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IL FOGLIO
Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1
ANNO XIX NUMERO 240
Euroincentivi
La nuova “Draghi rule”
puntella Renzi sul Jobs
act e provoca Merkel
Chi fa le riforme perde nelle urne, si
diceva. Ora chi non le fa soccombe,
dice il banchiere. Cosa è cambiato
Berlino parla di “investimenti”
Roma. Esisteva finora la “maledizione di
Jean-Claude Juncker” – lanciata alla metà
degli anni 2000 dall’allora primo ministro
lussemburghese divenuto oggi presidente
della Commissione Ue, citata pure da capi di
governo europeisti come Romano Prodi e
Mario Monti – secondo la quale i governi sanno quali sono le riforme necessarie ai rispettivi paesi ma allo stesso tempo non sanno come essere rieletti se decidono di attuarle
davvero. Da qualche ora, però, c’è anche la
“regola di Mario Draghi”, speculare e contraria alla maledizione di
cui sopra: “Oggi i governi
sanno che, se non faranno le
cose giuste, spariranno dalla scena politica perché non
verranno rieletti”, ha detto
il presidente della Banca
centrale europea durante la
sua trasferta statunitense
che si è conclusa ieri a Washington. Draghi è convinto MARIO DRAGHI
che la “Juncker’s curse”, come è stata ribattezzata nei circoli brussellesi, sia ormai invalidata dalla lunga crisi dell’Eurozona. Mentre l’austera Finlandia ieri
perdeva comunque per mano di
Standard&Poor’s la sua tripla A sul debito
pubblico a causa delle grame prospettive di
crescita, il ragionamento del banchiere centrale puntellava (perfino generosamente)
Matteo Renzi, e tutti i governi che si cimentano con le riforme, mentre interpellava (criticamente) la Germania. Ecco perché.
“Siamo d’accordo con il Fondo monetario
internazionale (Fmi) sulla necessità di dare
la priorità a investimenti pubblici efficaci
che aumentino la produttività, pur tenendo
conto dello spazio fiscale limitato in alcuni
paesi dell’Eurozona”, ha detto ieri Draghi
intervenendo a Washington. Poi il presidente della Bce ha ribadito che il Consiglio direttivo di Francoforte è “unanime” nell’impegno a “usare ulteriori misure non convenzionali” se necessario a contrastare un “periodo troppo lungo di bassa inflazione”. Draghi ha invitato a non vanificare gli sforzi fatti sul fronte del consolidamento fiscale e a
insistere sulle riforme strutturali. Quindi ha
concluso così: “Condivido totalmente l’appello della direttrice del Fmi (Christine Lagarde, ndr) contenuto nel suo rapporto Global policy agenda”. Un rapporto che è stato
alla base dei lavori ufficiali e degli incontri
ufficiosi di questi giorni negli Stati Uniti; 18
pagine in cui la Germania è l’unico paese
europeo chiamato esplicitamente e individualmente in causa, addirittura per tre volte. Perché la ripresa nell’Eurozona è in stallo, con il concorso “di investimenti inaspettatamente deboli in Germania” (uno); perché “gli investimenti in infrastrutture dovrebbero essere sostenuti lì dove i gap possono essere chiaramente identificati (per
esempio il mantenimento e l’ammodernamento delle infrastrutture in Germania)”
(due); e perché “una crescita bilanciata richiede che le economie in surplus rilancino la domanda interna (per esempio, la Germania)” (tre). Con tutto ciò Draghi si dice
“totalmente” d’accordo. Unendosi così a
quanti, in questi ultimi giorni, hanno messo
il ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble, “sotto pressione” (“unter
druck”, come titolava ieri il quotidiano finanziario Handelsblatt). E non senza qualche piccolo risultato, pare. Perché perfino
quella “specie esotica” di ministro rigorista,
come l’ha dipinto il quotidiano tedesco, non
proprio a suo agio nel clima più pragmatico
che caratterizza l’altra sponda dell’Oceano
atlantico, alla fine ha aperto alla necessità
di “investimenti” nel proprio paese. Senza
concedere nulla sul Patto di stabilità e crescita che vincola i conti pubblici di tutti gli
altri, sia inteso. Ma almeno un segnale c’è.
Lo registrava ieri con enfasi pure il New
York Times, in un articolo in prima pagina di
Jack Ewing (capo della redazione economica
in Europa) e Alison Smale (capo della redazione tedesca). Nell’articolo si dava conto di
un altro indizio: la cancelliera Angela
Merkel, in una conferenza stampa a Berlino,
ha ammesso che le previsioni economiche
per il suo paese sono “piuttosto peggiorate”
e ha aggiunto che il suo esecutivo sta considerando come incoraggiare gli investimenti,
specialmente “nel settore digitale”. “Investimenti nel digitale, non solo in ponti e strade
come comunemente si pensa quando si parla di ‘infrastrutture’”, aveva detto Draghi
proprio due giorni fa a New York, “specialmente per quei paesi che hanno spazio fiscale per sostenere la domanda”. Quella di
Schäuble e Merkel è dunque un’apertura,
per un paese in cui “negli anni 90 gli investimenti erano pari al 23 per cento del pil –
ha scritto ieri Adriana Cerretelli sul Sole 24
Ore – Oggi sono scesi al 17 contro il 20 per
cento della media Ocse. In soldoni ogni anno ne mancherebbero all’appello per 80 miliardi”. Berlino che rilancia la sua domanda
interna non sarà un toccasana per tutti gli altri paesi che “spazio fiscale” non ne hanno,
ma una stampella sì. Chi si ferma, anche nell’Europa del nord, è perduto. E’ la nuova “regola di Draghi”. (Lo Prete segue a pagina quattro)
quotidiano
Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014 - € 2,00
DIRETTORE GIULIANO FERRARA
Paolino, i ricchioni e i direttori
OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO
ROSEO E’ L’AMORE
Sputazzate in faccia, femminielli devoti, maestri di braccio ma senza
cervello, editori timorosi. Gli Stones sì, David Bowie no. Così chiacchiera
il sommo Isotta, che ha più nemici di Truman Capote ma non gl’importa
LA MALALA
EDUCACIÓN
Il nuovo libro di Vito Mancuso alla
luce del mio concilio di Calcedonia
sulla teologia delle copertine
Camillo Langone: Paolo, o Paolino come ti
firmi affettuosamente nella dedica, adesso
ho capito chi sei, sei il nostro Truman Capote, a cui assomigli anche fisicamente. Penso
DI
CAMILLO LANGONE
al Capote di “Preghiere esaudite” che mettendo in piazza i segreti del jet-set (si chiamava jet-set) newyorchese si vide improvvisamente emarginato da tutti. Con “La virtù
dell’elefante”, il libro di memorie dove metti in piazza te stesso, i tuoi nemici e un po’
anche i tuoi amici, non temi di esserti fatto
terra bruciata?
Paolo Isotta: Ottimo Camillo! Io Truman
Capote! Ma nemmeno san Gennaro potrebbe fare un miracolo simile! Truman Capote è
un sommo scrittore e io tiro la carretta, sono un buon scrittore perché conosco l’italiano e il latino: nulla di più.
L: Chissà se Capote conosceva il latino. Ma insisto a
credere che non
avesse più nemici di te.
I: Io credo
di non aver
nemici, o di
averne pochissimi,
mentre la
grazia
che mi
viene da
san Gennaro è di
avere
una gran
quantità
di amici
carissimi.
Io
non
credo di
a v e r
messo gli
amici alla
berlina:
certo alla
berlina posso aver messo qualche conoscente, nessun
amico. Quindi, di che terra bruciata cianci
(e scusa se adopero questo verbo estremo)?
Io ho il privilegio di poter considerare amici solo quelli che mi piacciono perché del resto me ne fotto. Il mio libro, come ha detto un
fine scrittore, non è un libro contro, è un libro pro, onde grazie a esso il numero degli
amici non potrà che crescere.
L: Ammiro il tuo ottimismo. Io che sono
pessimista se avessi scritto “Non amo i calabresi: di solito sono antipatici e hanno un fondo di rancore” oppure “Gli Isotta, per quanto piemontesi, non erano sciocchi”, sarei convinto di essermi inimicato intere regioni. Certamente non ti è amico Carli Ballola, che picchiasti una notte in via Camerelle a Capri perché ti aveva criticato sull’Espresso. Credo ti
voglia male anche Bruson, che cercò di strozzarti in un camerino dell’Arena di Verona.
I: Ti sarò grato se mi farai spiegare bene
la cosa.
L: Sono qui per questo.
I: Bruson mi aggredì perché avevo scritto
che sconosceva il solfeggio, il che, almeno in
quella circostanza, era vero. Carli Ballola lo
presi a calci e sputazzate in faccia. Ma qua
la cosa è più complessa. Egli mi aveva nel
passato calunniato (bada bene: calunniato,
non diffamato) ed era venuto da me in lagrime pregandomi di non agire e dichiarandosi pentito. Ciò due volte, non una. Quando
uscì “Il ventriloquo di Dio”…
L: Il libro dedicato a Thomas Mann e alla
sua fascinazione per Wagner, il nazismo, l’omosessualità…
L: Sì. In quel periodo ero in grandissima
difficoltà, avevo perso il Corriere della Sera
ed ero stato bocciato al concorso universitario. Bisognava darmi il colpo di grazia e Carli Ballola si fece il brutale calcolo di dare
una mano ai salotti (dai quali sperava di essere ricuperato, come in effetti fu) contro di
me. Scrisse un pezzo grondante ipocrisia nel
quale mi prendeva in giro. Raggiungerlo fu
meraviglioso. Era una fine settembre, a Capri, lui si trovava lì perché in giuria del Premio Italia. Io non feci altro che appostarmi
a via Camerelle. E Carli Ballola passò.
L: Insomma un agguato. Non te ne sei pentito?
I: Ne sono fierissimo!
L: A proposito di violenza. Nel libro racconti di quando le donne dei bassi napoletani si inorgoglivano perché il marito le picchiava, e mostravano fiere i lividi: segni, in
effetti, di vivace interessamento. Sbaglio o
anche a Napoli quel tipo di donna, a forza di
sentir parlare in televisione di femminicidio, si è estinta?
I: Come hai ragione, si è estinta! Certo, alla base c’era dell’egoismo maschile (non dirò
mai maschilista), ma era un modo ctonio di
concepire la vita, certo più legato a quelle
radici animalesche nostre che però ci furono
donate da Dio.
L: Sbaglio o a Napoli si sono estinti o semiestinti pure i femminielli? Nel libro ne
parli molto: la loro devozione, la loro partecipazione ai matrimoni del popolo, il nesso
con i sacerdoti di Cibele. Saranno stati spazzati dalla modernità, dall’omosessualità irreligiosa che si identifica nella parola americana di tre lettere.
I: Vedi, anche qui si tratta d’una concezione della vita immemorabilmente antica. E
non è solo ctonia, è anche pan-religiosa. Ma
se da un panteismo passiamo alla nostra re-
ligione, Cristo s’è incarnato anche per i femmenielli, la sua infinita bontà vuole che lo
sia anche per i gays, che sono tristi femmenielli ideologici…
L: Bella questa, tristi femminielli (o femmenielli, come dici tu certo più correttamente) ideologici…
I: Siccome non sono perfetto, pur sapendo che in purgatorio mi troverò pure con loro aggiungo qualche migliaio di anni a quelli che mi toccano dichiarando che mi fanno
pena!
L: Nei ringraziamenti scrivi che ben sei
editori hanno rifiutato di pubblicarti per timore di querele. Temo avessero ragione.
Prendi Piero Buscaroli, noto querelomane
(dopo che gli dedicai una pagina di elogio
minacciò di querela anche me). Passi definirlo “un grande scrittore ma non un grande uomo”, ma scrivere
delle sue amanti
napoletane mi
sembra pericoloso.
I: E’ un déjà vu
anche mio, m’è
accaduta la stessa cosa dieci anni fa. La minaccia giunse al direttore
del
Corriere dopo
un mio articolo superelogiativo incastonato in
una pagina
intera da
me preparata che
lanciava il
suo meraviglioso
“Beethoven”, allora in uscita. Questa
volta da Buscaroli non tanto
m’attendo querele quanto la richiesta di sequestro del libro.
L: Eppure fai un grande elogio del padre,
Corso Buscaroli.
I: Sì, gli faccio un monumento per tabulas.
Fu eroico combattente, martire della Repubblica sociale e sommo latinista… Tolto il caso Busca, io credo che tu parli di querele in
senso atecnico: il libro è stato letto da civilisti e penalisti confessati e comunicati. No, il
timore di azioni legali invocato dagli editori
è solo un basso pretesto a giustificare il rifiuto.
