Maestro fiammingo attivo tra la fine del secolo XV

Maestro fiammingo attivo tra la fine del secolo XV e l'inizio del XVI - Storie di Santa Caterina d'Alessandria - Storie di
Sant'Agnese
Autore: Maestro fiammingo
Materia e tecnica: olio su tavola
Dimensioni: cm 74 x 99
Collocazione: Genova, Museo di Palazzo Reale, Bagno del re
Inv. 945 e 946
Scheda a cura di Luca Leoncini
Opera di un artista fiammingo, forse anversano, attivo tra la fine del Quattrocento e l'inizio del
secolo successivo ancora da identificare, la prima (tavola A) rappresenta scene della vita di
Caterina d'Alessandria, la seconda (tavola B) episodi della vita di Sant'Agnese. Su entrambe
è rappresentato l'inizio di due storie che continuavano e si concludevano in origine in un registro
inferiore di analoghe dimensioni. Quest'ultimo metteva in scena, insieme ai fatti che
preludevano immediatamente al tragico epilogo, il martirio delle sante. I registri superiori (tavole
A e B) furono separati in data imprecisata da quelli in basso (tavole C e D). Ciascuna tavola, in
realtà, era la metà superiore dello sportello di un trittico ad ante, e per questo dipinta sui due
lati: sul verso del battente sinistro (formato in origine dalla tavola A unita alla C) si vedevano le
figure intere di San Giorgio e Santa Cecilia con iscrizioni latine in calce che li identificavano; sul
verso del battente di destra (formato in origine dalla tavola B unita alla D) erano invece un
Santo cavaliere e Sant'Orsola, collocati anch'essi sopra un piedistallo in scorcio con didascalie
esplicative.
Il primo santo sulla sinistra nella tavola A, caratterizzato da armatura, copricapo piumato e
spada levata, potrebbe essere identificato con San Giorgio. Così è stato in effetti riconosciuto
in passato dagli studiosi che se ne sono interessati. Se l'identificazione fosse giusta è probabile
che nella parte inferiore, perduta, si vedesse un drago o un demone. Ma San Giorgio è forse
identificabile con il santo della tavola B che stringe in effetti nella mano sinistra un vessillo con
la croce e sorregge con la destra uno scudo, entrambi attributi del santo. Se questa seconda
identificazione si rivelasse accurata, nella prima figura a sinistra della tavola A potrebbe essere
riconosciuto invece San Martino, e la sua spada anzichè levata contro il drago, potrebbe
essere pronta a recidere il mantello, secondo l'iconografia dell'episodio dell'elemosina del santo:
avrebbe avuto in questo caso, inginocchiato ai suoi piedi, un mendicante. La questione
purtroppo, mancando i riscontri offerti dalle porzioni inferiori delle immagini, è destinata per il
momento a restare aperta. L'identificazione delle due sante risulta per fortuna di più facile
soluzione: la santa della tavola A è quasi certamente Santa Cecilia, riconoscibile dall'organo
che sostiene alla sua destra, mentre quella della tavola B è di sicuro Sant'Orsola, identificabile
sia dalle frecce che stringe nella mano destra, strumento del suo martirio, che dalla corona sul
capo, riferimento alle sue origini regali: Orsola era infatti una principessa Bretone.
Le due ali si richiudevano a loro volta su uno scomparto centrale di grandi dimensioni. Le due
metà all'interno di ciascun sportello erano divise da un'esile cornice dipinta in oro riemersa
durante l'ultimo restauro. Lungo la linea di questa partizione grafica delle storie, in un periodo
certo precedente al 1658 (nel testamento di Gio Battista Balbi infatti sono descritte già
separate), le ante furono segate per ottenere quattro tavole indipendenti.
Per quanto riguarda il pannello centrale, è identificabile con certezza con la grande Epifania
presente a Genova nel palazzo di via Balbi insieme alle storie di Caterina e Agnese a partire
almeno dal 1658. "L'Appresentazione dei Magi del Maestro quintino fiamengo in tavola di palmi
8 e 6" - così viene ricordata nel testamento di Giovanni Battista Balbi - nel 1837 fu trasferita da
Carlo Alberto a Torino ed è esposta da allora nella Galleria Sabauda. Oltre al soggetto, e
all'ambito culturale dell'autore, coincidono le misure (cm 155 x 211).
