GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI RASSEGNA STAMPA Anno 6°, n..12 - Dicembre 2013 Sommario: Cosa dobbiamo ancora vedere……………...................................................(pag. 2) Luci e volumi, la magia di Herb Ritts……………………………........................(pag. 5) Per le foto ce n'è uno, tutti gli altri ne han qualcuno……………………….......(pag. 6) Una storia americana. Fotografie di Gordon Parks…………………………….…(pag. 8) Quando lo scrittore ci mette la faccia……………………………………..…..........(pag. 9) Foto con pellicola vera e gli effetti Instagram: ecco "Last Camera" per... (pag.12) I miserabili(sti)…………………………………………………………………................(pag.13) Toni Nicolini, passione e ironia…………………………………………………..………(pag.22) Herb, un salto oltre il ritratto……………………………....................................(pag.25) Al via il concorso fotografico "Leica Oscar Barnack Award"......................(pag.30) Intrepido, tremebondo, vigagista, dialettico o solo utile?.........................(pag.31) Artuner, la fotografia dall'A alla Z……………………………………………………...(pag.37) Questo vuoto è troppo pieno.………..……………………………………..…………...(pag.39) Camera, Martinez e i Grandi della Fotografia…………………….....................(pag.41) Fotografate ora, fotografate tutto…………………………...............................(pag.43) Franco Fontana, ottant'anni di passione per la fotografia……………………..(pag.45) Sui sentieri delle fotografie…….………………………………………………………...(pag.47) Il corpo solitario.......................................................................................(pag.49) Non esistono fotografie private................................................................(pag.51) La strada di William Klein.........................................................................(pag.56) Qui si va sul difficile…………………………………………………………..................(pag.60) Autocoscienza dell'immagine....................................................................(pag.64) ........................... 1 Cosa dobbiamo ancora vedere di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Elliott Erwitt, Arlington, Virginia, 25 novembe 1963 © Elliot Erwitt/Magnum Photos, g.c. Quando Mario Calabresi lo intervista (e già questa è una notizia, perché il fotografo della Primavera e dell’inverno di Praga è notoriamente schivo e laconico), prima di rispondere Josef Koudelka apre uno dei suoi libri, cerca l’immagine giusta e la studia: «Non ti puoi fidare della memoria, ma delle foto sì, ti puoi fidare». E questa, anche a molti fotografi, sembreràun’affermazione ormai fuori corso, il residuo di un’era in cui i fotoreporter erano sicuri di sé e del proprio ruolo, erano ancora, come li chiama un loro amico e critico, il mediologo Fred Ritchin, «fotografi intrepidi», eroi della visione, sguardi delegati dell’umanità sul mondo, cavalieri di ventura in missione per conto dell’occhio collettivo. Mentre quella che viviamo sarebbe l’epoca dei fotografi insicuri, dubbiosi, emarginati dai mainstream media, messi nell’angolo dall’ubiquità della smartfonografia. E forse c’è del vero, ma il fotogiornalismo è già ufficialmente morto troppe volte per essere morto davvero. Qualcosa nelle sue fondamenta deve essere solido, e di questo va in cerca Calabresi in un libro, A occhi aperti, che è più della somma delle sue parti, ovvero dieci interviste a dieci nomi che risuonano sulla scena e nella storia del fotoreportage contemporaneo. Qualcosa che ha a che fare con «la malattia di esserci quando le notizie fanno la storia», ed esserci, per un fotografo, significa obbedire al primo e unico comandamento del Mosé dei fotorerporter, Bob Capa, che i suoi discepoli portano tatuato sul cuore: «Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino». Significa obbligatoriamente essere lì, col corpo, immersi fino alla cintola nell’acqua sporca degli eventi, come Steve McCurry (uno che passa, un po’ 2 sbrigativamente, per essere un fotografo “facile”, popolare, da effetto) nel fango del monsone indiano del 1983, dove rischiò di affogare quando un ponte gli crollò sotto i piedi. Gabriele Basilico, Beirut 1991 © Gabriele Basilico, g.c. Significa ripetersi «scatta, dài, scatta»come Paul Fusco salito al volo sul treno che portava a Washington la bara di Bob Kennedy, quando davanti ai finestrini, dai bordi della massicciata, gli si parò un’incredibile America multietnica e interclassiata con la mano sul cuore, significa anche tenere quelle foto nel cassetto per anni, incomprese, e finalmente poterle esporre: «Non buttare mai via quello che scrivi, servirà», raccomanda al suo intervistatore. Significa avere uno sguardo ironico sul mondo, avere in tasca la trombetta per far sobbalzare cani e umani e catturarli con la guardia abbassata, come Elliott Erwitt, ma saper sobbalzare come quando scoprì di avere davanti la notizia: i missili sovietici in parata che solo lui fotografò nel ’57, e che cambiarono la temperatura della guerra fredda. Innamorato della fotografia dall’età di dodici anni, Calabresi è oggi giornalista, direttore della Stampa, e la sua inchiesta attraverso gli occhi dei fotografi è, in realtà, una lunga domanda sul giornalismo, sulla necessità della testimonianza, minacciata dalla frana della ridondanza e dell’autoreferenza di una grande Rete che parla sempre più spesso e solo della Rete. Ai suoi dieci cavalieri dell’obiettivo rotondo, ha chiesto cosa succede quando l’occhio del testimone professionale incontra la storia: come riconoscerla, come prenderle un calco, come colarla in un oggetto visivo che sia utile a chi lo vedrà. 3 Le storie che i fotografi raccontano, le parole attorno alle loro immagini, al prima e al dopo il momento dello scatto, non sono che diverse risposte alla domanda, generose confessioni e spesso dolorose: le parallele esperienze d’esilio di Koudelka dalla sua Praga e di Abbas dalla sua Teheran fanno parte, a pieno diritto, del loro modo di raccontare anche tutto il resto. Il fotografo è sempre dentro l’inquadratura. Se è una finestra sul mondo, il suo volto si riflette un po’ sul vetro. La risalita alle origini primordiali del mondo di Sebastião Salgado non è l’opposto delle sue narrazioni epiche della fatica umana, ma la conseguenza, la riparazione simbolica. Abbas, Afghanistan, 1992 © Abbas/Magnum Photos, g.c. Il fotografo è sempre stato l’esploratore dell’ignoto: sul confine maledetto fra Messico e Usa Alex Webb cerca «quel che non mi aspettavo». A volte quel che non ti aspetti può anche essere una granata, quella che risparmiò Paolo Pellegrin nel Libano del sud. «Fotografo è l’unico titolo che mi serve», rivendica Don McCullin stanco di guerre ma non di visione. Fotografi e basta? C’è in effetti un fotografo che non ti aspetti nel panel di Calabresi, che non corrisponde al modello del reporter di guerra: è Gabriele Basilico, fotografo col treppiede, esploratore lento di paesaggi urbani, un «misuratore dello spazio», si definisce, anche quando è lo spazio devastato di Beirut in macerie. Ma ecco che anche Pellegrin, con tutte le sue immagini di dolore estremo, si definisce quasi allo stesso modo, «un catalogatore». E non è cinismo, è un modo di rifondare il proprio ruolo: il fotografo intrepido fornitore di risposte è finito, il fotografo utile cercatore di domande è ancora tra noi. E ci serve ancora. [Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 26 novembre 2013] 4 Tag: Abbas, Alex Webb, Bob Kennedy, Don McCullin, Elliott Erwitt, fotogiornalismo, fotografia,Gabriele Basi, Josef Koudelka, Mario Calabresi, Paolo Pellegrin, Paul Fusco, Robert Capa, Steve McCurry Scritto in da leggere, fotogiornalismo, Venerati maestri | 12 Commenti » Luci e volumi , la magia di Herb Ritts da http://www.ansa.it Inaugura martedì 10 dicembre alle ore 19 la mostra In piena luce. Fotografie di Herb Ritts presso l’AuditoriumExpo dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. La mostra, una produzione della Fondazione Musica per Roma e della Fondazione FORMA per la Fotografia, in collaborazione con la Herb Ritts Foundation e Contrasto, resterà aperta fino al 30 marzo 2014. Creatore delle immagini più incisive, sognanti e perfette dello star system hollywoodiano, Herb Ritts è stato un grande interprete della fotografia internazionale. Suoi sono molti dei ritratti che hanno costruito, è proprio il caso di dirlo, celebrities come Madonna, Michael Jackson o Richard Gere. Sue sono le fotografie patinate e oniriche della moda, dove gli abiti lucenti di Versace, i corpi perfetti delle modelle, sono immersi in una luce piena e vaporosa. Concepita espressamente per l’AuditoriumExpo, In piena luce è una retrospettiva eccezionale di immagini di Herb Ritts, tra le più celebri ed altre inedite, provenienti dall’Herb Ritts Foundation di Los Angeles. In esposizione oltre 100 preziose fotografie di diverso formato, dalle imponenti stampe al platino, alla serie di stampe ai sali d’argento di medio formato fino alle grandi gigantografie spettacolari. I celebri ritratti realizzati da Herb Ritts, le fotografie di moda, i lavori sul corpo, le straordinarie immagini della California, l’eccezionale reportage sull’Africa. Lo stile di Herb Ritts è inconfondibile, nutrito di uno sguardo potente – uno sguardo che idealizza – e che arrivò proprio nel momento giusto. Uomo colto e 5 sensibile, appassionato di arte e di storia della fotografia, Ritts studiava le composizioni classiche, la plasticità del dialogo tra i corpi nell’arte rinascimentale, così come nelle fotografie di inizio secolo. Rapito dal rigore formale del fotografo tedesco Herbert List (suo riferimento irrinunciabile per tante immagini), Ritts cercava di comprendere il mistero che risiede al fondo di quelle perfetti composizioni di luci e di volumi che, spesso distrattamente e con superficialità, vengono chiamate semplicemente “fotografie di moda”. Per la foto ce n’è uno, tutti gli altri ne han qualcuno… di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it “Ma ha visto?”, mi telefona con piglio energico e quasi indignato Italo Zannier, decano degli storici della fotografia italiani, “neanche un fotografo… Che tristezza”. Vado a recuperare la pagina di giornale. In verità uno c’è. Appena in tempo. L’ultimo della lista. Fa capolino lì in fondo a destra, sorridente e con le braccia aperte, come per dire “accidenti, ci sono entrato per il rotto della cuffia!”. Lo faccio notare al professore. “Sì…”, borbotta poco convinto, “Ma non è neppure un italiano…”. Non è però l’ultimo arrivato, Dennis Chamberlin, fotografo dell’agenzia Black Star, premio Pulitzer assieme allo staff del Fort Wayne News-Sentinel nel 1983, docente in varie istituzioni. Ma diciamo, non è un nome che solleva subito le sopracciglia come quelli di Umberto Eco, Ennio Moricone, Andrea Camilleri o Jack Lang, che è il promotore. 6 Ringraziamolo almeno per aver salvato l’onore della categoria, unico rappresentante, gol della bandiera. Ma non c’erano proprio altri fotografi, italiani e di nome, da invitare in questo appello di intellettuali a favore della candidatura di Urbino a Città europea della cultura 2019? Chamberlin forse è stato incluso perché ha un rapporto con Urbino, dove dirige il progetto multimediale Urbino Project. Forse il comun denominatore degli inclusi (volontari o convocati?) nel comitatone è proprio questo, avere qualcosa a che fare con Urbino o con le Marche. Ma le Marche sono una storica terra di fotografia, dagli esteti del Misa a Giacomelli, una terra che continua ad allevare ottimi professionisti dell’immagine, ad attirarne altrettanti da fuori. Uno per tutti: il grandissimo Mario Dondero, che da anni vive a Fermo. Non ce ne stava più di uno, in quella pagina? Almeno due? Non c’era proprio un altro posto per un fotografo, magari italiano stavolta, fra i 114 firmatari che “ci hanno messo la faccia” nel paginone promozionale acquistato dalla Regione Marche su alcuni quotidiani nazionali nelle scorse settimane, per più di un fotografo? Uno su 114. Il peso relativo della professione e dell’arte di fotografo in questa specie di sociogramma della cultura è inferiore all’un per cento. Come tasso di rappresentanza, è l’ultima categoria, alla pari con gli ecclesiastici. Nel gruppone si distinguono invece 14 giornalisti, 16 musicisti, 19 uomini di cinema, 11 uomini di teatro, 4 personaggi televisivi, 7 sportivi, 8 scrittori, 8 storici dell’arte, 7 accademici, 2 scienziati (anche la cultura scientifica sse la passa maluccio, da quelle parti…), 2 architetti. Anche i cuochi sono il doppio dei fotografi: due. Più che tanti altri segnali, credo che questo involontario indicatore della reputazione culturale della fotografia nel nostro paese sia significativo, perché sembra rivelatore di un’opinione diffusa. Sarebbe un bel test, provare a capire se anche nel Pantheon intellettuale degli italiani di cultura media i fotografi figurano nella stessa proporzione di questo comitatone, rispetto agli scrittori, agli attori, ai calciatori, aglichef. Di certo, sappiamo come la vedono dalle parti di Urbino. Se tanto mi dà tanto, dovremo aspettarci che il posto riservato alla fotografia in un’eventuale programma di Urbino città europea della cultura, nel 2019, riserverà ben poco spazio alla fotografia. Meno dell’uno per cento. In un mondo dove si scattano uno o due miliardi di fotografie al giorno, dove ognuno di noi scorre con gli occhi migliaia di fotografie al giorno. Dove la cultura visuale scarseggia e la propaganda visuale trionfa. Che tristezza, professor Zannier, ha proprio ragione. Monsieur Lang, provveda, facciamo conto su di lei, che viene dalla patria natale della fotografia. 7 Tag: Andrea Camilleri, Dennis Chamberlin, Ennio Moricone, fotografi, fotografia, Italo Zannier, Jack Lang, Marche, Mario Dondero, Mario Giacomelli, Umberto Eco, Urbino Scritto in fotografia e società | 5 Commenti » Una storia americana. Fotografie di Gordon Parks da http://www.lastampa.it Gordon Parks, Harlem 1948. Da “Harlem Gang Leader” Quando: 05/12/2013 00:00 al 16/02/2014 00:00 Dove: via Dei Prefetti 22 Roma (RM) Il 5 dicembre apre al pubblico, presso Palazzo Incontro a Roma, la mostra Una storia americana. Fotografie di Gordon Parks; un progetto promosso dalla Provincia di Roma e dalla Regione Lazio, realizzato dalla Gordon Parks Foundation di New York in collaborazione con la Fondazione Forma per la Fotografia, organizzato da Contrasto e da Civita. Gordon Parks è un narratore unico dell'America, in grado con il suo apparecchio fotografico e la sua capacità di comprendere e scavare dentro le pieghe della società, rivelare le ingiustizie e i soprusi, portare alla luce la storia di chi non aveva voce per gridare la propria storia. Tra i fotografi più importanti del ventesimo secolo, dagli anni Quaranta fino alla sua morte, nel 2006, Parks ha raccontato al mondo, soprattutto attraverso le pagine della rivista Life, la difficoltà di esser nero in un mondo di bianchi, la segregazione, la povertà, i pregiudizi, ma anche i grandi interpreti del ventesimo secolo, il mondo della moda e perfino le grandi personalità del mondo in pieno cambiamento, come Malcom X, Muhammed Ali e Martin Luther King. La mostra a cura di Alessandra Mauro, è accompagnata da un volume edito da Contrasto. L’esposizione è anche l’occasione per festeggiare i 3 anni dall’apertura di Palazzo Incontro che, voluto con determinazione dal Presidente Nicola Zingaretti, rappresenta il luogo dove il Progetto ABC Arte Bellezza e Cultura, ideato dalla Provincia di Roma e da Civita, ha avuto la sua consacrazione. Oggi il Palazzo è diventato un luogo di tendenza che ha ampliato, qualificandola, l’offerta culturale della Capitale rispondendo alle sollecitazioni e alle aspettative di un pubblico singolare, curioso, attento, esigente, giovane e per nulla usuale per consumi e fruizione di eventi. 8 Quando lo scrittore ci mette la faccia di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Jorge Luis Borges, Palermo, 1984. © Ferdinando Scianna/Magnum Photos/Contrasto, g.c. Dei libri in mano? Sembrerebbe un bibliotecario. La penna sul foglio? Uno spasimante che scrive all’amata. Sugli altari, i santi si riconoscono perché esibiscono gli oggetti della loro predicazione o del loro martirio. Nessun accessorio, invece, può dare un’identità certa allo scrittore. Resta la faccia. Ma non è forse giusto così? La materia prima dello scrittore non è l’anima? E il volto non è lo specchio dell’anima? Ed eccoli i volti degli scrittori, sui giornali, sulle copertine, in tivù, li riconosciamo, volti nudi, volti significanti, volti-testo che i lettori sbirciano, scrutano, percorrono ruga per ruga in cerca di quel che non ci troveranno, o forse sì, ma cosa troveranno davvero? InScrittori, un librone curato da Goffredo Fofi, ora ne avete quante ne volete, di facce d’autore. Ma che cosa vi diranno? Anche Leonardo Sciascia cercava ardentemente qualcosa nei volti dei suoi compagni d’arte. Collezionava ritratti di scrittori, antichi e moderni: ne ha lasciata una raccolta alla sua Racalmuto. Ne trasse anche una mostra, a Torino, dal titolo rubato a un verso di Paul Valéry: Ignoto a me stesso. Identico concetto espresso da Franz Kafka a un amico: il ritratto fotografico? «Un non-conosci te stesso meccanico». S’illudeva allora Sciascia? Successero due cose curiose, a quella mostra. Si scoprì da un confronto di date che il ritratto di Luigi Pirandello non poteva essere il suo. Chi era dunque quel signore bonario con la faccia da Pirandello? 