L: E quella sfilza di personaggi della Napoli ricchiona, come la chiami felicemente
tu? Li classifichi “ricchioni sposati” e spero
per te che siano tutti morti: ma non ci sono
vedove che potrebbero adontarsi?
I: Morti o vivi, a Napoli non si fa querela
per così poco…
L: Io temevo che fossi omosessuale, invece
nel libro racconti anche relazioni con donne,
quindi ti si potrebbe definire bisessuale, giusto?
I: Tu lo dici.
L: Racconti di aver sverginato una ragazza irlandese all’hotel Sacher di Vienna, che
poi non sposasti perché la madre, moglie di
un pilota che aveva bombardato Napoli, pretendeva una tua dichiarazione di fede antifascista. Ti sei pentito di essere rimasto signorino?
I: Scherzi? Ringrazio sempre san Gennaro! Io sono inadatto costituzionalmente alla
vita di coppia.
L: Io e te condividiamo una cosa: non riusciamo a parlare con le lesbiche. E’ vero che
nell’85, a una cena, Susan Sontag ti fece una
domanda e tu non le rispondesti?
I: La cosa precisa è così: voleva parlare di
Thomas Mann e figurati se di Mann io parlo
con una lesbica nuovayorchese! Però
trent’anni fa ero più educato: invitata la Sontag dal mio ospite a Capri, mi ci sedetti a tavola, adesso mi siedo solo con chi dico io.
L: Condividiamo anche l’amore per la liturgia. “Non so se la sua scomparsa dalla
chiesa attuale sia causa o effetto della decattolicizzazione del mondo contemporaneo:
probabilmente ambo le cose”, scrivi. L’altra
domenica sono capitato in una messa cattochitarristica (la chitarra, meglio se elettrica,
mi piace molto in contesto dionisiaco, mentre in contesto cristiano specie se è ritmica
la percepisco immediatamente come sacrilega). Quando alla consacrazione mi sono inginocchiato, solo io in una chiesa piena, mi sono come te convinto che simili riti sono sia
causa sia effetto della perdita della fede.
I: Lo dici così bene che non appulcro verbo.
L: Come accordi la tua fede nella jettatura con la tua fede in Cristo? Nel catechismo
leggo che “il primo comandamento vieta di
onorare altri dèi, all’infuori dell’unico Signore che si è rivelato al suo popolo. Proibisce
la superstizione”.
I: E che, caro Camillo, vuoi dopo morto farmi andare direttamente in paradiso? Un bel
po’ di purgatorio debbo farmelo anch’io!
L: A pagina 68 sembra che Virginia Bourbon del Monte, la madre dell’avvocato
Agnelli, sia stata l’amante del capo delle SS
in Italia Karl Wolff. Ho capito bene?
I: Sic.
L: Domandina di attualità: han fatto bene
a licenziare coro e orchestra del teatro del(segue a pagina quattro)
l’Opera?
• L’ISLAM MODERATO è talmente
raro che l’occidente lo premia col
Nobel
(editoriale a pagina tre)
• QUELLA
SUBLIME e pazzotica
“Carmen” messa in scena da Arbasino (SDM negli inserti VI e VII)
Circo vuoto
Così il Dr Gribbels festeggia
l’irrilevanza dei pentastellati
Il giro in papamobile con Casaleggio,
gli stand 3D, quell’aria di reducismo
Roma. Si apre la festa del Movimento
cinque stelle e Beppe Grillo esce da un hotel con un cartello sulla faccia (a favore di
una onlus per ipovedenti), per poi affacciarsi sul Circo Massimo dietro una transenna e mettersi a scherzare sul “drone”
da cui avrebbe voluto guardare gli stand disposti a forma di stivale: dentro ci sono attivisti solerti che spiegano ad anziani signori e famiglie con passeggino come funzioni
l’avveniristica stampante 3D, quella che, da
un input su computer, sputa fuori un oggetto di plastica. “Ma davvero posso fabbricare pezzi di ricambio?”, chiede un attivista;
“ma davvero posso farci gli occhiali?”,
chiede l’altro. Ma certo, risponde un informatico che ha costruito in dieci ore una cittadella turrita e una mezza dozzina di animaletti multicolore. Per un po’, in mancanza d’altro, quello della “fabbricazione digitale” è lo stand più frequentato, assieme al
banchetto delle gentili signore valdostane
che offrono formaggi. Fa caldo, il tramonto è lontano, Edoardo Bennato fa il sound
check dopo alcuni rapper sconosciuti, una
coppia di rocchettari cinquantenni balla
con foulard texano al collo e un pittore confidenziale (con tutti) “regala” sotto compenso simbolico stampe di nature morte o rovine romane assortite.
La piazza sotto-palco è ancora mezzavuota (non si riempirà, ma Grillo dice: è solo il primo giorno). Allo stand del Lazio gli
avventori rimirano un fotoromanzo satirico sul governatore Nicola Zingaretti e, poco oltre, leggono volantini sulla “Rcautoequa”. Tutto è fai-da-te, anche il giornalino
“Il Movimento”, che un attivista presenta
magnificandone la casualità di fattura:
“Qualcuno scrive bene, altri meno bene,
ma sono tutti non giornalisti”. Il banco dei
libri, a parte uno in cui il presidente della Repubblica è dipinto come “capo-banda”, è pieno di volumi che raccontano chi
siano e che cosa abbiano fatto i parlamentari finora visti soltanto nei video autoprodotti sul web (si chiama “Coerenza”, il mio
volume, spiega un attivista-venditore). Solo che è passato un anno e mezzo, la strategia del grugno fisso e del “no” a tutto ha
prodotto una certa irrilevanza politico-parlamentare e, anche se Grillo dice “ci prendiamo l’Italia”, non è detto che tutti ci credano. Aleggia sottotraccia la polemica sul
sindaco mezzo-dissidente di Parma Federico Pizzarotti: “Povero”, dice Grillo (ma
sul palco scherzerà sui sindaci “buoni” e
sui sindaci “meno buoni”). Il Movimento
pare sdoppiarsi: da una parte sembra voler cancellare il fatto che il treno è passato; dall’altra continua a ripetere, come fa
Grillo a un certo punto, la frase-feticcio
che rassicura gli attivisti arrabbiati, quelli per cui l’ottobre 2014 è come il febbraio
2013: “Abbiamo preso il 25 per cento, Napolitano doveva darci l’incarico, gli altri
hanno fatto le larghe intese nelle segrete
stanze e poi ci hanno dato la colpa dell’inciucio”. Si aggiunge solo il colpo al nemico di oggi: “Renzi è leader di partito senza base, noi abbiamo la base senza leader”, e si dice di preferire Berlusconi ai
“finti amici della sinistra”. La realtà matrigna viene rigirata (“siamo dentro il cambiamento anche se non riusciamo a vedere bene”, dice Grillo). Ma non basta un giro col sorriso in papamobile (lo fanno Grillo e Casaleggio), e allora il comico fa il triplo salto mortale: voi, proprio voi, voi dovete diventare me.
Twitter @mariannarizzini
La mia Genova di nuovo sotto l’acqua. Un disastro. Anche il centralino della questura
di Genova è in tilt, funziona solo la linea del
113. Danneggiati ovviamente numerosi uffici: letteralmente spazzato via l’Ufficio
immigrazione, che si affaccia sul piazzale
nel retro dell’edificio di via Diaz. Cinque
volanti sono finite sott’acqua e inservibili. Danneggiata anche l’auto blindata in
uso al cardinale Bagnasco, custodita nel
parcheggio della questura, che, sollevata
dall’acqua, ha sfondato l’ingresso dell’Ufficio immigrazione. “Un bel danno. Ma
fortuna vuole che Sua Eminenza non tenga ancora famiglia”, gli ha subito scritto
Ciccio I°.
Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21
L’
idea che non si possa giudicare un libro
dalla copertina è una pericolosa eresia,
da contrastare con tutte le armi dell’apologetica. Inclina per un verso al docetismo –
DI
GUIDO VITIELLO
l’esteriorità di un volume è degradata a mera apparenza, fantasma, come le spoglie
mortali di Cristo – e per altro al nestorianesimo, postulando due nature distinte, la copertina e i fascicoli delle pagine, tenute accidentalmente assieme da una costola. E invece l’esterno e l’interno di un libro sono,
per l’ortodossia, un’unica ipostasi. Forte
delle conclusioni del mio privato concilio di
Calcedonia, rivendico il diritto di giudicare
il nuovo libro del teologo laico Vito Mancuso dalla copertina, dove su campo bianco un
cuore stilizzato fa da apostrofo rosso tra le
parole “Io” e “amo”. Sottotitolo: “Piccola filosofia dell’amore”. E’ un libro che si annuncia piccolo, obietterà qualcuno, non facevi prima a leggerlo? Lo so, ma volevo mettere alla prova un altro caposaldo della mia
erigenda teologia della cultura, il dogma
che postula l’infallibilità di Gad Lerner ex
cathedra televisiva nel reclutare e magnificare le eminenze di quello che chiamerei il
pensiero grigio, o stinto. La copertina di “Io
amo” non è grigia, è bianca e rossa. Abbinamento cattolicissimo, che a qualcuno ricorderà lo sposo “candidus et rubicundus”
del Cantico dei Cantici, a qualcun altro il figlio “bianco e vermiglio” della lauda di Jacopone, e che a me evoca piuttosto una pagina di Chesterton (in “Ortodossia”) dove si
parla, guarda caso, proprio della dottrina
cattolica dell’amore e del matrimonio: “E’
vero che la chiesa storicamente ha insieme
esaltato il celibato ed esaltato la famiglia, è
stata insieme (per così dire) aspramente
contro l’aver figli e aspramente contro il
non averne. Ha tenuto questi due princìpi
l’uno al lato dell’altro, come il rosso e il
bianco sullo scudo di san Giorgio. Ha sempre avuto un salutare orrore per il roseo”.
Ecco il segno inequivocabile dello scrittore
cristiano di robusta tempra spirituale: il
senso vivo del paradosso, delle antinomie
fiammeggianti che non si lasciano conciliare in uno scialbo compromesso a metà strada. Che il cuoricino rosso su campo bianco
dello stemma di san Vito sia dunque di
buon auspicio?
Chissà. Ma ricordo anche di aver letto
tempo fa, sul Post, un articolo molto competente dove si diceva che il rosso e il bianco
sono, nel cinema italiano, i colori d’obbligo
su tutte le locandine delle commedie sentimentali. Mi sono chiesto se qualcosa del genere valesse anche per l’editoria, e con una
breve ricerca ho potuto facilmente constatare che la copertina di “Io amo” di Vito Mancuso, cuoricino compreso, è largamente sovrapponibile a quelle dei seguenti libri:
“Impara a dire ti amo”, “Ti amo comunque”,
“Amore ai tempi dello stage”, “Ti amo” di
Francesco Alberoni, “L’amore è tutto” di Michela Marzano e “Amore 14” di Federico
Moccia. Quei libri, insomma, che solo a vederli ti vien voglia di mettere lucchetti a
Ponte Milvio, intagliare cuori sulle cortecce
e scrivere Tvtb sul diario. Anche qui il bianco e il rosso fanno un contrappunto cromatico vigoroso; ma solo perché nella mente
del lettore si combinino a formare un terzo
colore occulto: il rosa. La copertina di “Io
amo” evoca dunque al tempo stesso Chesterton e Moccia. Vedete bene che non è possibile. Sono stato così costretto ad aprire il libro,
e a piluccare frasi qua e là, per farmi un’idea. Ho letto, per esempio, che nell’amore
l’ego deve essere aperto, tirato, disteso “come la pasta quando si fanno le tagliatelle”
(Meister Eckhart al tempo di Giovanni Rana). Ho letto che, proprio come il corpo, l’anima dev’essere mantenuta in forma con un
nutrimento sano e con una buona igiene,
“pulita con la medesima cura con cui ci facciamo la doccia, accarezzata con la medesima delicatezza con cui ci spalmiamo le creme” (Evagrio Pontico in versione Neutro Roberts). Ho trovato una profonda disquisizione sul tema: le onde dell’innamoramento ricordano più le onde meccaniche, elettromagnetiche o quantistiche? Poi sono piombato
sull’incipit: “Dov’eri, cosa pensavi, cosa facevi quando la freccia di Eros ti trafisse per la
prima volta?”, e ho avuto la conferma che
cercavo. Alleluia, Lerner è infallibile.
