la figlia della concubina

la figlia
della concubina
lesley downer
la figlia
della concubina
Traduzione di
Paola Merla
Titolo originale: Across a Bridge of Dreams
Copyright © Lesley Downer 2012
Redazione: Edistudio, Milano
isbn 978-88-566-3143-2
I Edizione 2013
© 2013 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano
www.edizpiemme.it
Anno 2013-2014-2015 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
Stampato presso Elcograf S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)
Tonami
Giappone 1870
200 km
0
0
200 miglia
Sendai
Monte
Bandai
Lago Inawashiro
r
Ma
del
G
p
iap
on
Aizu-Wakamatsu
e
aizu
Nikko
Edo/Tokyo
n
Ho
shu
Monte Fuji
Lago Biwa
Yokohama
Nagoya
Kyoto
Osaka
Hagi
Kochi
tosa
Kumamoto
Nagasaki
Kagoshima
Ky u sh u
hizen
Strada
costiera
orientale
Hiroshima
choshu
Grande
strada
del Nord
Sh
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Monte Sakurajima
satsuma
N
I
Decimo mese, anno del Gallo, sesto anno dell’era Meiji
(novembre 1873)
Un aroma stuzzicante si diffondeva attraverso i tendaggi
della porta e dalle finestre del Peonia Nera, il ristorante più
famoso dell’intera città di Tokyo. Taka strinse con forza il
bordo del risciò per non essere proiettata in avanti mentre
il veicolo si arrestava bruscamente. Si lasciò andare contro
la spalliera del sedile, chiuse gli occhi e trasse un respiro
lungo e profondo. Un odore forte riempiva l’aria, ricordava quello di anguilla alla griglia, ma era più pungente,
più grasso, più intenso. Manzo, manzo arrosto: l’odore
della nuova era, della civiltà, della modernità. E lei, Taka
Kitaoka, grande ormai, avendo ben tredici anni, stava per
gustarla per la prima volta.
Fujino, sua madre, era già scesa con un certo sforzo dal
risciò davanti al suo ed era scomparsa attraverso la porta
facendo ondeggiare le voluminose gonne color tortora. La
zia Kiharu la seguì saltellando, minuscola ed elegante in un
kimono e giacchetta corta haori, come una barchetta che
seguisse una grossa nave, e dietro di lei, la sorella di Taka,
Haru, in un abitino princesse giallo pallido, i capelli raccolti in uno chignon lucido.
Anche Taka era vestita all’occidentale. Era la prima volta,
si sentiva orgogliosa e al tempo stesso piuttosto nervosa,
come se avvertisse su di sé gli sguardi della gente. Era un
abito da giorno rosa confetto a vita stretta, con appena una
traccia di crinolina sul dietro, nuovissimo e di una seta mor-
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bida, ordinato su misura a un sarto di Yokohama. Aveva
chiesto a Okatsu, la sua cameriera, di stringerle il corsetto
fin quasi a toglierle il respiro, poi aveva indossato la giacca
corta, i guanti e un cappellino in tinta. Ora, prima di entrare
nel vestibolo, si sollevò con cura l’orlo della gonna e superò
le file di stivali che odoravano di cuoio e di lucido da scarpe.
Faceva caldo all’interno del Peonia Nera, l’aria piena di
vapore, di aromi e di suoni straordinari. Il fumo che si levava
dalle carni alla griglia si mescolava con quello del tabacco,
creando una coltre sospesa sui tavoli. Al di sopra del baccano di voci e di risate, di bevute rumorose e di schiocchi
di lingua, si udivano grida rauche di «Qua! Un’altra bella
bistecca delle vostre!», «Il fuoco si sta spegnendo! Portate
altro carbone, presto!», «Un’altra bottiglia di sakè!». Taka
sapeva che, come le era stato insegnato, avrebbe dovuto
tenere gli occhi bassi sulle gonne della madre davanti a sé,
con modestia, ma non riusciva a farlo. Doveva assolutamente guardarsi intorno.
Il locale era affollato di uomini, grandi e piccoli, vecchi
e giovani, seduti a gambe incrociate intorno ai tavoli quadrati. Al centro di ogni tavolo stavano dei piccoli bracieri
su cui poggiavano piastre di ghisa, dalle quali i clienti prendevano con le bacchette pezzetti sfrigolanti di qualcosa che
doveva essere carne e che saltava come se fosse viva, cambiando colore dal rosso al bruno. Gli uomini erano vestiti
nelle fogge più straordinarie, alcuni in abiti tradizionali,
vesti lunghe e obi, altri indossavano camicie dal colletto
duro, con enormi orologi da taschino, alti cappelli dalla
tesa rigida e ombrelli neri chiusi posati sul pavimento accanto ai loro piedi. Alle pareti erano attaccati fogli di carta
su cui si leggevano parole scritte negli angolosi caratteri
katakana che ne rivelavano l’origine straniera: miruku,
cheezu, bata – “latte”, “formaggio”, “burro” – parole che
chiunque aspirasse a passare per moderno doveva perlomeno far finta di conoscere.