Anche se sembra ormai accertato che le storie delle due sante vergini e l'Epifania avessero
formato in origine un insieme omogeneo, come supposto per primo dal Friedlander nel 192728, non è scontato invece ritenerle dello stesso autore. L'identità di mano, ad esempio, fu
messa in discussione dapprima dallo Hoogewerff nel 1936 e poi nel 1952 da Aru e De
Geradon, che individuano nella tavola torinese una più alta qualità pittorica ed un impianto
compositivo più solido rispetto ai due quadri genovesi. Lo stesso Friedlander doveva
riconoscere le difformità stilistiche che, tuttavia, pensava di poter imputare allo stato di
conservazione allora insoddisfacente del quadro della Sabauda.
Dopo la nota del testamento di Gio Batta Balbi che assegna l'opera ad un "Maestro quintino
fiamengo" (Quentin Metsys, Lovanio 1466-Anversa 1530), la testimonianza successiva è
quella dell'anonimo autore della "Description des beautés de Génes" stampata a Genova nel
1788 che l'attribuisce al Van Leyden. Il nome del pittore olandese, come autore del solo
scomparto centrale, compare poi sul primo inventario storico superstite del Palazzo di via Balbi,
quello redatto nel 1816, e in seguito anche su quello del 1823. Nell'inventario del 1836 compare
l'insolita attribuzione all'"Autograffe", probabile storpiatura del nome del tedesco Altdorfer,
ripetuta anche in quelli del 1844 e del 1854 come "Autograpie", confluita quindi nel 1846 nella
Guida dell'Alizeri che, riferendosi al solo "Martirio di Sant'Agnese", la muta in "Altographe" e
che poi verrà ripetuta invariata da pressoché tutta la guidistica locale di secondo Ottocento.
Arturo Pettorelli, nell'inventario del 1877, adotterà la formula "Scuola Tedesca".
Nel 1906 le due tavole genovesi vengono ricondotte da Suida a scuola fiamminga del XV
secolo, ma solo con Friedlander nel 1927-28 saranno messe in relazione per la prima volta sia
con i due dipinti di Strasburgo, che con l'Adorazione della Galleria Sabauda (a quella data
attribuita a "Van Aeken") e ritenute parte di un trittico smembrato, di cui la pala torinese avrebbe
costituito la porzione centrale. G. J. Hoogewerff (1936) concorderà con Friedlander
nell'attribuire le due tavole genovesi al cosiddetto "Maestro dell'Adorazione di Torino", del quale
sottolinea la stretta derivazione da Gerard David. Il Duhlberg invece, pur ritenendo
erroneamente le tavole di Strasburgo copie di quelle genovesi, nel suo Frahhollander in Italien
del 1906 aveva assegnato i dipinti a un non meglio identificato maestro olandese, datandoli
all'incirca al 1480. Sulla sua scia, nel 1946, nel catalogo della Mostra della pittura antica in
Liguria dal Trecento al Cinquecento, Antonio Morassi aveva proposto la dicitura "Maestro
olandese della fine del sec. XV" osservando che "il gusto delle architetture di sfondo e quella
delle tipologie situano l'autore di questi dipinti tra il Maestro della leggenda di Santa Barbara e il
Maestro di Santa Gundula", mentre nel 1947, alla Mostra d'arte fiamminga e olandese dei secoli
XV e XVI Carlo Ludovico Ragghianti presenta le opere genovesi come "Maestro delle scene
della passione di Bruges" (pur mantenendo, tra parentesi, il riferimento al Maestro
dell'Adorazione di Torino), proposta che non trova consensi se non in L. Collobi Ragghianti.