Cosa chiede la Turchia
Così Erdogan e Obama
si guardano negli occhi
mentre Kobane brucia
Ankara chiede una zona cuscinetto
per fare la guerra ad Assad, Washington
non vuole aiutare con i suoi aerei
Piano umanitario (e militare)
Roma. La Turchia vuole da anni una zona
cuscinetto (spesso chiamata anche: buffer
zone) che parta dal confine e si estenda per
un numero ancora imprecisato di chilometri dentro la Siria. Per averla è adesso disposta anche a vedere Kobane, la città curda e siriana appena oltrefrontiera, cadere
nelle mani dello Stato islamico dopo una
battaglia disperante di tre settimane raccontata in diretta dai media di tutto il mondo. L’inviato speciale delle Nazioni Unite,
Staffan de Mistura, ieri ha detto in conferenza stampa che ormai
Kobane è quasi del tutto
circondata, resta soltanto
un punto di entrata e uscita con il confine turco e
quando anche quello cadrà
sotto il controllo del gruppo
di Abu Bakr al Baghdadi
“allora potrebbe finire con
un massacro come a SreR.T. ERDOGAN brenica nel 1995” (quando i
serbi bosniaci marciarono
su una città in teoria protetta dalle Nazioni Unite e trucidarono più di 8.000 prigionieri musulmani). Oggi, dice De Mistura, ci
sono ancora 1.000 anziani curdi che rifiutano di abbandonare Kobane e altre dodicimila persone circa intrappolate nelle poche
centinaia di metri tra la città e il primo reticolato del confine turco. Il governo di
Ankara impedisce ai volontari curdi di passare il confine per andare in aiuto dei miliziani che stanno perdendo a Kobane e il
Pentagono ha detto che i bombardamenti
con gli aerei (nove ieri) non riusciranno da
soli a salvare la piccola enclave, descritta
ormai come “un isolotto curdo in mezzo a
un mare controllato dallo Stato islamico”.
La buffer zone è presentata dalla Turchia come un progetto umanitario ma si
tratta in pratica di una mossa politica e militare: la creazione di fatto di un mini-stato affidato ai ribelli siriani e protetto con
mezzi americani o Nato dalle incursioni aeree del governo del presidente Bashar el
Assad, che in questi giorni continuano in
tutta la Siria. Questo è il tema di discussione con gli americani. Ankara vuole che si
impegnino a usare gli aerei per tenere lontani i bombardieri e gli elicotteri di Assad.
Washington non vuole impegnarsi anche in
questo tipo di operazioni, che sarebbero
una dichiarazione di guerra contro Damasco e complicherebbero di molto le operazioni in corso contro lo Stato islamico in Si(Raineri segue a pagina quattro)
ria e in Iraq.
Renzi vs Baghdadi
L’Italia manderà armi e consiglieri
per aiutare i curdi in Siria e Iraq.
Ma niente cacciabombardieri
Roma. La coalizione contro lo Stato islamico si rafforza con un maggiore contributo dei paesi della Nato e forse anche dell’Italia, che finora si è limitata a inviare ai
guerrieri curdi poche armi e munizioni leggere e a mettere a disposizione un aereo da
rifornimento in volo Kc-767A finora non dispiegato in medio oriente. Washington preme per un maggior ruolo degli alleati arabi ed europei in una coalizione che nei primi due mesi di operazioni ha visto gli Stati Uniti compiere oltre il 96 per cento delle circa 5 mila sortite aeree contro lo Stato islamico. Meno di 200 sono state effettuate dagli alleati. A far crescere le pressioni
per un impegno diretto di mezzi aerei italiani ha contribuito l’arrivo in Giordania ed
Emirati Arabi Uniti di quattordici cacciabombardieri F-16 olandesi e belgi e otto
F/A-18 australiani. Sono attesi altrettanti
velivoli dello stesso tipo dal Canada e sei
F-16 dalla Danimarca. Si tratta di paesi
che, come già Francia e Gran Bretagna, impiegano i propri mezzi solo nei cieli iracheni e non sulla Siria, dove volano solo i velivoli statunitensi e arabi (sauditi, giordani e di Bahrein, Emirati e Qatar). Sul piano militare tutti i nuovi membri attivi della coalizione sono più deboli dell’Italia,
aspetto che concorre a mettere Roma sotto pressione. Nei prossimi giorni è previsto
un incontro tra i vertici militari degli stati
membri della coalizione e in quella occasione l’Italia metterà sul tavolo nuove disponibilità. Il summit potrebbe tenersi nei
primi giorni della prossima settimana, come sembrerebbe indicare la convocazione
delle commissioni Difesa di Camera e Senato richiesta dal ministro della Difesa,
Roberta Pinotti, per giovedì prossimo.
Fonti solitamente ben informate sembrano
però escludere che l’Italia invierà cacciabombardieri (Tornado o Amx) come hanno
fatto gli altri partner della Nato per evitare coinvolgimenti diretti nel conflitto. Precauzione un po’ ambigua e di certo superflua se tesa a evitare rappresaglie terroristiche dal momento che Roma è comunque
un membro della coalizione contro il Calif(Gaiani segue a pagina quattro)
fato.
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG 2
Lettere rubate
La vita stupefacente e misteriosa
di Marella Agnelli, che mostra
le sue case ma non il suo cuore
Negli anni Sessanta, quando i nostri figli erano bambini, Gianni amava stupirli con dei gesti
eclatanti, come per esempio decidere all’ultimo
momento di portarci per la giornata in Costa AzDA
ANNALENA
zurra. Partivamo da Torino e quaranta minuti
dopo eccoli lì che si lanciavano tutti e tre in acqua direttamente dall’elicottero in volo. Io amavo meno questo gioco, ma lo facevo lo stesso. Giusto per salvare la faccia.
Marella Agnelli,
“Ho coltivato il mio giardino”, Adelphi
Marella Caracciolo aveva cominciato a innamorarsi di Gianni Agnelli ancora prima di
conoscerlo, attraverso i racconti delle amiche: prodezze militari, avventure galanti, una
famiglia “allegramente amorale” in cui si andava alle feste, si avevano amanti. Lo incontrò quando aveva diciott’anni, subito dopo la
fine della guerra, si sposarono nel 1953, e in
ogni pagina di questo libro fotografico, che
celebra i ricordi e la bellezza, c’è questo amore anche molto sofferente, che non è finito
mai. Un amore immerso dentro un lusso abbagliante, dentro una vita a tratti magnifica,
di certo stupefacente per noi che la osserviamo, e mai tranquilla (o forse tranquilla soltanto quando Marella Agnelli ha coltivato le
sue rose, progettato i suoi giardini). Vogue
mandò Robert Doisneau a fotografare quel
matrimonio in abito di Balenciaga (Marella
aveva ventisei anni, Gianni Agnelli trentadue
e si appoggiava a un bastone, dopo un terribile incidente in macchina, avvenuto mentre
tornava dal Casinò di Montecarlo con una ragazza), e quella coppia diventò il simbolo di
ogni cosa irraggiungibile: lui era l’Avvocato,
lei il cigno, come la chiamava Truman Capote che all’improvviso telefonava per farsi
ospitare a Torino, estasiato dal fatto di spingere un bottone e ritrovarsi davanti un cameriere in livrea; fecero lunghe vacanze in barca insieme, Marella gli confessò cose indicibili (“Lui sapeva come entrare nei pensieri
e nell’intimità delle persone. Stava lì in agguato, come un falco”), infine si accorse che
Capote si nutriva di quella intimità, la considerava materiale letterario. Sfogliando questo libro, accade la stessa cosa: tutte le case
che Gianni e Marella Agnelli hanno progettato, tutti i giardini, i viaggi, le scene di vita famigliare, gli sguardi di bambini trasognati,
accarezzati dai ricordi e dal dolore di Marella Agnelli, sembrano una fiaba, ancora prima
che una vita. “Ci rendemmo conto che non
avevamo uno spazio dove mettere tutte le
opere di giovani artisti che stavamo scoprendo e così Gianni chiese a Gae Aulenti di realizzare un appartamento a Milano”. Si creavano case per far posto ai quadri, ci si tuffava dagli elicotteri, si studiavano livree per i
camerieri, si arredava per una notte la carrozza del treno per Parigi con le lenzuola e
gli asciugamani cifrati, si passava novembre
a New York, l’inverno a Sankt Moritz, l’estate sulla Costa Azzurra, Agnelli indossava vestaglie a fiori e babbucce di montone sul terrazzo di una delle ville, con gli amici. Erano
gare di bellezza, di eleganza, di avventura,
però attraversate dal dolore, da qualcosa di
misteriosamente infelice anche negli anni
bellissimi in cui gli Agnelli erano tutti insieme, e ridevano, circondati di figli e nipoti, e
sceglievano in quale giardino raccogliere le
rose. Sessant’anni di matrimonio d’amore in
un mondo a parte, e la vita continua anche
dopo, ma ha bisogno di conforto, oppure di
tirare le somme. Resterà un segreto, anche
dopo questo libro-celebrazione, la verità sulla vita di Marella Agnelli, che continua a coltivare i suoi giardini.
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
C’erano due storie di cani ieri,
di cani morti. Uno era Excalibur, cane dell’infermiera spagnola Teresa
Romero e di suo marito Javier, prelevato
nella casa in cui era rimasto solo perché
i padroni di casa erano ambedue in isolamento, e soppresso (si dice così, per i cani) per effetto di una decisione della magistratura, preoccupata di un eventuale
contagio dell’ebola. L’altro era Loukanikos, celebre cane dei manifestanti greci,
morto precocemente – a 10 anni – secondo il suo veterinario per aver respirato
troppi lacrimogeni. Loukanikos (“Salsiccia”, luganiga) era un protagonista di piazza Syntagma ed era istintivamente (si dice così, per i cani) dalla parte dei giovani
anarchici e contro le forze dell’ordine in
assetto antisommossa. Anche per Excalibur sono intervenute ingenti forze antisommossa, per tenere a bada gli animalisti che ne avrebbero voluto salva la vita in
cambio di una quarantena. Ci sono state le
solite discussioni dei paragonatori, gli uni
scandalizzati che ci si addolori per un cane “quando muoiono tanti esseri umani”,
gli altri convinti che “i cani sono molto migliori degli uomini”. Il diavolo, orecchie
umane e coda di cane, si annida nei paragoni. Io, che sono molto ragionevole e responsabile, avrei sofferto come una bestia
(si dice così) se, segregato per una micidiale malattia, non avessi potuto proteggere
il mio cagnolino da un mandato di esecuzione. Non è solo per la speciale innocenza degli animali: per fare un pezzetto di
paragone, l’infermiera ammalata per aver
assistito un vecchio morente non è solo innocente, è meritevole di ogni ammirazione e pena, e passa già per una gran seccatrice. E’ perché gli animali dipendono da
noi e ci proteggono, e noi li tradiamo, dopo che abbiamo diviso con loro una casa
e cento scontri con la polizia. Avrei voluto scrivere una poesia per Excalibur e
Loukanikos ieri, poi ho pensato che ne sarebbero state scritte a milioni, più belle
della mia. Io però avrei usato finalmente
a proposito la “Valle Giulia” di Pasolini,
e avrei dedicato una terzina anche ai cani poliziotto. Riposino tutti in pace.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
A furia di disintermediare, il talk muore (e io pure non mi sento tanto bene)
Q
uel grandioso processo di disintermediazione di cui tutti parlano e che Matteo
Renzi avrebbe realizzato nel campo della politica, per l’Italia di oggi, è anche un problema economico. Un problema che tiene insieme, come due facce della stessa medaglia,
crisi di rappresentanza e crisi dei talk-show.
In poche parole: non si sa più chi invitare in
tv. Se infatti il capo del sindacato, il dirigente di partito o il presidente della Confindustria hanno un’influenza sempre meno rilevante sulle vicende politiche, bisogna mettersi nei panni di chi bene o male – una, due o
sette volte alla settimana – deve riempire
quelle maledette poltrone davanti alle telecamere, e deve farlo con qualcuno che dia almeno l’impressione di avere qualcosa da dire in merito a quanto accade. Il problema
non è solo la dura fatica del cambio di rubrica telefonica: è che non si sa più con chi sostituire i protagonisti di ieri. L’aspetto più sottovalutato della crisi di rappresentanza è infatti proprio questo: che i corpi intermedi
hanno centralini sempre facilmente rintracciabili, portavoce costantemente reperibili,
panchine lunghissime da cui gettare in campo in qualsiasi momento sostituti già debitamente rodati e riscaldati al primo sentore di
infortunio del titolare. Nell’èra della disintermediazione, a rischio è pertanto un’intera
filiera produttiva. Un rischio non da poco, in
un paese che in questo momento ha due talkshow condotti da Giovanni Floris, due “Ballarò” e almeno tre programmi alla Santoro,
senza contare quello effettivamente condotto
da Michele Santoro.