Taka non era mai stata in un luogo tanto esotico, né aveva
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mai visto una simile mescolanza di gente così alla moda.
Mentre si guardava intorno stupita, di colpo arrossì, abbassando in fretta gli occhi: si era accorta che gli uomini la
stavano guardando a loro volta.
«Otaka!» la chiamò sua madre, usando la forma di cortesia del suo nome.
Raccogliendo l’orlo della gonna, Taka la seguì rapidamente lungo il salone fino a una saletta interna, arredata con
pesanti mobili di legno che gettavano lunghe ombre nella
luce tremolante delle candele e delle lampade a olio. Le cameriere richiusero la porta alle sue spalle, ma Taka udiva
ancora le voci rauche e le risate. Seduta su una sedia, si lisciò le pieghe del vestito, cercando di non far capire quanto
si sentisse strana con le gambe dondolanti anziché ripiegate
sotto di sé nel solito modo. Sua madre aveva occupato tre
sedie con le balze e gli strati sovrapposti del suo vestito da
pomeriggio. Le cameriere ravvivarono la fiamma nei piccoli
bracieri, poi portarono vassoi di carne rosso scuro, quasi
rilucente e posarono le fettine sottili sulle piastre di ghisa
caldissime. L’odore della carne abbrustolita cominciò a
spandersi e Taka arricciò il naso disgustata.
«Non credo che riuscirò a mangiarla» bisbigliò a Haru.
«Lo sai che cosa dice sempre il signor Fukuzawa.»
Taka guardò con ammirazione lo chignon della sorella,
invidiando il modo in cui era sempre così perfetta, mai un
capello fuori posto. Haru aveva solo due anni più di Taka,
ma sembrava già un’adulta, sempre sorridente e serena, imperturbabile qualsiasi cosa accadesse. Haru prese le bacchette e si sporse in avanti.
«Dobbiamo mangiare carne per nutrirci, se vogliamo diventare forti e alte, come gli occidentali.»
«Ma ha un odore così… così strano. Se la mangio, potrò
pregare Budda e gli dei? Non avrò l’odore di un occidentale? Si sente subito dappertutto!»
«Ma sentitele queste ragazze!» gorgheggiò zia Kiharu,
appoggiando il mento sulle dita delicate e piegando di lato
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la testa. «Non avete letto A gambe incrociate intorno alla
pentola dello stufato?»
«Certo che no,» intervenne Fujino con sussiego «non
leggono certe sciocchezze, sono state educate bene. Vanno
a scuola. Sanno già molto, molto più di quanto tu o io sapremo mai. Storia, scienze, come è nata la terra, come parlare correttamente e fare le somme…»
«Ah, cara Fujino, mi domando se conoscono le cose davvero importanti: come piacere a un uomo, come intrattenerlo e fare in modo che non si allontani mai dal tuo fianco!»
Fujino chiuse il ventaglio e le dette un colpetto sul braccio, con una risatina chioccia, fingendo disapprovazione:
«Andiamo, Kiharu-sama. Dà loro tempo».
Zia Kiharu e la madre di Taka erano grandi amiche. Erano
state geishe insieme a Kyoto e Taka conosceva zia Kiharu
da sempre. Piegando la testa di lato con civetteria, Kiharu
sorrise maliziosa, poi atteggiò le labbra alla declamazione
e recitò con una vocetta acuta:
Samurai, contadino; artigiano o mercante;
giovane o vecchio; maschio o femmina;
intelligente o sciocco, povero o ricco
non sarai civile se non mangerai carne!
Carne per i mesi invernali, latte, formaggio, burro
e palle di toro per fare di te un uomo!
Fujino rise fino alle lacrime. Usando le bacchette tirò
su una strisciolina di carne che stava diventando grigia e la
mise con precisione nella scodella di Taka. «Non vogliamo
fare di te un uomo, ma certamente vogliamo che tu sia una
persona civile!»
Taka masticò il pezzetto di carne, girandolo e rigirandolo
in bocca. Era fibroso e c’era qualcosa di piuttosto nauseabondo nel sapore, ma avrebbe dovuto abituarsi, se voleva
essere una donna moderna. Pensò al ragazzo del risciò che
aspettava fuori, fumando la sua pipa, e agli stallieri seduti
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sui talloni in anticamera. Era una vergogna che non potessero essere civilizzati anche loro, ma così stavano le cose.
Quell’anno Taka era cambiata fisicamente, non aveva mai
immaginato di poter cambiare tanto. Era diventata alta e
snella come un giovane bambù, aveva visto i seni gonfiarsi
sotto il kimono, aveva avuto il suo primo ciclo: era diventata una donna. Se fosse rimasta nell’antica capitale, Kyoto,
dove era nata, a quest’ora avrebbe quasi finito il tirocinio
come geisha e si starebbe preparando per la deflorazione
rituale. E invece era qui, nella frenetica attività di Tokyo,
per imparare a essere una donna moderna.