9 Cioè con la faccia da scrittore? Un farmacista, un notaio? Che caso sapiente, questo incidente capitato proprio all’esploratore delle identità incerte. E poi, il ritratto di Erskine Caldwell. Era, forse per una svista, l’unico vivente in quella galleria: ma morì due giorni dopo l’inaugurazione della mostra. «Per dovere di catalogo», scrisse quasi irriverente Giovanni Arpino. Sciascia invece ci vide un segno. Una prova dell’entelechia del ritratto: nel volto fotografato dello scrittore si legge sempre un destino già scritto. Pensò a un ritratto di Pier Paolo Pasolini preso da Dino Pedriali. Da rabbrividire. Diffidano dunque i letterati del proprio ritratto. «Virginia Woolf mi accusò di averla violentata facendole il ritratto», si lamentò Gisèle Freund, «ma non ci si cambia d’abito due volte per farsi violentare…». Diffidano, ma poi ci cascano tutti. Perfino Balzac, convinto che ogni scatto sbucciasse via, come da una cipolla, una pellicola dal corpo mistico dell’uomo, finì nel Panthéon di Nadar. Antonio Tabucchi, Milano, 1985. © Giuseppe Pino/Contrasto, g.c. Diffidano giustamente: il volto dello scrittore è prepotente, invadente. Condiziona l’immaginario del lettore. Volerlo o no, Leopold Bloom ha per noi i tratti scavati di James Joyce, e Georges Simenon con la pipa è il commissario Maigret. Per questo, forse, J.D. Salinger detestava i fotografi e li fuggiva come la peste. O forse perché lo ripresero a tradimento mentre usciva da un supermercato del New Hampshire. Uno scrittore somiglia a uno scrittore anche quando spinge il carrello della spesa? Sì, rispose Roland Barthes, perché così li vuole l’industria culturale: devono apparire esseri speciali che «secernono letteratura» in ogni momento, anche involontariamente, anche in spiaggia sotto l’ombrellone. 10 Il volto dello scrittore è un volto speciale, aureolato? Beffarda, la rivista Life nel 1947 fece un contro-esperimento: mostrò ai suoi lettori ventotto fototessere, senza didascalie, di scrittori di gialli mescolati a serial killer, e li invitò a distinguere gli uni dagli altri. Non conosciamo l’esito. Ma qualcuno avrà scoperto con sorpresa che in fondo uno scrittore talvolta può avere veramente una faccia da scrittore. Ma forse è un caso. L’immagine fotografica crea non il letterato, ma la sua scena. Si dice che fu una foto di gruppo (c’erano Beckett, Robbe-Grillet, Simon, Serraute) presa da Mario Dondero nel ‘59 sul marciapiede davanti alle Éditions de Minuit, a creare il noveau roman. Di quella scena i letterati sono attori consapevoli. Fotografata da Ulf Andersen, Julia Kristeva ammise: «questa è la maschera che mi protegge, e che mostro a voi». Ernest Hemingway, Sun Valley, USA, 1940. © Robert Capa/Magnum Photos/Contrasto Molti di loro la indossano con sapienza. Ernest Hemingway e Mark Twain, per dirne due, gestirono meticolosamente le proprie apparizioni fotografiche suggerendo una lettura dell’opera attraverso l’esposizione del corpo. Mostrarsi o no? Ma la domanda è già risolta. Ci guardano a centinaia, in libreria, dalle vetrine della quarta di copertina. Walt Whitman, pioniere anche in questo, pubblicò alcune edizioni di Foglie d’erba con il suo ritratto al posto del nome in frontespizio. Il volto dello scrittore ora è pubblico come il volto dei politici, un volto senza aura, raggiungibile, negoziabile, consumabile. Eppure, come verseggiò Eugenio Montale sul dagherrotipo d’un avo, «resta / che qualcosa è accaduto, forse un niente / che è tutto». In una foto c’è sempre 11 uno scarto fra la costruzione che intende essere e la realtà indefinita che vi s’intrufola. Se il fotografo è fortunato, scrisse Josif Brodskij, nel ritratto dello scrittore coglierà «una poesia non compiuta, che non ha ancora il prossimo verso». [Una versione di questo articolo è apparsa in La Domenica di Repubblica il 10 novembre 2013] Tag: Alain Robbe-Grillet, Claude Simon, Dino Pedriali, Ernest Hemingway, Erskine Caldwell, Eugenio Montale, fotografia, Franz Kafka, Georges Simenon, Giovanni Arpino, Gisèle Freund, Goffredo Fofi,Honoré de Balzac, J. D. Salinger, James Joyce, Josif Brodskij, Julia Kristeva, Leonardo Sciascia,Leopold Bloom, Luigi Pirandello, Maigret, Mark Twain, Nadar, Nathalie Serraute, Paul Valéry, Pier Paolo Pasolini, Racalmuto, ritratto, Roland Barthes, Samuel Beckett, scrittori, Ulf Ansdersen, Virginia Woolf,Walt Whitman Scritto in fotografia, fotografia e società, ritratto | 8 Commenti » FOTO CON PELLICOLA VERA E GLI EFFETTI DI INSTAGRAM: ECCO "LAST CAMERA" PER AMANTI DELLA FOTOGRAFIA ANALOGICA di melascrivi.com da http://www.assodigitale.it/ In tempi in cui la parola digitale è ormai sulla bocca e le tastiere di tutti, c’è ancora qualcuno che si diletta nell’ideare nuovi strumenti analogici come Last Camera. A guardarla dall’esterno, con un occhio magari un po’ superficiale, si potrebbe dire che questa nuova macchina fotografica non ha nulla di nuovo rispetto alle tante altre analogiche che l’hanno preceduta. Ciò però sarebbe una bugia, dal momento che Last Camera consente al fotografo, provetto o professionista, di caratterizzare i propri scatti con un effetto tanto imprevedibile quanto affascinante, la luce. 12 Essa infatti permette di farla filtrare direttamente sulla pellicola, e gli effetti sono incredibili. Qualcuno starà già pensando a Instagram, noto social fotografico caratterizzato da numerose funzioni di modifica e abbellimento degli scatti, ma qui si parla di foto vecchio stile, con pellicola per l’appunto, e dunque di un effetto che non può in alcun modo essere regolato o previsto al 100%. Grazie a due sportellini posti nella parte posteriore e laterale della macchina sarà così possibile compiere un vero e proprio passo all’indietro, a quando le foto (eccezion fatta per le polaroid) erano un’arte per i maestri del genere e un regalo agrodolce per chi attendeva con ansia lo sviluppo del fotografo di fiducia. Una volta acquistato si riceverà a casa propria un kit non molto ampio, composto da pezzi quasi totalmente in plastica, che dovranno poi essere assemblati con minuzia, seguendo le istruzioni annesse. Qualcuno potrebbe storcere il naso anche in questo caso, ma occorre sottolineare come la parvenza di complessità del kit sia in realtà un’opzione in più per gli amanti del genere, che avranno così a disposizione una macchina del tutto assemblabile, ma soprattutto modificabile e migliorabile a seconda delle proprie esigenze e dei propri gusti. Oltre ai pezzi per la costruzione della macchina troveremo poi anche due obiettivi, per la precisione un grandangolare da 22 millimetri e un obiettivo classico da 45 millimetri. A produrla è Superheadz, che al momento è anche l’unico rivenditore. Infatti la macchina è acquistabile sul loro sito. L’oggetto è interamente made in Japan e in rete sono già stati diffusi alcuni video per incentivare i clienti a customizzare la propria macchina fotografica, rendendola aderente alla propria personalità. Al momento il costo è fissato sui 4.095 yen, ma non lasciatevi spaventare. Effettuando il cambio di valuta infatti ci si rende facilmente conto che per noi la spesa sarebbe soltanto di circa 28 euro. I miserabili(sti) di Michele Smargiassi da http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/ «Che cosa faceva a Calcutta?» «Fotografavo l’abiezione», rispose Christine. «Come sarebbe?» «La miseria», disse lei, «la degradazione, l’orrore, lo chiami come preferisce». «Perché lo ha fatto?» «È il mio mestiere», disse lei, «mi pagano per questo». Fece un gesto che forse significava rassegnazione alla professione della sua vita, e poi mi chiese: «lei è mai stato a Calcutta?» Scossi la testa. «Non ci vada», disse Christine, «non faccia mai questo errore». «Pensavo che una persona come lei pensasse che nella vita bisogna vedere il più possibile». «No», disse lei convinta, «Bisogna vedere il meno possibile». ANTONIO TABUCCHI, Notturno indiano 13 Lewis Carroll, Alice Liddel, 1858 Bisogna vedere o non vedere la miseria? Bisogna farla vedere o non farla vedere? Sono due domande diverse? Sono la stessa domanda? Non siamo tanto liberi di scegliere. La miseria viene mostrata ovunque. Perché, purtroppo, è fotogenica. Sentite cosa scrive nel 1910 un tale Gustavo Bonaventura su La Fotografia Artistica, rivista portabandiera del pittorialismo fotografico italiano. Un ragionamento che comincia benissimo e finisce malissimo: «[...] l’immenso egoismo umano trascura di soffrire vedendo un vecchio dormire su di una panchina nel gelo delle notti invernali e una madre pascere di lacrime i figli affamati ed i coscienti. Sono dolori a cui non si pensa, perché dolori che si guardano, senza vederli, preoccupati dal pensiero di un sonno dolce e a stomaco pieno, [e fin qui siamo d’accordo, ndr.]mentre potrebbero servire alla esecuzione di una serie immensa di quadri improntati alla triste, alla amarissima poesia della miseria e del martirio». Capita la morale? Guai a chi volta la testa all’altra parte quando vede un miserabile! È un gigantesco spreco di ottimi spunti artistici! Bisogna guardarli, i poveri, bisogna fotografarli! Credo che il cinismo forse inconsapevole e perfino benintenzionato del signor Bonaventura, che dava consigli ai fotoamatori della sua epoca, sia una 14 eccellente sintesi della filosofia di quel sottogenere che percorre tutta la storia della fotografia, a cui qualcuno ha dato il nome di miserabilismo. Il compiacimento del rappresentare la povertà in immagine, di guardare la povertà rappresentata. Naturalmente, non tutto comincia nella e dalla fotografia, e neppure nella storia dell’arte, dove i poveri hanno una antica cittadinanza di cui non ho tempo e competenza per parlarvi qui. Il voyeurismo del privilegiato nei confronti dello sventurato, il piacere di guardare la catastrofe dallo spalto sicuro della nostra tranquillità economica e sociale viene da lontano, ha radici in un meccanismo profondo dell’animo umano. «Le lacrime di compassione per la sventura dello schiavo», scriveva Nietzsche, «sono le perle più preziose nell’aurea coppa della cultura, lasciva Cleopatra». Già Platone, che diffidava dell’arte, intuì il fascino che i corpi straziati esercitano su chi li guarda. C’è un’estetica specifica per commuovere attraverso il dolore figurato: quella che il grande storico dell’arte Aby Warburg identificava nel termine pathosformel. La gente ama piangere sulle disgrazie altrui. È un potente meccanismo di rassicurazione. Chi guarda la sofferenza di un miserabile, molto probabilmente non è a sua volta un miserabile. Chi ode il tuono, sa che non è stato colpito dal fulmine. Il tuono spaventa e conforta insieme. È toccato a qualcun altro, io sono salvo. Quando la fotografia rivolge la sua lente al mondo sociale e comincia a catturare la sofferenza e la miseria, trova il terreno preparato da numerose lascive cleopatre culturali. La compassione cristiana, mai priva del compiacimento della carità. L’etica protestante che nella miseria vede il segno della mancata predestinazione alla salvezza. L’idealizzazione romantica del contadino, dell’umile lavoratore legato alla terra. In un certo senso, il pittorialismo fotografico è persino meno sprezzante di questi precedenti, recupera in estetica un’etica del labor che vorrebbe essere serena, classica, virgiliana. Purtroppo per lei, la fotografia non è fatta per le teorie, non riesce mai a rappresentare astrazioni, concetti universali, sentimenti disincarnati. Non possiamo fotografare la povertà. Possiamo solamente fotografare dei poveri. Quei poveri, quel povero specifico che capita avanti al nostro obbiettivo. La povertà come metafora funziona male in fotografia: la cieca di Paul Strand è un’allegoria della visione, una metafora della fotografia stessa: ma quella è stata una donna in carne ed ossa, una mendicante, che non ha avuto alcun controllo sull’immagine che le è stata presa. Probabilmente non avremmo immagini della crocefissione sugli altari se all’epoca della passione di Cristo fosse esistita la fotografia. «La fotografia è 15 troppo esplicita per far apparire nobile o nobilitante il concetto di sofferenza», ha osservato lo scrittore Philip Gourevitch a proposito delle fotografia delle torture di Abu Ghraib. Ma è solo per compiacimento voyeuristico, per cinica rassicurazione, che da 170 anni fotografiamo i poveri? Naturalmente, nessun fotografo ama sentirsi cinico o voyeur. In questi due secoli, dunque, non sono mancate giustificazioni autorevoli, non sempre ipocrite o infondate, all’esistenza della fotografia miserabilista. La prima si rifà ad una sorta di vocazione originaria della fotografia stessa, il suo presunto bisogno insopprimibile, esistenziale, di riprodurre la realtà così com’è. Quando Heinrich Zille o Thomas Annan fotografano i mendicanti di strada a Londra o gli slum di Chinatown, si sentono investiti di una missione di documentazione che li mette al riparo da ogni altra responsabilità morale, da ogni obbligo di pietà e di pudore. Questo genere di fotografia che si pretende avalutativa, indagatrice, classificatoria, catalogatrice, ovviamente oggettiva non è: è lo sguardo della borghesia dell’Occidente che getta fuori da sé e dalle proprie responsabilità le drammatiche conseguenze umane dell’industrialismo. Questa fotografia non documenta la povertà, ma crea il povero, come fenomeno spiacevole, ma inevitabile perché oggettivo e naturale. Con la sua presunzione di veridicità meccanica, la fotografia è il medium nonché l’alibi perfetto per questa alienazione. Sentite cosa scrive Adolphe Smith, giornalista socialisteggiante, nella prefazione aStreet Life in London, reportage di John Thomson del 1877: «L’indiscutibile esattezza [delle fotografie] ci permetterà di mostrare autentici personaggi della miseria londinese risparmiandoci l’accusa di avere aggiunto o tolto qualcosa all’aspetto particolare di quei miserabili». Capito? Le foto non creano la povertà, la documentano soltanto, e nel modo più scientifico e corretto possibile. L’evoluzione di questa pretesa sarà la fotografiaantropologica, tassonomia umana dell’era coloniale, ovviamente condotta dai colonizzatori sui colonizzati. Ai quali resta solo, muta arma dell’oppresso contro l’oppressore, la resistenza di uno sguardo carico di disprezzo. Ma se guardiamo questi reportage sedicenti “scientifici”, capiamo subito dove sta il trucco. Per questo sguardo intrusivo e auto-assolutorio del potere, camuffato da censimento entomologico, gli unici poveri fotogenici sono quelli che il medioevo definiva «poveri vergognosi»: i poveri che chiedono senza pretendere, i poveri umili e sottomessi. I poveri che si ribellano contro le condizioni della loro povertà non sono più poveri, sono sovversivi, asociali pericolosi: a loro è destinato un altro genere di fotografia, quella poliziesca, la fotografia segnaletica dei grandi casellari giudiziari ideati per primo dal capo della prefettura parigina Alphonse Bertillon. 16 I poveri innocui, invece, diventano facilmente figurine di un rassicurante presepe che può perfino avere un valore commerciale. La poetica degli stracci si trasferisce nella sua versione folclorica e turistica dei «tipi», dei personaggi di strada, straccivendolispazzacamini scugnizzi, una collezione di figurine, anche in senso letterale, elementi di colore locale, da cartolina, curiosità da souvenir di viaggio. Gli spossessati sono spesso privi anche del potere di opporsi al prelievo della propria immagine. È condannata la fotografia a questa «sociopornografia», a questo folclore degli stracci? Molte volte si è cercato di sfuggire questa sorte, non sempre ipocritamente, qualche volta efficacemente. Agli inizi del Novecento la fotografia sembrò l’arma più forte a disposizione dei riformatori sociali per «gettare luce» sulle contraddizioni della società e invocarne la riparazione. Detective sociali come Jacob Riis si munirono delle pesanti, ingombranti fotocamere dell’epoca per intrufolarsi negli slum degli immigrati, nei tenements dove gli ultimi arrivati nella «terra delle opportunità» si ammassavano in condizioni spaventose, e asportarne tutto lo squallore a colpi di flash, pazienza se il lampo di magnesio a volte finiva per appiccare il fuoco ai pagliericci lerci dei poveracci. Non è giusto disprezzare o tacciare di ipocrisia quei tentativi, sinceri, benintenzionati e perfino efficaci: le foto di Riis contribuirono al risanamento del Mulberry Bend, l’angolo più infame e lurido di Manhattan.Ma la giustificazione morale di questo tipo di fotografia sociale si fonda sulla fiducia nella coscienza e nella generosità dei ricchi, che sono il vero pubblico di quelle immagini. Il rischio di una pornografia della miseria, del consumo del dolore che ci consola e ci evita perfino di sentirsi complici (mi sono commosso davanti a quelle fotografie, è la prova che sono dalla parte del giusto) non è fuori dall’orizzonte umano, anche al di là delle intenzioni. Scriveva Blaise Pascal che «piangere gli sventurati non è contro la concupiscenza. Anzi, siamo ben lieti di offrire questa prova di amicizia, e di attirarci la reputazione di persone sensibili senza dar nulla». È quindi difficile scacciare la sensazione che anche questo sguardo non potesse evitare una quota di paternalismo compiaciuto, quello che lo storico della fotografia Ando Gilardi definirebbe «porno-concerned», che produce un’immagine del povero stereotipa, inquietante, estrema, disumanizzante. Per denunciare la patologia sociale e solleictare reazioni in chi vive nel torpore del benessere è inevitabile estremizzarne i tratti, si innesca così un meccanismo di «criminalizzazione a fin di bene» che in anni più recenti ha riguardato anche la generosa fotografia anti-psichiatrica e basagliana, piena di «matti che hanno l’aspetto di matti». La fotografia prende individualità e le trasforma in stereotipi, il rischio lombrosiano (che sostanzialmente consiste nello scambiare gli effetti per le cause) è sempre dietro l’angolo. 17 Non sto dicendo che i fotografi siano tutti incoscienti produttori di cliché. Gran parte dei fotografi «socialmente consapevoli» avverte da sempre il rischio, sa di correre su una lama sottile tra denuncia e conferma del pregiudizio. Sa che è forte la tentazione di affermare, più che uno stato deplorevole delle cose, il coraggio del fotografo nell’affrontare la vista della povertà e i rischi corsi per raggiungerla, in nome di una missione morale superiore. Una sorta di forma moderna del sublime, legittimata dalla morale umanitaria, secondo il sociologo Luc Boltanski. Thomas Annan, Glasgow, Close No. 80, High Street, 1868 Contro questo rischio, i fotografi coscienziosi hanno adottato strategie diverse. La più frequente è quella che invoca a discolpa ed esimente morale la pretesa di aver «rispettato» se non «restituito» la «dignità» ai soggetti: ma di quale dannata dignità parliamo? Un bambino che muore di fame, un uomo ammazzato da un missile, di dignità non ne hanno più, nemmeno un briciolo, gliel’hanno rubata tutta, gliel’hanno strappata a viva forza con i loro artigli maledetti. E se un fotografo gliene mette addosso una che si è portato da casa, prefabbricata e incartata dentro la borsa assieme agli obiettivi, vuol dire che sta mentendo, che sta coprendo, che sta nascondendo la realtà. Una “vittima dignitosa”, educata, che faccia di tutto per non disturbare la nostra sensibilità, è proprio quel che chiedono le sonnolenze postprandiali di noi occidentali che vogliamo indignarci, certo, ma solo per qualche minuto, e senza rimetterci nulla. 