Non è solo colpa di Renzi, naturalmente.
Anzi, a essere onesti, il Pd è oggi l’unico par-
tito che abbia ancora un dibattito interno
degno di questo nome, cioè capace di esprimere dei personaggi e uno straccio di trama
che gli spettatori possano seguire da casa.
Resta il fatto che sempre più spesso, guardando i talk-show, si ha l’impressione che gli
stessi dirigenti del Pd più vicini al presidente del Consiglio siano generalmente ignari
delle sue intenzioni e totalmente all’oscuro
dei suoi progetti (per non parlare di grillini
e berlusconiani). Il risultato è un dibattito
sempre più vicino al teatro dell’assurdo, in
cui uno si limita a formulare ragionevoli
ipotesi e l’altro a ragionare di ipotetiche formulazioni, il giorno dopo sistematicamente
smentite dagli eventi. Poi dicono che calano gli ascolti.
Si obietterà che questi sono problemi marginali, di fronte alla portata del cambiamento in atto. Certamente, se ci leggesse, qualche
renziano della primissima ora come Davide
Serra invocherebbe anche per i talk-show la
salvifica distruzione creatrice del capitalismo. E all’angoscia per il vuoto incolmabile
delle nostre prime serate televisive, non c’è
dubbio che un Oscar Farinetti risponderebbe con un’alzata di spalle, ricordandoci, con
il filosofo, che ben altro è in gioco, che “qui
s’impasta e si leviga l’argilla più nobile, il
marmo più prezioso, l’uomo”.
Eppure questa storia della disintermediazione non convince del tutto. Certo, non si
possono non vedere i segni del cambiamento:
per le strade non si incontrano più cabine telefoniche, perché, al giorno d’oggi, chi gira
più senza un telefono cellulare in tasca? Dai
bar sono scomparsi i videogiochi a gettoni,
perché, al giorno d’oggi, chi non ha una Play-
Station in salotto? Probabilmente, con il predominio della Nespresso – what else? – scompariranno anche i bar dove sedersi a fare colazione, perché anche il caffè preferiremo
farcelo da soli, una volta sconfitta l’insopportabile e opprimente intermediazione della
moka, con quella polvere di caffè che andava dappertutto e l’acqua che non bolliva mai.
E presto, è chiaro, spariranno pure le edicole, perché, domani, chi non avrà il suo comodo abbonamento sull’iPad? E pazienza se il
naufrago, l’esule o il rifugiato appena sbarcato non troverà lungo la strada uno straccio di
giornale che gli dica se in città è scoppiata
un’epidemia, né un telefono da cui chiamare aiuto, né un bar in cui prendersi un caffè
o farsi almeno l’ultima partita a Tetris. I tempi della disintermediazione, si sa, non sono
tempi ospitali.
Eppure, dicevamo, anche nella retorica
della disintermediazione c’è qualcosa che
non convince del tutto. Certo, si osserva, internet e in particolare i social network hanno
permesso a moltissime aziende di saltare mediatori e distributori, per rivolgersi direttamente al mercato. Ma parecchie di quelle
stesse aziende oggi protestano contro Facebook, dopo avere scoperto che il social
network, al fine di spingere ciascuno di noi
a comprare pubblicità, ha modificato ripetutamente l’algoritmo che regola la visibilità
delle nostre pagine. Dunque la mediazione
non è affatto sparita, si è soltanto spostata. E
lo stesso si potrebbe dire per quanto riguarda lo scontro tra Amazon e gli editori. Chiunque usi Google o YouTube è ormai abituato
a trovare ovunque vada “video consigliati”
sulla base dei video che ha visto in preceden-
za, e secondo lo stesso criterio libri, riviste, ristoranti, palestre, prodotti e servizi di ogni
genere, e persino partner consigliati apposta
per lui. E’ noto il caso del sito di incontri che
si è divertito a condurre qualche piccolo
esperimento di ingegneria reticolar-sociale
alterando le informazioni degli utenti e vedendo l’effetto che faceva. Qualcosa del genere è già capitato anche con Facebook. Insomma, quando sul nostro schermo comparirà
anche il partito consigliato apposta per noi,
forse smetteremo di discutere di disintermediazione della politica e cominceremo a
preoccuparci dei nuovi intermediari.
Nel frattempo, sarà forse utile anche prendere nota del fatto che ognuno di noi, seppure in tasca non ha alcuna tessera di partito o
del sindacato, ha comunque nel portafogli la
tessera del supermercato, quella della libreria, quella del club frecciarossa o millemiglia
o vattelappesca. E che i libri che oggi si vendono di più, su Amazon come in Autogrill come da Feltrinelli, sono quelli che invitano ad
aiutare se stessi, curare se stessi, diventare
padre-amico-leader di se stessi, per sconfiggere angoscia e solitudine. Una forma di disintermediazione che in campo psicologico e
spirituale, non meno che in politica, può fare la fortuna di un gran numero di modernissimi ciarlatani. Ma anche il segno del fatto
che c’è un sacco di angoscia e solitudine. E a
questo problema non può rispondere la tessera del supermercato, ma neanche un partito il cui unico momento di aggregazione sia
la campagna delle primarie, che è come dire un partito ridotto a un talk-show permanente, per di più in evidente crisi di ascolti.
Francesco Cundari
Renzi che vai, share che trovi. La Clerici lo ingaggia per la finocchiona
Nostra Signora degli ascolti. Renzi che vai,
share che trovi. Giovedì sera Nicola Porro ha
stracciato Santoro e tutto il “Servizio Pubblico”. Il vecchio Michelone ha toccato il suo
NOVE COLONNE
minimo storico, il conduttore unico delle coscienze è stato rottamato, ed è stato appunto Matteo Renzi ad accendere per “Virus” la
febbre del sorpasso.
Nostra Signora degli ascolti. Più che il Giglio Magico, il Tocco Magico. Il premier, lunedì scorso, aveva acconsentito a presenziare nell’agone popolare di “Quinta Colonna”
e consentire così a Paolo Del Debbio di sovrastare la tribuna chic di “Piazzapulita”, la
trasmissione di Corrado Formigli su La7.
Nostra Signora degli ascolti. I conduttori
non contano niente, gli autori meno che mai
e il talk risorge con la nuova Madonnina degli ascolti. Per uno Sgarbi che esce di scena,
entra un Renzi in grado di ravvivare il lan-
guore dell’audience. La capra non basta – più
– capra!, capra!, capra! – e tutti fanno a gara
per avere ospite il presidente del Consiglio,
già rodato da Maria De Filippi per “Amici”
e da Bruno Vespa dove ha fatto da testimonial per la nuova serie di “Porta a Porta”.
Nostra Signora degli ascolti. Renzi che vai,
share che trovi. Anche Lucy, ossia Lucia Annunziata, lo ha avuto nella sua “Mezz’ora” riscuotendo applausi di pubblico e di critica.
Non è mancato alla prima puntata di “Che
tempo che fa”, il vero conduttore televisivo,
ormai, è lui, neppure Beppe Grillo può eguagliarlo e Renzi, infatti, trasforma i cadaveri
catodici in star.
Nostra Signora degli ascolti. Renzi rottama i presentatori e rinnova, presenziando,
la tivù d’Italia. A Viale Mazzini, per dire,
pensano di usarne la faccia per metterla in
sovrimpressione con il televideo mentre alla “Prova del Cuoco”, la pur fortunata trasmissione di Antonella Clerici, si stanno organizzando per averlo ospite, e invogliarlo
così alla prova più difficile: il taglio della
finocchiona.
Nostra Signora degli ascolti. Più che il Gi-
glio Magico, il Palinsesto irresistibile. Gianluigi Paragone, conduttore della “Gabbia”,
ha programmato una puntata speciale con
Matteo Renzi ospite. Sarà un “a tu per tu”
con Diego Della Valle. La trasmissione, accuratamente studiata dallo staff autoriale de
La7, ripeterà lo schema (ah!, la memoria)
della celeberrima disfida tra Marco Travaglio e Silvio Berlusconi. Invece che farla in
piedi, così come prevede il format, Paragone farà trovare le sedie. E sarà tutto una suspense ad aspettare chi per primo, tra i due,
pulirà la sedia dell’altro.
Nostra Signora degli ascolti. Renzi che vai,
share che trovi. Non mancherà, Renzi, di fare un’apparizione alla “Arena” di Massimo
Giletti. Il premier, nel segmento di “Domenica In”, avrà cura di interloquire direttamente con la pancia del paese, esattamente
nella fase postprandiale, twittando in diretta tutti i transiti aerei localizzati in zona esofagea che, per dirla con Filippo Sensi, sono
pur sempre #cosedilavoro.
Nostra Signora degli ascolti. E’ il tocco magico del palinsesto irresistibile. E’ tutta una
gara ad averlo ospite e, da par suo, anche
Paolo Mieli, per “Correva l’anno”, si aggiudica Renzi quale gradito ospite. Il presidente del Consiglio, sussidiario alla mano, vestito col grembiule di Gian Burrasca, si rivela
un discepolo desideroso di apprendere. Nove Colonne ha avuto modo di visionare la registrazione delle puntata e se è lecito fare
una notazione critica prima della messa in
onda è un vero peccato che sia mancata la
proverbiale pappa col pomodoro. Si sussurra di un veto della Clerici di cui sopra.
Nostra Signora degli ascolti. I conduttori
non contano più nulla, Renzi è, ormai, il conduttore unico e in proprio e non si fa mancare il sabato sera. Un po’ per solidarietà toscana, un po’ perché è uno showman, Renzi
va da Carlo Conti, nella serata speciale di
Rai1. Il premier è l’ospite d’onore di “Tale e
quale show”, il programma dove i vip si esibiscono nell’imitazione di altri vip. Un grande successo, fiore all’occhiello di Gianka,
Gianka, Gianka, Leon, Leon, Leon!, direttore
di Rai1. Tale e quale nel vero senso della parola. Renzi entra nella cabina magica ed
esce tale e quale Silvio Berlusconi. E senza
bisogno degli infallibili truccatori.
