziente, che cosa ha vissuto, cosa lo fa soffrire, quali sono le sue limitazioni, quali le reazioni o potenzialità, come ha potuto organizzare le difese che lo bloccano in un senso, ma lo facilitano in altre direzioni. Penso che
il sintomo dovrebbe essere interpretato nel suo significato di esperienza non solo
come difesa, ma anche per la funzione che svolge, ed intendo per funzione la ragione conscia o inconscia che spinge l’individuo a parlare ed agire.
Se si capiscono bene queste cose, è perché si sta utilizzando dinamicamente
la relazione transferale. Ciò consente, al di là delle parole del paziente, di comprendere la sua storia psichica, quello che egli ha vissuto emotivamente. Non è
vero che non utilizzo il transfert: piuttosto non interpreto il transfert. Con l’interpretazione transferale obbligherei il paziente ad occuparsi di me, impedendogli
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di occuparsi di sé. È invece il paziente stesso che deve arrivare ad accorgersi di
come funziona, è lui che deve arrivare a scoprire e verbalizzare come sta nelle
relazioni, come reagisce. Se il paziente arriva a riconoscere tutto questo, può
finalmente comprendere quale è la sua angoscia, il suo percorso psichico, la sua
reazione difensiva, il suo blocco affettivo ed infine la maniera in cui può trasformarsi. Lavorando in questo modo si aiuta la persona a conseguire una nuova
libertà, ma soprattutto a raggiungere un’autentica crescita psichica. Sono convinta che siano rare le situazioni in cui servono le interpretazioni. L’interpretazione
deve poter essere una sorta di riassunto comprensibile che aiuta a conoscersi e a
discriminare ciò che appartiene a sé da ciò che viene dall’altro. L’interpretazione
è utile al paziente se conferma le conquiste che va facendo. L’ascolto e il non
interpretare direttamente aiuta ad avere rispetto dei tempi e dei modi del percorso
del paziente. Se quest’ultimo perde il contatto con il lavoro che sta facendo su di
sé, l’analista gli domanderà cosa gli è successo, cosa lo ha spinto ad abbandonare
l’indagine su di sé. Questa non è un’interpretazione in cui dico. «Lei ha sentito
questo, allora si allontana… ecc.» La domanda lo aiuta a soffermarsi, a pensare e
forse anche a comprendere le ragioni dell’allontanamento. L’analizzato fa il suo
percorso con l’accompagnamento dell’analista; se fosse lasciato solo con se stesso
continuerebbe a ripetere gli stessi comportamenti. Io penso che il nostro lavoro
consista nel permettere che una persona possa ripercorrere la propria storia dandosi delle risposte vere. Tutto ciò avviene con l’accompagnamento dell’analista che
lo aiuta a conoscere cosa cercava di risolvere con un determinato sintomo. È un
lavoro in cui non si fanno grandi interpretazioni che perlopiù servono a sostenere il
narcisismo dell’analista e non sono comprese dal paziente. Penso, invece, che il
nostro proposito debba essere quello di essere psicoanalisti che affiancano l’altro
per accompagnarlo, affinché possa ripercorre la propria situazione emozionale,
aiutandolo a farsi strada nel capire il proprio modo di entrare in relazione con la
realtà, senza impigliarsi di nuovo in situazioni frustranti. Credo anche che ci si
debba disporre a lavorare con ritmi che il paziente è disposto a darsi. Un adulto ha
le sue ragioni per aver assunto un determinato comportamento, pur rispettando
tutto questo è necessario fargli vedere, attraverso il dialogo, in che misura certe
condotte gli fanno pagare un costo troppo elevato di energie psichiche: l’analisi è
un percorso in cui l’analista si colloca all’interno della storia del paziente.