Perché il mondo stava cambiando ancora più in fretta
di lei. Taka aveva trascorso i primi anni della sua vita nel
quartiere delle geishe di Gion, nel cuore di Kyoto, in una
casa di legno scuro con le stuoie di bambù alle finestre e la
porta scorrevole fragile e dondolante. A Kyoto sua madre
era una famosa geisha. Quando passeggiava nelle viuzze del
quartiere veniva salutata con un cenno cortese del capo e
con un «Buongiorno, Fujino-sama, come state oggi?» nella
cadenza acuta delle geishe.
Di giorno le note lamentose dello shamisen riecheggiavano nella casa quando Fujino si esercitava nella musica,
importante nella sua professione, poiché le geishe, come
sapevano tutti, erano intrattenitrici, artiste: i due caratteri
gei e sha significano “arti” e “persona”. La sera lei e le altre
geishe comparivano nei ricevimenti: servivano a tavola, riempivano le tazzine del sakè, eseguivano danze e canti classici, civettavano con gli ospiti, raccontavano storie e storielle
spiritose e partecipavano ai giochi. Alcuni dei loro clienti
erano mercanti, vecchi dalle guance cascanti, altri giovani
e prestanti samurai. Ma, chiunque fossero, avevano delle
preoccupazioni e compito delle geishe era ascoltarli con
comprensione e simpatia. Degli uomini erano le migliori
amiche e in alcuni casi le amanti.
Taka aiutava nelle feste fin da bambina, girando con i
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vassoi delle bevande, ascoltando le conversazioni animate
e intelligenti, imparando a parlare con la graziosa cadenza
di Kyoto e assorbendo l’accento e i modi delle geishe. Sua
madre e Haru le insegnavano a gorgheggiare le loro canzoni, a danzare con grazia e a suonare lo shamisen. Suo fratello maggiore, Ryutaro, che era stato mandato a vivere con
il loro padre per imparare l’arte della guerra, era morto in
battaglia tanto tempo prima e Taka non lo ricordava quasi
più. Ma il più piccolo, Eijiro, era rimasto in famiglia e la tormentava di continuo, e in casa se lo trovava sempre intorno.
Taka non ricordava di aver mai visto le strade senza samurai che facevano baccano, con zuffe che regolarmente si
riproponevano fra i clan del Sud, decisi a deporre lo shogun
e il suo governo, e quelli del Nord, che formavano il corpo
di polizia dello shogun e che lo sostenevano. Era molto piccola quando i samurai del clan sudista di Choshu avevano
dato fuoco al palazzo imperiale. Uno dei suoi primi ricordi
era l’emozione che aveva provato, immobile nella strada a
guardare le nubi di fumo e la gente che correva di qua e di
là terrorizzata per il pericolo che il fuoco si propagasse a
tutti gli edifici di legno della città.
Più di una volta la polizia dello shogun era venuta a bussare alla porta per cercare suo padre. Taka era stata mandata sul retro della casa. A bocca aperta e con il cuore che
batteva forte, attraverso le fessure delle leggere porte scorrevoli guardava sua madre che sbarrava la strada a quegli
uomini, spergiurando che suo padre non c’era; ma Taka
sapeva benissimo che non era vero.
Aveva sempre saputo che sua madre e le geishe sue amiche stavano dalla parte degli uomini dei clan del Sud e che
la polizia e gli uomini del Nord erano gli odiati nemici. Ogni
sera i samurai sudisti si riunivano nelle case da tè per discutere e complottare o semplicemente per parlare e scherzare. Sua madre svolgeva il ruolo dell’accogliente padrona
di casa servendoli a tavola, stando all’erta nel caso di una
visita improvvisa della polizia dello shogun. E di tutti i sa-
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murai più valorosi e brillanti suo padre lo era più di tutti.
La gente si rivolgeva a lui chiamandolo “generale Kitaoka”.
Alto, un vero gigante, un uomo schietto e serio, presiedeva
le riunioni seduto in silenzio e quando parlava tutti tacevano e lo ascoltavano. Taka era orgogliosa di essere la figlia
di un uomo così.
Il generale Kitaoka era spesso assente. Talvolta Taka
vedeva piangere sua madre e capiva che suo padre era in
guerra e che la mamma era in pensiero per lui.
Taka aveva otto anni quando alla periferia della città
aveva avuto luogo una grande battaglia, con cannonate e il
fumo che riempiva l’aria.
Poi c’erano stati i festeggiamenti. I meridionali avevano
vinto e qualche mese dopo lo shogun era stato deposto, la
sua capitale, Edo, era stata conquistata e il castello di Edo,
dove aveva vissuto, era passato in mano ai clan sudisti, che
avrebbero formato un nuovo governo in nome del giovane
imperatore. Suo padre era uno dei capi. Qualche mese dopo
era giunta la notizia che l’imperatore avrebbe lasciato Kyoto
per trasferirsi a Edo.