Un po’ matti, bru bru e tanto paraculi. Peones a scuola da Mineo e Civati
Roma. Ricordate gli yesmen, i peones, l’alienazione dell’onorevole pendolare che si
consegnava mani e piedi alla disciplina di
partito, al capogruppo, al capocorrente, al
capopartito? “La nostra battaglia si è conclusa con una sconfitta, per il momento”, soffia
minaccioso Corradino Mineo, deputato del
Pd che non ha votato la fiducia al governo
del Pd. L’Italia del centralismo democratico,
e di quello carismatico berlusconiano, ha
forse vissuto in passato d’eccessi, di troppi
parlamentari coristi a bocca chiusa, di forzati del voto elettronico, fedeli alla luce del
sole, ma sempre pronti a una rivolta incappucciata nella confortante oscurità di un voto segreto. D’altra parte gli eccessi portano
alle contorsioni, ai trucchi della morale, nel
paese di Machiavelli: è infatti l’Italia, dove le
minoranze tumultuose per tradizione piegavano la testa alla disciplina di partito, ad
aver inventato i franchi tiratori, figure palindrome e ossimori viventi, sempre a metà tra
la dimensione della libertà e il torbido co-
smo dell’intrigo: nel segreto dell’urna ancora oggi affossano governi, presidenti della
Repubblica, membri del Csm, giudici costituzionali, leggi e decreti. Eppure mai, mai
nemmeno nell’Italia delle sintesi impossibili, nel paese in cui i treni sono lenti ma si
chiamano tutti “freccia”, nel paese del partito di lotta e di governo battezzato da Berlinguer, s’era visto il deputato che sta nel Pd ma
sta anche contro il Pd, che sta in maggioranza ma sta anche all’opposizione, che sta dentro ma sta fuori. Un caso clinico per il neurologo Oliver Sacks
Gonfio di ribellione e di mali propositi
contro il Jobs Act del suo segretario e premier Matteo Renzi, Pippo Civati risponde così al mite Lorenzo Guerini, il vicesegretario
che gli faceva notare come, in effetti, “non votando la fiducia si pone qualche problema di
compatibilità tra il partito e loro”. Dice dunque Civati: “Non si può avere un partito all’americana e poi immaginare che ci sia una
disciplina di stampo sovietico. Non potete
cacciarci”. E poco importa che in America, al
Congresso, non si siano mai visti i parlamentari del Democratic party votare contro il loro presidente Obama. Gli dice infatti Roberto Giachetti, in romanesco bonario: “Ma chi
te caccia? Sei tu che già te ne sei andato”. In
nome dell’indipendenza di giudizio, Mineo e
Civati, ce l’hanno con il loro partito. Così per
Mineo “il Jobs Act è un pasticcio bocciato da
Draghi”, mentre Renzi altro non è che “un ragazzino autistico che vorresti proteggere perché tante cose non le sa”. Renato Brunetta,
che ovviamente non sta nel Pd, si esprime
con meno brutalità: e insomma Mineo ha
un’idea del suo partito più violenta e avversaria di quella che hanno gli avversari violenti del suo partito. Non diverso è il caso di
Civati, secondo cui il decreto lavoro del Pd
“non va”, secondo cui “il dissenso si può
esprimere anche con la fiducia”, e secondo
cui, infine, ovviamente, malgrado lui sia contrario a tutto, “da qui non mi muovo”. Sia Mineo sia Civati, capipopolo della strana rivol-
ta, rivendicano insomma il diritto di stare nel
Pd e di votare contro il Pd, d’avere la tessera del partito di Renzi e negare la fiducia al
governo di Renzi, e su questioni che nulla
hanno a che vedere con la libertà di coscienza, con la fede, con la vita o con la morte. E
dunque, malgrado le sintesi impossibili siano
la storia d’Italia, qui siamo evidentemente
ben più avanti anche rispetto alle convergenze parallele morotee. Dice per esempio Giachetti: “L’unico che avrebbe potuto onestamente votare contro la fiducia del governo,
ma non lo ha fatto, è Walter Tocci, che ha dichiarato di volersi dimettere. In un partito,
uno ci sta o non ci sta. Se ci stai, allora rispetti i rapporti di forza interni e la democrazia,
anche se non sei d’accordo. Se non ci stai, se
esci dal partito, ovviamente puoi fare come
ti pare. Ma se invece fai come ti pare, e resti
anche dentro il partito, allora è un pasticcio
neuropsichiatrico. E anche una furbata”.
Salvatore Merlo
Twitter @SalvatoreMerlo
New Republic mette sotto processo Amazon, efficiente impero del male
New York. Siamo tutti indulgenti nei
confronti di Amazon, che ci manda in tempo reale gli ebook di Patrick Modiano per
sembrare colti nelle discussioni post Nobel, ci fa scaricare film e giornali, spedisce
più o meno qualunque cosa esista sul mercato in modo rapido e con costi postali risibili, ci regala le gioie infinite del servizio
Prime. Chi abita a New York presto potrà
godere anche delle consegne nello stesso
giorno, così il vaporizzatore in bambù ordinato la mattina arriverà in tempo per cucinare a cena i dumplings che soddisfano i
palati etnici degli amici. Poi si passerà ai
droni e tutto questo sarà preistoria. Di fronte a tanta efficienza e attenzione per il consumatore riesce difficile pensare ad Amazon come a un impero del male, un monopolista senza scrupoli che distrugge con
protervia i piccoli produttori, forse nemmeno la mente cospirazionista di Naomi Klein
metterebbe l’azienda di Jeff Bezos sullo
stesso piano della Monsanto, di Walmart, di
Goldman Sachs, della Nestlé e delle sette
sorelle del petrolio. Aleggia un pregiudizio
positivo su Amazon, e in gran parte è meritato, ma pur sempre un pregiudizio. Questa è la tesi di Franklin Foer, direttore di
New Republic, che mette in copertina una
controstoria sull’“everything store” di Seattle, “splendente rappresentante di una
nuova età dell’oro dei monopoli” in cui le
aziende “non usano il loro potere quasi incontrastato per aumentare i prezzi” ma per
blandire il consumatore con offerte vantaggiose, mentre strangolano tutti gli altri
player del mercato. Monopolio è una parola a cui tutti, e specialmente i giovani, so-
no allergici. La credenza comune è che l’idea del dominio di un mercato non abbia
cittadinanza nella Silicon Valley, dove chi
non produce continuamente innovazioni
viene sbranato dalla “next big thing”. Ma il
monopolio esiste anche lì, eccome, tanto
che il futurologo Peter Thiel nel suo ultimo libro, “Zero to One”, riabilita il concetto su cui Amazon basa il modello di business. Foer mette in fila alcuni fatti esemplari. Amazon controlla il mercato dell’editoria, impone i prezzi e controlla i profitti
(il 30 per cento del prezzo di copertina finisce ad Amazon, presto si passerà al 50),
tanto che i grandi editori internazionali da
anni ormai si stanno fondendo e comprando fra loro, nella speranza di poter competere. La verità è che possono sopravvivere
perché Amazon concede loro il privilegio,
ma competere è un’altra cosa. Quando sul
mercato si affaccia poi qualche piccolo
player che contende ad Amazon il primato
in una nicchia di mercato, il gigante lo logora con la forza dei prezzi fino a che, esausto,
il competitor non si lascia fagocitare. Quando diapers.com faceva concorrenza sulla
vendita di pannolini, Bezos ha messo in
preventivo una perdita netta di 100 milioni
di dollari in tre settimane pur di strangolare la piccola impresa creativa. Non c’è bisogno di dire come è andata a finire. Finisce
che Amazon si ritrova nel ruolo di nemesi
di tutti i principi cari ai liberal di New Republic, tifosi della competizione e dunque
antagonisti del monopolio, anche nella sua
versione efficiente e sorridente.
Mattia Ferraresi
Twitter @mattiaferraresi
Vice & Co. I millennial leggono i nuovi siti di news, ma non tutto è perduto
Roma. Due giorni fa il presidente degli
Stati Uniti Barack Obama ha pubblicato un
lungo post in cui si dice pronto a scommettere sui millennial (i nati dal 1980 in poi, la
generazione cresciuta – chi più chi meno –
con internet, smartphone e wi-fi) per dare
forma alla nuova economia del paese. L’articolo è scritto in prima persona e indirizzato all’indistinto “you” dei millennial americani. L’operazione (che puzza di campagna
elettorale fin da subito) è in perfetto stile
obamiano, ancorché un po’ goffa per i molti
luoghi comuni usati nell’articolo: le sue righe compaiono infatti su Medium, sito cool
per condividere idee e storie personali molto frequentato dai millennial. Non sul sito
della Casa Bianca, né sul New York Times.
Obama e il suo staff infatti sanno bene che
la dieta informativa dei quindici-trentaquat-
trenni è cambiata radicalmente negli ultimi
anni. Vox, BuzzFeed, Vice, Fusion e molti altri siti come questi si stanno accaparrando
quote sempre più grandi del mercato millennial: come spiegato in una lunga analisi
sul sito di Nieman Lab, questa generazione
è ormai la fetta più consistente della popolazione americana, e solo negli Stati Uniti
spenderà circa 200 miliardi di dollari da qui
al 2017. Loro sono il nuovo target di pubblicitari ed editori, che non possono più pensare di puntare sulla tv per raggiungere un
mondo che ha punti di riferimento nuovi e
mutevoli. Vice, BuzzFeed, Vox: agli over 35
forse questi nomi dicono poco, ma sono tra
i primi siti per percentuale di lettori millennial in America. Time, Guardian e New York
Times vengono dopo, comunque inframmezzati da altre pubblicazioni online non tradi-
zionali. Una bolla? Nessuno può dirlo con
certezza, ma mentre testate storiche tagliano personale e rivedono il loro modo di lavorare, questi siti raccolgono milioni di dollari da investitori convinti che per arrivare
ai millennial si debba passare da lì.
Il mercato, scriveva Ken Doctor sul sito
di Nieman Lab, è abbastanza grande per fare sopravvivere a lungo queste nuove
realtà. Anche perché se è vero che questa
nuova generazione si sente lontana dalle
istituzioni, in gran parte non si sente anti
establishment, dato che continua a informarsi su testate e tv già frequentate dalle
generazioni più vecchie. Non è dunque questione di vecchi o nuovi editori, ma di chi
meglio sa raggiungere questo pubblico sempre più numeroso con un’offerta digitale all’altezza: allergici alla carta, e in generale
alle notizie troppo statiche, i millennial sono lettori più attenti dei loro fratelli maggiori: al momento rappresentano il 30 per
cento degli utenti totali di internet, ma ben
oltre il 30 per cento dei frequentatori abituali di siti di news. Si sentono orgogliosamente “digitali” e stanno diventando, per
molti editori impermeabili ai cambiamenti,
una sfida complicata da affrontare ma potenzialmente molto remunerativa. Diversi
investitori usano il digitale per costruire un
pubblico affezionato e occupare nuovi spazi. Non è un caso che sempre più giornali
stiano decidendo di pubblicare prima le notizie online e poi sul cartaceo, né che tra le
testate tradizionali che più sperimentano
sul digitale ci sia il Washington Post di Jeff
Bezos, il fondatore di Amazon.
Piero Vietti
Vite parallele
Benedict predicò la povertà
in televisione, Jean-Claude fuggì
da Haiti per scappare in Francia
Benedict Joseph Groeschel
Robert Peter Groeschel nacque il 23 luglio
1933. Nacque a Jersey City nel New Jersey.
Studiò in scuole cattoliche. Quando fu accolto come novizio nella casa dei francescani
cappuccini a Huntington nell’Indiana prese
il nome di Benedict Joseph, in onore di Benedict Joseph Labre, un santo mendicante.
Ordinato nel 1959, servì come cappellano nel
Villaggio dei Bambini a Dobbs Ferry, nello
stato di New York. Per rendere più efficace
la sua opera, nel 1964 fece un master in Psicologia e sei anni dopo
un dottorato in Psicologia clinica, alla Columbia University. Al
Villaggio dei bambini lavorò
per dieci anni, poi si dedicò come
direttore allo sviluppo spirituale dell’arcidiocesi di New York. Mentre i ritiri spirituali da lui diretti diventavano sempre più
popolari presso fedeli d’ogni età e d’ogni
estrazione, cominciò a insegnare psicologia
al seminario St. Joseph di New York. Nel
1987 con sette fratelli lasciò i cappuccini per
fondare la congregazione dei Francescani
del Rinnovo. Il nuovo gruppo – di cui divenne il servo, ovvero il superiore – impegnato
a ristabilire l’originario voto di povertà e il
primitivo spirito di servizio francescani aprì
la casa della Fratellanza di San Crispino nella zona più povera, più violenta e più priva
di servizi sociali del South Bronx. L’efficacia
del nuovo lavoro tra i diseredati fu apprezzata: negli anni la congregazione crebbe molto e aprì case in giro per il mondo, soprattutto in Sudamerica, ma una anche a Londra.
Alla questua e alla distribuzione di beni ai
poveri, fratello Benedict Joseph accostò una
tenace opera ecumenica che lo vide cooperare con gruppi religiosi di diverse denominazioni protestanti e di religione ebraica. Ma
il suo saio grigio, i suoi piedi nudi nei sandali, la sua lunga barba grigia arrivarono soprattutto alla gente dagli studi dell’Eternal
World Television Network, la stazione televisiva internazionale cattolica con base in Alabama. Attraverso la tv, ma anche con più di
quaranta libri e una fitta serie di conferenze in giro per il mondo, fratello Benedict Joseph sostenne una visione tradizionalista
della fede, condannò l’edonismo della cultura contemporanea, ogni forma di attività sessuale fuori dal matrimonio e il basso livello
di obbedienza dottrinale tra i fedeli. A un
grave incidente stradale, e a un ictus conseguente, attribuì certe affermazioni che lo
esposero alla critica delle stesse gerarchie
della chiesa e gli consigliarono di ritirarsi
dall’apostolato. E’ morto venerdì 3 ottobre.
Jean-Claude Duvalier
Nacque il 3 luglio 1951. Nacque a Port-auPrince. Il padre era il presidente François
Duvalier, il dittatore di Haiti, conosciuto come “Papa Doc”. Cattivo studente, per mancanza di impegno e di intelletto, a 19 anni
Jean-Claude fu designato dal padre a succedergli come presidente a vita. Un referendum non confermò la nomina all’unanimità:
vi furono un voto contrario e due astenuti.
