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RIVISTA DI PSICOANALISI, 2013, LIX, 4
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Ogni angelo è tremendo. Esplorazioni ai confini della teoria
e della clinica psicoanalitica
Mauro Manica
Roma, Borla, 2013, pagine 181, € 25,00
Non c’era niente di più bello del ricercare
i racconti di una certa lunghezza che, sotto forma
di passaggi sotterranei, interrompendosi più volte
ma tornando sempre alla luce in veste di nuove
puntate attraversavano il tutto […]
WALTER BENJAMIN
S
e un libro potesse restituirci le sonorità, questo di Mauro Manica, nel farci udire la melodia pucciniana posta a dedica nel Pro-logo, rivelerebbe la
qualità che si ritrova per intero nelle sue pagine: un incedere vigoroso e
ben piantato nel «vivere» la clinica e «sognare» la teoria. Vigoroso come
appunto la romanza («Che gelida manina») che è presentazione del protagonista
di Bohème, Rodolfo: «Chi son! Chi son! Sono un poeta e cosa faccio scrivo e
come vivo… vivo!». Puccini annota in partitura (alla trentaseiesima battuta)
Andante Sostenuto, modificando l’indicazione di movimento all’inizio dell’Aria, dove il colorito dell’Andantino si diceva «affettuoso». «Sostenuto» indica un
passaggio di toni che si vogliono protratti, virili; essi infatti, precedono il rivelarsi
della protagonista femminile («Sì, mi chiamano Mimì») e sfociano nel finale
«Amor, amor». Ma ogni angelo è tremendo, come nella prima delle Elegie Duinesi di Rilke, e se in Bohème si arriva al duetto amoroso dopo appena essersi
incontrati, il poeta svela invece una sordità angosciosa:
E chi allora se gridassi mi sentirebbe, degli ordini angelici?
E anche supponendo che uno di loro
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Improvvisamente mi stringesse al cuore: morirei della sua più forte assenza.
[…] Ogni angelo è tremendo.
Il filo rosso che lega i diversi capitoli passa per l’etica (Etica e narcisismo:
una prospettiva psicoanalitica) attraversa il transfert e il sogno simultaneo (Transfert, identificazione inconscia e funzione onirica: il sogno simultaneo come
mesomeria della mente) e accede a quel sottosuolo, dove eruzioni vulcaniche
(Memorie dal sottosuolo: eruzioni vulcaniche e scosse telluriche) possono anche
evidenziare quel che resta del trauma o del poppante saggio (Traumi precoci:
attualità di una nuova versione del «poppante saggio»). Allo stesso modo, nell’anoressia si può avere a che fare con fluttuanti sogliole che pongono enigmi e sfidano i confini della clinica (Come sogliole in un acquario, anoressia e campo
relazionale), per finire con il chiedersi se la psicoanalisi sia davvero la storia dei
progressi freudiani, come ce la ricordiamo o come ci è stata tramandata (Metanalisi e/o metapsicologia: la psicoanalisi è ancora freudiana?).
Un merito di Manica è quello di trasmettere le esperienze cliniche non affidandosi alle famose vignette, ma offrendo invece delle petites histoires; ad esse
egli accosta poi le sue idee, permettendo a ognuno di sentire a lungo la voce del
paziente. Se conosciamo lo stare nella stanza d’analisi, possiamo metterci in un
angolo, probabilmente con lo stesso inconscio spaventato dei protagonisti.
Notiamo così Francesca, una psicoterapeuta che inizia l’analisi nella mezza
età. Ha un aspetto minuto; lo sguardo spaurito e birichino, fa pensare a qualcosa di interrotto, o di non compiuto. Porta infatti i ricordi di un allontanamento
dalla famiglia dai quattro ai sette anni. In un sogno, l’analista le appare trasformato in specchio vivente. I gesti di lei che si rannicchia in posizione fetale sono
riflessi da lui che assume la stessa posizione: Francesca si scioglie in lenti
movimenti e vede l’analista muoversi con lei. Nelle associazioni, il dreamingensemble è descritto come una simmetria di cui sente di aver bisogno. È come
se la paziente descrivesse una disposizione mimetica della mente, che viene
rappresentata nei sogni di rispecchiamento. Nel commento dell’autore a un
caso di Maria Grazia Oldoini, troviamo la Signora S. che è descritta come una
bella donna, dal portamento mascolino e dalla voce aspra. Si presenta ubriaca
al primo incontro, esprime il desiderio di dormire all’infinito, non porta mai
sogni ma racconti dolorosi. Quando un sogno arriverà, saranno immagini di
vermi che sembrano linee nere sulle mani. Anche la sua analista, nella notte che
precede la seduta, sogna di avere dei vermi sotto la pelle; e sempre sognando,
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pensa che possano provenire dai vasi di gerani, o forse, si annidano nel fusto
delle piante e lo prosciugano.