Taka a sua volta si era dovuta trasferire con la famiglia e
di colpo la sua vita aveva subito uno stravolgimento. Prima
di allora non aveva mai lasciato, non solo la città, ma nemmeno il quartiere delle geishe, e certamente non aveva mai
viaggiato in portantina, mentre ora aveva trascorso venti
giorni in ginocchio sui cuscini della piccola cabina imbottita che sobbalzava sulla strada costiera orientale. Quando
guardava fuori dal piccolo finestrino o scendeva per sgranchirsi le gambe, non vedeva che un’interminabile fila di
gente e di portantine scortate da servitori, guardie, facchini, cavalli carichi di bagagli. Aveva attraversato foreste
e montagne e aveva visto per la prima volta le acque scintillanti dell’oceano.
Edo, dove avrebbero vissuto, era la città più grande, più
ricca, più eccitante del mondo. Fino a non molto tempo
prima era stata una città di palazzi dei daimyo e di residenze
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dei samurai, di vie strette affollate di artigiani e mercanti,
raffigurata in innumerevoli xilografie. La presenza dell’imperatore l’aveva resa ancora più viva. Era stata proclamata
nuova capitale e le era stato dato un nome nuovo: To-kyo,
“la Capitale orientale”. Kyoto era stata semplicemente “la
Capitale”.
E ora, a non più di cinque anni dalla proclamazione, era
una città giovane, tutta rumore ed energia, dove la gente
andava sempre di corsa tra nuovi edifici straordinari che
spuntavano dappertutto. Quando Taka vi giunse, Ginza,
dove si trovava il Peonia Nera, era un quartiere anonimo
di brutte botteghe di legno dove si vendevano casse, armadietti o tessuti. L’anno prima c’era stato un grande incendio
che le aveva completamente distrutte. Ora il quartiere era
risorto, era diventato un luogo magico di splendidi edifici
di pietra e di mattoni con portici e balconi dai quali uomini
in cappe impermeabili e signore in voluminosi abiti occidentali guardavano passare i risciò e gli omnibus a cavalli.
Si aveva la sensazione che il mondo intero avesse preso vita
improvvisamente.
La gente diceva, e forse aveva ragione, che per la prima
volta sentiva di poter cambiare il proprio destino. Sotto il
potere degli shogun, gli abiti, le pettinature, erano stabiliti per legge: un uomo appartenente alla classe dei samurai doveva vestire da samurai, uno appartenente alla classe
dei mercanti doveva indossare l’abito dei mercanti. Ma ora,
se si avevano i soldi, ci si poteva vestire con gli abiti della
nuova era e non si capiva più quale fosse la classe di appartenenza. Il nuovo governo incoraggiava addirittura questo
cambiamento. Ma, se si voleva essere davvero moderni, bisognava mangiare la carne.
E adesso c’erano occidentali in giro per le strade. Una
volta sua madre le aveva raccontato che quando era bambina, molto prima che Taka nascesse, nella baia di Edo
erano arrivate fumando delle grandi navi nere che avevano
portato barbari dalle facce pallide e dai lineamenti grotte-
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schi, con nasi enormi e armi da fuoco terrificanti. Ora li si
vedeva dappertutto a costruire edifici in stile occidentale e
fari, a installare telegrafi, anche se la gente continuava ancora a guardarli con curiosità quando li incontrava.
Taka li vedeva spesso. Uno di quei barbari era perfino venuto a insegnarle l’inglese. Il loro aspetto era molto strano,
quasi non sembravano esseri umani, ma lei sapeva che bisognava ammirarli, perché possedevano la chiave della civiltà
moderna. Il governo incoraggiava perlomeno gli uomini a
vestirsi all’occidentale, a mangiare carne come facevano i
barbari e a imparare le lingue europee, in modo che il Giappone potesse far parte del mondo, alla pari delle nazioni europee. Le donne erano più restie ad adottare i nuovi abiti,
ma le geishe avevano sempre dettato la moda e la madre di
Taka in particolare era all’avanguardia in tutto.
Era cambiato perfino il calendario. L’anno precedente
era stato il quinto del regno dell’imperatore Meiji, un anno
yang della Scimmia e dell’Acqua secondo il calendario tradizionale, che avrebbe dovuto essere seguito dal sesto, un
anno yin del Gallo e dell’Acqua. Ma un bel giorno il governo
aveva fatto un annuncio straordinario: l’anno sarebbe finito
il secondo giorno del dodicesimo mese e il giorno dopo si
sarebbe chiamato il 1° gennaio del nuovo anno, il numero
1873 secondo il calendario occidentale.