“Baby Doc” dichiarò che, se suo padre aveva
fatto la rivoluzione politica, lui avrebbe fatto quella economica. Asfaltò qualche strada,
incoraggiò gli investimenti stranieri, sfruttò
l’avversione americana per il regime cubano,
diede un po’ di respiro agli oppositori. Perfino Giovanni Paolo II gli fece credito. Poi si
sposò male con una donna dell’aristocrazia
mulatta. I seguaci “noiriste” si ribellarono.
La coppia fuggì in Francia. La moglie se ne
andò di casa con figli e dollari. Baby Doc era
ridotto al meno quando l’elezione a Haiti di
un presidente a lui favorevole gli permise di
tornare. Non tentò rivincite, sostenne il regime esistente, tornò all’allegra vita notturna,
comparve qualche volta davanti a giudici
comprensivi. E’ morto sabato 4 ottobre.
PREGHIERA
di Camillo Langone
Non toccatemi più la Schiava Turca! Il medesimo stato che impedisce ai Bronzi di Riace di raggiungere
una meta nazionale ha consentito che la
Schiava Turca, capolavoro del Parmigianino, volasse in un altro continente.
Due guerrieri metallici non potrebbero
spostarsi nemmeno su gomma mentre
una fragile tavola di legno viene autorizzata a rischiare gli abissi dell’Atlantico.
L’ho scoperto grazie a Bruno Zanardi,
insigne restauratore parmigiano e membro della commissione ministeriale
Bronzi (ma perché l’altra sera in via Nazario Sauro mi aveva preannunciato il
suo voto a favore dello spostamento e
invece al dunque ha votato contro? Un
giorno magari scoprirò anche questo).
Sappiamo che la Schiava Turca non era
schiava e non era turca (forse era Giulia Gonzaga), ma quello che conta è la
suggestione del titolo. Ho imparato dal
Parmigianino quanto sia auspicabile
imbattersi in una donna maliziosamente sottomessa e feticisticamente addobbata. Forse per questo l’hanno spedita a
New York senza pensarci due volte: la
Schiava è un fulgido esempio di femminilità e dispari opportunità, un pugno
nell’occhio dei genderisti di governo,
precipitasse pure.
INNAMORATO FISSO
di Maurizio Milani
Da un anno sono andato in seminario senza dir niente a mio zio prete. Ieri viene nella mia cameretta il rettore e fa: “Perché non hai detto che hai
uno zio prete? Non c’è problema, domani è nominato vescovo a Liegi, a te mandiamo a fare noviziato nella pampa argentina. Di’ a tuo fratello frate che non lo
spostiamo”. Da oggi si può andare a prete via Twitter (non è riconosciuto come
diploma dal Vaticano, forse nel 2080).
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG 3
EDITORIALI
La Malala educación
L’islam moderato è talmente raro che l’occidente lo premia col Nobel
L
a paura, il dolore, la ferocia nemica,
i successi e l’orgogliosa resistenza di
Malala: uno dei racconti più belli del nostro tempo. E’ la dimostrazione che l’islam moderato esiste, ma è talmente raro che l’occidente lo premia con il Nobel
per la Pace. Malala lo meritava più di
Tawakkul Karman, la donna simbolo della cosiddetta “primavera araba” premiata nel 2011. C’erano tanti candidati degni
come Malala: il medico cubano Elías Biscet, i dissidenti iraniani che hanno cercato di abbattere la teocrazia nucleare,
l’opposizione dello Zimbabwe che ha
cercato di rovesciare il satrapo Mugabe,
il prete vietnamita Nguyen Van Ly, gli
esuli nordcoreani che cercano di riportare la luce nel paese più oscuro del mondo. I talebani volevano morta Malala perché vuole istruire le bambine. Premiare
Malala significa premiare le donne afghane uccise dagli studenti di Allah. Una
di loro aveva fondato a Kabul una scuola di musica che non ha nome né insegne,
per il timore di attentati e dell’acido
solforico che gli islamisti gettano in faccia alle ragazze che osano andare a scuola. Un’altra donna faceva lezione in edifici di fortuna, con muri di argilla, paglia
e sterco, niente vetri, luce, riscaldamento. La poliziotta Malalai Kakar pattugliava le strade di Kabul. La regola numero
ventiquattro del Mullah Omar identifica
uno dei principali nemici del jihad proprio nell’insegnamento: “I musulmani
devono studiare in moschea”. Malala
aveva sfidato questa fatwa. Mentre tante
donne musulmane inglesi partono alla
volta di Raqqa e Mosul per tagliare teste,
un’altra ragazza islamica col velo si è
presa una pallottola in testa dagli amici
dell’Is. Non è poco. Malala viene dopo
Ayaan Hirsi Ali, la prima donna islamica che si è schierata contro il fanatismo
maomettano. Malala viene dopo Neda, la
ragazzina iraniana assassinata dai pasdaran durante l’Onda verde. Malala viene dopo Aisha, la ragazza a cui i Talebani hanno tagliato le orecchie e il naso e
che finì in una copertina di Time. Malala è le donne curde che in questi giorni
stanno resistendo come leonesse ai carnefici dello Stato islamico. Speriamo solo che, dopo averle comminato il Nobel,
l’opinione pubblica non ricatti anche
Malala. Niente uscite contro la guerra in
Afghanistan. Niente irenismi del tipo “i
talebani non sono il vero islam”. Niente
interviste a Repubblica per spiegare che
“il terrorismo si batte con la cultura”
(giusto, basta avere anche i fucili). Se far
studiare o meno le bambine afghane e
pachistane, se rispettare i diritti naturali e positivi delle donne islamiche, è questa la differenza fra “noi” e “loro” e la superiorità dell’occidente sull’islam. Fra
un ordine millenarista fondato sulla sharia e uno incentrato sui diritti della persona. Per questo siamo andati e morti in
Afghanistan.
Chi risarcisce Finmeccanica?
Dopo Scaglia e Romeo, un’altra assoluzione che grida giustizia
E
siamo a tre. Dopo l’assoluzione con
formula piena di Silvio Scaglia (caso
Fastweb) e di Alfredo Romeo (per il così detto affaire Global Service), ecco il
proscioglimento “perché il fatto non sussiste” per gli ex top manager di Finmeccanica Giuseppe Orsi e Bruno Spagnolini, accusati di corruzione internazionale
per presunte tangenti pagate in India
nella vendita di elicotteri Agustawestland. La sentenza del tribunale di Busto Arsizio, arrivata giovedì, segue l’archiviazione, ad agosto, dell’accusa di finanziamenti alla Lega nord ricavati dalle tangenti stesse. Per Orsi e Spagnolini
è rimasta la condanna a due anni, sospesi, per il reato minore di false fatture. Cade dunque per l’ennesima volta un castello accusatorio tipico di alcuni pm,
quello della corruzione internazionale,
nel quale si sono specializzati i vari De
Pasquale e Woodcock, nonché giornalisti
a caccia di sensazionalismo. Ieri, a proposito, sulla “grande stampa” l’assoluzione è finita confinata in poche colonne all’interno (cercatele). In attesa di vedere
se una sorte analoga toccherà alle inchieste che, con le medesime accuse
complottiste, tesori e tesoretti costituiti
in Italia e immancabili faccendieri e log-
ge P4, hanno coinvolto l’Eni in Nigeria e
Algeria, si possono intanto contare le vittime di un modo di indagare per teoremi,
brogliacci di intercettazioni e verbali
passati a reporter che li pubblicano volentieri (con strilli da edizione straordinaria). Le prime vittime sono certo le reputazioni personali degli indagati o imputati; e assieme ci sono l’onore e l’interesse di un sistema imprenditoriale e di
un paese che pare interamente modellato sulle invettive di Roberto Saviano o di
Sabina Guzzanti. La seconda vittima sono le aziende, che perdono commesse
strategiche (come quella indiana) prontamente rimpiazzate dalle concorrenti
inglesi, francesi, americane, cinesi, sulle
quali la mannaia della corruzione internazionale e dei maxi-complotti non incombe perché il sistema giudiziario è diverso, e perché altrove quei reati non esistono (a meno che non configurino evasione fiscale o benefici personali in patria). A essere colpiti sono poi gli azionisti grandi, come lo stato, e piccoli, come
i risparmiatori. Infine gli investimenti,
logicamente non certo attratti da un’Italia dove la magistratura, per fare un prigioniero, scatena guerre preventive a
tappeto e colpisce nel mucchio.
Corporazioni di replicanti
Basta corsi truffa a sussidio delle burocrazie, iniziare dai giornalisti
S
ui corsi di formazione obbligatori e
“farlocchi” “c’è stata un’intera generazione di associazioni di categoria, sindacali e datoriali, che c’hanno mangiato
per anni”, ha detto Matteo Renzi intervistato alla trasmissione “Virus” giovedì su
Rai 2. Il presidente del Consiglio rispondeva a un’imprenditrice che, a proposito di semplificazione delle trafile burocratiche, ha fatto notare l’assurdità di
“un corso antincendio dove ti dicono che
devi chiamare i vigili del fuoco o scappare” in caso divampino le fiamme, “utilissimo”. Costo: 200 euro (più il tempo perso). Non poco per chi, come lei, gestisce
un bar con quattro dipendenti.
Se Renzi trova discutibile un meccanismo utile soltanto a giustificare (e autoperpetuare) l’esistenza di carrozzoni parassitari, inizi allora a occuparsi dell’Ordine dei giornalisti. Con la riforma degli
ordini professionali (vergata dall’ex ministro della Giustizia, Paola Severino) si
è reso obbligatorio, per chi è iscritto all’albo da almeno tre anni, frequentare
corsi di aggiornamento su tematiche varie. Cosa si potrà scoprire di nuovo? Quali finezze saranno mai rivelate?
Contenuti a parte, i posti a disposizione nei corsi gratis vanno esauriti subito,
ovvio, e non bastano per tutti; quindi ci
sono quelli a pagamento. Essere costretti a spendere qualche centinaio di euro
solo per poter continuare a esercitare la
professione è di per sé paradossale, almeno quanto il corso anti incendio in cui
ti segnalano che si esce dalla porta, o se
quella è bloccata allora meglio la finestra. Il meccanismo poi è pure piuttosto
ingiusto. Non solo perché questi corsi
possono essere appaltati a enti terzi rispetto all’Odg e tenuti da “docenti” selezionati non si sa bene come. Ma anche
perché sostenerli economicamente non
sarà una passeggia per tutti, pure in termini di tempo. I corsi d’aggiornamento
infatti saranno obbligatori allo stesso
modo per professionisti e pubblicisti
(questi ultimi non sarebbero nemmeno
tenuti a essere giornalisti a tempo pieno). Solo in un paese in cui non si ha fiducia negli individui – siano essi direttori responsabili o lettori – si può imporre
per legge una “lectio” sull’uso dei social
media o sulla riforma elettorale. Renzi,
rottamaci tutti.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
• Settis e Berdini all’assalto di Renzi il “cementificatore”. Ma chiedergli di leggere davvero il decreto sblocca Italia è troppo?
La curiosa immunità dei professionisti dell’indignazione
N
el nostro paese, caduta quella parlamentare, sono rimaste tante altre forme di “immunità”, come quella di cui
godono i professionisti dell’indignazione. A Salvatore Settis
come pure a Paolo Berdini, che hanno raccolto i loro penANALISI
inizio attività o anche una segnalazione certificata di inizio
attività. Berdini aggiunge che non si dovranno pagare gli oneri dovuti. Peccato che nell’articolo 17 del Testo unico, come
modificato dal decreto, si preveda espressamente che, per
la realizzazione degli interventi di accorpamento delle unità
immobiliari, il contributo di costruzione è dovuto per la parte commisurata all’incidenza delle opere di urbanizzazione.
E Berdini aggiunge poi che il decreto consentirebbe la possibilità di pagare a rate i cosiddetti oneri concessori, eppure basta leggere il decreto per scoprire che non c’è nessuna
novità su questo tema, rispetto al quale l’articolo 16 del Testo unico – non modificato – già da tempo ammette la possibilità di pagare a rate quegli oneri.