Manica nota che perché si realizzi un sogno simultaneo occorre che si dia la
possibilità di una mesomeria. È necessario cioè che il paziente sia stato sufficientemente corrisposto nel suo bisogno di credere che il terapeuta riesca a sperimentare emotivamente ciò che egli sperimenta: l’unisono traumatico deve fare vertice in O. La mesomeria si dà in chimica come risonanza quando più formule limite concorrono a definire la vera struttura di una. Viene simbolizzata con una freccia a due punte.
.
FIG.1. Esempio di mesomeria in struttura del benzene
Michele è ancora un ragazzo. Dalla sua lunga analisi ci arrivano sogni, raccontando i quali egli descrive il personaggio «cane-pollo», uno schnauzer robotico tenuto al guinzaglio da sua madre. Michele aggiunge che la parte pollo è spennata, agonizzante. Successivamente, durante un momento critico della terapia,
sognerà di trovarsi nella stanza d’analisi, dove l’analista gli sta dicendo che ha
un’organizzazione di personalità che non può esprimersi perché trattenuta da una
stratificazione di filtri. Il sogno di Michele prosegue con il personaggio analista
che si impegna in una sorta di rappresentazione teatrale: toglie di mezzo la scrivania e si mette a camminare a quattro zampe (il cane–pollo?). Poi, movimenta il
sogno con flessioni e stiramenti che somigliano a un risveglio. Come non pensare
al racconto hassidico, citato da Luciana Nissim in «Due persone che parlano in
una stanza» (1984), nel quale un figlio di re, credendo d’essere un pollo, si tolse
gli abiti e andò a mettersi sotto un tavolo limitandosi a becchettare il grano. Dei
molti specialisti mandati a chiamare dal re, nessuno riusciva a trovare una cura.
Finché fu chiamato un saggio che si tolse gli abiti e strisciò sotto il tavolo, mettendosi a becchettare il grano. «Chi sei tu e cosa fai qui?», disse il figlio del re. Il saggio rispose: «Chi sei tu e cosa fai qui?» « Io sono un pollo», rispose infuriato il
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figlio del re. «Anch’io sono un pollo», disse il saggio con grande calma, e i due
rimasero sotto il tavolo finché non si abituarono l’uno all’altro. È dunque l’analista a dover portare dentro di sé le parti sequestrate del paziente. Il racconto diviene metafora di una psicoanalisi che abbandona l’astrazione dei concetti, in favore
del viverli nell’esperienza generata dalla relazione. Come per Silvia, una donna
giovane, che nelle ore della sua lunga analisi, per molto tempo, non riuscirà a fare
altro che oscillare tra il silenzio e il ridere disperato e vuoto. Se poi, raramente,
dice parole, queste sono emesse con toni così lievi, un pianissimo appena percettibile, che obbligano l’analista a un ascolto rarefatto e doloroso. Dopo circa tre
anni, potrà raccontare il primo sogno nel quale ragni enormi e pelosi, o forse
granchi, si ritrovano nell’atrio di una strana sala cinematografica; c’è una fila di
persone che acquista biglietti turchesi da un bigliettaio. Pur spaventata, perché
non vorrebbe acquistarne, si ritrova tranquilla e sorpresa all’interno della sala di
proiezione. Se il bigliettaio potrà essere riconosciuto come l’analista che vendendo le sedute l’ha riportata a rivivere terrori di tragedie originarie, Silvia potrà parlare della disperazione e del caos che regna nelle aree più traumatizzate della sua
mente. Con le parole di Ferenczi, viene da pensare a quei frutti che la beccata di
un uccello ha fatto maturare troppo in fretta e reso troppo dolce, o alla precoce
maturazione di un frutto bacato.