Entrando più a fondo nella situazione di transfert, non faccio un’interpretazione dicendo ad esempio: «Questo si ripete ecc.». Sarebbe come rinfacciare al
paziente un meccanismo che abbiamo tutti e che non avrebbe nessun senso conteRivista di Psicoanalisi, 2013, LIX, 4
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stargli, sarebbe come dire: «Lei questo non lo deve fare più». In questo modo si
creano situazioni in cui il paziente non riesce più a muoversi. A volte poi egli paga
un prezzo molto elevato: per compiacere l’analista tradisce se stesso e ne impara il
linguaggio. Penso che queste cose dovrebbero essere ripensate, anzi sono certa
che molti colleghi, sommessamente, siano d’accordo con me. Il metodo psicoanalitico è una ricchezza di cui disponiamo che consente uno sviluppo enorme: la persona deve realizzare se stessa, non qualcosa che viene proposto dall’analista. Con
il mio modo di lavorare, i tempi analitici si sono abbreviati, con il vantaggio, per il
paziente, di sondare aspetti di sé che gli erano del tutto sconosciuti e di sperimentare nuove possibilità di vivere. Lo sforzo che dobbiamo fare è quello di entrare in
contatto con tutte le parti della personalità e non solo con il sintomo. L’oggetto del
nostro interesse è il paziente e ciò significa che lo dobbiamo seguire nei suoi movimenti emotivi, nelle sofferenze, nel quadro complessivo della sua identità. L’analisi,
per molto tempo, ha tenuto fuori dal campo analitico l’individuo che si muove nella
realtà, che ha delle capacità. Questo atteggiamento ha arrecato non poco danno alla
psicoanalisi ed ai pazienti. Ho spesso sentito colleghi affermare un paradosso: se l’analizzato guarisce, questa non è psicoanalisi. È un’impostazione rigida che ha frainteso la teorizzazione della Klein. Leggendo i suoi casi si può osservare come lei
sapeva camminare con il bambino, accompagnarlo, salutarlo quando era in chiesa.
Era una persona reale; invece il fatto che l’analista debba sottrarsi alla vista del
paziente per salvaguardare il setting, mi sembra un comportamento artificiale. Il setting non si rispetta negando la realtà, bensì prestando attenzione ai movimenti verso
quella che è la situazione reale. Penso che dobbiamo stabilire un rapporto emotivo
con la persona. Questo è il nostro vantaggio rispetto al paziente che ha già vissuto
situazioni affettive dolorose, ha commesso errori, ha dovuto fare delle rinunce o
comunque ha avuto delle reazioni difficili da gestire. I suoi atteggiamenti vanno
rispettati, essi ci danno lo spessore della sua forza, delle sue risorse e della sua capacità di sopportazione. Noi lo dobbiamo aiutare a contattare quegli aspetti che ha
negato, allontanato, sfuggito. Dobbiamo rispettare e salvaguardare tutte quelle parti
che funzionano e accompagnarlo a scoprire le altre in difficoltà senza appesantirlo.
Per comprenderlo ci è indispensabile il transfert. Dobbiamo stabilire una
relazione in cui comprendiamo quali sono state le condizioni emotive di quel
bambino, con quei genitori, seguirlo emotivamente. Quando arriva, il paziente
parla delle cose che sopporta, mentre con il procedere del lavoro analitico emergono aspetti che sono stati cacciati via o che non sono mai apparsi. Spesso il
paziente tende a non darsi spazio dicendo che non può fare più di una seduta,
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mentre noi lo dobbiamo aiutare a prendersi questo spazio. In questi casi dico che
la mia esperienza mi insegna che dobbiamo cercare un ritmo che io non conosco, che noi non conosciamo; insieme dobbiamo scoprire quali sono i suoi ritmi,
le sue capacità di sopportazione delle emozioni e anche dello spazio interno per
dare posto a quello che ignoriamo, che non circola dentro di lui. Il paziente ascolta, e siccome è molto sensibile, comincia a sentire qualcosa che non ha potuto percepire prima. Sto sempre in contatto. Ogni volta sono sorpresa nel vedere cose mai
immaginate, mai pensate prima. Alcune volte i supervisori fanno interpretazioni
fuori dal contesto, per esempio l’interpretazione di fine settimana. È uno di quei
casi in cui l’analista si appoggia a elementi di realtà per fare un intervento che
invece per me deve essere fatto sul materiale del pensiero dell’analizzato, che deve
essere organizzato e compreso nel punto d’urgenza, dove la sofferenza è maggiore. Questo è quello che ci deve dare indicazioni per avvicinarci a sentire emozionalmente e farci un’idea di quanto accade nella sua mente. Tutto ciò è possibile
grazie al transfert, che ci fornisce la comprensione complessiva della sua storia.
Tutti ci regoliamo con la nostra storia, ogni cosa che viviamo contiene la nostra
storia e le nostre potenzialità. Perciò credo che se stiamo aiutando il paziente dobbiamo collocarci vicino alle sue aree sofferenti. Lui inizialmente è venuto per le
conseguenze di qualcosa che non conosce. Quando iniziamo a lavorare non abbiamo una teoria, possiamo solo fare delle ipotesi che verificheremo con il paziente
stesso nel corso del lavoro analitico. Non servono le interpretazioni che mettono in
luce invidia, odio, gelosia, ecc. Non è utile parlare di situazioni di fatto che il
paziente ha già vissuto, non gli serve questo. Lo metteremmo di fronte ad una critica che non lo arricchirebbe ma lo farebbe sentire in colpa. Credo invece che debba
essere ascoltato e compreso ciò che il paziente non ha vissuto, aiutandolo affinché
possa reagire e comprendere meglio la situazione transferale. Questo è quello che
ci deve dare indicazioni per avvicinarci a sentire emozionalmente e farci un’idea
di quanto accade nella sua mente. Alcuni dei pazienti hanno subito vere e proprie
ferite, in senso metaforico, di cui portano profonde cicatrici. Una volta entrati nella relazione terapeutica, i loro bisogni frustrati, riattivati ed incoraggiati da questo
ambiente positivo, cominciano a concentrarsi sul terapeuta: questo è il transfert.