Per gli ideatori del pamphlet, l’importante è dunque deformare, fino a rendere impossibile, un dibattito pubblico sul tema. Altrimenti, entrando nel merito, non così dirompente ed
eclatante, come si fa ad avallare la tesi che Renzi sia un tra-
sieri sul decreto sblocca Italia in un pamphlet dal titolo guerresco “Rottama Italia” (Altreconomia), è consentito, per
esempio, manifestare il proprio pensiero immuni dall’obbligo di commentare e criticare ciò che nel decreto è stato scritto, ma prendendosela con ciò che nel decreto non c’è e che,
forse, speravano ci fosse. Qualche esempio: per Settis, con il
decreto, scomparirebbe la denuncia di inizio attività (Dia) sostituita da una dichiarazione certificata, peccato che la Dia
non scompaia dal testo unico e soprattutto che la segnalazione certificata di inizio attività esista già, che da tempo sia
utilizzabile in alternativa alla Dia per determinati interventi, e che al pari di quest’ultima – che
peraltro continua a essere prevista
– debba essere presentata al comune insieme a tutte le autorizzazioni
Parlando dell’alluvione a Genova, che giovedì ha
che sono necessarie a seconda del
caso, ergo tutto è fuorché “una auto- causato un morto e danni imponenti, il premier Matcertificazione insindacabile”. Ber- teo Renzi ha rivendicato come “assoluta priorità
dini si supera, scrivendo che il de- ‘sbloccare’ le opere pubbliche che sono ferme da ancreto consentirà di aumentare il ni per ritardi e ricorsi”. Le polemiche, come accadnumero degli alloggi senza chiede- de dopo l’alluvione del novembre 2011, si concentrare un permesso. Anche prima non no sul mancato completamento dei lavori per ausi chiedeva il permesso, visto che, mentare la portata dei corsi d’acqua cittadini. Da
trattandosi di un intervento di ri- quattro anni le autorità locali non riescono ad aggiustrutturazione edilizia, si poteva dicare l’appalto per la copertura dell’ultimo tratto
presentare una dichiarazione di
ditore, un Berluschino – per Edoardo Salzano addirittura “l’erede di Craxi” – che non porta avanti un’ideologica e inutile
legge per il contrasto del consumo di suolo, facendo rimpiangere a Carlo Petrini addirittura il grigio ministro Catania e il
governo Monti. Questi autorevoli accademici sanno bene che
il problema dell’uso non appropriato del territorio è un’eredità del passato con la quale misurarsi, e da governare in modo innovativo facendosi venire idee all’altezza della sfida. Ma
loro, caricati di tanti onori, preferiscono denunciare a mezzo stampa che si sta continuando a cementificare tutto, come
negli anni 60, piuttosto che indicare ipotesi di lavoro e soluzioni per gestire quel che abbiamo ereditato.
E l’atteggiamento sul decreto sblocca Italia lo dimostra, visto che scrivono che consentirà “nuove colate di cemento sul
territorio italiano”, quando, in realtà, in materia di edilizia,
il decreto contiene soltanto una serie di modifiche alle norme relative agli interventi sul patrimonio edilizio esistente
che, ove funzionassero efficacemente –
cosa che non sempre è accaduta anche
per effetto di una cattiva e non chiara
regolazione statale e della sovrapposidel torrente Bisagno, causa dell’esondazione, per zione di quest’ultima con quella “creacui già nel 2010 vennero stanziati 35 milioni tra sta- tiva” delle nostre amministrazioni loto e regione. Le imprese uscite perdenti dalla gara cali – rappresenterebbero, più di quahanno presentato ricorso ai Tar di Liguria e Lazio lunque forma di contingentamento aue, sconfitte, s’appelleranno al Consiglio di stato. So- toritativo del suolo utilizzabile, uno
no fermi pure i lavori per lo “scolmatore” del rio Fe- strumento efficace di una necessaria
reggiano, affluente del Bisagno all’origine del disa- politica pubblica per un uso parsimostro del 2011. In attesa di avallare la messa a gara, nioso delle risorse naturali. Ma i prola Corte dei Conti ha congelato le procedure per sei fessionisti dell’indignazione antirenmesi. Ieri scadeva la presentazione delle offerte.
ziana, si sa, godono ancora di una curiosa immunità.
Intanto a Genova, tra pioggia e burocrazia
• Il leader nordcoreano non si vede in pubblico da più di un mese. Un colpo di stato? Un malattia? I servizi vanno alla cieca
Se l’intelligence si perde anche Kim Jong-un siamo nei guai
Roma. Il quotidiano satirico The Onion ha
ormai una rubrica fissa: “Dov’è Kim Jongun?”. Sta seguendo un corso d’aggiornamento per Supremi leader? Sta facendo l’amore
con sua moglie da cinque settimane consecutive? E’ ancora in posa per il suo gigantesco
ritratto da dittatore? “Se anche mia madre,
sessantanovenne che vive in una zona rurale dell’Indiana, mi chiede dove sia finito Kim
Jong-un, allora c’è qualcosa che non va”, scriveva ieri Karl Friedhoff del think tank sudcoreano Asan Institute. Su Twitter si ride molto dell’ultimo mistero esotico che viene dalla Corea del nord: il trentenne paffuto tiranno non si fa vedere in giro dal 3 settembre
scorso, e ieri non ha partecipato a una celebrazione importante – l’anniversario della
fondazione del Partito dei lavoratori di Corea. Ma la Kcna, l’agenzia di stampa ufficiale di Pyongyang, aveva annunciato che a presenziare ci sarebbero state le alte cariche
dello stato, senza menzionare il Supremo leader (una festa alla quale il padre, Kim Jongil, era andato solo due volte quando era in carica). Vero è che per un regime socialista come quello nordcoreano, dove il culto del leader è fondamentale per tenere insieme il popolo, “sparire dai radar” – per usare le parole del quotidiano conservatore sudcoreano
Chosun Ilbo – non è una cosa da poco, anche
perché per Kim Jong-un è il periodo di assenza più lungo dalla sua salita al potere. Nella
gara dei media per tirare a indovinare una
spiegazione abbiamo letto di tutto: ha la got-
ta, si è rotto le caviglie, si è rotto le anche, ha
il diabete per via della sua passione per i formaggi svizzeri – attenzione: quando si tratta
di bufale sulla Corea del nord è importante il
dettaglio, che rende credibile anche le panzane più inverosimili. Un problema di salute è molto probabile, come spiega Curtis Melvin, ricercatore del U.S.-Korea Institute alla
Johns Hopkins, il fatto è che più resta fuori
dalla scena pubblica più i media occidentali speculano. Per esempio su un presunto colpo di stato per opera dei suoi più vicini collaboratori, o addirittura di sua sorella minore Kim Yo-jong (una figura misteriosa e per
questo molto affascinante). Quella di un colpo di stato è un’eventualità smentita da più
fonti e anche dalla delegazione che a sorpre-
sa, domenica scorsa, è andata a Seul a parlare con il governo dei cugini: “Kim Jong-un sta
benissimo”, dicono. Oltretutto sul Rodong
Sinmun, quotidiano del partito, il nome di
Kim Jong-un è citato continuamente, a dimostrazione del fatto che il giovane leader è ancora nel pieno del suo potere. A essere inquietante è piuttosto il fatto che a distanza di
un mese l’intelligence, né quella americana
né quella sudcoreana, sia riuscita a capire
chi tiene in mano il bottone del nucleare a
Pyongyang. Se davvero dovesse esserci un
collasso del regime nordcoreano – una crisi
di proporzioni inimmaginabili per l’area del
Pacifico – Washington, Seul e Pechino verranno a saperlo da Twitter?
Twitter @giuliapompili
• Basta una sventagliata di boccoli della Boschi per disperdere le forze oscure della reazione. Fratello Sole e compagno Landini
La mela del Jobs Act non è dolce, ma toglie Cuperlo di torno
J
obs. Steve non c’è più, ma Renzi sfodera l’Act
e convince il Parlamento a mordere la mela
della delega sul lavoro. Missione che sembrava
impossibile solo ai suoi detrattori senza pallottoWIE ES GESCHEHEN IST - DI MARIO SECHI
liere. La conta finisce giovedì 9 ottobre all’una di notte: il premier incassa 165 sì, 111 no e un libro volante diretto contro
un bersaglio grosso, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.
Due a zero, palla al centro.
S’è raccomandato a san Francesco, Renzi, quando sabato
4 ottobre ad Assisi ricorda “fratello Sole e sorella Luna”. Ispirato dal Cantico delle creature, dimentica che in piazza Santi Apostoli a Roma c’è un aulico Maurizio Landini: “Contrapporre i diritti del padre perché il figlio è precario è una coglionata totale”. E’ la sinistra elegance che tanto ama Renzi
da definirlo “acido” (Gianni Cuperlo). Gli oppositori brandiscono la clava del partito con pochi iscritti, ma il segretario
gioca di contropiede e domenica 5 ottobre fa gol a porta vuota: “Preferisco avere una tessera finta in meno e un’idea in
più”. Urne piene, partito vuoto? Non proprio, il partito c’è e
alla fine lotta pure insieme a lui. Anche perché senza lui non
saprebbe dove andare. E poi in casa dem basta un arbitraggio dadaista durante Juventus-Roma per lanciare nell’agenda istituzionale il fondamentale dibattito su Rocchi. Ci pensa il deputato Marco Miccoli a investire le istituzioni del caso: interrogazione in Parlamento ed esposto alla Consob. Ah,
ci mancava solo la “Rubentus” e il “visto quello che è accaduto, per assicurare una regolarità del campionato è indispensabile l’uso della moviola” (Fabrizio Cicchitto, con la
sciarpa giallorossa sul collo, ore 14 e 39), al calar delle prime
ombre della sera il governo autorizza la fiducia sul Jobs Act
e tanti saluti alla fumosa minoranza. Caterpillar. E’ quello che
i sindacati si ritrovano martedì 7 ottobre a Palazzo Chigi. Renzi alle 9 e 33 li aggira con un “ci sono sorprendenti punti di
intesa”, poi la Camusso fa dietrofront ma Renzi trova conferma sulla bontà della linea quando Sergio Cofferati alle 9 e 42
dice che “è un errore”. La muraglia cinese si sgretola mercoledì 8 ottobre quando il capo della divisione panzer di Renzi, Maria Elena Boschi, dà una sventagliata di boccoli ai lentopedi: “Bisogna correre con le riforme strutturali che devono agire a 360 gradi”, mentre il caro leader a Milano incassa
il via libera di Angela Merkel: “L’Italia sta facendo un passo
importante”. Achtung, la cancelliera lavora per isolare i ri-
belli francesi, ma non ci sono buone notizie neanche per lei,
la produzione industriale tedesca è in calo e Matteo ha un futuro davanti mentre Hollande ne ha uno alle spalle. Tattica.
Ma utile a Renzi per rilanciare giovedì 9 ottobre la palla del
tfr in busta paga, rientrare in zona Disney e Tarantino dicendo che non è “né Paperoga né Mr Wolf”, entrare nei panni
del Berlusconi di Pratica di Mare annunciando che “faremo
incontrare Putin e Poroshenko”. Più pace per tutti, cribbio.
A tutto gas. Coperta d’inverno. E gelo per la minoranza pd
quando Napolitano venerdì 10 ottobre parla di Jobs Act con
una dichiarazione-fulmine: “E’ un passo avanti in un quadro
di riforme che contiene molti altri elementi ancora da coltivare”. Copertura politica.
Sfoglio il Moleskine, ultimi appunti della settimana, un venerdì umido, flashback di taccuini andati: Genova sommersa,
saremo un paese leader in vent’anni, Padoan non teme il giudizio di Moody’s sull’Italia, Draghi teme una frenata della crescita e degli investimenti, giornata di ribassi, ripassi e contrappassi. E poi, Renzi dice che “se questo paese smette di fare polemiche, litigare, è tranquillamente in condizione di farcela”.
Tranquillamente? Dal diluvio, emerge ancora Giovanni Toti:
“Qualcuno si assuma le sue responsabilità”. Ottimista.
