Detti dialettali

DETTI DIALETTALI
Presentazione realizzata da: Colombo, Conte, Corti, Santonastaso.
INDICE
Pagine 3: Hann faa’ na scarpa e’ na sciavatta ;
Pagina 4: L’è vön ch’ al tegn da cünt ul laurà ;
Pagina 5: Mètt ul fen in cassina ;
Pagina 6: Al var ‘na cicca früsta .
Hann faa’ na scarpa e’ na sciavatta
Chiarito che la scarpa è la scarpa, sia in dialetto che in italiano e che la sciavatta è la ciabatta, è
facile tradurre questo modo di dire dialettale assai usato: «Hanno fatto una scarpa e una ciabatta».
In italiano la frase non solo non vuol dire nulla, ma le cose si complicano quando si vuole andare a
fondo e scoprirne il significato. Meglio dunque rimanere nel campo del vernacolo spiegando che
«faa ‘na scarpa» e contemporaneamente «’na sciavatta » vuol dire fare una cosa bella e importante
(la scarpa) assieme a una cosa brutta, di scarso valore, o addirittura inutile (la sciavatta). Il modo di
dire vernacolo «Hann faa’ na scarpa e ‘na sciavàta» non è però fine a se stesso, viene solitamente
pronunciato quando si vuole esprimere un certo rammarico, una delusione davanti a un risultato
negativo. Ci si aspettava che qualcuno facesse un bel lavoro invece ne è uscito un mezzo disastro. Ci
si attendeva due belle scarpe e invece è venuta fuori una scarpa sola, accompagnata da una
ciabatta. E il disappunto è grande. Si è persa una grande occasione. Si poteva certamente fare
meglio. Il prodotto non è completo, è rimasto solo a metà.
L’è vön ch’ al tegn da cünt ul laurà
«Quello li è uno che risparmia sul lavoro », questa è una delle più belle metafore adoperate nel
dialetto per indicare uno che ha poca voglia di lavorare. «Tener da conto » vuol dire infatti
risparmiare, come tutti sanno. Una volta però mi capitò di sentire pronunciare questa colorita
locuzione per un motivo completamente opposto a quello solitamente adoperato per dire che uno è
un lazzarone. Tanti anni fa un gruppetto di amici, tutti studenti, aveva ottenuto un lavoretto
considerato una vera e propria benedizione. Il compenso sarebbe servito infatti per raggranellare un
po’ di quattrini per passare in maniera decente le vacanze. Era stato fatto un contratto sulla parola.
Dovevamo rilegare un certo numero di libri. E saremmo stati pagati per il tempo impiegato. L’alacrità
di alcuni, la voglia di anticipare un po’ il lavoro da parte di altri e la necessità di avere in mano
finalmente qualche soldo, avevano fatto in modo che dopo due o tre giorni il lavoro era già molto
avanti. Ormai mancavano pochi libri da rilegare. Uno di noi, più avvezzo degli altri a districarsi in
quelle cose, a un certo punto uscì con ls perentoria raccomandazione: «Oh bagai, tegnell da cünt un
puu ul laurà. Sa duperum tròpp pòcch temp, i danee sarann da menu ».
Mètt ul fen in cassina
Riuscire a « mètt ul fen in cassina » era, per i vecchi contadini, come mettere un bel gruzzolo in
banca. E infatti questo modo di dire, molto comune, si eleva sovente a metafora del risparmio e
viene usato proprio per esprimere soddisfazione quando si riesce « a mettere via » qualche soldo.
Passando sopra a queste, forse scontate divagazioni di economia un po’ naif, si deve sostenere che il
modo di dire del « fen in cassina » è uno dei dogmi sacri del mondo contadino. In esso infatti ci sono
l’essenza e la sacralità del lavoro rurale, della vita nei campi, nelle stalle e nelle cascine.
Era duro, pieno di rischi lavorare la terra. Occorreva tanto sudore prima di poter tirar fuori il
prodotto dalle zolle. Prima di poter fare un buon raccolto occorreva che combaciassero un sacco di
« astri »: non doveva essere caldo ma non tale da far « bollire » la terra. Erano calamità tremende la
grandine, il fuoco, il vento e le tempeste, gli insetti voraci, le cavallette e i parassiti.
Al var ‘na cicca früsta
In questo modo di dire tipicamente meneghino ci sono la vita popolare, il mondo contadino, le
abitudini e i costumi della strada, delle botteghe artigiane e delle case di ringhiera. Il detto è molto
usato ancora oggi soprattutto da coloro sulle cui spalle pesano alcuni « anta». L’espressione,
pronunciata di solito con grande schiettezza, poggia sui termini « cicca » e « früsta». La « cicca » è
la biglia, la comunissima sferetta che un tempo era di terracotta. La sua sfericità, non era mai
perfetta. Le « cicche » erano coloratissime ed erano, prima di tutto, uno dei giochi preferiti dei
ragazzi che passavano interi pomeriggi in accanite partite. Le cicche dovevano essere però belle e
colorate. Se erano fruste, consumate, non andavano bene. Ecco quindi che emerge in tutta la sua
chiarezza, il significato del detto « vale una cicca frusta » vuol dire che « vön al var nagott »
soprattutto nel mondo del lavoro.