Il vecchio calendario aveva avuto un senso, il nuovo non
ne aveva nessuno; per quel che si sapeva, il 1873 era soltanto un numero stabilito arbitrariamente. Dopotutto chi si
sarebbe potuto ricordare di milleottocentosettantatre anni
prima o avere un’idea del perché il calendario dovesse cominciare da lì? La maggior parte della gente continuava a
ignorare il nuovo calendario e a usare il vecchio, proprio
come ignorava il nuovo nome della città, Tokyo: per loro
la città era Edo e gli abitanti “figli di Edo”.
L’unico cambiamento pratico era stato che il capodanno
era arrivato troppo presto. Sembrava davvero strano osservare il rituale del nuovo anno e gustare i piatti tradizionali
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in pieno inverno anziché quando spuntavano le gemme sui
rami dei susini. Gli anni precedenti i bambini uscivano a giocare con il volano e a guardare i saltimbanchi, ma quell’anno
faceva troppo, troppo freddo.
Il padre di Taka era presente il giorno del cambiamento
del calendario. Il suo lavoro lo portava spesso lontano e
Taka era felice quando lui era a casa. Le metteva una certa
soggezione, così alto, un gigante. Sembrava un lottatore di
sumo o un orso, tanto era grosso: come Fujino, era grande
in tutti i sensi. Aveva scritto una poesia per ricordare il cambiamento del calendario e l’aveva recitata a Taka tenendola
sulle enormi ginocchia:
Da tempo immemorabile questo era il giorno
in cui accoglievamo il Nuovo Anno.
Il calendario occidentale come potrà
raggiungere i lontani villaggi di montagna?
La neve annuncia un anno di buoni raccolti
e le famiglie tengono cari i loro vecchi.
Pieni di gioia sono le grida dei bambini in campagna.
«E così Oharu si sposa e tu sarai presto nonna», stava dicendo zia Kiharu a Fujino con una risatina squillante. Haru,
rossa in viso, fissava la carne nella scodella.
«E poi dovremo sistemare anche Taka» annunciò Fujino.
Questa volta fu Taka a farsi piccola: se solo sua madre
non avesse parlato sempre a voce così alta, pensò, sforzandosi con determinazione di mandar giù un altro boccone,
anche se la carne era terribilmente gommosa.
All’improvviso notò che qualcosa era cambiato: le voci, il
rumore dei bastoncini, il fruscio delle maniche e lo scalpiccio dei piedi nel salone accanto erano cessati e si era fatto
un silenzio assoluto, come se tutti stessero trattenendo il
respiro. Poi si udì un muggito terrificante, seguito da un
frastuono generale mentre gli avventori si alzavano di scatto
e si precipitavano alla porta.
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Un altro suono: passi che si dirigevano verso la saletta
privata. Taka avvertì l’urto della paura. Si guardò intorno:
erano intrappolate, non esisteva altra via di uscita. Corse
in fondo alla stanza, andando a sbattere contro un tavolo,
che per fortuna era grande e pesante e non si rovesciò. Se il
fornelletto si fosse rovesciato, tutto sarebbe andato a fuoco.
Cercò di nascondersi dietro Haru e le cameriere, schiacciandosi contro la parete tanto da sentire sulla pelle la rugosità
dell’intonaco. Le tre sedie di sua madre si erano rovesciate
e Fujino era in piedi, il pugnale luccicante in mano alla luce
delle candele: in quanto donna di uno dei più importanti
samurai del Giappone, aveva cominciato a portarlo, come
facevano le donne dei samurai. Anche la zia Kiharu, in piedi
accanto a lei, ne stringeva uno nel pugno.
Con il respiro affannoso, Taka fissò la porta scorrevole
che cominciò ad aprirsi, lasciando comparire nella luce fioca
una faccia seminascosta da una sciarpa come quella di un
brigante. Occhi neri brillavano tra le pieghe del tessuto. Era
un uomo corpulento, le fasce intorno alle gambe disfatte,
le ampie maniche legate dietro, pronto per la lotta. Aveva
una spada in mano.
Taka sapeva esattamente chi era. Un ronin, un samurai
senza un signore da servire, impoverito e amareggiato, che
non doveva rendere conto a nessuno. Quando era piccola
le strade brulicavano di uomini così, che giravano in cerca
di guai. I ricordi riaffiorarono, ricordi che Taka aveva fatto
del suo meglio per soffocare: grida che riecheggiavano nei
vicoli, pugni battuti sulle porte, sua madre che affrontava
intrusi arrabbiati. Ricordava di aver scrutato attraverso le
imposte e di aver visto dei cadaveri proprio davanti alla
loro casa.
Fujino gli si mise di fronte. Spesso Taka aveva desiderato che sua madre assomigliasse di più alle madri delle sue
compagne di scuola: esili, silenziose, riservate, non così imponenti e protagoniste. Ma in quel momento il suo cuore
era gonfio d’orgoglio.
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«Quanta agitazione» disse Fujino con voce pacata. Era
la voce da geisha, il tono gelido che usava per tenere a bada
gli uomini che avevano bevuto troppo, quando le bastava
uno sguardo per farli tremare come bambini. «E tutto per
un solo uomo!» Le parole le uscivano di bocca sprezzanti.
