Le Grazie di Foscolo e di Canova: un confronto tra le arti Forse (o ch’io spero!) artefice di Numi, nuovo meco darai spirto alle Grazie ch’or di tua man sorgon dal marmo. (Ugo Foscolo, Le Grazie, Inno primo) L’opera di Canova Le tre Grazie di Canova sono un gruppo marmoreo, scolpito negli anni 1813-17, di cm 182 di raggio, oggi collocato a San Pietroburgo, al Museo dell’Ermitage. L’opera, richiesta a Canova dalla committente Giuseppina di Beauharnais, prima moglie di Napoleone, con una lettera in data 11 giugno 1812, rappresenta uno dei massimi vertici della produzione dell’artista di Possagno, e dunque dell’intero periodo neoclassico. Sembra che l’autore tenga presente, come linea guida nella composizione della scultura, proprio la celebre definizione di Winckelmann, che ravvisava nell’arte classica, e voleva riproporre in quella settecentesca, una “nobile semplicità e calma grandezza”. Le tre Grazie, figlie di Zeus ed Eurinome, sono tradizionalmente identificate nella mitologia come Aglaia, lo splendore, Eufrosine, la gioia e la letizia, Talia, la prosperità e la portatrice di fiori. Il soggetto è frequentemente riproposto dall’antichità in poi; ne sono note numerose versioni ad affresco, scultura, mosaico. Celebre la piccola tavola di Raffaello (v. p. 2), che probabilmente lo scultore conosce, e che offre la posizione che vediamo anche in Canova: nessuna delle tre figure dà del tutto le spalle allo spettatore. L’intreccio delle braccia e delle gambe tende a conferire movimento e leggerezza alla scena; il cippo sormontato da una ghirlanda, una sorta di piccolo altare, ha la funzione di dare stabilità al gruppo, sorreggendo la parte della statua che presenta la maggiore massa marmorea, e si collega alle figure, i cui volti vicini non possiedono alcuna espressione, al fine di riprodurre il ‘bello ideale’, anche attraverso la perfetta levigatezza della pietra; Canova, del resto, affermava di voler riprodurre nel marmo la “vera carne” e persegue questo obiettivo privando il marmo, soprattutto nella parte dei corpi umani, di ogni possibile porosità. 1 L’opera di Foscolo Le Grazie di Foscolo sono un poemetto in endecasillabi sciolti diviso in tre inni (dedicati rispettivamente a Venere, Vesta e Pallade), al quale probabilmente l’autore pensava già dal 1803, anno in cui tradusse la Chioma di Berenice. Nel primo Inno assistiamo alla prima apparizione di Venere dal mare greco (tema caro al poeta, che lo propone anche nel celebre sonetto A Zacinto). Il secondo, dedicato alla dea del focolare domestico, è un’esaltazione delle arti, della musica e della danza in particolare, descritte in un rito classicheggiante che si svolge alle porte di Firenze. Nel terzo Inno Pallade presiede alla tessitura di un velo, che rappresenta le virtù tradizionali del mondo antico e che ha la funzione di proteggere le Grazie dai pericoli dell’inciviltà. In realtà le Grazie rappresentano un vero work in progress per il poeta, che continua a mettervi mano per tutta la vita, pubblicandone una parte solo nel ‘25 e lasciandolo di fatto incompiuto. È lecito pensare che Foscolo avesse un duplice atteggiamento nei confronti di quest’opera: da una parte cercava la perfezione formale dalla quale non poteva certo prescindere una composizione dichiaratamente neoclassica. Dall’altra la sua versatilità lo spingeva a interessi sempre nuovi, spesso coincidenti con la situazione contemporanea; nei suoi anni in Inghilterra, però, alle riflessioni politiche si aggiunsero anche una serie di preoccupazioni pratiche che lo tennero lontano dalla scrittura creativa. La relazione dell’opera poetica di Foscolo con quella marmorea di Canova è resa esplicita dalla dedica che precede l’Inno primo e dal brano immediatamente successivo, in cui il poeta si rivolge direttamente allo scultore, facendo riferimento a una realtà geografica e culturale che entrambi allora ben conoscono. Inno primo Venere Carme ad ANTONIO CANOVA Alle Grazie immortali le tre di Citerea figlie gemelle è sacro il tempio, e son d’Amor sorelle; nate il dì che a’ mortali beltà ingegno virtù concesse Giove, onde perpetue sempre e sempre nuove le tre doti celesti e più lodate e più modeste ognora le Dee serbino al mondo. Entra ed adora. Nella convalle fra gli aerei poggi di Bellosguardo, ov’io cinta d’un fonte limpido fra le quete ombre di mille giovinetti cipressi alle tre Dive l’ara innalzo, e un fatidico laureto in cui men verde serpeggia la vite 2 la protegge di tempio, al vago rito vieni, o Canova, e agl’inni. Al cor men fece dono la bella Dea che in riva d’Arno sacrasti alle tranquille arti custode; ed ella d’immortal lume e d’ambrosia la santa immago sua tutta precinse. Forse (o ch’io spero!) artefice di Numi, nuovo meco darai spirto alle Grazie ch’or di tua man sorgon dal marmo. Anch’io pingo e spiro a’ fantasmi anima eterna: sdegno il verso che suona e che non crea; perché Febo mi disse: Io Fidia, primo, ed Apelle guidai con la mia lira. (Inno primo, vv. 9-27) 3
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