18 Lasciamo perdere la dignità, dunque, scusa fragile e ipocrita. Più fondato come giustificazione morale della fotografia della povertà è semmai il dovere della testimonianza: faccio vedere ciò che ho visto e che altrimenti nessuno saprebbe. Consapevole che sto mostrando “il dolore degli altri”, per dirla con un tormentato libro di Susan Sontag, che sull’efficacia e la legittimità morale di questa testimonianza ha cambiato nel tempo le sue opinioni. In definitiva, si tratta di quell’etica dell’intenzione, di quel pro bono malum che sorreggeva l’impresa foto-propagandistica della Fsa americana, fotografia di Stato dell’era Roosevelt, che mostrava le piaghe sociali che intendeva risanare, per produrre consenso attorno a una politica. Ma ugualmente, non basta: da cosa si riconosce la buona dalla cattiva intenzione? Da quali segni esteriori distinguiamo il voyeurismo del dolore dall’empatia del riscatto? Dalla nobilitazione politico-morale del soggetto, è una risposta: il neorealismo cinematografico, e la fotografia che si richiama a quello stile, rinnova il cliché neoromantico della miseria: poveri ma belli, poveri ma eroi, poveri ma virtuosi, poveri ma in cerca di riscatto. Con questa autogiustificazione, nel dopoguerra, i fotografi italiani tenuti per un ventennio, quello fascista, a digiuno di frequentazione della realtà sociale si lanciarono in una vera e propria corsa al Sud, in cerca di vedove in nero e cafoni dal volto scavato. Ne uscirono reportage sconvolgenti su un paese fino ad allora invisibile, ma ahinoi anche stereotipi da fotoamatori in cerca di effetti facili. Disse un fotogiornalista di pelo lungo, Vincenzo Carrese, al giovane Ferdinando Scianna che gli presentava un (bellissimo) reportage sulle feste religiose in Sicilia: «I poveri sono fotogenici, ragazzo mio, specie quando pregano, vorrei vede cosa sai tirare fuori da via Montenapoleone…”. Dalla nobilitazione del soggetto alla estetizzazione della miseria il passo è breve. È l’accusa versata piene mani sui fotografi «epici» come Sebastião Salgado. Che si difende dicendo: sono fisime occidentali, quando mostro fotografie dei migranti in Europa si discute di estetica, in Brasile di emigrazione. Pornografi della miseria o cantori della contraddizione? (Pivano). La bellezza è davvero nemica della verità, della compassione, dell’empatia? Per Jeanloup Sieff la bellezza è condizione di efficacia, è sovversiva. Per Ferdinando Scianna, se fai una brutta fotografia a un povero ti trovi con «due problemi: la sofferenza del povero, e una cosa brutta in più che ora impesta il mondo». Ma c’è anche chi, come Don McCullin, al termine di un duro reportage sull’Aids, ha concluso che «non riesci a fare grandi foto sulla sofferenza altrui. è più importante metterle nel giusto contesto». Ma qual è il «giusto contesto»? Il pericolo è che la fotografia della miseria trovi giustificazione in sé, si proclami giusta, umanitaria, «dignificante» solo perché chi la produce si sente animato da buone intenzioni. Ma se è così, ha ragione Anna Magnani del film L’Onorevole Angelina di Luigi Zampa, che tira 19 una bacinella d’acqua a un fotografo che la ritraeva mentre faceva il bagno al bambino in una tinozza, gridando «Non c’è gnente da fotografa’, non semo divi der cinema, semo dei disgraziati, capito? E invece de venì ogni du’ ggiorni con ‘ste macchinette, venite co li sordi, così ce ripulimo un po’ e risparmiate pure tante gitarelle». E siamo ancora al punto: è giusto o no mettersi con una fotocamera davanti alla miseria e alla sofferenza? Sfruttamento o solidarietà? Empatia o ipocrisia? Jean Baudrillard, dopo aver depotenziato qualsiasi immagine del reale riducendola a simulacro, mette in guardia ugualmente dalla «complicità vergognosa» delle fotografie dei miserabili «dati in pasto all’evidenza documentaria e alla compassione immaginaria». Un rischio ben presente a tutti. Nel 1989 l’assemblea generale delle Ong europee vara un regolamento per le immagini di sofferenza. La Croce Rossa Internazionale ne possiede uno suo. È un tema molto sentito, nel mondo delle organizzazioni umanitarie, questo dell’immagine. Ovvio che lo sia. Basta un’immagine ben scelta e ben diffusa sui media e il rubinetto delle donazioni comincia a buttare. Ma un’immagine azzeccata è anche un’immagine giusta? Bene, quei codici etici sull’immagine della miseria bandiscono gli estremi opposti delle immagini idilliche e di quelle senza speranza perché, entrambe, «mirano solo a ripulire le coscienze anziché alla comprensione delle radici dei problemi». Quelle senza speranza vorrebbero scuotere la tranquillità del mondo sazio, aggredendone la coscienza all’ora di pranzo, e ci riescono, ma alla lunga inducono a pensare che non ci sia nulla da fare, che la povertà sia una condanna biblica ed eterna. Quelle idilliche rispondono alla legge del marketing che impone di non mettere mai a disagio il consumatore (e il donatore è un consumatore di ricompense etiche), ma alla lunga inducono a pensare che tutto sia sotto controllo, ce ogni male sia stato già affrontato e risolto da specialisti che ci dispensano dal preoccuparcene troppo. Oggettivizzazione, vittimizzazione sono pericoli reali nelle immagini della sofferenza. Ma forse non sono la loro vera, fondamentale debolezza, che è un’altra, a mio parere, la seguente. La fotografia della povertà tende a sostituire la povertà con una immagine pellicolare, senza spessore, senza storia, ossia senza le categorie di causaeffetto, di responsabilità, di conseguenza. L’immagine-shock mostra il perseguitato ma raramente il persecutore, lascia solo il benefattore con la vittima, esclude ogni altra cosa o persona, e così quando anche produce empatia nella coscienza impegnata (quella che fu 20 definita la linkemelankolie), resta autoappagante, non riesce a produrre reazioni “politiche”, avendo omesso di indicarne il bersaglio. E qui sta il rischio più forte: un dolore esibito, insopportabile da vedere, ma che sembra dipendere solo da se stesso, assolutizzato, fuori dalla storia, produce in chi lo guarda una reazione di impotenza e di fatalismo: è la sofferenza umana, ce ne dispiace, ma non possiamo farci nulla. E il malessere momentaneo dell’uomo del benessere trova da sé il proprio lenitivo. Aveva ragione l’abbé Pierre, guardando queste immagini, a temere «una società che consuma in fretta l’ostentazione della carità». Ma le immagini di bambini con le mosche, topos di quelle che sir Cecil Beaton, fotografo dandy dotato di coscienza, definiva immagini «senza compassione», continuano ad apparire sui media. È evidente che chiudere gli occhi davanti ad esse, che nella loro impotenza sono pur sempre tracce di una sofferenza reale, sarebbe ancora più ipocrita. Ma dobbiamo anche riconoscere, proclamare, che l’esistenza visibile della miseria non è di per sé un argomento contro la miseria. Le foto di profughi stremati e moribondi riversati dai barconi sulle spiagge dei ricchi fanno dire al leghista di turno «prendeteli a casa con voi». Le fotografie, diceva Virginia Woolf turbata da quelle della guerra, non sono argomentazioni, sono solo grossolane affermazioni di fatto. Non possono essere il punto di arrivo di una coscienza civile, perché la portano nel vicolo cieco dell’autogiustificazione e dell’indifferenza. Guai dunque se pensiamo che le fotografia siano un punto di arrivo, un’arma finale, nella lotta contro la povertà: avranno la funzione opposta, quella di disarmare le coscienze. Ma le fotografie possono essere eccellenti punti di partenza. Ogni fotografia dovrebbe imporci una domanda. Solo se cerchiamo la risposta la fotografia della miseria ha un senso. Bisogna prendere parte, essere coscienti di essere solo una parte, ma una parte in gioco. Bisogna che le fotografie della miseria interpellino un noi e non un io. Nel suo Il contratto civile della fotografia, la studiosa israeliana Ariella Azoulay ha definito i termini di un possibile patto implicito a tre: il fotografo, l’oppresso, il lettore, dove l’immagine fotografica, per mutuo consenso, diventa la condizione di una restituzione della cittadinanza e dei diritti (non di generica «dignità») negati dai poteri. La fotografia, qualsiasi fotografia, anche la più ingenua, anche la più volonterosa e simpatetica, è un atto di potere. Non si può ignorarlo, pena essere prepotenti. Si può cercare, a nostro rischio, di impugnare quel potere per il manico, come uno strumento di lavoro da maneggiare con apposite precauzioni, e non come una bacchetta magica. 21 In fondo non c’è molto in più da dire oltre la saggezza del mio amico fotografo libertario Pino Bertelli: «Hai diritto di guardare un oppresso dall’alto in basso solo quando sei capace di allungargli una mano per rialzarsi». [Questo testo combina i miei appunti per l’incontro La povertà nella fotografia e nel cinema del dopoguerra, per la rassegna Teatri mirabili di povertà, Bologna 7 settembre 2013; e per la conferenza Miserabilismo, lo spettacolo della miseria e l’etica della rappresentazione fotografica, per Foggia Fotografia, 9 novembre 2013 Tag: Abu Ghraib, Aby Warburg, Adolphe Smith, Alphonse Bertillon, Anna Magnani, Antonio Tabucchi, Ariella Azoulay, Blaise Pascal, Don McCullin, Ferdinando Scianna, Friedrich Nietzsche, Fsa, Gustavo Bonaventura, Heinrich Zille, Jacob Riis, Jeanloup Sieff, John Thomson, La Fotografia Artistica, Lewis Hine, Luc Boltanski, Luigi Zampa, miserabilismo, neorealismo, Pathosformel, Philip Gourevitch, Pino Bertelli, povertà, Sebastião Salgado, Susan Sontag, Thomas Annan, Vincenzo Carrese, Virginia Woolf Scritto in fotografia e società, storia, street photography | 24 Commenti » TONI NICOLINI, PASSIONE E IRONIA di Cesare Colombo (presentazione dal catalogo della mostra) Limbiate (1961) Ho conosciuto Toni Nicolini alla fine degli anni Cinquanta. Come me, aveva scelto di lasciare l’uni- versità per fare il fotografo professionista. Milano aveva tempi lunghi, allora. Si andava dai clienti a portare il lavoro fatto, col tram o con la Lambretta.Toni aveva un piccolo studio in via Rossini; la sala posa al piano terra in fondo a un cortile antico, la camera oscura al secondo piano, con accanto un mini alloggio da single.Toni fotografava di continuo delle elaborate composizioni di prodotti farmaceutici; suonava il telefono di sopra e lui correva ansimando a rispondere. Prima di tornare giù guardava l’armadio con le cravatte appese, di pura seta o di lanetta scozzese, e piegava la testa: «Sono belle, ma mi mancano le occasioni per metterle». Nel gruppo di amici si mitizzava la sua amarezza tranquilla, quasi serena. Del servizio militare, a Conegliano Veneto, rie- vocava le difficili istantanee rubate in cucina, con le reclute che rovesciavano grigi pentoloni di pasta, emergendo nel vapore: 22 «Quand’ero di guardia al freddo mi perseguitava l’immagine delle spider ferme alla curva coi ragazzi che portavano a sciare le morose in maglione rosso; io facevo la sentinella, i dannati seguivano gli “itinerari romantici di Grazia”». Avevamo allora la mania dei fotoracconti, immagini in sequenza “poetica”.Toni raccontò la storia di una bambina (la figlia della portinaia) cui il vento ruba per scherzo il pallone; lo scherzo pro- segue in una tempesta sul bosco, con un ritorno del pallone a lieto fine. Ma in seguito l’infanzia venne raccontata con fotogrammi di rabbia:Toni pedinò i nipotini, diabolici gemelli, che si compiacevano nel puntare revolver ad acqua alla testa delle galline.A metà degli anni Sessanta ci tro- vammo a insegnare insieme le tecniche fotografiche ai giovanissimi apprendisti della Società Umanitaria. Anticipando le contestazioni degli anni seguenti, alcuni studenti non si facevano mai vedere alle lezioni. E durante un atroce consiglio degli insegnanti, a gennaio,Toni propose ironicamente di assegnare all’assenteista Matteo G. il premio Nadar Una vita per la fotografia. Incontrai Matteo per caso mentre fumava al Giardino della Guastalla e gli raccontai la cosa. Ascoltò con interesse, concludendo: «Mi piace il professor Nicolini. È flemmatico». Ma a Nicolini trentenne non furono certo i furori sessantottini a far scoprire che il problema di fondo della fotografia (e insieme la misura della creatività personale dei fotografi) sta nel- l’approccio ai soggetti. Dove muoversi, nell’universo sociale e materico che ci circonda appena usciamo di casa, o anche se in casa ci restiamo, o se ci affacciamo alla finestra? Appunto il famoso dilemma, specchi o finestre. Riflettere sul proprio ombelico, fino a trasformarlo nel vortice raffinato di tutte le sensazioni, non solo visive, oppure affacciarsi alla vita degli altri e creare un ponte per la scoperta di valori comuni, forse di idee comuni? Nicolini scoprì il Sud. La Sicilia (ora dimenticata, o rimossa) di Danilo Dolci, puritano sociologo a Partinico, con l’utopia di un intervento su modelli culturali scandinavi. La Calabria, al seguito della frenesia pittorica di Ernesto Treccani: due strumenti in amichevole confronto. Forse furono le cen- tinaia di muretti, attrezzi di braccianti, muli in salita, contorte mani con olive, e ovunque bambini, sui letti, sull’erba, sui banchi... a costringere Toni a fare i conti con l’universo duro delle sembianze: le cor tecce della realtà, che non si modellano cer to secondo il pre-giudizio che abbiamo in testa. Così Nicolini, attraverso memorabili sequenze (per esempio il racconto del flusso migratorio Da Melissa a Valenza, da contadini ad artigiani nella ricca cittadina dell’oro), prende atto della natura multiforme, o ambigua, dell’immagine ottica. Proprio mentre ci si accanisce a capire, a sondare, a descrivere il soggetto questo ricompare sui fotogrammi in modi imprevisti, secondo l’azzardo e le sorprese della vita stessa. Proprio nella scelta della fotografia narrativa o “di re- portage” sta anche, per Toni e per altri suoi colleghi, il tentativo di piegarsi a seguire con im- placabile “freddezza” la grande commedia del mondo.Artisti,e insieme scienziati ricercatori,il loro coinvolgimento non deve mai oltrepassare la soglia della nitidezza di ripresa, della posizione “fisica” funzionale, e anzi deve piegarsi ad accettare le ragioni tecniche del linguaggio fotografico: queste macchine, quelle pellicole, quelle luci, quel mimetismo, quella serie collaudata di punti di vista... Dico questo perché la conoscenza che ho di lui mi permette di capire, credo, quanto la sua complessiva personalità, la logica del suo carattere guidino il suo modo di 23 essere foto- grafo, in qualche modo protagonista e suggeritore di frammenti della storia. Ed è proprio la coincidenza dei due percorsi, quello esistenziale e quello dell’espressione fotografica, che ci consente di valutare l’opera di Nicolini negli ultimi due decenni, quelli della maturità, ove si collocano le sue vicende professionali più importanti. Dal 1970 al 1990 Toni Nicolini realizza per il Touring Club Italiano diversi fotolibri dedicati a Venezia o al Vaticano, a regioni come l’Umbria, il Friuli o la Calabria, a intere nazioni come l’Austria, il Belgio,l’Olanda,il Portogallo.La vicenda foto-editoriale delTCI e la particolare formula produt- tiva delle monografie Attraverso l’Italia e Attraverso l’Europa – che prevedeva mesi interi di viaggio della simbiotica coppia formata da fotografo e redattore – sono state sospese. Ma esse hanno segnato per i protagonisti (e per l’eccezionale, costante udienza di migliaia di soci “lettori” del Touring) una fondamentale esperienza di cultura visiva. Nicolini vi ha inoltre affiancato una produzione continua di opere monografiche sul paesaggio, sull’architettura monumentale, sui musei, anche per altri editori. Ma soprattutto nelle monografie per ilTouring si è impegnata la sua capacità di estendere l’efficacia di un’indagine sociale – senza banalità convenzionali – alla profondità, o solennità, di una narrazione dello spazio e del tempo. Cioè architettura oltre alle persone, vestigia e testimonianze di remote presenze dell’uomo, e gli odierni labili segni nel territorio. Stavolta, alle difficoltà di ordine descrittivo (nulla è complesso come rendere in modo chiaro la profondità, la progressione dei piani, in un’immagine bidimen- sionale) si aggiunge un dilemma che Toni sembra accogliere in misura particolare, come una sfida del proprio mestiere. È cioè possibile far sentire, evidenziando alcuni indizi del presente, anche i dati trascorsi, le tappe del tempo, il fiume della storia ?... Rileggo con emozione oggi – dopo ventun anni – questa parte iniziale del testo scritto perToni nel 1992, come prefazione al suo fotolibro Sono spenti i plotter? edito dall’IBM, che presentava le sue immagini dedicate al rapporto tra l’informatica e l’Università. Nell’occasione, come appare chiaro, io avevo cercato anche i tratti di una vicenda biografica complessa, che in certa misura era coincidente con la mia. Non prevedevo che oggi, ricordare la sua figura attraverso una mostra re- trospettiva avrebbe avuto un senso ben diverso, ben più coinvolgente sul piano umano. Dal 1968 e per i trent’anni seguenti, ho diviso con lui lo studio, gli spazi del nostro lavoro e dei nostri archivi (oltre alla nostra camera oscura) a Milano, in via Vigevano 10. Abbiamo scambiato e messo a con- fronto quotidianamente idee sul linguaggio visivo, opinioni politiche, problemi familiari, provini a contatto, rate di condominio.Toni è stato, e rimane, il mio amico più intimo e grande.Toni ha cercato ogni giorno – durante questi lunghi trent’anni – di collegare alle immagini le ragioni del suo perso- nale impegno nella vita. Le ragioni pretese dal suo carattere. Difendeva le sue idee inflessibili, at- traverso l’estrema mitezza del suo comportamento sociale apprezzata immediatamente da chiunque lo conoscesse. Mitezza e ironia, apparente leggerezza dentro una vera profondità della visione: sono dati leggibili in tutte le immagini qui raccolte. Pur nel forzato limite numerico, esse presentano tutte – mi sembra – dei tratti memorabili... Sono il frutto di una selezione operata da me con la figlia dell’autore, Melissa, che qui vorrei ringraziare per il mix di attenzione critica e coin- volgimento affettivo che è riuscita a sostenere. 