«Metterei via quella spada se fossi in voi. Denaro, è questo
che cercate?»
L’uomo esitò, sconcertato forse dalla sua audacia, limitandosi a fissarla con aria di sfida.
«Dov’è quel traditore?» ringhiò alla fine. «Lo so che è
qui!»
Parlava con le vocali aperte del Sud. E così apparteneva
al clan Satsuma, come il padre di Taka. Era suo padre che
stava cercando. Taka sapeva che suo padre aveva dei nemici, non era certamente la prima volta che qualcuno era
venuto a cercarlo per fargli del male. Quell’uomo doveva
aver visto lo stemma della loro famiglia sul risciò.
«Che cosa credete di fare? Un Satsuma che brandisce la
spada come un brigante da strada? Dovreste vergognarvi.
La polizia sarà qui da un momento all’altro, fareste bene
ad andarvene in fretta, finché siete in tempo!»
«È qui, lo so, il traditore Kitaoka!» Sembrava che sputasse il nome.
Fujino scattò eretta in tutta la sua persona. Riempiva la
stanza con le sue gonne voluminose. Davanti a lei l’uomo
pareva rimpicciolito.
«Attento a come parlate di mio marito, giovanotto!»
tuonò. «Voi non sarete mai alla sua altezza!»
L’uomo alzò la spada con le due mani, la punta verso il
suolo.
«Tuo marito?» sogghignò l’uomo. «Tu non sei la moglie
di un samurai. So riconoscere una geisha quando ne vedo
una. Tu sei quella grassa puttana di Kyoto, quella sua preziosa geisha! Ne hai fatta di strada da quando gironzolavi
per i quartieri del piacere, vero, principessa della ciccia?
Be’, ora ti rovino quella tua faccetta graziosa!»
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Fujino alzò il pugnale.
«Codardo! Siamo solo donne e bambine qui!»
«Donne e bambini? Anch’io ho donne e bambini miei
da mantenere! Vergognati, con i tuoi vestiti barbari, lo stomaco pieno di cibi barbari. Noi non abbiamo combattuto e
non siamo morti per vedere le nostre donne scimmiottare
barbari puzzolenti. Io sono Terashima Morisaburo», soggiunse, togliendosi la sciarpa dalla faccia dalla carnagione
scura e rivelando una guancia attraversata da una cicatrice.
«Puoi dire una cosa a Kitaoka: lui crede di poterci prendere
le nostre spade, crede che le consegneremo come se niente
fosse e ci faremo disarmare? Pensa che staremo a guardare
mentre smantella l’esercito e recluta i contadini – i contadini! – per fare il lavoro dei samurai? E che cosa dovremo
fare noi, noi samurai? Come dovremmo sopravvivere senza
lavoro e senza stipendio? Allora?» L’uomo fece un passo
avanti. «Dammi una risposta!»
Infilò la spada sotto la gonna di Fujino e la sollevò. Fujino si scostò, ma Taka udì lo strappo della stoffa.
«Ecco che cosa penso dei tuoi fronzoli occidentali.»
Si udì un sibilo quando l’uomo vibrò un colpo. Taka trattenne il respiro inorridita, Fujino alzò il pugnale per parare il
colpo, ma invece di clangore di metallo si udì un tonfo sordo.
Scrutando da dietro le gonne di Haru, Taka vide che l’uomo
aveva calcolato male l’altezza della stanza. La spada si era conficcata in una trave del soffitto ed era rimasta là, vibrando.
Poi notò un movimento nel corridoio e intravide due occhi a mandorla su un viso dalla pelle scura: c’era qualcun
altro, non il ragazzo del risciò e nemmeno uno dei garzoni,
ma un altro aggressore, ancor più terrorizzante del primo.
Nel ristorante regnava un silenzio assoluto. Erano fuggiti
tutti. Non c’era nessuno che potesse difenderle.
Dal soffitto cadde una pioggia di segatura e si udì uno
schianto quando il samurai estrasse la lama dal legno. Tenendo la spada con le due mani, l’alzò di nuovo e si preparò
a vibrare il colpo mortale.
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All’improvviso un braccio sottile sbucò dal buio alle sue
spalle e cinse il collo dell’uomo. Colto di sorpresa, il samurai barcollò, gettando la testa all’indietro e cercando di
afferrare le mani che lo stringevano alla gola. Paonazzo in
volto, lasciò cadere la spada. Fujino si lanciò in avanti e l’afferrò. Ruggendo infuriato, il samurai si divincolò, usando i
gomiti riuscì a liberarsi dalla stretta e si girò, cominciando
a colpire con i pugni il suo aggressore.
Taka riuscì a intravedere il volto del nuovo arrivato e rimase a bocca aperta nel rendersi conto che si trattava soltanto di un ragazzetto magro come uno stecco, gli occhi
resi più grandi dalla paura sul viso abbronzato dal sole;
la fronte aggrottata, però, gli dava un’espressione decisa.