Un collega mi ha detto che ho inventato la teoria della tecnica. Ho riflettuto
su questa affermazione che mi è piaciuta molto. L’esercizio della psicoanalisi in
questi cento anni ha notevolmente ampliato i territori della conoscenza consentendo l’elaborazione di diverse teorie. Ecco, la mia esperienza mi permette di
arricchire non la teoria, ma la teoria della tecnica.
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SINTESI E PAROLE CHIAVE
Mi sono rivolta a Luciana Bon de Matte per chiederle una supervisione. Spesso parlava dell’ intenzione di scrivere un libro sulla «teoria della tecnica». Un libro che collegasse le esigenze della clinica
con quelle della tecnica. «Ci sono psicoanalisti», diceva, «che lavorano senza avere una visione
complessiva delle difficoltà specifiche di una situazione; essi sembrano aggrappati alla teoria della
psicoanalisi, rimanendo così lontani dallo stato psichico del paziente. È importante ascoltare ciò
che questi dice e non saltare alle conclusioni».
PAROLE CHIAVE: Relazione, teoria della tecnica, transfert.
A CONVERSATION WITH LUCIANA BON DE MATTE. I contacted Luciana Bon de Matte to ask
her for supervision. Often she spoke of the intention to write a book on «theory and technique» – a
book that would bring together the requirements of clinical work with those of technique. «There
are psychoanalysts who work without having an overall vision of the particular difficulties of a situation; they seem to cling to the theory of psychoanalysis, remaining very far from the patient’s psychic state. It is important to listen to what the patient says and not jump to conclusions».
KEYWORDS: Relationship, theory of technique, transference.
CONVERSATIONS AVEC LUCIANA BON DE MATTE. Je me suis tournée vers Luciana Bon de Matte puor lui demander une supervision. Elle disait souvent d’avoir l’intention d’écrire un livre sur la
«théorie de la technique». Un livre qui liât les nécessités de la clinique aux celles de la technique. «Il
y a de psychanalystes qui travaillent sans avoir une comprehension complexe des difficultés spécifiques d’une situation; ils semblent accrochés à la théorie de la psychsnslyse, en restant, de cette
façon, loins de l’état psychique du patient. C’est important écouter ce que celui dit et ne pas sauter
aux conclusions».
MOTS-CLÉS: Relation, théorie de la technique, transfert
CONVERSACIÓN CON LUCIANA BON DE MATTE. Recurrí a Luciana Bon de Matte para pedirle
una supervisión. Ella repetidamente hablaba de la intención de escribir un libro sobre «teoría de la
técnica». Un libro que sirviera a conectar las exigencias de la clínica con aquellas de la técnica. «Hay
psicoanalistas», decía, «que trabajan sin tener una visión en conjunto de las dificultades específicas
de una situación: parece que estén agarrados a la teoría del psicoanálisis, quedando así alejados del
estado psíquico del paciente. Sería importante escuchar lo que este pueda decir, más que brincar a
conclusiones».
PALABRAS CLAVE: Relación, teoría de la técnica, transferencia.
GESPRÄCH MIT LUCIANA BON DE MATTE. Ich hatte mich an Luciana Bon de Matte gewendet
und sie um eine Supervision gebeten. Sie sprach häufig über ihr Vorhaben ein Buch über die
«Theorie der Technik» zu schreiben, d.h. ein Buch, das die klinischen Notwendigkeiten mit denen
der Technik verbindet. «Es gibt Psychoanalytiker, die arbeiten ohne eine umfassende Vision der
spezifischen Schwierigkeiten einer Situation zu besitzen; sie scheinen sich an die Theorie der Psychoanalyse zu klammern und bleiben weit entfernt von dem psychischen Zustand des Patienten.
Es ist wichtig ihm zuzuhören und nicht gleich zum Schluss zu gelangen».
SCHLÜSSELWÖRTER: Beziehung, Theorie der Technik, Übertragung.
Maria Pia Chiarelli Vassallo
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