24 Peraltro, considero questa breve presentazione, oggi, solo come l’avvio verso un profondo esame critico su tutta l’opera di Toni Nicolini. Sul suo grande archivio che Cristina De Vecchi aveva già in parte indagato con attenzione, e che il CRAF continuerà nei prossimi anni a studiare. ----------------------TONI NICOLINI PASSIONE E IRONIA a cura di Cesare Colombo 6 dicembre 2013 - 18 gennaio 2014 Bel Vedere fotografia via Santa Maria Valle 5 20123 Milano tel+fax 02.6590879 [email protected] www.belvederef Herb, un salto oltre il ritratto di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Herb Ritts, Backflip, Paradise Cove, 1987, © Herb Ritts Foundation, g.c. Che ci fa Djimon Hounsou, l’eroico Cinqué diAmistad, con un polipo calcato in testa come una parrucca? Perché di Demi Moore vediamo solo le spalle nude, tornitissime per la verità? E Liz Taylor, cranio quasi rasato dopo una drammatica operazione al cervello? Ma che razza di ritrattista è questo Herb Ritts? 25 Uno con una sola regola: prima di tuttoricevere un’emozione, oppure costruirla, comunque restituirla. «Credo che la gente vada in cerca di immagini che comunicano sentimenti», mi disse in un’intervista per il Venerdì di Repubblica (la trascrivo qui in coda) poco prima di morire, troppo presto, nel 2002, a soli cinquant’anni. «Posso solo sperare che anche fra molto tempo chi guarda le mie immagini riesca a emozionarsi». Undici anni dopo, dovunque lui sia in questo momento, la robusta retrospettiva dal titolo In piena luce che gli dedica laFondazione Musica di Roma assieme a Fondazione Forma e Ritts Foundation potrà rassicurarlo: sì, ci sei riuscito, a emozionarci. Figlio di un grande mobiliere di Los Angeles, scapestrato con metodo, è stato uno deifotografi glamour più famosi del mondo, con una predilezione per il nudo e un fiuto speciale per le immagini destinate a diventare simboli, emblemi, icone. Ma il suo vero talento sta nell’iniezione di inquietudine e di sconcerto che ha praticato sul corpo levigato della fotografia di moda e di celebrità, rispettandone i crismi più classici (il bianco e nero, la nitidezza assoluta, la stampa perfetta) mentre ne stravolgeva a tutti i livelli la rassicurante funzione: formale, concettuale, sensuale, sessuale. In fondo tutto cominciò irregolarmente. Ritts fu proiettato in orbita nel ’78 da un pneumatico bucato, che lo costrinse a passare un paio d’ore di noia in una stazione di servizio nel deserto californiano assieme al suo compagno di viaggio, che si chiamava, ma non era ancora, Richard Gere, e gli venne di a fargli due scatti così, per divertimento, lui in posa sexy-camp in canottiera e jeans, scatti finiti a razzo su Vanity Fair e Vogue. Poi fu tutta discesa, Michael Jackson e Madonna che non potevano fare a meno di lui, Tina Turner e Clint Eastwood trasfigurati, Armani, Versace, Cartier a rubarselo a colpi di ingaggi strepitosi, e lui che ogni tanto si disingaggiava e se ne andava a far cose sue, come la sua Africa masai, epica e nobile. Di supermodelli ne ha avuti quanti ne ha voluti, ma ha amato solo quelli che «ti danno tutto», come Jack Nicholson di cui, con il solo aiuto di una lente d’ingrandimento, ha preso il ritratto più vero e luciferino; o come Madonna «che ho fotografato tante volte quante sono le sue personalità». [Una versione di questo articolo è apparsa in Le Guide di Repubblica il 7 ottobre 2013] _____________________________________________________________ Tu chiamale, se vuoi, emozioni La mia intervista a Herb Ritts, da Il Venerdì, 2001 26 Herb Ritts, Profilo di Madonna in True Blue, Hollywood, 1986, © Herb Ritts Foundation, g.c. Deserto della Californa, estate del ‘78. Un uomo che sta per diventare Richard Gere lascia Los Angeles sull’auto di un amico. Come in un film, la gomma si buca in mezzo al paesaggio lunare. «Damn…», ma come in un film c’è una decrepita stazione di servizio, dove con infinita calma un meccanico cambierà il pneumatico. L’uomo che non è ancora Richard Gere si rassegna, aspetta, dà un calcio annoiato ai sassi. L’amico ricorda di avere una machina fotografica nel baule. La prende, inquadra,scatta. «Poi ti mando le foto». Stacco. Richard Gere è diventato Richard Gere. Quelle fotografie fatte per noia finiscono su Vanity Fair e Vogue. L’uomo che le ha scattate riceve telefonate di editori: “Ha fatto altre foto così? Vuole lavorare per noi?”. Smette di vendere mobili e si convince che la sua vita è la fotografia. Quell’uomo si chiama Herb Ritts. Oggi ha 48 anni ed è uno dei fotografi glamour più famosi del mondo, con un talento particolare per il nudo e un fiuto speciale per le immagini che possono diventare simboli, emblemi, icone. Calvin Klein, Armani, Versace, Cartier se lo contendono. 27 Lui sempre più spesso si scrittura da solo, per progetti che con la moda hanno ben poco da vedere, come il suo reportage sull’Africa; o per inseguire la sua autentica vocazione, il ritratto. Attori, uomini politici, artisti, amici, top model, rockstar: centinaia di volti e di corpi indagati con sfrontata simpatia e occhio penetrante. Quei ritratti, molti dei quali inediti, saranno presto esposti a Roma. Ne approfittiamo per fargli qualche domanda. Davvero cominciò tutto con una gomma bucata? Lei crede nel caso o nel destino? «Penso che prima o poi dovesse accadere. Credo di avere sempre avuto una sensibilità per le immagini, ma allora non stavo certo pensando a farne il mio mestiere. Avevo una macchina fotografica, guardai dentro il mirino e cominciai a comporre un’immagine. Tutto qui. Quelle foto di Richard furono più un’occasione che un caso». Dunque la fotografia è venuta a cercarla. Poi, per 25 anni, lei ha cercato la fotografia. Ovunque: dal glamour delle sfilate all’Africa che ha fame. Perché questa irrequietezza? Cosa sta cercando ? «Mi piace mescolare le cose, passare dal fascino dell’eleganza agli aspetti più crudi della vita. Non mi interessa se sto fotografando una celebrità o uno sconosciuto: quel che cerco è un’emozione. Il progetto Africa è stata una grande esperienza». Lei ha girato spot pubblicitari e videoclip per star del rock, vorrebbe fare il regista di un film. Dirà addio alla fotografia? «La fotografia sarà sempre il mio primo strumento. La sento vicina, anche se mi piace girare video e spot. Credo che lavorare con diversi tipi di immagine possa ampliare la visione del fotografo. D’altra parte, il mio stile di fotografia si traduce benissimo in video…». E se fosse la fotografia ad abbandonare lei? Nell’era digitale resta ben poco della fotografia che conoscevamo… «Non credo assolutamente che la fotografia sia morta. Trovo stimolanti le possibilità offerte dall’elaborazione digitale. Credo che la gente vada in cerca di immagini che comunicano sentimenti: e le foto digitali sono spesso più forti e reali di quelle tradizionali». Nelle sue fotografie di moda, la fotografia sembra più importante della moda. Ma Versace o Armani non la ingaggiano per vendere i loro abiti? «Io cerco di creare un’immagine che mi soddisfi, che mi dia qualcosa. I vestiti hanno un ruolo importante in questo processo. E un’immagine interessante aiuta sempre a vendere un vestito». 28 Helmut Newton ama dire: «Sono un voyeur. Se un fotografo dice di non esserlo, mente». Lei tratta il nudo con raffinata sensualità. Si sente un voyeur? «No, proprio no. Per me il nudo è solo un pretesto per creare una forma che catturi un’emozione». Nei suoi ritratti di artisti, invece, cosa cerca? Sembra che le piaccia stravolgerne l’immagine… Ricordo una Demi Moore di spalle, rasata, simile a un lottatore, non certo il sex-symbol che tutti conoscono… «Ho ritratto Demi mentre girava un film in cui appariva con la testa rasata. Mi piaceva fotografarla proprio così. Forte e naturale, senza trucco». A volte lei si concentra sul corpo, a volte sul viso. Dove si nasconde la personalità? «Non c’è una regola. Dipende dalla persona che hai davanti». Allora facciamo un esempio: Madonna. L’ha ritratta decine di volte, in modo sempre diverso: vamp, aggressiva, bambina, Minnie… Pensa di averne catturato la personalità? «Sono straordinariamente colpito da Madonna. Le ho fatto molti ritratti per cercare di fermare le sue diverse identità. Non finge: ogni sua incarnazione riflette come si sente in quel preciso momento. Le piace recitare ruoli differenti: è una grande artista». Che genere di persone le piace di più fotografare: politici, attori, rockstar, modelle? «I politici hanno sempre poco tempo. Con loro devi decidere e scattare molto in fretta. Invece attori come Jack Nicholson o musicisti come Madonna ti danno tutto, sono eccezionali per lavorarci insieme. Ti buttano addosso un’energia fenomenale, amano l’obbiettivo. Ho passato straordinarie giornate con loro». Ma in generale cos’è una seduta di ritratto: una lotta o un duetto d’amore? «Quello che conta è creare un’atmosfera rilassata. Se c’è conflitto non otterrai mai lo scatto che cerchi». Negli anni Trenta il fotografo tedesco August Sander volle tramandare con migliaia di ritratti il «volto del tempo». Fra settant’anni saranno i suoi ritratti a restituire il volto del nostro? «Posso solo sperare che anche fra molto tempo chi guarda le mie immagini riesca a emozionarsi. In fondo, che tu fotografi persone famose o no, stai sempre cercando l’anima dell’uomo. Sì, sarebbe bello che le mie foto evocassero un giorno le stesse emozioni che quelle di Sander evocano in me». Tag: Amistad, August Sander, Calvin Klein, Cartier, Clint Eastwood, Demi Moore, Djimon Hounsou,Giorgio Armani, Herb Ritts, Jack Nicholson, Liz Taylor, Madonna, Richard Gere, Tina Turner, Vainty Fair, Versace, Vogue Scritto in Autori, ritratto, Venerati maestri | 31 Commenti » 29 Al via il concorso fotografico ‘Leica Oskar Barnack Award’ da http://www.mi-lorenteggio.com/ Leica – storico brand tedesco di fotocamere digitali e ottiche di precisione, nell’anno del suo centenario rinnova l’appuntamento con il ‘Leica Oskar Barnack Award’, l’annuale concorso fotografico aperto a tutti i fotografi professionisti. Il contest, nato nel 1979, è intitolato a Oskar Barnack, pioniere della fotografia che nel 1914 costruì la prima Ur–Leica. Fin da allora il concorso ha assunto grande prestigio rinnovandosi di anno in anno. L’edizione 2014 prevede infatti grandi novità: un riconoscimento in denaro per il vincitore - 10.000 euro, il doppio rispetto alle passate edizioni - e una leggendaria fotocamera Leica M con obiettivo, per un valore complessivo di ulteriori 10.000 euro. Il vincitore della sezione principianti invece, di età inferiore ai 25 anni, riceverà un premio in denaro di 5.000 euro e una fotocamera Leica a telemetro, anch’essa completa di obiettivo. I progetti presentati nell’ambito del concorso saranno valutati attentamente da una giuria internazionale composta da cinque esperti che giudicheranno la capacità di osservazione dei fotografi e il loro talento nell’esprimere al meglio “l’interazione tra l’uomo e l’ambiente”. La giuria di qualità sarà così composta: Karin Rehn-Kaufmann, direttore generale di Leica Galleries International, Ingo Taubhorn, curatore capo della Haus der Photographie (Deichtorhallen, Amburgo), Xavier Canonne, direttore del Musée de la Photographie (Charleroi, Belgio), Brigitte Schaller, Art Director della rivista LFI e, infine, Evgenia Arbugaeva, fotografa russa vincitrice del ‘Leica Oskar Barnack Award’ 2013. Per partecipare al ‘Leica Oskar Barnack Award’ 2014 basta accedere al sito ufficiale dell’iniziativa www.leica-oskar-barnack-award.com e caricare i propri scatti fotografici entro e non oltre il prossimo 31 gennaio. 30 La consegna dei premi e l’annuncio del vincitore avverranno poi nel corso del Festival della fotografia Rencontres Internationales de la Photographie, che si terrà ad Arles, dal 7 al 13 luglio 2014. Tra le novità di quest’anno anche l’introduzione di un riconoscimento pubblico: da marzo, infatti, su www.i-shot-it.com - la piattaforma online dedicata ai concorsi fotografici - sarà possibile votare pubblicamente il progetto preferito. Il premio di 2.500 euro in contanti andrà al più votato, mentre per gli altri partecipanti saranno estratte a sorte alcune fotocamere digitali compatte Leica. I termini e le condizioni di partecipazione, i moduli di iscrizione e ulteriori dettagli sul ‘Leica Oskar Barnack Award’ 2014 si possono trovare alla pagina web www.leica-oskar-barnack-award.com Intrepido, tremebondo, visagista, dialettico o solo utile? di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Fabio Bucciarelli, Battle to Death, Aleppo, Siria, 2012 © Fabio Bucciarelli, premio Ponchielli 2013, courtesy Grin Critico e docente, amico e collaboratore di Sebastião Salgado e di molti altri grandi reporter, Fred Ritchin nel suorecentissimo Bending the Frame propone una distinzione, storica professionale ed etica, fra il il “fotografo intrepido” e il “fotografo dialettico”. Il “fotografo intrepido” è quello che abbiamo conosciuto nel nostro corto Novecento: un professionista della visione col mandato di portare a casa tutto quel che c’è da vedere. Unico fornitore autorizzato di conoscenza visuale degli eventi, finestra sul mondo per chi resta nel salotto di casa. Secondo la mission dettata da Henry 31 Luce a Life, «To see life; to see the world; to eyewitness great events; to watch the faces of the poor and the gestures of the proud». Un crac non troppo imprevedibile ha schiantato questo modello alla fine del secolo scorso. Fronteggiata con perdite negli anni Sessanta la concorrenza della televisione, il fotografo intrepido ha ceduto le armi davanti all’ubiquità della fotografia condivisa sulla Rete. Al suo posto, rimane precario e frustrato un fotografo tremebondo. La sua esistenza è dominata da tre grandi paure, le elenca Ritchin, ma nel piccolo del mio blog le ho toccate inevitabilemente una dopo l’altra, rendendomi conto di quanto siano scoperti i nervi: la caduta verticale delle remunerazioni; la concorrenza “sleale” dei non-professionisti; la violazione sistematica del copyright. Tre cose diverse con un comune denominatore: la crisi quasi irreversibile, perchè è una crisi di fiducia, del rapporto con i mainstream media. In questo caso la parola “divorzio” è più che una metafora, perché il fenomeno a cui stiamo assitendo è la vera fine di unménage, la fine di un amore, con rinfacci di colpe e tradimenti, la separazione non consensuale, il problema di dove mettere i figli, il problema degli alimenti. I fotoreporter nei panni della moglie tradita rispondono con le comuni strategie dell’orgoglio ferito: cercano altre relazioni, provano a rifarsi una vita da soli. Il fotografo si fa battitore libero su “progetti” personali, cerca da sé finanziatori, si inventa spazi per produrre e canali per raggiungere i suoi lettori. Di tutto ciò abbiamo peraltro bellissimi esempi, perfino entusiasmanti. Ma al di là dei successi o degli insuccessi, questa strategia ha un risvolto rilevante: cambia l’atteggiamento del fotografo rispetto alla mission del suo mestiere, cambia la percezione del suo ruolo nel sistema dell’informazione, che si fa più individuale, soggettivo, parziale. Certo il reporter fotografo ha sempre posseduto e spesso esibito un punto di vista. Ma se lo è sempre giocato all’interno di una filiera dell’informazione, dove il suo prodotto doveva necessariamente essere mediato con il lavoro di altri, con il canale, lo staff del giornale, l’editor, l’agenzia. Solo davanti al computer (e qui anche i generosi tentativi dei collettivi fotogiornalistici non cambiano sostanzialmente la questione), con i libri che si autoproduce on demand, sta in un rapporto sempre meno mediato col lettore che a sua volta è per lui sempre più generico e difficile da immaginare. Il fotografo ora è programmaticamente un autore (colui che crea) più che un reporter(colui che “porta a casa”), un commentatore più che un fornitore di “materia prima semilavorata”, un osservatore del mondo più che un comunicatore. 