Aveva avuto il vantaggio della sorpresa, ma era ovvio che
non avrebbe potuto farcela contro il samurai.
Fujino appariva arrabbiata e tesa, mentre si mordeva il
labbro inferiore, concentrandosi. Alla fine porse la spada a
Kiharu, brandì il pugnale e per un istante rimase immobile,
tenendo la lama alta sul capo. Taka sapeva che sua madre
non conosceva la paura, ma non l’aveva mai vista versare
sangue. Fujino trasse un respiro profondo, poi abbassò il
pugnale e lo piantò nella spalla esposta del samurai. Quando
estrasse la lama, il fiotto di sangue la investì, sporcandole la
gonna ampia. Tremava, inorridita.
L’uomo lanciò un urlo e si portò la mano alla spalla; il
colpo lo aveva solo indebolito, ma Fujino rialzò di scatto
la testa in un movimento imperioso e, mentre il ragazzo si
portava fuori tiro con un salto, si gettò sul samurai, facendolo cadere a terra, e gli piombò addosso con la sua notevole mole, mentre la minuscola zia Kiharu gli si sedeva
sulle gambe, bloccandolo. Le due donne ansimavano, rosse
in faccia, il fuoco negli occhi. Il samurai si contorceva, cercava di rialzarsi lanciando grida soffocate, ma inutilmente.
Facce preoccupate comparvero sulla porta: un uomo corpulento di mezz’età si stropicciava le mani nervosamente
accanto a due robusti poliziotti dall’espressione severa e le
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uniformi impeccabili con i bottoni luccicanti. Nel trambusto generale, nessuno si era accorto del loro arrivo. I poliziotti immobilizzarono le braccia del samurai che respirava
rumorosamente, liberato dal peso di Fujino sul suo petto.
Fujino si rassettò il vestito, controllando la gonna con aria
dispiaciuta.
«Scusateci, vostra signoria, scusateci tanto» disse l’uomo
corpulento, torcendosi le mani grassocce e continuando a
inchinarsi, inginocchiato davanti a lei: “il proprietario del
ristorante” pensò Taka. Altre facce comparvero sulla soglia, con occhi enormi come quelli di conigli spaventati: il
ragazzo del risciò e i garzoni che si gettarono a loro volta in
ginocchio davanti a Fujino, balbettando scuse e battendo
la fronte sul pavimento.
Il loro salvatore era fermo nel corridoio con aria incerta,
un ragazzino sparuto più o meno dell’età di Taka, alto e allampanato, col collo lungo e un naso prominente, la faccia
abbronzata come se avesse lavorato nelle risaie; sul labbro
superiore si intravedeva una leggera peluria. Indossava un
insieme stranissimo di indumenti: Taka si scoprì a sorridere
accorgendosi che aveva addosso la giacchetta di un kimono
femminile con le maniche arrotolate. Gli occhi neri del ragazzo saettavano curiosi di qua e di là. Taka si guardò in
giro a sua volta, seguendo il suo sguardo, e vide le sedie
rovesciate e mucchietti di carne sul pavimento, mentre i
tavoli con i piccoli bracieri accesi erano miracolosamente
ancora in piedi.
Fujino si voltò verso il ragazzo.
«Sei arrivato giusto in tempo, giovanotto», disse sedendosi comodamente sui talloni. «Vi siamo debitrici.» Il ragazzo cadde in ginocchio a sua volta e si inchinò, evidentemente impacciato.
«Scusatemi,» disse fissando il pavimento «non ho fatto
un gran che.» L’accento tradiva una traccia di un qualche
dialetto di campagna. Si guardò intorno, come se volesse
scappare.
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«Sciocchezze,» affermò Fujino bruscamente «ci hai salvato la vita.»
«Stava solo passando qua davanti, vostra signoria» disse
uno dei ragazzi del risciò, inchinandosi freneticamente e
scoprendo i denti in un sorriso imbarazzato. Afferrò il ragazzo per un braccio, tenendolo stretto. «Siamo stati noi, lo
abbiamo fermato noi. “Le nostre signore sono in pericolo”
abbiamo detto “vai ad aiutarle”. “È entrato un rapinatore”
abbiamo detto “uno di quei ronin, un Satsuma, sembrava
dall’aspetto.” Non avevamo osato chiedere a qualcuno dei
clienti, era gente troppo importante. Ma lui ci ha spinto da
parte e si è precipitato dentro.»
«Io non ho fatto niente, vostra signoria,» ammise il ragazzo «era uno solo e non sono nemmeno riuscito a bloccarlo. Mi dispiace. Comunque, ora devo andare.» Si inchinò
e arretrò verso la porta sempre in ginocchio.
Fujino si portò la mano alla vita dove avrebbe dovuto
trovarsi lo obi, come se si fosse dimenticata che indossava
abiti occidentali. Cercò il borsellino, poi guardò il ragazzo
e lo ripose: era ovvio che l’orgoglio gli avrebbe impedito di
accettare del denaro.