Il trauma, commenta Manica, può consentire a una parte della personalità di
maturare improvvisamente, non solo a livello emozionale, ma anche intellettuale. Come per Valentina, una giovane donna che inizia l’analisi a ventotto anni.
Porta la sua storia di bimba abusata dal convivente della madre. È timida, schiva,
studente modello, si potrà laureare a pieni voti in una professione d’aiuto. Appare
saggia e capace di sembrare «normale» nonostante i segreti e le ferite incontrate
tra le mura domestiche. Inconsapevole di essere stata deprivata delle necessarie
protezioni genitoriali, appare confusa e convinta di aver solo «amato» l’uomo
sbagliato. Il suo analista vede «un viso da bambina e due occhi grandi». Valentina, nei primi anni d’analisi, porta tutte le sue angosce di abbandono, minacciando
interruzioni. Mentre il transfert si colora di richieste di paternità, un versante
traumatico offre silenzi ostinati, sedute mute, che sembrano al terapeuta «attraversate da una lama di gelo che trattenesse un magma, una lava». Finché, al quarto anno d’analisi, racconta un sogno nel quale si ritrova in uno studio diverso, con
un analista altrettanto diverso che sembra aver cambiato atteggiamento nei suoi
confronti. Le appare troppo confidenziale, mentre la invita a passare in un’altra
stanza che è poi una camera da letto. Qui è trascinata dalla passione. Poi si ricorda
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del fidanzato e sentendo di amarlo, si scioglie dall’abbraccio, rimprovera aspramente l’analista, ricordandogli che avrebbe dovuto amare la propria moglie, i
propri figli e rispettare il loro rapporto di analisi. Quando il seduttore del sogno si
riavvicina e la prende a botte, la paziente dice di aver sentito che quello che le
succedeva era terribile e ingiusto. Finalmente ha potuto provare l’odio per chi è
carnefice e percepirsi vittima invece che colpevole.
Manica riporta diversi sogni, nei quali l’analista appare nelle proprie vesti.
Sappiamo come, in momenti storici diversi, questi siano stati intesi come segnali di un impatto particolare del terapeuta sul paziente; forse anche da sorvegliare,
e certo da tener presenti nell’intreccio del transfert-controtransfert. Se l’analista
sogna il paziente, deve sorvegliare il proprio controtransfert? Siamo ormai lontani dal Congresso latino-americano di Psicoanalisi, tenuto a Buenos Aires
(1956), nel quale Ernest Rapaport, sviluppando le idee di Blitzen sul transfert
erotizzato e sulla possibilità di individuarlo fin dal primo sogno d’analisi, concluse che se l’analista appare di persona la situazione deve essere elaborata
immediatamente, oppure bisogna mandare il paziente da un altro analista. Ma
va da sé che non tutti i sogni nei quali analista e paziente compaiono come tali,
possano dirsi di transfert o controtransfert (Barale, Ferro, 1987). Quindi, senza
mandare via (evacuare) qualcuno, l’autore mantiene un rispettoso interesse per
gli script onirici dei suoi pazienti. Questo sembra permettergli di condividerne
gli sviluppi (è il saggio che becchetta sotto il tavolo) piuttosto che estrarne significati, sostituendo al testo del sognatore la «versione ufficiale della verità psicoanalitica» (Bollas, 1987).
Se il lavoro analitico è fatto con persone molto sofferenti che presentano
aspetti indifferenziati, diviene evidente quanto la possibilità che si avvii la presenza di un campo bipersonale non corrisponda alla condizione degli inizi, ma
divenga piuttosto un (difficile) obiettivo della cura. Quando Elisa entra per la prima volta nella stanza d’analisi: «Ha il profilo geometrico e spigoloso di un insetto, quello di una cavalletta […] sono ossa e zampe asciugate, quelle che si spargono sulla poltrona in cui è seduta. È disumana ma ha sprazzi di bellezza: negli
occhi profondi, nei capelli lunghi e morbidi, nelle mani scarne e delicate. Mi fa
pensare alle contaminazioni che compaiono nel Rorschach: a quell’umano e a
quell’inumano che si combinano in un insieme perturbante» (121). Perché Elisa
ha dovuto trasformarsi in un insetto? Si chiede il terapeuta. Forse gli abiti grandi
che nascondono il corpo, essendo «smisurati» possono far pensare (sognare?) un
vuoto, o molti vuoti, ciò che è mancato, ma anche ciò che può mancare, non solo
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alla paziente, ma all’analista, o meglio al campo relazionale. È soltanto l’anoressica a rifiutare il contenitore e ad attaccare il legame?