32 Il suo lavoro di prelievo primario e di prima elaborazione lascia il posto a un lavoro di secondo grado, analitico e autoriflessivo. Vediamo sempre più servizi che ci parlano prima di tutto del modo e delle condizioni in cui sono stati prodotti, è sempre più evidente e invadente la presenza dell’autore che mostra se stesso mentre osserva il mondo. Il fotografo giornalista impercettibilmente scavalca la frontiera, passa dalla parte di quelli che guardano e giudicano le visioni, non di quelli che le producono e le sottopongono a giudizio. Questa tendenza sembra fare da specchio e contrappeso a quella, altrettanto imponente, dell’assottigliamento delle barriere fra giornalista e lettore, tra produttore e consumatore di informazione, fra comunicazione selezionata e gerarchizzata (informazione) e non selezionata e non gerarchizzata (condivisione), distinzioni sempre più labili nell’ambiente digitale, riassunte dall’(orribile) neologismo prosumer. Un grande fotogiornalista italiano, Federico Patellani, nel dopoguerra rispose allo spaesamento dei suoi colleghi usciti da vent’anni di regime tracciando il profilo di un”fotogiornalista nuova formula”. Temo che il “giornalista nuovissima formula” che emerge oggi, senza grandi teorizzazioni, sia il contraltare simmetrico del prosumer. Storditi da un disagio ben visibile, diorientati da una crisi che li lascia senza mercato, senza committenti e quindi anche senza mission, i professionisti della visione si interrogano sulla necessità di trovare nuovi linguaggi, scrutano con interesse, anche invidia, i linguaggi della fotografia ubiqua e portatile, percepiti come più freschi, comunicativi, interessanti, cercano di farli propri (iPhonejournalism, giornalismo Instagram,blogging journalism ecc.) spesso più con appropriazioni formali che con vera comprensione del loro successo. Alcuni invece cercauno una via di fuga in direzione opposta. Provano a ritirarsi “al piano di sopra”, facendosi registi di un remix (mutuando pratiche dal campo artistico: appropriazione, mash-up, rimediatizzazione, archive art) di materiali visuali trovati in Rete e riorganizzati. L’informazione è sempre riorganizzazione, ma qui l’ottica non è quella del filtro analitico, del factchecking, dell’editor giornalistico, ma una modalità di tipo emotivo, creativo, artistico appunto. Da qui il passo è breve, per il fotogiornalista, verso il trasloco armi e bagagli nel sistema dell’arte e nei suoi meccanismi di condivisione e di mercato; un caldo rifugio che magari non mantiene, ma di sicuro attualmente sembra promettere di più del sistema dei media. Questo trasloco ovviamente non è senza conseguenze sul piano delle strategie comunicarive, dei linguaggi, del prodotto finale. Quel che rischia di perdersi per la strada è la mission del fotogiornalista come è stata finora intesa, e a mio modestissimo parere è ancora: la testimonianza professionale di eventi e processi storici colti nel corso del loro 33 dispiegarsi, fondata sulla ricerca e sul prelievo di indizi, informazioni sul campo, poi sulla loro trasmissione selezionata alla comunità che li attende per assumerli, interrogarli in funzione della costruzione di opinioni personali e di decisioni civili. Bene, la vera torsione del fotogiornalismo, il suo vero e per me pericoloso allontanamento da questa missione, oggi non sta tanto nella menzogna conclamata, nella finzione, nella tendenziosità truffaldina. Sono rari i fotogiornalisti che incollano, cancellano, organizzano dettagli, stravolgono il testo del prelievo originario per accrditare una falsa versione dei fatti. È molto più dilagante e sottile, in una situazione di fortissima concorrenza e di riduzione dei canali, la tentazione di forzare le immagini pigiando sul pedale emotivo, stilistico, impressionistico, di alterare la superficie delle immagini per renderle capaci di “bucare” l’accesso sempre più difficile alla visibilità (e qui il ruolo dei premi fotogiornalistici è stato spesso esiziale nell’incoraggiare questa tendenza). Alessandro Scotti, da Maps of Illicit Drugs Routes and Trends, premio Ponchielli 2004, © Alessandro Scotti, courtesy Grin Il fotogiornalismo attuale è invaso da immagini che con una metafora da camera oscura definirei “bruciate”, lasciate troppo nel bagno rivelatore, caricate di troppe connotazioni tonali, coloristiche, decoloristiche, usate come attrattori visuali, dadi di glutammato per un brodo che si teme poco saporito, o come piumaggi pittorici, livree seduttive battere i rivali nell’accoppiamento don il media, sono immagini che gridano “Guarda me! Scegli me!”. Sono immagini dove la connotazioneprevale ed emargina la denotazione (senza denotazione non c’è giornalismo) che tendono prima o poi a scavalcare il confine (sfumato, ma esistente) fra news e fiction, che scelgono la costruzione a danno del “riportaggo”, che in definitiva puntano la prua oltre i confini del giornalismo. 34 Qui la tecnologia digitale non è la grande colpevole. È solo la grande facilitatrice. Di per sé, e di nuovo vi invito a leggere nel libro di Ritchin una lunga serie di esempi davvero sorprendenti, la miracolosa verabilità dell’oggetto elettronico può fornire al “fotogiornalista nuovissima formula” opportunità entusiasmanti per andare oltre la tradizione senza uscire dal giornalismo. E invece la tecnologia digitale viene sfruttata troppo spesso solo come trousse da trucco, come un bel set di vaschette pennelli e spazzolini da makeup emotivo cattura-sguardi, che seppellisono il prelievo primario sotto un cerone levigato, una crosta che abolisce le imperfezioni, maschera i nei della realtà (che spesso sono complessità e fertili contraddizioni), sempre più compatta, sempre meno dialettica. Il lettore di queste fotografie viene lasciato senza appigli, senza fessure attraverso cui entrare nell’immagine, interrogarla, smontarla, farla propria. Da queste immagini senza ingressi, tutte sulla superficie (e dunque superficiali) il lettore viene messo di fronte a un brusco prendi-o-lascia, libero solo di esclamare “oooh hai visto questa!”, e girare pagina. Allora, viva le immagini imperfette e irrisolte, viva le immagini che resistono al primo sguardo, che non fingono di parlare da sole, viva le immagini dialettiche. Ecco, dopo il fotografo intrepido, al posto del fotografo tremebondo, invece del fotografo visagista io metterei il fotografo dialettico, come lo chiama Ritchin, più semplicemente il fotografo “utile”. Utile a chi? Ma santo cielo, agli altri, scusate se lo dico alla papa Bergoglio: ai suoi fratelli umani. Alla società democratica, se volete che lo dica in termini più tradizionalmente laici. E la società democratica delle immagini non è quel vaso di Pandora che è il Web. È fragile, questa presunta generosità della Rete. Direbbe Massimo Troisi, siete milioni a scattare e io sono da solo a guardare…. E infatti la censura per sovrabbondanza è già all’opera. Nessuno di noi può materialmente non dico vedere e selezionare, ma neppure venire a conoscenza di tutte le immagini teoricamente a sua disposizione su un argomento che gli interessa. Chi cerca, si fermerà alle prime che trova, ovvero a quelle che sanno farsi strada meglio nella giungla smisurata dei byte, ovvero ai canali più aggressivi, ma crederà, perché digitare qualche parolina su Google gli dà questa sensazione, di avere fatto una ricerca libera e di avere trovato da solo le informazioni invece di farsele selezionare da qualcun altro. Mi stupisce che ci siano così poche reazioni critiche a questo plateale rovesciamento drammatico della verità delle cose. La presenza di mediatori professionali dell’informazione (di molti mediatori, perchéil pluralismo è la ovvia garanzia di democrazia, ma devono essere mediatori riconoscibili, 35 responsabili, identificabili) è una garanzia, non una minaccia alla democrazia dell’informazione. Ma qui ci allontaniamo dall’argomento. Fermiamoci al mestiere del fotoreporter: allora dico, se me lo eprmettete: nervi saldi, nessun complesso di inferiorità o di marginalità, nessuna rincorsa alle mode visuali facili, cercate di riprendere in mano quel che solo un professionista dell’informazione visuale può dare, e di darlo usando ciò che di meglio e di rivoluzionario offrono i nuovi strumenti. La tecnologia non vi regala solo una versione elettronica dei pennelli di ritocco per diventare pittogiornsalisti, col rischio di non essere molto più credibili di Giotto quando dipinge il suo reportage sulla vita di San Francesco… Offre strumenti di connessione orizzontale, feedback, iperlinkaggio con altri contenuti di diversa natura, che il fotoreporter del nuovo millennio deve saper usare. Dà strumenti di comunicazione, scambio e condivisione con il lettore, vostro partner non vostro cliente, perché accetta un nuovo patto con il mediatore, una divisione del lavoro: tu prelevi, selezioni, metti in forma un complesso visuale che mi segnala la presenza di qualcosa: io mi prendo il compito di interrogare il tuo messaggio, metterlo alla prova di altri messaggi, al fine di trarne elementi per agire come cittadino decisore informato. A un mito bisogna rinunciare di sicuro: non siete più cavalieri di ventura, magnifici e solitari, che percorrono il mondo a cavallo di un nerissimo 35 millimetri liberando donzelle e uccidendo draghi in singolar tenzone. La scena dell’informazione è sempre stata un’opera collettiva come un set cinematografico. Ma ora è anche condivisa e interattiva come una performance del Living Theater. Il lector è in fabula, ma anche lui può sbagliare misura, rischio è che si illuda di poter restare solo in campo, dominus assoluto dell’informazione: per il suo bene, il fotografo deve restarci e impedirglielo. Ma deve rinunciare a qualche scudo istoriato, a qualche cavallo bianco, e reinterpretarsi come il funzionario intelligente, attrezzato, modesto e capace di una collettività informata. [Appunti per l'introduzione alla Lectio magistralis di Giovanna Calvenzi su 10 anni dipremio Ponchielli - Grin, presso la Triennale di Milano, 14 novembre 2013, a cura diAfip e Cna Professioni] Tag: concorsi, Federico Patellani, fotogiornalismo, Fred Ritchin, Henry Luce, Massimo Troisi, media,premi, Sebastião Salgado Scritto in fotogiornalismo, Immagine e Internet | 54 Commenti » 36 Artuner, la fotografia dalla A alla Z di Domenico Quaranta da http://www.businesspeople.it/ opere di Luigi Ghirri Fra i più grandi maestri della fotografia del secondo Novecento,Luigi Ghirri (1943 – 1992) inizia oggi a essere considerato uno dei più grandi artisti italiani tout-court. Chiusa l’antologica dedicatagli dal MAXXI di Roma, e dopo il tributo fatto dal Padiglione Italiano alla Biennale di Venezia, il modo migliore per apprezzarne il lavoro resta, fino al 31 dicembre, la mostra An Italian Journey: Modern and Vintage Prints by Luigi Ghirri. Per visitarla non bisogna intraprendere lunghi viaggi: basta aprire il proprio browser e digitare l’indirizzo www.artuner.com. Lanciato a metà ottobre, Artuner è la creatura di un giovane fresco di madister alla London School of Economics (dove il progetto è stato elaborato). Ma l’età non deve ingannare: perché Eugenio Re Rebaudengo il collezionismo ce l’ha nel sangue, e se come imprenditore è agli esordi, nel mondo dell’arte è già accreditato dalla sua presenza in diversi board e iniziative. 37 Eugenio Re Rebaudengo eredita la passione per l’arte dalla madre Patrizia, grande collezionista e madrina della fondazione piemontese (con sedi a Torino e a Guarene d’Alba) che da lei prende il nome. Membro del cda della Fondazione dal 2008, Eugenio parte da Londra con Artuner, insieme a un giovane team internazionale Artuner potrebbe essere confuso con un sito d’aste o una galleria on line, se non fosse che il termine “buy” compare solo nella quinta riga della sua pagina di presentazione, preceduto da espressioni come “mostre curate con competenza”, “intima esperienza visiva”, “lavori di qualità museale”, “testimonianze di esperti”. «Il vero valore aggiunto è il forte taglio curatoriale », spiega Re Rebaudengo. «Non vuole essere un aggregatore passivo dove mostrare le opere disponibili o i magazzini invenduti delle gallerie. Con Artuner si vuole offrire una piattaforma proattiva che proponga con attenzione un limitato numero di opere». La scelta di Internet va nella direzione di aprire l’arte contemporanea a un collezionismo nuovo, interessato ma magari intimidito dalle dinamiche del mondo dell’arte. «Vedo nella Rete una grande opportunità di realizzare qualcosa di davvero innovativo, presentando opere e sviluppando contenuti esclusivi in modo aperto e rivolgendomi a un pubblico vasto e internazionale ». Da qui, anche una forte impostazione educativa: «Acquistare arte può essere un’esperienza che intimidisce e complessa. Per questo motivo l’offerta di contenuti educativi, chiamati Insights, è parte integrante e fondamentale in Artuner. Non vuole offrire solo accesso all’acquisto di opere, ma aiutare il collezionista nella conoscenza dell’artista e delle mostre sul sito. Inoltre, grazie alla collaborazione con esperti, offre consigli utili per il collezionista, da come incorniciare le opere al corretto modo di appenderle». E a chi pensasse che Internet aumenti la distanza tra la galleria e il suo pubblico, Re Rebaudengo risponde: «Anche sviluppando un sito on line, continuo a credere nell’importanza delle relazioni personali: per questo io e il mio team siamo sempre a disposizione per dialogare e consigliare direttamente chiunque ci contatti». Una scelta di personalizzazione che condiziona anche la selezione proposta: «Tenderò a suggerire su Artuner artisti che seguo anche a livello personale e che, quindi, potrebbero essere presenti o entrare nella collezione di famiglia. Mi sembra una dimostrazione di grande serietà verso il nostro pubblico». E chi non fosse interessato alla fotografia è invitato a tornare su Artuner a gennaio: «La seconda selezione che presenteremo sarà costituita da giovani pittori internazionali che si stanno già affermando sul mercato internazionale ». È proprio il caso di dirlo: Stay tuned! Nata a Torino nel 1995, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è oggi una delle istituzioni più attive, vitali e internazionali della scena italiana dell’arte contemporanea. In questi giorni presenta Soft Pictures, una collettiva dedicata all’uso dei mezzi tessili nell’arte (fino al 23 marzo 2014) e due progetti sperimentali: Veerle, una “mostra di mostre” in costante evoluzione; e A Linking Park, una selezione di contenuti on line accessibili tramite smartphone fotografando i codici installati sulla facciata della fondazione (fino al 12 gennaio). 38 Questo vuoto è troppo pieno di Michele Smargiassi da http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/ La fotografia vincitrice del concorso “Il racconto dell’assenza”, di Sergio Cuvato Una panchina vuota. Un lontano orizzonte marino. Meglio ancora: una panchina vuota davanti a un lontano orizzonte marino. Equivalenti visuali del nulla, sono queste, quasi a pari merito, le due “immagini dell’assenza” più evocate tra le oltrequattromila ricevute sul nostro sito Web da voi, lettorifotografi di Repubblica. Lo ammettiamo, non era facile. La sfida che repubblica.it vi ha proposto in occasione del Festival Fotografia di Roma che quest’anno aveva per tema, appunto, l’assenza, la latinaVacatio, è la missione impossibile del fotografo. Non si può fotografare il nulla. Il fotografo che volesse, come il pittore, lasciare la sua tela in bianco, dovrebbe negare se stesso, rifiutarsi di premere il pulsante dell’otturatore. Ma se scatta, allora davanti al suo obiettivo c’è inevitabilmente qualcosa. Dunque il vuoto in una fotografia non è mai il nulla. Chi vuole fotografare il vuoto, deve farlo per metafore, mettendo in posa oggetti “pieni di vuoto”. La vostra inventiva di fotolettori è stata generosa. Il trionfo, prevedibile, di sedie, poltrone e panchine disabitate non ha escluso la ricerca di immagini via via più ardite, avete cercato il vuoto nelle case abbandonate, nei campi non coltivati, nelle strade spopolate, nei binari morti, nei letti sfatti e vuoti, ma anche negli sguardi che chiamiamo appunto “vuoti” (pochi cimiteri per fortuna: troppo ovivio), nei gesti senza risposta, negli oggetti orfani, nei giochi abbandonati su una spiaggia, nell’assenza di bello dei luoghi degradati, nell’assenza di diritti di un disoccupato o di un barbone, nella solitudine di un 39 immigrato che nessuno guarda sulla banchina della metro, foto che mi permetto di segnalare, anche se non era fra le finaliste, come abusivo e infruttuoso “premio speciale di Fotocrazia”. Fotografia di Francesco Lo Sapio, Parigi Assenza, dunque, per voi, è qualcosa che è stato tolto,che manca all’appello, privazione, furto, abbandono, menomazione e rimpianto. E questa, in fondo, non è altro che la bisecolare ossessione della fotografia, la sua ansia di conservare quel che inizierà a scomparire un attimo dopo lo scatto, la sua frenesia di catturare il transitorio e renderlo immortale: la sua prometeica battaglia contro la morte. Ma c’è un’altra assenza, uguale e contraria, che la fotografia ha coltivato come sua specialità. La sfida alla realtà, il desiderio di produrre quel che non c’è o che non si riesce a vedere. Visioni rarefatte e libere dall’eccessiva, fastidiosa materialità delle cose. Già a metà Ottocento, le essenzialissime “marine” di Gustave Le Gray furono il segno di questa ribellione, poi fu la scuola americana di metà Novecento a mirare al bersaglio che non c’è: con l’impossibile fotografia astratta di Minor White o Paul Caponigro, con i paesaggi prosciugati di Lewis Baltz. La “sprezzatura”, del resto, il “lavoro in togliere”, fu una specialità dei primi artisti “autori”, i pittori del Rinascimento. E anche voi avete esplorato il terreno delle immagini desideranti, vuote perché pure, i paesaggi incontaminati, gli animali privi di cultura. Un tinello senza tivù e con un fiore nella bottiglia: desiderio di downgrading della civiltà dei consumi, foto della decrescita felice. Il vuoto come attesa, come speranza di migliori pieni. Il peluche in paziente attesa sul letto di un bambino. Il vuoto come opportunità, non perdita 40 ma ricerca. Ecco allora la vostra seconda metafora fortunata, il molo: un sentiero umano che si protende sul luogo più vuoto, dis-orientato e suggestivo che esista sulla faccia della terra: il mare. Ma se la fotografia, arte dell’esistenza, riesce così bene a fare i conti con la mancanza, allora forse non bisognava cercare così lontano l’oggetto perfetto per raffigurare l’assenza. Eccolo nelle mani di una donna che mostra la foto della figlia lontana. Bastava dunque fotografare una fotografia. Perché la fotografia, prima ancora di raffigurare l’assenza, è, ed è sempre stata, l’Assenza fatta immagine. [Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 9 dicembre 2013] Tag: assenza, fotografia, Fotografia Festival, Gustave Le Gray, Minor White, Paul Caponigro,sprezzatura, vacatio, vuoto Scritto in Da vedere, fotoamatori, fotografia e società, premi | 31 Commenti » Camera, Martinez e i Grandi della fotografia Camera 1953/1964, gli anni di Romeo Martinez in mostra a Venezia di Matteo dell'Ava da http://www.vogue.it/ novembre 1954. Foto di Werner Bischof. Photo courtesy Press Offic Catalogo della II Biennale Internazionale della Fotografia, Venezia 1959. foto di Arik Nepo. Photo courtesy Press Office Camera, aprile 1959. Foto di Bruce Davidson. Photo courtesy Press Office 41 Camera, maggio 1957. Biennale Venezia, Esposizione Vogue. Photo courtesy Press Office Camera, novembre 1959. Foto di Richard Avedon. Photo courtesy Press Office Chissà cosa direbbe Romeo Martinez di Instagram, dei selfie e della facilità di immortalare ogni momento con l’obiettivo di uno smartphone. Non lo sapremo mai, ma probabilmente il direttore di Camera, dal ’53 al ’64, sarebbe pazzo di gioia. A mostrarci una parte del suo appassionato lavoro di ricerca iconografica sono la Dottoressa Francesca Dolzani e Silvio Fuso, curatori della mostra Camera 1953/1964. In quegl’anni, il periodico svizzero (edito da Carl-Josef Bucher) attraverso il lavoro appassionato di Romeo Martinez lanciò decine di giovani fotografi passati oggi alla storia, spinse con forza il dialogo tra immagine e osservatore, dettò o meglio evidenziò i nuovi linguaggi della fotografia applicati ad ambiti, al tempo, non usuali come i servizi di moda, i reportage industriali o quelli scientifici. La fotografia era per Martinez lo specchio del mondo contemporaneo, e il fotografo doveva fungere da cassa di risonanza. Per questo, il direttore di origine spagnola e curatore delle Biennali Internazionali di Fotografia di Venezia cercò di elevare la professione di fotografo da semplice operatore al rango d’autore. A 50 anni dalla direzione di Martinez, Ca’Pesaro, con le sue due sale, le cinquanta copertine di Camera, gli 80 volumi de I Grandi Fotografi (edito insieme a Bryn Campbell per Fabbri), le centinaia di immagini private cerca di imprimere il giusto ricordo al lavoro di colui che ha raccontato ed è stato profeta della fotografia internazionale. Due curiosità. La 1a Biennale Internazionale di Fotografia del 1957 era proprio legata al lavoro dei fotografi di Vogue di cui abbiamo un’immagine. La rivista svizzera Camera uscì con l’ultimo numero nel 1981, ma da un anno l’editore francese Bruno Bonnabry-Duval ha voluto rieditarla. Il numero 42 di Febbraio ospiterà proprio Romeo Martinez attraverso le parole del nuovo direttore Allan Porter. La mostra sarà aperta al pubblico dal 12 dicembre al 16 febbraio 2014 presso Ca' Pesaro, la Galleria Internazionale d'Arte Moderna di Venezia. Fotografate ora, fotografate tutto di Michele Smargiassi da http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/ Foto: Ap C’è una buona notizia fra le pessime notizie che vengono dalla Spagna. A volte capita. Le pessime notizie riguardano il progetto di legge sull’ordine pubblico che il governo conservatore di Mariano Rajoy sta mettendo a punto e che, a quanto pare, darebbe alla polizia un potere repressivo sulle manifestazioni di piazza pressoché incondizionato. Vi consiglio di leggere quel che ne pensa lo nell’articolo uscito ieri su La Repubblica. scrittore Javier Marías La buona notizia, paradossalmente, è che questa legge se la prende anche con le fotografie. Buona notizia perché è un’ammissione di debolezza, e suggerisce una risposta. Sarà dunque vietato, a quanto è dato leggere, durante le manifestazioni e i cortei, prendere e diffondere immagini di poliziotti “che prefigurino rischi di qualsiasi genere per la sicurezza”. Se non bastasse quel “qualsiasi genere” a rendere assoluto il divieto, la futura legge a quanto pare prevederà che a decidere sul campo ciò che costituisce “rischio per la sicurezza” siano i poliziotti stessi, alle cui deposizioni verrebbe applicato il principio della “presunzione di verità”. Insomma, se un poliziotto ti accusa, sarai tu a dover mostrare le prove che sei innocente. 