«Come ti chiami, giovanotto?» domandò gentilmente.
«Yoshida, Nobuyuki Yoshida. Sono felice di essere stato
utile.»
Le braccia magre sembravano stecchi che spuntavano
dalle maniche a brandelli. Taka osservò la fronte corrugata della madre che cercava di farsi un’idea del ragazzo,
troppo scalcinato per appartenere alla classe dei samurai
o dei mercanti, ma che non si comportava come un servo.
Era impossibile catalogarlo.
«Aspetta!» gli disse Fujino, coprendo con un tovagliolo
le macchie di sangue sul vestito. «Padrone, portate questo
ragazzo in cucina e dategli qualcosa da mangiare. E abiti
decenti anche.»
La faccia rotonda del proprietario del ristorante era lustra
per il sudore. Alzando gli occhi sul ragazzo inarcò le soprac-
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ciglia e sospirò, poi appoggiò le mani a terra e si inchinò con
deferenza: «Sarà fatto, vostra signoria. Merita certamente
una ricompensa. Faremo in modo di farlo andare via con la
pancia piena e dei buoni panni di cotone addosso.»
«Devo andare ora» borbottò di nuovo il ragazzo.
«A quale casa appartieni?» insistette Fujino.
Il ragazzo fissò il pavimento. «Sono arrivato solo da poco
a Tokyo, signora. Ho dei parenti qui, ma… ehm… stavo
da un certo Shigehiro Iinuma, un funzionario di rango medio del dominio di Omura a Hizen. Prestavo servizio là.»
Non aveva nominato la sua famiglia.
«Stavi, hai detto. E ora?»
Le guance abbronzate del ragazzo arrossirono. «Sto cercando lavoro.»
«E la tua famiglia?»
Taka si fece piccola. Sua madre era una geisha. Altri
avrebbero esitato a porre la domanda, ma lei era sempre
assolutamente diretta.
Dopo qualche istante di incertezza il ragazzo rispose: «Ho
un padre e dei fratelli, vostra signoria. Sono molto lontani».
«E così non hai un lavoro?» Fujino riusciva sempre a tirar fuori ciò che voleva sapere, per quanto riluttanti fossero
i suoi interlocutori.
«Per dire la verità, signora, sono appena stato a parlare
con una persona, speravo di ottenere un posto di fattorino.
Hiromichi Nagakura mi aveva dato una lettera per quel signore. Ma era già al completo, non poteva assumere altri
servitori.»
Le parole gli uscirono precipitosamente di bocca. Taka
rabbrividì, pensando a un mondo così duro dove la gente
non si poteva permettere nemmeno un fattorino in più. Loro
avevano tanto, lui tanto poco e aveva salvato la vita a tutte.
E in casa c’era già tanto personale; che differenza avrebbe
fatto un ragazzo in più? Si decise a parlare. «Non possiamo
dargli noi un lavoro, madre? Io ho bisogno di un garzone
che mi porti i libri quando vado a scuola!»
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Nella stanza calò il silenzio. Tutti si erano voltati verso
di lei mentre parlava con la sua vocetta acuta. Haru le dette
un colpetto col gomito per farla stare zitta, ma era troppo
tardi. Anche il ragazzo, che si era guardato intorno in cerca
di una via di uscita, si era girato di scatto.
Taka sentì il rossore salirle fino alla punta delle orecchie
e abbassò gli occhi. Fujino, che si era accigliata, finì per
addolcirsi e sorridere con indulgenza. Quando si voltò di
nuovo verso il ragazzo, aveva un’aria pensierosa.
«Hiromichi Nagakura, hai detto? L’ex vicegovernatore
di Aomori? Hai una sua lettera di presentazione? Fammela
vedere.»
Il ragazzo si fece scuro in volto, quasi a far capire che non
voleva la pietà di nessuno, ma Fujino allungò la mano con
fare carezzevole: quando voleva qualcosa, nessuno riusciva
a dirle di no, pensò Taka con ammirazione. Il ragazzo tirò
fuori un rotolino da una manica e Fujino lo srotolò e lesse,
la fronte aggrottata.
Mentre sua madre esaminava lo scritto, Taka vide che
il ragazzo teneva lo sguardo fisso sul pavimento, le spalle
incurvate, sforzandosi di conservare un’aria di orgogliosa
indifferenza. Gli occhi sgranati, le mani giunte con forza,
pareva che stesse cercando di non farsi illusioni.
«Bene, Nobu,» disse lentamente Fujino voltandosi verso
di lui «ovviamente sei un ragazzo perbene e robusto. Noi
abbiamo bisogno di uno come te. Sarai migliore di questi
garzoni buoni a nulla che ci lasciano aggredire da un pazzo.
Ci serve un’altra mano. Lasciami riflettere, cercheremo di
darti un lavoro.»
Nobu la guardò in faccia e, per la prima volta, sorrise.
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