Cauti movimenti vengono raccontati nel caso di Ariel, un’anoressica «vera»
che passa le giornate in casa avvolta da una penombra costante. All’analista
appare un appendiabiti dentro un lungo cappotto. Entra in studio con gli occhi
vuoti che spuntano alle spalle di una presenza materna traboccante. La storia di
questa adolescente è lunga e accidentata sin dalle origini. Proviene dal meridione
italiano, con un padre più e più volte carcerato. Brutalità e leggi primitive sembrano avvolgere e infiltrare un ambiente familiare segnato non solo dalla malavita, ma anche dall’handicap mentale di un fratello. Qui l’autore racconta «qualcosa di winnicottiano», perché la cura sembra unicamente preoccuparsi di essere
utile alla paziente piuttosto che all’impeccabilità dell’analista. E dunque c’è un
setting allargato, che offre una terapia «d’adozione affettiva», e per un lungo
periodo la terza seduta della settimana diviene un family lunch, dove Ariel pranza
con la famiglia dell’analista. Si può pensare che venga allora implicata la capacità del terapeuta di regredire a una posizione di mimicry, dove alla massima vulnerabilità dell’esperienza mentale del paziente, corrisponde la massima plasticità
dell’esperienza mentale dell’analista; cioè la sua attitudine ricettivo-trasformativa. Se, al contrario, la vulnerabilità dell’analista, la sua prevalenza interpretativa,
il suo dogmatismo, la sua identificazione a massa con le teorie, si opponesse al
gesto spontaneo, la mente del paziente tenderebbe alla liquefazione andando verso la fusione/confusione con l’oggetto e con il tutto.
Manica sembra porre la questione della consistenza (la stoffa) dell’analista
e vi dedica più riflessioni a partire dall’aforisma bioniano secondo cui « il
paziente può migliorare o peggiorare oppure diventare uno psicoanalista». A
cosa allude quell’oppure? Forse al non poter eludere l’attraversamento delle
proprie esperienze traumatiche (la ferita di Chirone, ma anche i «copertoni riciclati» di Ferro). Essere psicoanalisti nella lunga integrazione delle proprie
caratteristiche umane, cercando la propria autentica voce è percorso qualche
volta accidentato, già descritto come oscillazione Pr↔Rp, cioè Persona reale↔Romanzo professionale.
Talvolta i fallimenti della rêverie materna, così come la mancanza di spazio,
dentro la mente della madre-oggetto e madre-ambiente, inducono parti della
personalità alla segregazione. L’autore ricorda ambienti sotterranei davvero esistiti, come i cubicoli scavati dai guerriglieri vietcong per sfuggire al napalm,
oppure le catacombe, costruite nel cuore della terra dai primi cristiani, fino al
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pozzo terribile dove si perse Alfredino Rampi. Questi spazi situati nelle profondità, quando diventano metafora delle origini dello sviluppo mentale, hanno a
che fare con terrori gorgonici o senza nome, perché espulsi da ogni possibile
significazione relazionale. Lontani, dice Manica, dalle possibilità estrattive delle trivelle della simbolizzazione. Queste parti intrappolate in organizzazioni
magmatiche possono come vulcani eruttare, volgendo in catastrofi schizofreniche o rintracciabili in esordi psicotici o ancora in certe condotte impulsive
dirompenti. Ma possiamo anche assistere a scosse telluriche, che aprono voragini depressive o far emergere dal sottosuolo ospiti inattesi, parti non nate, sconosciute che attendono un’integrazione nella storia del soggetto. Qui le scaglie di
memorie trovano «qualcosa» nelle necessità dei transfert (riedizione? Bisogno
di ripetizione di un indicibile o impensabile?) Oppure le intuizioni di Jung, di
una mente arcaica, spietata, naturale che zampilla dalla terra come una sorgente
e che abita nella personalità di ogni individuo? C’è forse un pensiero junghiano
sommerso e poi riemerso nell’evoluzione della psicoanalisi. Qualcosa che è
possibile, tra l’altro, rintracciare nelle Tavistock Lectures nel lontano autunno
del 1935? Qui troviamo un giovane Bion che assiste alle cinque conferenze
tenute da Jung al quale pone una domanda a proposito di un sogno, dal quale lo
zurighese fa derivare una diagnosi di disturbo organico:
Bion – Lei ha tracciato un’analogia tra forme arcaiche del corpo e forme arcaiche
della psiche. È una pura e semplice analogia oppure esiste in realtà un rapporto più
stretto? […] Il British Medical Journal ha recentemente pubblicato una sua diagnosi di disturbo organico ricavata da un sogno. Se quel caso, è stato riportato correttamente, ne deriva un’ipotesi molto importante, e mi sono chiesto se lei ammetta l’esistenza di un rapporto più stretto tra le due forme arcaiche sopravvissute.