43 Ma spesso, se non prove, almeno buoni indizi di innocenza per un manifestante trattato ingiustamente sono appunto una fotografia o un video presi dai manifestanti con i cellulari. E dunque la legge spagnola in gestazione si avvita su se stessa come il Comma 22. Cos’è allora che trovo paradossalmente confortante? Che il potere abbia paura delle fotografie. Il miglior complimento involontario che i repressori possano fare alla fotografia è proprio il tentativo di metterle un paraocchi. Ed è anche la più limpida smentita alle annoiate dichiarazioni di morte presunta delle funzioni sociali della fotografia, della sua utilità democratica, e dello stesso legame fra la fotografia e la realtà. Rajoy seppellisce gli epigoni stanchi di Baudrillard. Fossimo davvero soltanto in mezzo ai simulacri, non ci sarebbe bisogno di quell’articolo di legge. Dunque, la morale che viene dalla Spagna, ed è valida ovunque, è chiara e semplice: se scendete in piazza per le vostre buone ragioni, se scendete in piazza senza nulla da nascondere, mettendoci la faccia, fotografate e dimostratelo. Qualunque legge sia allestita allo scopo di impedirvelo, le sarà sempre materialmente impossibile evitare che centinaia, migliaia di persone, ciascuna delle quali ha un fotofonino in tasca, lo adoperino. Fotografate dunque, fotografate tutto quello che pensate sia il caso di fotografare, e magari anche qualcosa in più. Tanto lo fate già, anche quando non è necessario e anzi è irritante (ai concerti, a tavola…). Bene, almeno per una volta guardare la realtà attraverso un display avrà un senso. Se non volete fotografare tutti, è importante che almeno qualcuno lo faccia, e lo sappia fare. Si può anche, nel caso, imparare a farlo meglio. Fotografate perché la fotografia è un paese di cui siete cittadini per nascita, di cui nessuno può ritirarvi il passaporto. Fotografate per rivendicare e difendere questa cittadinanza. Ma fotografate anche sapendo che fotografando esercitate anche voi un potere: assumetevene la responsabilità. Fotografate sapendo che fotografare non basterà, che una fotografia non è mai una prova, che le fotografie non hanno un senso univoco, che il senso di una immagine è sempre negoziato in un dialogo o in un conflitto, che quel senso dipende dal contesto in cui la foto verrà guardata, che un framing autoritario o prepotente può riuscire a stravolgerne il significato apparente. Fotografate mettendo nel conto il rischio che le vostre fotografie vi tradiscano, che vi sfuggano dalle mani, che vengano usate contro di voi. Preparatevi a sostenere le vostre ragioni, se ne avete, anche senza, e anche 44 contro le immagini. Preparatevi dunque a difendere le vostre immagini con la forza delle ragioni, e non solo perché “sono fotografie e dicono la verità”. Fotografate sapendo che anche il potere costituito fotograferà voi. Preparatevi a sostenere che anche quelle foto, come le vostre, non dicono tutta la verità. Ma prima ancora, sfidate quelle foto uguali e contrarie alle vostre soprattutto con i vostri comportamenti. Mostrandovi, e sfidando chiunque altro a mostrarsi. Fotografate sapendo che la fotografia è un campo di relazioni fra gli uomini, è un prodotto delle relazioni fra gli uomini, e si porta dietro tutti i torti e le ragioni delle relazioni fra gli uomini. Sapendo che una fotografia mostra ma non dimostra, che bussa alla porta delle emozioni prima che a quella delle ragioni, e questo la rende difficilissima da maneggiare. Fotografate sapendo che se per caso voleste usare le vostre fotografie come alibi, come un fazzoletto sul volto per coprire metodi di lotta violenti, ci saranno altre fotografie che non vi copriranno. Fotografate dunque anche voi stessi, dimostrate di non avere paura, voi per primi, delle immagini. Fotografate sapendo che le fotografie non sono il risultato finale, ma la palla e il campo da gioco di un conflitto sociale. E che quel conflitto non ha un esito scontato. Comunque è meglio giocare la partita del senso appoggiandosi a qualcosa, che una partita nel vuoto assoluto, dove i puri e semplici rapporti di forza avrebbero campo libero. Fotografate, conservate almeno per un po’ quelle immagini, e se c’è bisogno diffondetele, condividetele sul Web, se volete mandatele ai giornali e chiedete di pubblicarle. (E speriamo che a nessuno salti in testa di dire che la vostra è concorrenza sleale alla fotografia professionale.) Perché anche i fotografi professionali, in quei frangenti, hanno un loro compito, che è diverso dal vostro. Le vostre fotografie saranno la vostra voce, il vostro grido di parte. Le fotografie dei fotogiornalisti saranno il racconto coerente e l’intepretazione di testimoni professionali, che si assumeranno la responsabilità di quello che hanno visto, capito e raccontato. E anche questo non piacerà a chi ha in mente leggi come quella spagnola . Tag: cortei, fotografia, Javier Marias, manifestazioni, Mariano Rajoy, Spagna Scritto in fotografia e società, massificazione, politica | 16 Commenti » Franco Fontana, ottanta anni di passione per la fotografia «Ho ricevuto auguri da tutto il mondo, nessuna autorità modenese s’è fatta viva» «Ai giovani consiglio soltanto tanta umiltà: prima di diventare bisogna essere» di Michele Fuoco da http://gazzettadimodena.gelocal.it/ 45 Li porta con leggerezza gli 80 anni che Franco Fontana ha compiuto ieri l'altro. Forse perché l'assiduo lavoro di fotografo e le continue mostre anche in paesi stranieri gli fanno dimenticare che il tempo trascorre inesorabilmente. Una pioggia di telefonate, pure dall'estero per tutta la giornata di lunedì ma anche ieri mattina il cellulare ha squillato più volte. E le autorità della città? «Nemmeno una. Evidente che nessuno è profeta in patria. Si sono ricordati a Torino, dove il Giornale dell'Arte mi ha dedicato tre pagine...». Hai regalato alla Galleria Civica una importante collezione di fotografie e oltre 700 libri fotografici. Questo bel gesto ti è stato almeno in parte ripagato? «Mi sono sentito di farlo. Ciò rispetta il mio modo di vivere. Non ci si può aspettare nulla, né accettare riconoscenza«. Cosa significa fare fotografia? «È come fare lo scrittore, il compositore. Mi esprimo con questo linguaggio. Credo non sia una professione, ma una condizione, un proprio modo di essere». Quando ti sei accorto di essere un fotografo di primo piano? «Non c'è stato un momento particolare. Sono tanti fatti che costituiscono un’identità. Oltre 400 mostre nel mondo...». E' provinciale la cultura a Modena? «Qualcosa di notevole è stato fatto nella fotografia con la Fondazione Cassa di Risparmio e pure con la Galleria Civica. Mi telefonano da altri luoghi per dirmi che Modena sta diventando la città più importante per la fotografia". Fra i fotografi quali consideri "mostri sacri"? «André Kertész, Cartier-Bresson. Ho scambiato foto da 40 anni con tanti maestri». Perché la fotografia è molto amata? «E' la disciplina artistica più facile come approccio, ma difficile come risultato. E' l'uomo che fotografa, ma occorre che sia il paesaggio, ad esempio, che entri dentro di me per farsi una sorta di "autoritratto". Il soggetto è un pretesto. E' necessaria una corrispondenza, una parte di se stesso che si esprima con l'immagine». Chi sono i tuoi amici? «Tanti. Difficile elencarli tutti. Ma cito Franco Vaccari, Giuliano Della Casa, Franco Guerzoni». 46 La fotografia porta ricchezza? «Sì, ad alcuni artisti gestiti da galleristi che hanno investito grosse cifre, come accade soprattutto negli Usa». Tra le tue centinaia di mostre, ne ricordi qualcuna in particolare? «Nel 2006, al Palazzo Reale di Milano. E poi al Musée Carnavalet e alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi, al Metropolitan Museum di Tokyo». Le maggiori soddisfazioni... «Di essere stato tra i 23 al mondo, degli anni '60 e '70, invitati a Tokyo per la rassegna dei 150 anni della fotografia. Due gli italiani: io e Mario Giacomelli. Mi riempie d'orgoglio che il Ministero della Cultura in Francia abbia scelto una mia immagine (la Baia delle Zagare in Puglia) per fare un manifesto, destinato alle sue ambasciate nel mondo, per la diffusione del pensiero francese». Che cosa ti dà felicità? «Quando vedo qualcosa che mi entusiasma, mi mantiene vivo. Credo molto all'amicizia e all'amore". Sei stato mai tentato di andar via da Modena ? «Ne ho avuto l'occasione. Ho lavorato per quattro anni con la famosa rivista di moda "Vogue America". Ho rinunciato al contratto di andare a vivere a New York. Sono qui le mie radici». Cosa fai quando non lavori? «Leggo, vedo qualche film, incontro persone per raccontare anche barzellette. Scrivo agli amici lettere con disegni elementari. Un divertimento. Non bisogna mai soffocare il cuore del bambino che è in noi». Quale consiglio daresti ai giovani che vogliono fare fotografia? «Da 40 anni ho tenuto woorkshop al Guggenheim di New York, alle Accademie di Bruxelles, all'Università di Tokyo, al Politecnico di Torino che mi ha conferito la laurea "honoris causa", alla Luiss di Roma. Ai giovani non posso che consigliare molta umiltà e prendere coscienza che prima di "diventare" bisogna "essere". I risultati non si vedono dopo 100 metri, ma nelle gare di fondo». Sui sentieri delle fotografie di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Robert Doisneau, Josette ha venti anni, sobborgo di Parigi, 1947. © 2011 Gamma-Rapho / Getty Images, g.c. 47 Penso di avere un piccolo debito con Walter Guadagnini, critico, curatore e storico della fotografia, oltre che amico di antica data. Tempo fa, sollecitato/solleticatodall’uscita quasi contemporanea di diverse “storie della fotografia”, tra le quali anche una scritta da lui per i tipi di Zanichelli, mi ero lanciato in alcune riflessioni critiche generali poco entusiaste sullo stato della storiografia fotografica italiana e non solo. Per chi non abbia voglia di rileggerle, sintetizzo le mie due perplessità più forti (di cui sono ancora persuaso): sulla persistente convinzione che fosse ancora possibile per un singolo studioso tracciare una storia generale di un campo del sapere, il fotografico, ormai imponente per latitudine tematica e longitudine cronologica; e sull’abitudine di farlo secondo un approccio a mio parere ormai fuori corso, quello che considera la storia della fotografia come una successione di singolari autori, scuole e tendenze, dominata da un’attezione pressoché esclusiva alla fotografia artistica. Ho sulle ginocchia il volum(on)e La Fotografia. Dalla stampa al museo (1941-1980), appena uscito, terzo dei quattro tomi dell’ambizioso progetto che l’editore Skira ha affidato alle cure, appunto, di Guadagnini. L’ultimo volume uscirà nel 2014, ma a questo punto ce n’è già abbastanza per farsi un’opinione d’insieme. Bene, credo di dover aggiornare il giudizio: quest’opera “da libreria” ha superato in buona parte le due boe delle mie vecchie perplessità. È un’opera collettiva, affidata a studiosi di estrazione internazionale e di specializzazione diversa. Ed è, sostanzialmente, uno sguardo che procede per attraversamenti tematici, senza l’assillo della “copertura integrale”. Fotografo anonimo, Il fotografo americano di origine polacca Arthur Fellig con la sua macchina fotografica Speed Graphic, dicembre 1943. New York, International Center of Photography © Epics / 2010 Getty Images, g.c. 48 Mi piace pure che l’opera non abbia la parola “storia” nel titolo, anche se immagino si sia trattato di una rinuncia non facile sotto il profilo del marketing (una “storia della fotografia” è un oggetto editoriale facilmente inquadrabile dal lettore), e ben sapendo che la classica parentesina con le due date suggerisce lo stesso il concetto (e obbliga ancora i curatori a “stringere” la trasversalità delle loro ricerche in segmenti temporali). Di fatto, in consonanza con analoghi tentativi in area francese e anglosassone, lo sguardo va più ad alcuni filoni importanti dell’evoluzione della cultura del fotografico che sulla storia generale di un medium. Non essendo questa una recensione, lascio ai lettori il piacere di scoprire i contenuti e le scelte di questo (che comprende testi di Urs Stahel, Francesco Zanot, Camiel van Winkel) e deei precedenti volumi. Mi limito a sperare che siamo davvero a una svolta nell’editoria fotografica: finalmente si comincia a rinunciare a quella scaduta pretesa universalistico-enciclopedica velleitaria delle “storie generali” che altri campi del sapere hanno giustamente lasciato da tempo in carico alla manualistica scolastica, alle strenne pretenziose, ai gadget dei giornali e ai volumi divulgativi a basso prezzo, e si affronta lo sguardo retrospettivo alla ricerca delle singolari catene causali che hanno fatto della fotografia quello che è oggi. Finalmente si lavora sulla storia della fotografia con lo spirito di chi risale un sentiero, o un fiume, cioè senza voler per forza battere tutte le piste, ma scrutando bene il terreno per individuare e disporre in ordine le tracce di quell’animale selvatico ancora fuggitivo che è il fotografico. Tag: Camiel van Winkel, Francesco Zanot, Skira, storia della fotografia, Urs Stahel, Walter Guadagnini Scritto in da leggere, storia | 7 Commenti » Il corpo solitario di Alessandra Ronetti da http://www.indie-eye.it Francesca Woodman 49 L’autoscatto nella fotografia contemporanea, volume ricchissimo scritto dal critico d’arte e saggista Giorgio Bonomi, è un luogo di convergenza di una riflessione più ampia sullo statuto stesso dell’immagine contemporanea Il corpo solitario. L’autoscatto nella fotografia contemporanea, scritto dal critico d’arte e saggista Giorgio Bonomi, ha l’ambizione più o meno dichiarata di inserirsi nel dibattito culturale su due questioni centrali, da tempo protagoniste delle ricognizioni sull’arte: il corpo e l’identità. Il tema dell’identità, soprattutto in ambito anglosassone, ha goduto di grande fortuna critica, portando spesso a riletture della categoria del ritratto e dell’autoritratto. Il corpo è stato invece protagonista indiscusso dell’arte dalla Body Art in poi, sia inteso come corpo dello spettatore, con il suo portato di partecipazione attiva alla costruzione dell’opera, sia come soggetto dell’immagine, offerto allo sguardo di un fruitore nella dimensione del travestimento o del basso materialismo. In questo panorama variegato, Bonomi concentra la propria attenzione su una specifica forma di immagine: l’autoritratto fotografico realizzato con l’autoscatto. Il tentativo di questa monografia, che assomiglia a una sorta di catalogo o archivio digitale di fotografie, è di accostare, in base alle tematiche, artisti più noti e codificati ad altri più giovani e sconosciuti. Il volume conta infatti più o meno 700 artisti che lavorano con la tecnica dell’autoscatto fotografico, dagli anni settanta ad oggi, rappresentati attraverso circa 2000 fotografie. L’autoscatto viene interpretato non tanto in quanto tecnica, ma piuttosto come metodo a cui sono attribuibili specifici significati. Bononi procede a una divisione di questo vasto archivio di immagini in categorie. La prima è la ricerca dell’identità, ossia una sorta di messa in scena dell’io dell’artista, tra cui spiccano le introspezioni di Schirin Neshat e Francesca Woodman. La seconda è il travestimento, dove la messa in scena è portata allo scoperto e l’artista non attribuisce significati al proprio io, ma si traveste identificandosi con un altro da sé, spesso attraverso una chiave ironica. Si pensi a Andy Warhol e Cindy Shearman. A queste si aggiungono le categorie della narrazione e del corpo nudo, a cui si contrappone il corpo assente, categoria con la quale Bonomi identifica un gruppo di artisti che lavorano celando il proprio corpo. Ma il corpo può essere anche strumento di pura sperimentazione nelle mani di artisti come Franco Vaccari, oppure di denuncia e scandalo come in Nan Goldin, Gilbert & George e inMario Pischedda, che Bonomi inserisce in questa categoria pubblicando alcune foto dal vastissimo repertorio del poliedrico artista Sardo, ovvero “Il fotografo photoshoppato”, “dal comunismo all’autismo ” (che è anche un articolo dell’autore pubblicato sul suo blog) e “Burning artist, 2010″ Il corpo ‘solitario’ si impone dunque come luogo di convergenza di una riflessione più ampia sullo statuto stesso dell’immagine contemporanea, attraverso un doppio sguardo che oscilla costantemente tra caduta e salvezza. 