Morassi riproporrà ancora nel 1951 la collocazione olandese come "maestro olandese circa il
1480" (p.71, tavv. 140, 141), formula ricalcata da Torriti nel 1963 pp.73-75, dalla Terminiello
1976, p. 30. da Bruno Ciliento (che la correggerà solo nelle didascalie "Ignoto fiammingo del
sec. XV") e da Letizia Lodi nel 1991.
Pubblicate da Giuliana Algeri come "Maestro dell'Adorazione di Torino" nel 1997, sono
assegnate a un Maestro delle scene della vita di Sant'Agnese e Santa Caterina nel "Repertory"
della pittura fiamminga e olandese in Liguria l'anno successivo). Prima dell'ultimo intervento di
restauro, diretto da chi scrive e realizzato dal laboratorio di Martino Oberto, la lettura del recto
delle due tavole A e B (figg. 57 e 58) risultava in parte alterata da rifacimenti più evidenti sul
perimetro e da ossidazioni diffuse che impegnavano l'intera superficie pittorica. Si deve
segnalare che né la grande Adorazione, né le quattro storie vengono citate invece nella "Nota
dei quadri stimati dal Sarzana", un elenco di opere d'arte simile a quello del testamento, redatto
lo stesso anno, con stima dei valori della quadreria di Giovanni Battista Balbi.
Quentin Metsys e soprattutto Luca di Leyda (Leyda ante 1494?-1533), noto in Italia quasi
quanto Durer grazie alla sua opera di incisore e ai rapporti delle sue stampe con Marcantonio
Raimondi, sono del resto i nomi utilizzati in genere da scrittori come il Gilardi e l'Alizeri per
opere fiammminghe a Genova, come quelle oggi assegnate a Joos van Cleve, ad esempio, ma
anche ad artisti di generazioni anteriori.
La citazione dell'anonimo francese rappresenta comunque ulteriore prova per l'identificazione
dell'Adorazione presente allora a Genova con quella oggi a Torino dove si riconoscono sullo
sfondo le scene descritte nella "Description", dove non si parla invece delle storie di Caterina e
Agnese forse perché ancora esposte nella Sala del Canestro, ambiente escluso dalla
ricognizione del 1788.
Nel Salotto dell'Acqua, più tardi trasformato nell'attuale Sala delle Udienze, viene descritta
anche "L'Adorazione dè Magi, quadro grande di Van Leyden detto Luca d'Olanda, dipinto in
tavola" al quale si attribuisce una tra le stime più alte dell'intera collezione, 12.000 lire genovesi.
Nella sala si ricordano dello stesso autore altre tre opere denominate "Giudizio di S. Agnese
Olandese". Mentre è certo che almeno le prime due vadano identificate con le tavole in esame
(la stima economica resta consistente, 2000 lire ciascuna), non è chiaro se la terza fosse una
delle due tavole con i registri inferiori (ma è singolare che se fosse così, la somma in questo
caso scendesse a 800 lire) o più probabilmente una terza tavola di dimensioni ridotte, ma con
soggetto analogo. È credibile che le due tavole con i registri inferiori (C e D) fossero state
alienate dai Durazzo già alla fine del Settecento o al più tardi all'inizio del Ottocento, quando, a
ridosso della vendita ai Savoia, è noto che alcuni dei quadri più preziosi della collezione furono
venduti singolarmente. Coincise forse con la vendita dei due registri inferiori, e cadde
certamente tra il 1816 e il 1823, il trasferimento delle due opere in esame dalla Sala del
Canestro all'ex Salotto dell'Acqua.
Per quanto riguarda gli spostamenti delle tavole A e B all'interno della dimora di via Balbi,
mentre gli inventari del 1844 e 1854 le ricordano nell'anticamera dell'Appartamento detto del
Duca degli Abruzzi, dove verosimilmente furono trasferite in seguito ai lavori che
trasformarono il Salotto dell'Acqua, quelli seguenti le ricordano sempre nella Sala di Diana,
ribattezzata addirittura per qualche tempo Sala dei Fiamminghi, e dalla quale sono state
rimosse nel 1993 quando hanno raggiunto l'odierna collocazione.