Jung – Lei ha nuovamente toccato il problema del parallelismo psicofisico, per il
quale non ho alcuna soluzione […] i due fattori psichico e organico presentano una
singolare contemporaneità. Accadono nello stesso tempo […] a causa di questa
probabile unità dei due fattori, dobbiamo aspettarci di trovare dei sogni in cui prevale il lato fisiologico (1935, 159-60).
È possibile pensare per Bion a un imprinting junghiano, anziché considerarlo
soltanto il genio che ha consentito sviluppi inediti alle teorie kleiniane? Questa
ricerca di un’altra storia è tentazione alla quale l’autore si concede, ipotizzando
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una «terza via» nel riepilogo storico di vicende psicoanalitiche che, come testimonianze emblematiche, ripropongono le vicende scientifiche e biografiche di
Tausk, Ferenczi e appunto Jung. Da sempre pensiamo che la causa della rottura
tra Freud e Jung siano state le idee sul simbolo e la libido, cioè la nozione propriamente freudiana di pulsione sessuale o impulso cieco alla ripetizione, dove per
Jung è metafora di una spinta a esistere, che cerca il superamento dallo «strato
roccioso» dell’organico. È forse possibile rintracciare elementi comuni e contenuti che sarebbero emersi negli attuali sviluppi della psicoanalisi, dove proprio
Bion «diventa il depositario di un lascito ereditario eretico e sovversivo: o meglio
di un sommerso non completamente ospitato e non ancora pensabile per la mente
(e per la psicoanalisi) di Freud?» (158). Allo stesso modo della pulsione alla
verità di Bion, la pulsione alla rappresentazione di Bollas, quella alla conoscenza
di Ogden, oppure l’inconscio dagli insiemi infiniti di Matte Blanco?
Come è evidente, la polifonia delle voci evocate (Jung, Tausk, Ferenczi,
Bion, Bollas, Matte Blanco, Ogden, Meltzer) offre una cantabilità dell’elenco e
talvolta anche una certa vertigine della lista (Eco, 2009). Ma è la ricerca di una
psicoanalisi non tanto scienza degli archivi, delle cancellature, degli scarti di
memoria quanto dell’at-one-ment (Civitarese, 2011), o di una nuova Gradiva,
che permette ai dispositivi teorici di non darsi come prodotti difensivi, o forme
idolatriche, ma come frutti onirici e poetici della mente analitica.
Già Luciana Nissim (1992) parlò della psicoanalisi dal volto umano. La similitudine fu con la primavera di Praga, dove alla pretesa sovietica di governare con
i carri armati si oppose (finché poté) il volto tenero di Dubcek. Così a chi abbia
della psicoanalisi una visione stabilizzata, dotata di un corpus dottrinale definito
e immodificabile (Ferro, 2013), forse questo libro non piacerà; oppure renderà
nuovamente dubbiosi quei molti che sembrano non poter permettere a Freud di
diventare nonno, ovvero di accettare «che la genitalità scientifica non sia appannaggio di un solo, eterno, immenso equivalente paterno» (Bolognini, 2013, 14 ).
Ma ai tanti che invece vivono l’essere psicoanalisti come il far parte di un movimento che con pensosa fertilità attraversa la Storia e le storie, questo lavoro
diverrà stimolo per altre aperture e possibili storie.
«Sì, mi chiamano Mimì».
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