50 Il corpo solitario, l'autoscatto nella fotografia contemporanea di Giorgio Bonomi - Rubbettino Editore - 2012 Non esistono fotografie private di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Le fotografie di un archivio storico, le fotografie nell’armadio pubblico di una comunità appartengono quasi sempre a generi molto diversi fra loro. Fotografie di paesaggi, scene urbane, eventi cittadini, feste, personaggi, ritratti singoli e di gruppo… Possiamo dividere queste immagini in due grandi insiemi abbastanza distinti, concettualmente opposti e all’apparenza incomunicanti fra loro: le fotografie “pubbliche” e quelle “private”. Al primo insieme apparterrebbero le fotografie prodotte per essere viste da tutti, perché stampate sui giornali, o sulle cartoline, o distribuite ed esposte in luoghi visibili a tutti, come vetrine di negozi, uffici, esposizioni, o più semplicemente perché commissionate da poteri pubblici. Al secondo genere apparterrebbero invece tutte fotografie destinate a una circolazione più familiare e intima, alla visione di spettatori selezionati. 51 Bene, vorrei sfidare quella distinzione apparentemente così ovvia. Vorrei provare a spiegarvi questa mia opinione un po’ azzardata: che la fotografia privata non esiste. Che la fotografia, tutta quanta, in tutte le sue diversissime pratiche, è sempre stata ed è ancora sempre pubblica. Non sarà facile. Le fotografie “private, anche quando erano prodotte da professionisti, dai fotografi di studio che per il primo secolo di vita del medium furono di fatto gli unici depositari del sapere foto-genico, venivano subito rinchiuse nel circuito delle cose domestiche. Parlo di ritratti, individuali o di gruppo, anche delle memorie visuali di momenti alti dell’esistenza, viaggi, cerimonie, ma soprattutto di ritratti, ritratti in abbondanza, per l’album da tenere sul tavolino del tinello, da appendere sopra il camino o la testiera del letto, da infilare fra le pagine del diario sentimentale, oppure da spedire al parente lontano per riallacciare virtualmente prossimità distrutte dall’emigrazione. Immagini quindi premeditate per essere cariche di emozioni intime, immagini che assumevano valore e significato solo quando illuminate dalla relazione umana a cui appartenevano. Fuori da quel circuito, sono immagini mute. E dunque, in che senso vorrei definirle pubbliche? Certo, è curioso quel che è successo alla fotografia. Quando uno dei più grandi scienziati della sua epoca, il fisico francese François Arago, nel 1839, durante un’attesissima seduta dell’Accademia parigina delle scienze, presentò al mondo la meravigliosa invenzione del signor Daguerre, i compiti che assegnò alla fotografia erano ben diversi. E tutti “pubblici”. La fotografia sarebbe stata il taccuino del viaggiatore, l’assistente dell’archeologo, la segretaria dell’erudito, l’archivista dello storico d’arte, il cannocchiale dell’astronomo… Il ritratto era ancora escluso dal campo del possibile, per via dei lunghissimi tempi di esposizione che avrebbero costretto i soggetti a pose di una immobili tà da tortura. Strano che Arago, scienziato del suo tempo e dunque fiducioso nel progresso inarrestabile delle conoscenze, non avesse riposto la sua fiducia nell’intelligenza collettiva dei suoi colleghi. In pochi anni, una pioggia di “perfezionamenti” rese possibile migliorare le emulsioni e accorciare i tempi di esposizione e di posa. E la fotografia svelò allora la sua vera vocazione, la ragione che in fondo l’aveva fatta nascere proprio nel secolo della borghesia, quando le conoscenze per inventarla erano a disposizione da secoli. Ovvero: fornire alla nuova classe generale, potente e globalizzata, la classe media dell’età industriale, uno specchio di identità, una macchina per fabbricare quell’immagine di sé che fino a quel momento era prerogativa solo dei più ricchi, in grado di pagare un pittore, e di dedicare ore ed ore di ozio a posare per lui. 52 Quel che ci resta della fotografia dell’Ottocento, in termini quantitativi, è una massa sterminata di ritratti: dagherrotipi, calotipi, ambrotipi, ferrotipi, ritratti di tutti i -tipi, all’albumina, al collodio, al bromuro, in tutte le salse della gastronomia da camera oscura. Al confronto, benché oggi siano queste le immagini che più ci affascinano, le fotografie di viaggio, di paesaggio, di eventi, scientifiche eccetera, sono una interessante significativa minoranza. E dunque si può dire che la fotografia, promessa come immagine pubblica, fu sequestrata subito dal consumo privato. Si può dire, certo, ed è stato detto. Ma che cosa è, veramente, una fotografia privata? Che cosa è di preciso che qualifica come privata un’immagine: l’autore che la produce, chi la condivide con altri, ciò che raffigura, chi la guarda, la funzione a cui serve? Vediamo, un passo alla volta. Una fotografia, come un film, non ha mai un solo autore. Può averne uno apparente, principale, un “regista” che è il fotografo, ma resta il prodotto di un incontro fra parecchie persone, molte delle quali non sanno nulla le une delle altre. Prima di tutto, i produttori dei materiali della camera oscura. Luogo che alla fine del secolo cessa di essere l’antro dell’alchimista, per diventare la cucina di prodotti preconfezionati, e anzi per sparire dalle case dei fotografi e diventare un servizio esterno,You press the button we do the rest, così da lasciare al fotografo solo il piacevole momento del clic. Così per gli apparecchi: da mobili artigianali di legno a macchinette prodotte in serie. Chi progetta una fotocamera, chi produce una pellicola, prende a monte alcune decisioni importanti sull’aspetto, sulla forma che avrà la fotografia finita. Nello scatto “privato” di un fotografo di paese, o di un fotoamatore, ci sono la volontà l’ideologia e la cultura visuale di un chimico, di un ingegnere: e questo fa di quella immagine, prima ancora dello scatto, il prodotto di un sapere sociale, pubblico. 53 I fotografi. Professionisti dell’immagine. Imprenditori di un nuovissimo mestiere, non vengono dal nulla. Più che pittori mancati, come dicevano i maligni, i fotografi professionali dei primi atelier sono magari ottici, o droghieri, o farmacisti che hanno intuito la fortuna di un ramo d’attività promettente. Ma hanno una cultura visuale, quella della loro epoca, la pittura d’accademia, il ritratto da galleria degli avi, le incisioni dei giornali illustrati. Questa tradizione si riversa nel loro modo di comporre l’immagine, di organizzare la luce, di disporre la posa dei loro soggetti. C’è un canone che rende simili fra loro i ritratti di un’epoca, ed è un canone sociale, storicamwnte determinato, un gusto non privato ma pubblico. Del resto, è a quel gusto che vogliono conformarsi per primi le signore e i gentiluomini che vanno a farsi “tirare il ritratto” nello studio del professionista. La “somiglianza” che cercano è più l’adeguatezza a modelli riconosciuti di rispettabilità, eleganza, bellezza, che alla propria individualità. La parola identità sembra indicare più l’ansia di essere identici agli altri che di manifestare una propria unicità. L’originalità dell’individuo è di fatto bandita dagli studi di posa, salvo rare eccezioni: gli attori, o i sovrani. Gli studi di posa, in quegli attici dal tetto di vetro azzurro, dove la luce è imbrigliata e addomesticata da macchinari di tendaggi, palchi ingombri di arredi e accessori di scena, sono dunque l’avanscena di una recita sociale, la commedia del ritratto, che pesca i suoi canovacci dal repertorio comune a una classe, a un ambiente, a un ceto, e sono scenografie “significanti”, simboliche, che volutamente trascurano ogni realismo: colonne di finto marmo poggiano incongrue sopra tappeti orientali, sfondi dipinti senza alcuna pretesa di illusionismo esibiscono la messinscena come le signore eleganti esibiscono fiori finti sul cappello. Gli abiti stessi sono di fatto costumi di scena, sono citazioni degli abiti veri e propri: bisogna scegliere con cura la mise con cui presentarsi davanti all’obiettivo, i manuali suggeriscono quali colori fotogenici scegliere, per adeguarsi alle emulsioni dell’epoca che erano diversamente sensibili alle lunghezze d’onda della luce. Per non parlare del maquillage, che con le emulsioni fotografiche dell’epoca, poco sensibili ad alcuni colori, come l’azzurro che risultava quasi bianco, ma troppo ad altri come il rosso, che risultava nero, se scelto male poteva trasformare il volto di una gentile signora in quello tumefatto di un pugile o nella maschera di Morticia Addams. Ogni ritratto quindi è l’attenta costruzione di una narrazione fittizia, è un capitolo di una pubblica commedia umana che ha solo un rapporto mediato con le esistenze reali che intende presentare agli altri. 54 Ma a chi? Quella fotografia formato gabinetto o carte de visite che il galantuomo e la gentildonna poi si portano a casa, diventano poi almeno in quel momento oggetti privati? No, non lo diventano fino in fondo neppure qui. Certo, vengono rinchiusi in un circuito di condivisione limitato e sorvegliato: familiari, parenti, amici, conoscenti, cerchie più o meno larghe, alcune più “condi/visibili” di altre ma tra un minimo e un massimo, dalla fotografia acquerellata dell’amata che resta nel portafogli, all’album delle cerimonie familiari a disposizione di ogni visitatore sul tavolino da caffè del salotto. Ecco: l’album, poi, quello sì che è un dispositivo sociale. È una macchina relazionale potentissima. L’ordine in cui le fotografie sono disposte (così come la disposizione dei personaggi nei ritratti di gruppo) non è mai casuale, risponde a una gerarchia di importanza e vicinanza, a una narrazione complessa, gli avi, poi i padroni di casa in carica, i figli, i parenti. Ogni album familiare è un sociogramma preciso della struttura dinastica e dei rapporti di potere domestico. Nell’album di famiglia, poi, non è raro trovare intrusioni deliberate del mondo esterno, vere e proprie convocazioni della storia nell’ambito domestico: spesso l’album di famiglia inizia con i ritratti dei sovrani, come per agganciare la vicenda familiare a una più ampia vicenda nazionale, storica. Spesso l’album include oggetti “trovati”, ritagli di giornale, souvenir di viaggio, biglietti di teatro, fiori: sono i reperti, le tracce della relazione fra l’io interiore e il mondo… L’album è una soglia osmotica fra spazio privato e spazio pubblico Questa soglia ha un doganiere. La condivisione dell’album è sorvegliata dall’attenta supervisione del suo compilatore, che ne è anche, quando lo sfoglia davanti agli ospiti, l’unico legittimo affabulatore. La presentazione dell’album agli estranei è un delicato rito di autodefinizione sociale: noi siamo questi, siamo così, vogliamo essere visti così. È anche un rito di inclusione: sfogliare l’album di famiglia assieme al fidanzato della figlia o alla fidanzata del figlio significa introdurre il nuovo membro della famiglia in una genealogia e in una gerarchia, istruirlo sui legami che dovrà rispettare. Infine, questi album non terminano la loro funzione sociale quando si esauriscono le relazioni umane a cui erano funzionali. Gli album sopravvivono alle persone per la cui immagine sociale furono costruiti. Arrivano fino a noi, orfani di senso e di racconto, come pelli di cicale che non cantano più, ma che conservano miracolosamente l’aspetto esteriore degli esseri viventi che le abitarono. 55 E noi li immettiamo di nuovo in un circuito di visione e condivisione, sia che li archiviamo in una biblioteca, che li collezioniamo privatamente, che ne facciamo la base di un’operazione artistica nuova, o di una ricostruzione storica. E dunque anche la seconda vita della fotografia “privata” è una vita pubblica, anzi è tutta e interamente pubblica ora: altri racconti si sovrappongono a quelli originali, li sostituiscono: in queste immagini possiamo cercare indizi per la ricostruzione della cultura materiale di un’epoca, per la storia sociale, o anche solo per nuove emozioni narrative e artistiche. Possiamo farne un libro, dove quel che conta non è più tanto chi erano, singolarmente, individualmente, le persone che guardiamo da un’altra epoca, anche se magari i loro volti e i loro nomi possono ancora dirci qualcosa, possono avere con noi un legame, essere parenti di parenti, avi di conoscenti, persone famose, ma che non ci interesserebbero più di tanto se non ci arrivassero così, in un insieme che racconta qualcosa di più della somma delle sue parti, dove le tessere di un mosaico di individui diventa storia di una comunità, storia condivisa, storia di tutti perché storia di ciascuno. Buona visione. [Testo rielaborato del mio intervento alla presentazione del volume Gioco di sguardi: Fotografi e fotografia a Carpi 1860-1930, a cura di Anna Maria Ori e con testi di Alfonso Garuti e Roberta Russo, a cura della Fondazione cassa di Risparmio di Carpi] Tag: album, Alfonso Garuti, Anna Maria Ori, Carpi, Daguerre, fotografia, François Arago, ritratto,Roberta Russo, storia della fotografia Scritto in fotografia e società, fotografie private, ritratto, storia, vernacolare | 23 Commenti » La strada di William Klein di Francesco Angelucci da http://www.insideart.eu/ Ad Amsterdam una retrospettiva sul fotografo, ricostruita tutta la sua carriera Spesso riferendosi a William Klein lo si definisce il padre della fotografia di strada e questo è un errore da vari punti di vista, dei quali il più grave è sicuramente storico. Il museo Foam’s 3h library ad Amsterdam presenta una retrospettiva sul fotografo statunitense che ripercorre tutta la sua carriera, una buona occasione per mettere dei puntini sulla vita e sulle influenze che Klein ha avuto e su quelle che ha lasciato nella storia dell’arte. Klein nasce nella periferia di New York nel 1928 da una famiglia, come spesso succedeva all’epoca, di immigrati ebrei ungheresi. Il padre era un piccolo commerciante e dire che se la passavano bene sarebbe una bugia. Ad aggravare ulteriormente le condizioni economiche ci pensa la grande depressione che nel 1929 si abbatte come un fulmine a ciel sereno sui mercati statunitensi (e poi europei) mettendo la parola fine ai roaring twenties. 56 Sarà la dura vita della periferia, sarà la crisi ma il piccolo William cresce precocemente tanto che a 14 anni si iscrive alla facoltà di sociologia del city collage of New York. Sarà la noia perché troppo sveglio, sarà la facoltà perché troppo difficile per un pre-adolescente, fatto sta che Klein non raggiunge la laurea e abbandona gli studi. Mette a servizio dell’esercito la sua abile mano di vignettista e grafico collaborando con il giornale Stars and Stripes realizzato all’interno dell’U.S. departement of defense e lavorando come operatore dal 1945 al 47 alla radio militare, impegno che lo costringe a spostarsi fra la Francia e la Germania. Finita la guerra il non ancora fotografo decide di rimanere a Parigi per studiare arte alla Sorbona. La capitale francese non è certo quella di un ventennio prima ma rimane piena di maestri a cui strappare qualche buon consiglio. Da ragazzo sveglio di periferia William entra subito in contatto con gli ambienti artistici francesi stringendo amicizia con Fernand Leger che gli tira un paio di diritte: lascia la pittura astratta (genere che Klein praticava con molta passione) e datti alla strada. Lontano dall’aver seguito il consiglio, l’americano continua a dipingere e lo fa anche per l’architetto Angelo Mangiarottiche a Milano gli commissiona delle 57 quinte rotanti per una scenografia. Altissimi panelli rettangolari neri solcati da linee bianche è la costruzione astratta che Kline realizza per l’italiano. Appoggiati su dei perni i quattro elementi posso arrivare a una rotazione completa di 360 gradi. Qui, il ragazzo di periferia, quello sveglio, il pittore che è stato anche militare, il giovane che parla due lingue, decide di diventare fotografo. Un’illuminazione improvvisa: i pannelli che girano, il movimento e l’impossibilità di rappresentare tutto questo con la pittura. Preso dal furore William si ricorda di quandoCartier Bresson gli aveva regalato una macchinetta fotografica, la cerca, la prende, si piazza davanti alle quinte rotanti, imposta un’esposizione lunga, inquadra e scatta. Prevedibile il risultato non è un’opera d’arte ma lui da lì capisce che se ha un senso usare la fotografia bisogna farlo come mai si è fatto fino a quel momento. Lascia i pennelli nel cassetto e si dedica totalmente alla causa. I suoi primi scatti sono per Domus, la rivista d’architettura di Giò Ponti, poi torna negli Stati Uniti, torna a casa, a New York dove per vivere fotografa per Vogue. È qui, nella grande mela, che Klein si ricorda del consiglio del vecchio maestro francese Leger: datti alla strada. E stavolta lo fa, sul serio. Fedele alla linea Klein cerca nuovi modi di fare fotografia e parte proprio scardinando il patinatissimo mondo dello still life da passerella. Il fotografo prende le modelle, le veste e le getta in mezzo alla mischia urbana, fra i grattacieli e sull’asfalto, fra barboni o semplici passanti creando un vivo contrasto fra l’eleganza e la bellezza di una mannequin con dei comuni passanti. Vogue e il suo direttore Alexander Liberman impazziscono, tanto che lo stesso Liberman sostiene economicamente (carta fotografica e pellicola in quantità industriali) il primo libro fotografico di Kilne: Life in good and good for you in New York: trance witness revels. Il volume, meglio conosciuto come New York, esce nel 1956 per tre editori diversi: Editino de Seuil in Francia, Feltrinelli in Italia e Photography magazine in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti il libro non viene pubblicato, la grande mela vista da Klein è troppo squallida e sgraziata, lontana anni luce dal sogno americano e dal rappresentare una città simbolo di prosperità e crescita economica. Gli scatti del fotografo ribaltano l’idea di reporter e alla scelta d’immortalare un fatto preferiscono non immortalare proprio niente. La poetica che regge l’intero volume è non provarci neanche a fermare qualcosa in uno scatto, piuttosto fare di tutto per non bloccare la vita che scorre oltre il mirino. Questo significa un paio di cose. La prima: la bellissima, equilibratissima composizione, le perfette messe a fuoco, il classico 45mm sono bannati. La seconda: l’idea della fotografia come la voleva Bresson, l’atto che unisce mente, cuore e occhio non viene minimamente preso in considerazione. Al loro posto si sostituisce una composizione caotica, viva, all’obiettivo base di ogni fotografo, Klein monta un teleobiettivo che raccoglie nella sua lente più persone, gesti e azioni possibili, alla calma di uno scatto ricercato c’è l’infinito flusso di click non tanto per paura di perdere l’attimo ma per paura di perdere il tempo. Nel libro allora le fotografie sono sfocate, il primo piano scompare, la grana della pellicola lo sostituisce, la grande mela o meglio il wild side che 58 cantava Lou Reed è l’unico teatro possibile per questo genere di fotografie e il caso ha voluto che quel wild side fosse esattamente casa sua o che solo chi è di casa nel selvaggio poteva concepire un tale modo di scattare. Il libro ha un successo planetario e Klein comincia (continua) a girare il mondo raccogliendo di simili reportage per Tokyo e Roma dove tra l’altro era stato chiamato da Fellini come assistente per Le notti di Cabria. Facile scambiare William Klein per il padre della fotografia di strada ma è una bugia. Da manuale il primo fotografo che segna uno stacco dal pittorialismo fotografico (genere nato agli albori della tecnica che scimmiottava la pittura e rappresentato perfettamente da Whilhem von Gloeden) è stato Albert Stieglitz. Al suo nome si lega la straight photography, tipologia di scatto che non prevede la messa in posa dei soggetti ma invita il fotografo a scendere per strada e catturare il bello del mondo così com’è. Stieglitz allora segna la svolta della pellicola che finalmente si rende autonoma dalla pittura trovando una sua natura specifica irrealizzabile con pennelli e colori. Sommo esponente del genere, un ventennio dopo, è proprio Bresson e compagni (per intenderci il filone francese definito umanistico). Composizioni perfette che sembrano riordinare il mondo, stampa impeccabile e uno spiccata dote per l’attimo perfetto. A rimescolare le carte in tavola ci pensa la seconda guerra mondiale. È Adorno che sintetizza il clima post bellico: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». La ricerca del bello non è più permessa, provare a raccontare qualsiasi cosa in modo oggettivo è impossibile. L’informale e il Nouveau roman sono espressioni artistiche di questo clima culturale. La fotografia reagisce in maniera simile e se il mondo che conosciamo non è più possibile da rappresentare, l’artista gira la pellicola verso la sua vita, i reportage non sono più quelli di un Robert Capa ma diventano testimonianze di vita privata, l’unica ancora salvabile dall’abisso. Robert Frank è fra i primi, o comunque il più noto, a sviluppare questa tendenza testimoniata dal libro pietra miliare Les American, pubblicato per la seconda ristampa con un testo di Kerouac. Il volume presenta scatti on the road che sfuggono la bellezza come la peste, raccolti nelle pagine del libro come fosse un diario privato dell’autore, scatti strappati, attaccati con lo scotch, fotografie rovinate, stampate male o coperte di note dove la cosa più importante non è la vita ma il brandello che se ne può prendere. È da qui che viene William Klein che per quanto geniale sia stato il suo operato rimane comunque un anello di una catena che non inizia ne finisce con lui (vedi Nan Goldin). Fino al 12 marzo; Foam’s 3h library, Keizersgracht 609, Amsterdam. 59 Qui si va sul difficile di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it © Vasco Ascolini, g.c. Sono anni che non sento più dire di un’opera d’arte, di un libro, di un film, che “è difficile”, “è un po’ difficile per me”. All’uscita da un cinema, gli spettatori che si sono visibilmente rotti le scatole, rimpiangendo i soldi del biglietto dicono semmai “è troppo lento”. Di un libro lasciato a metà per noia, i lettori dicono “si perde in troppe descrizioni”; di un quadro che sfida l’immediata decifrazione, i visitatori del museo dicono che “non mi dice niente, non mi dà emozioni”. Nell’era del click-and-go, della velocità come valore in sé, nell’era dello spazientimento, delle chat, nel tempo dove il “tempo reale” diventa la schiavitù della raggiungibilità obbligatoria, la colpa del mancato incontro con un messaggio espressivo viene immancabilmente addossata all’emittente, mai al ricevente. Intendiamoci: i film noiosi, i libri inutili, le opere d’arte vuote esistono. Troppo spesso, anzi, l’oscurità diventa l’alibi della mancanza di un pensiero. Troppo spesso chi dovrebbefavorire l’incontro fra opera e lettore lo rende più difficile, coprendo quel vuoto, per incapacità o per calcolo. La prima condizione per una lettura di opere “difficili” è che quella lettura sia possibile, e sia stata resa possibile. 60 Ma perché non ci viene mai il dubbio, almeno una volta, per quanta stima abbiamo della nostra preparazione e del nostro gusto, il dubbio che esperiti tutti i tentativi, fatto ricorso a tutti gli agevolatori, forse non siamo i lettori giusti per una certa opera? Nessuno più ama pensare che un autore possa proporre legittimamente al suo lettore opere che, semplificate troppo, sarebbero banalizzate. La complessità viene considerata sempre e solo complicazione inutile. Lo sforzo del lettore, viceversa, non si ritiene dovuto. L’arte che “parla a tutti”, concetto romantico, assume un corollario pigro: “…dunque tocca solo a lei farsi capire”. Vorrei rivalutare dunque la categoria del “difficile” come una modalità della comunicazione culturale che contempla anche la possibilità di un mancato incontro fra autore e lattore. Con la conseguente ammissione onesta del limite che il lettore può avere raggiunto di fronte a un’opera, oppure con l’impegno a scavalcare quel limite attraverso uno sforzo maggiore. Anche a costo (è possibile, spesso probabile) di scoprire alla fine che non ne valeva la pena, che non c’era davvero nulla da scoprire. Difficile, questa parola così facile da capire, è un suggerimento di una recente amica, Manuela Cigliutti, collaboratrice di Vasco Ascolini, di cui mi invitava a vedere un lavoro su Rodin. Mi ha convinto a riflettere con queste parole: “perché non ti occupi della lettura delle fotografie difficili? Voglio dire, le fotografie che oggi forse non siamo abituati a leggere perchè oggi è tutto immediato, palesato”. Ho guardato quel lavoro su Rodin, commissionato a suo tempo dal Louvre. È una lettura muta, emotiva, di opere e di luoghi legati al celebre scultore francese. Credo voglia essere una sorta di biografia visuale indiretta, una lettura senza parole della sua vita e del suo lavoro. Credo sia anche un tentativo di fare “esplodere” la gabbia del museo, quello reale (molte immagini sono prese al Museo Rodin) ma anche quello virtuale che le fotografie potrebbero costruire, per riportare la memoria a vita, il culto all’uomo. Un lavoro contro le pratiche di memoria istituzionale del lavoro degli artisti. Un tentativo di ridare una vita, anche surrogata, alle tracce di vita ormai immobili lasciate da un creatore nelle sue opere. Non per nulla Ascolini nasce come fotografo di teatro, di vita rivissuta nella finzione. Posso aver preso una cantonata, ma è il mio tentativo, il mio azzardo, il mio lavoro di co-autore, di responsabile di quello che vedo. Un tentativo va pur fatto. Quanti spettatori, pur avendone gli strumenti, spesso migliori dei miei, sono disposti a farlo e lo faranno? Quanto invece prevarrà l’etologia del visitatore che, disposto a dedicare alle fotografie un tempo in fondo infinitesimale, ne esplora per qualche secondo i valori formali, elogia i “bianchi purissimi e i neri intensi” di tante stanche recensioni, poi dedica qualche istante svogliato a cercare di identificare le forme e a dar loro un senso, e 61 prima di mettere assieme il tutto conclude quasi sempre, tempo dieci secondi al massimo per opera, con un “bella, sì, ma non mi dice niente”? È stato un piccolo cortocircuito. Mi sono subito venuti alla mente i nomi di due o tre fotografi che ora, dopo il suggerimento di Manuela, potrei accomunare in questa categoria trasversale del “difficile”. Non perché le loro immagini siano incomprensibili al primo sguardo. Al contrario: perché la loro apparente “trasparenza” ci lascia interdetti, con la sensazione che non ci sia altro da fare che guardarle, ricevendone però in cambio troppo poco per esclamare il fatidico “che bello!”, col quale i dieci secondi di contemplazione di una fotografia sul muro di una mostra (tre secondi sulla pagina di un libro) vengono per sempre estroflessi dai confini dell’Io, per dirla alla Gadda. Il “difficile” è proprio questo: non è l’ostico, il confuso o il respingente al primo sguardo. Quasi mai la fotografia lo è: la fotografia è sempre, apparentemente, “facile”, essendo sempre “la foto di qualcosa” (e noi cerchiamo qual qualcosa fino allo sfinimento, anche nelle fotografie “astratte”). Ma questa sua prerogativa unica è anche il suo handicap: chi la guarda oltrepassa di slancio, senza fermarsi, la superficie dell’immagine, corre con ansia verso “la cosa”, e finisce per prendere quella come oggetto del giudizio: “bella!” è la forma che crediamo di vedere oltre il velo albertiano della raffigurazione, non quella che si disegna sulla sua superficie. È la “cosa in sé” che giudichiamo interessante o meno, e poi è finita. Alla “cosa per sé” non abbiamo tempo, voglia e spesso neanche idea di dover tornare. Il “difficile”, voglio dire, è nascosto dietro il “facile”, è il gradino che l’architetto dell’immagine ha nascosto nel buio, dietro il muro diafano dell’apparente trasparenza della fotografia, il gradino che non solo ci costa fatica salire, ma anche trovare. Roberto Salbitani, dalla sequenza “Viaggio in terre sospese” (1975), © Roberto Salbitani, g.c. Postcart 62 Prendete per esempio Roberto Salbitani. Fotografo della generazione di Luigi Ghirri, dal lui amato, abbandonato e in parte ritrovato. Fotografo calvinista, intransigente con se stesso e quindi con il mondo della fotografia, refrattario ai compromessi dello stile che ti aprono le porte del successo. Il suo La città invasa, denuncia dell’occupazione paramilitare dell’orizzonte urbano da parte dell’immaginario consumista, fu per me il dark side dell’ottimismo (sì, in fondo era ottimismo) dello sguardo della generazione di Viaggio in Italia, quel circolo di cercatori che sperava di curare la malattia della visione assopita con dosi omeopatiche di immagini marginali e “insignificanti”. Ho incontrato il lavoro di Salbitani, negli anni, come si incontra un concittadino, un conoscente ma non troppo: ogni tanto, con piacere, ma un saluto e via. Una bella biografiacritica di Roberta Valtorta ora rimette a posto i pezzi, e mi fa capire che ero io in difetto: avrei dovuto metterci del mio. Il volume di fotografie di Venezia, ad esempio, questa sua strana collezione di tondi (formato “naturale” e invece da sempre proscritto in fotografia, ma ne parleremo un’altra volta) dove l’orizzonte non può appoggiarsi ad alcuna ortogonalità, fluido come l’acqua che assedia la città dei sogni. Non chiedeva forse a me, questo lavoro, di misurarmi con il “difficile”, senza acontentarmi di una scrollata di spalle o di un diplomatico “Interessanti…”. Mi chiedeva, per dirla con le sue stesse parole (dal brevissimo testo nel libro), di “dare la caccia soprattutto a quelle immagini che sono sfuggite finora alla loro autoritaria attribuzione di significato”. Antonio Biasiucci, Vapori n.1, 1983, © Antonio Biasiucci, g.c. Oppure, prendete Antonio Biasiucci. Un galantuomo che con discrezione e gentilezza, tempo fa, mi mandò in visione le ultime cose sue, senza insistere 63 troppo perché ne facessi qualcosa. Biasiucci di solito è considerato un artista plastico della fotografia, un creatore di forme lontane dal documentario e dalla disdegnata referenzialità. Io, dopo averci pensato su un po’,dopo aver superato la tentazione di dire “belle forme, belle composizioni, interessante dialogo con la scultura” e altre cose così, ho cercato il mio “gradino” dietro le sue forme, e alla fine, arbitrariamente, ho scelto di considerarlo un antropologo visuale, non so se gli piacerà. Me ne assumo la responsbailità di lettore. Antropologo è il cultore dell’uomo, e Biasiucci ha lavorato sempre sulle cose dell’uomo, sugli oggetti della cultura materiale, il pane, il coccio, la cera, scendendo poi via via più alla radice, sugli elementi basilari della sua relazione con l’ambiente terreste, l’acqua, il fuoco, la terra. Al primo impatto, visto in una galleria o sfogliato senza attenzione su uno dei suoi volumi, il suo lavoro rischia di essere classificato sotto etichette estetizzanti o formaliste. Solo uno sforzo del lettore documentato può svelare, almeno a parer mio, il tentativo ambizioso di produrre un trattato visuale sull’uomo, con i mezzi della fotografia, che non sa scrivere saggi, ma sa attraversare i pensieri indicando scorciatoie che il discorso razionale non conosce. Sono solo tre esempi, i primi che mi sono venuti in mente, di come il “difficile”, quando non è un furbo alibi per coprire un vuoto intellettuale, sia sfida e valore, requisito e non difetto della fotografia. E di come il giudizio di “troppo difficile” sia il riconoscimento di un fallimento di comunicazione che non è sempre (spesso sì, ma non sempre) addebitabile all’autore. Abbiamo sempre bisogno di una buona lettura critica delle opere. Ogni tanto però avremmo bisogno anche di una buona critica della lettura delle opere. Tag: Antonio Biasiucci, Auguste Rodin, Carlo Emilio Gadda, difficile, fotografia, Luigi Ghirri, Manuela Cigliutti, Roberta Valtorta, Roberto Salbitani, Vasco Ascolini Scritto in Autori, creatività, fotografia | 24 Commenti » Autocoscienza dell’immagine di Stefano Castelli da http://www.artribune.com Il terzo volume della storia della fotografia curata per Skira da Walter Guadagnini racconta gli anni dal 1941 al 1980. Anni in cui l’immagine riflette su se stessa e sceglie strade come la fotografia soggettiva e quella concettuale. 64 La fotografia vol. 3 – Dalla stampa al museo, 1941-1980 Giunge al terzo volume la storia della fotografia curata per Skira da Walter Guadagnini. Dopo i due libri sul primo secolo di vita del mezzo (Le origini, 1839-1890 e Una nuova visione del mondo, 1891-1940), il terzo capitolo si intitola Dalla stampa al museo, 1941-1980. Un periodo decisivo, in cui si gettano i semi della trasformazione da strumento tecnico e di reportage allo statuto di opera d’arte. Passaggio che si compirà definitivamente nel periodo successivo, che sarà oggetto del quarto e ultimo volume, in uscita nella seconda metà del 2014. Tre i punti di svolta di questo quarantennio che vengono individuati: la nascita del Dipartimento di fotografia al MoMA nel 1940, l’arrivo sul mercato delle pellicole negative a colori (Francesco Zanot analizza questa rivoluzione con un saggio), la mostra The family of man al MoMA nel 1955. E due le strategie che reagiscono ai mutamenti epocali, la fotografia soggettiva (inaugurata e teorizzata da Otto Steinert) e quella concettuale (Anselmo, Huebler, Baldessari, Smithson, Messager, Rosler, Levine). Ma il vero fil rouge dei quarant’anni qui trattati è lo sviluppo di una autocoscienza della fotografia: la consapevolezza progressiva della natura mediata dell’immagine, la ricerca del posto della fotografia artistica nel mare sempre crescente di immagini che la comunicazione di massa mette in circolo. Come scrive Guadagnini nell’introduzione, “la fotografia passa da quella che si 65 potrebbe definire la fase dell’azione a quella della riflessione, sul mondo e su se stessa“. È questo un tratto che si ritrova trasversalmente in tutti i temi trattati in questo terzo volume. Nel passaggio “dalla verità alla veridicità” analizzato da Urs Stahel nel suo saggio sulla fotografia documentaria dal 1950 al 1980; e anche, indirettamente, nell’utilizzo della foto da parte dell’Arte concettuale, oggetto del saggio di Camiel van Winkel. Oltre ai saggi più generali, la spina dorsale del volume sono i capitoli brevi (tutti scritti da Francesco Zanot) dedicati a singoli fotografi, mostre o pubblicazioni. Da figure mitiche come Weegee, Doisneau, Cartier-Bresson, Avedon, Minor White si giunge a pratiche concettuali come gli scatti seriali di Ed Ruscha, l’archivio fotografico di Gerhard Richter (che da spunti per i dipinti diventano opera autonoma), Larry Clark e il suo libroTulsa, i coniugi Becher. La varietà delle pratiche e l’evoluzione dello statuto della fotografia è ben rappresentato nel volume, anche se- per scelta – in modo non esaustivo. Talvolta l’approccio dal punto di vista fotografico penalizza la descrizione della pratica di artisti puri come ad esempio Nan Goldin, ma il rischio è insito nell’oggetto di studio del libro . E si aspetta con curiosità, leggendo questo terzo volume, l’avvento della fotografia come arte contemporanea tout court. Ma l’appuntamento è rimandato (anche per comodità di organizzazione, visto che il fenomeno comincia ad affacciarsi già negli anni Settanta) al quarto volume. La fotografia vol. 3 – Dalla stampa al museo, 1941-1980 a cura di Walter Guadagnini - Skira, Milano 2013 Pagg. 215, € 60 - ISBN 8857215075 - www.skira.net 66 Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore BFI a cura di Gustavo Millozzi, MFIAP-HonEFIAP-SemFIAF www.gustavomillozzi.it www.fotoantenore.org [email protected] 67
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