• Le milizie giurano fedeltà a Baghdadi, i vertici del gruppo terroristico hanno un piano in tre punti per estendere il Califfato
Lo Stato islamico adesso punta alla Libia e al suo petrolio
Roma. Dopo l’orrore della decapitazione
da parte dello Stato islamico di due cittadini inglesi, John Cantlie e Alan Henning, per
il premier britannico David Cameron è arriDI
PIO POMPA
vata una buona notizia dalla Libia, dove è stato liberato l’ostaggio David Bolam, sequestrato il 19 maggio scorso a Bengasi, da miliziani
del quasi sconosciuto gruppo terrorista Jaysh al islam (Esercito dell’islam), pare costituito da mujaheddin fuoriusciti da Ansar al Sharia. Quasi tutte le formazioni qaidiste libiche,
a iniziare da Ansar al Sharia, starebbero progressivamente aderendo allo Stato islamico,
adottandone il vessillo nero e giurando fedeltà al suo leader, Abu Bakr al Baghdadi. Il
tutto nell’ambito di una strategia, come ha
detto il ministro della Difesa francese, Jean-
N
ato a Buenos Aires nel 1900 e morto
nella stessa città 42 anni dopo per un
attacco cardiaco, Roberto Artl era figlio
di un autoritario immigrato prussiano. Si
vantava di aver venduto il suo primo racconto a otto anni, età in cui era stato cacciato da scuola per il comportamento turbolento. A sedici anni abbandonò la famiglia, mantenendosi con svariati lavori,
mentre studiava da autodidatta e inaugurava collaborazioni giornalistiche. La sua
fama si deve soprattutto alle “Aguafuertes”, le cronache uscite sul Mundo, dal
1928 fino alla morte dell’autore. Il quale
aveva al suo attivo un romanzo autobiografico “Il giocattolo rabbioso”, che con i
successivi (“I sette pazzi” e “I lanciafiamme”) lo collocano con Borges e Bioy Casares tra i padri della moderna letteratura argentina, oltre che tra i precursori del
“Boom” letterario latinoamericano. In
questa raccolta di racconti si può apprezzare la varietà dell’ispirazione di Artl, al
quale la critica Beatriz Sarlo attribuisce
il merito di aver “mischiato quello che
Yves Le Drian, volta a replicare in Libia, Niger, Nigeria e nell’intero Sahel il modello
adottato dallo Stato islamico in Siria e Iraq.
Un disegno, questo, fortemente voluto dai
vertici dello Stato islamico, che avrebbero ordinato ai circa duemila combattenti libici
schierati tra le proprie fila di rientrare in Libia con questi obiettivi. Primo: sostenere le
operazioni condotte da Ansar al Sharia contro le forze lealiste guidate dall’ex generale
Khalifa Haftar. Secondo: costituire, in Cirenaica, un Califfato che oltre a controllare le
risorse energetiche (petrolio e gas) della regione attui, da subito, degli interventi di welfare per fidelizzare la popolazione alla causa islamista. Terzo:tentare di ottenere l’adesione allo Stato islamico di al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi) e del gruppo terroristico al Mourabitoune i cui capi, rispettivamen-
LIBRI
Roberto Arlt
SCRITTORE FALLITO
Sur, 234 pp., 15 euro
non si era mai mischiato prima: il romanzo del Diciannovesimo secolo, il feuilleton, la poesia moderna e il decadentismo,
la cronaca di costume e la cronaca nera,
i saperi tecnici”. Nell’antologia troviamo
un ricco saggio di quella mescolanza, grazie a undici della settantina di racconti di
Roberto Arlt finora rintracciati. C’è la storia di come il “blocco dello scrittore” riesca a trasformarsi in una sorta di poetica:
“Non era il caso di produrre a tutto spiano tanto per farlo; non era proprio il caso di prodigarsi, di lavorare giorno e not-
te l’emiro Abdelmalek Droukdel e l’algerino
Mokhtar Belmokhtar, hanno trovato rifugio
proprio nella regione libica del Fezzan.
“Da nostre informazioni – raccontano al
Foglio fonti d’intelligence – risulta che al Baghdadi abbia indicato la Libia come centro
di un’offensiva destinata a creare un corridoio jihadista che, partendo dalla Siria e
dall’Iraq, penetri in nord Africa fino a raggiungere la Somalia. Da qui la determinazione con la quale lo Stato islamico starebbe interagendo con le formazioni jihadiste libiche, in primis Ansar al Sharia, sia dirottando verso di esse anche alcune centinaia di
mujaheddin europei, inizialmente intenzionati a raggiungere la Siria e l’Iraq, sia supportandole finanziariamente con contributi
che, negli ultimi mesi, hanno sfiorato i 50 milioni di euro. Tuttavia l’intervento dello State, notte e giorno, né di infestare i giornali con la propria firma. Non era degno di
uno scrittore che si rispetti”. Ci sono poi
il ricoverato in un sanatorio che cerca di
esorcizzare il senso di colpa verso una
donna idolatrata e maltrattata; una catastrofe bellica planetaria dopo la quale uomini e bestie si alleano; l’accusato di un
omicidio che si giustifica con una storia
fantastica a metà tra Gulliver e Sinbad il
marinaio; il dilemma di un uomo che non
sa se sposarsi o darsela a gambe; l’atroce
vendetta contro un feroce schiavista e
trafficante di animali; i terribili pericoli
corsi da un musulmano che vuole sposare un’induista; le malefatte di una perfida
ballerina seducente e pericolosa; l’ingegnere argentino che deve trovare il modo
di salvarsi dai gangster statunitensi che
l’hanno sequestrato; lo stravagante ereditiere Eugenio Delmonte, filantropo perverso deciso a screditare l’istituzione matrimoniale a spese delle sue milletrecento, ignare fidanzate; un intrigo spionistico con una doppia trappola mortale.
to islamico non si è limitato a questi soli
aspetti. Altre iniziative hanno riguardato l’inoltro ai vertici di Ansar al Sharia, con la
raccomandazione di diffonderle tra i vari
gruppi islamisti, di disposizioni sui metodi
da seguire nella gestione e reperimento delle risorse finanziarie (imposizione di tasse,
estorsioni, traffico di petrolio, armi, droga ed
esseri umani). Tra le raccomandazioni anche
l’assunzione del controllo dei traffici che
vengono svolti nella regione del Fezzan (sud
della Libia). Inoltre la dislocazione, sempre
nel Fezzan, di “consulenti militari” dello
Stato islamico, intenzionati a sfruttarne la
vasta disponibilità di campi di addestramento per trasferire il loro know-how ai nuovi seguaci dello Stato islamico”. Dunque, dopo Siria, Iraq e Libano, è la Libia a essere finita
nel mirino dello Stato islamico.
IL FOGLIO
quotidiano
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Redazione: Annalena Benini, Stefano Di Michele,
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ANNO XIX NUMERO 240 - PAG 4
La “Draghi rule”
Industria loffia in Italia. I politici
e i nuovi “incentivi”. L’assist
ragionato al Jobs act di Renzi
(segue dalla prima pagina)
Ieri Draghi è tornato sullo spettro deflazionistico che incombe sull’Eurozona frenando i consumi e rigonfiando i debiti pubblici e privati. Il “trend” discendente dei
prezzi è colpa di “fattori globali” ma “più recentemente” del “debole livello della domanda aggregata”. Su quest’ultimo fronte è
bene che si muova chi può farlo, leggi Berlino. Perché il pareggio di bilancio nel 2015 è
“un oggetto di prestigio”, ma può rivelarsi
“privo di significato economico” se raggiunto a scapito della crescita in Germania e altrove, come hanno scritto alcuni think tank
tedeschi due giorni fa. Merkel è avvertita.
Come è avvertito pure Renzi. E soprattutto i suoi oppositori apparentemente irriducibili. Quelli che, mentre si approva la legge
delega per riformare il mercato del lavoro,
non sanno nemmeno troppo bene che linea
tenere. La riforma dell’articolo 18 riguarda
un’infima quota di lavoratori italiani; anzi
no, la riforma in realtà è annacquata; anzi
no, la riforma non conviene approvarla in
tempo di crisi; anzi no… Di fronte a questo
impazzimento, Draghi è intervenuto a distanza, di slancio e senza nemmeno il solito inciso cautelativo del tipo “prima di giudicare
dovremo vedere i decreti applicativi”. No, il
banchiere centrale, a chi a New York gli ha
chiesto se non si rischino effetti catastrofici
nel momento in cui nel nostro paese si scalfisce il diritto al reintegro automatico del lavoratore licenziato, ha risposto così: “No,
non penso che nella situazione attuale un
mercato del lavoro flessibile causerebbe licenziamenti di massa”. Primo, perché “la disoccupazione in Italia è talmente alta che
evidentemente gli imprenditori che volevano licenziare hanno già trovato il modo per
farlo”; secondo, perché licenziare “non sarà
così tanto più facile” se le nuove regole si applicheranno solo ai nuovi assunti nel settore privato (con buona pace del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, che agita lo spauracchio della Thatcher); terzo, perché in realtà è la situazione attuale, con la
flessibilità tutta sulle spalle di giovani iper
precari, che “crea incertezza e comprime la
domanda”. Renzi dunque vada avanti, sembra dire Draghi mentre l’Istat pubblica l’ennesimo dato poco esaltate sulla produzione
industriale (più 0,3 per cento ad agosto, meno 3,7 rispetto a un anno fa). Le “cose giuste”
da fare le conoscono tutti, da anni. La crisi
prolungata le ha rese solo più urgenti: l’elevata disoccupazione, per esempio, muta “gli
incentivi” per i politici, secondo Draghi. E
sempre la crisi inaridisce quelli che finora
erano stati due palliativi cui ricorreva la politica: la crescita europea cui agganciarsi o
la spesa pubblica improduttiva cui attingere.
Ecco perché la regola di Juncker, valida per
i tempi normali, è diventata obsoleta in tempi straordinari. Vivacchiare non è più un’opzione nelle mani dei governi. Ormai vale la
regola di Draghi: se non fai le cose giuste,
puoi sparire presto dalla scena politica.
Marco Valerio Lo Prete
IL RIEMPITIVO
di Pietrangelo Buttafuoco
Ci fu un tempo, e neppure troppo lontano, in cui l’Italia ebbe eleganza. Ho letto “Un trattore arancio”. E’ un
libro di Giorgio Conte le cui canzoni sono romanzi. C’è una scena perfetta. Descrive il signor Pistone, quello degli
Spumanti Pistone, temibile tiratore e
inarrivabile galantuomo. Tutto è in una
parentesi, questa: “(quando andava a
caccia, procedeva con la doppietta
aperta. L’avrebbe caricata e chiusa delicatamente solo sotto ferma del cane)”.
Lo stile è tutto in quella doppietta aperta. Ed è l’eleganza di un triplice patto,
tra il fucile, il cane e la preda.
BORDIN LINE
di Massimo Bordin
Impazza il dibattito sull’ordinanza con cui la Corte ha disposto le modalità dell’udienza al Quirinale e naturalmente i pareri sono i più vari. Fra essi dovrebbe avere peso per i
più sospettosi l’opinione di Giuseppe Di
Lello, componente a suo tempo del pool
antimafia di Falcone e Borsellino, poi
divenuto anni dopo parlamentare europeo di Rifondazione comunista, da tempo collaboratore del Manifesto. Di Lello definisce l’ordinanza “ben argomentata” e non vede rischi di nullità, perché
vi si trova “un attento bilanciamento tra
il diritto della difesa e le prerogative
del presidente della Repubblica”. Peraltro spiega anche all’agenzia Ansa
che la testimonianza di Giorgio Napolitano si rivelerà inutile visto che ha già
anticipato di non avere nulla da aggiungere a quanto già la Corte conosce. Dove Di Lello si ferma Repubblica ieri
avanzava una ipotesi che va a toccare
un’altra e precedente decisione della
Corte, quella che ha fissato il “capitolato di prova” della testimonianza, ovvero il suo tema: la lettera di dimissioni,
respinte, del suo consigliere giuridico.
La Corte vuole sapere se Napolitano
può ricavare dai suoi colloqui con
D’Ambrosio ulteriori elementi per comprendere il senso di alcune affermazioni contenute nella lettera. Si potrà approfondire? Difficile, scrive Repubblica, perché la Corte costituzionale nella
sentenza che ha ordinato la distruzione
delle famose telefonate, ha anche ribadito la riservatezza dei colloqui del presidente con i suoi collaboratori. Dunque
Napolitano ha tutto il diritto di rifiutare di rispondere a ulteriori domande. E
questo la Corte d’assise lo sapeva benissimo quando ha disposto lo stesso la sua
testimonianza. Perfettamente inutile
ma molto teatrale.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
Gli schiaffi anagnini-sinodali sono comunque buon viatico
Al direttore - Tanto il Nobel a Bergoglio lo
daranno per la Chimica: se riesce a sciogliere
il matrimonio con una soluzione zuccherosa.
Maurizio Crippa
Al direttore - Il superiore dei gesuiti: “Può esserci più amore cristiano in un’unione canonicamente irregolare che in una coppia sposata
in chiesa”. Rivelazione. Ma il significato? Meglio non sposarsi in chiesa, per essere più cristiani? Meglio non fare mai l’eucarestia, perché
ci sono tanti mangia-ostie a tradimento? Meglio non pregare mai, perché ci sono farisei che
pregano? O meglio non diventare gesuiti, per
rimanere un po’ cristiani?
Francesco Agnoli
Alta Società
Weekend a Honolulu. Diversi italiani
abbastanza famosi, abbastanza danarosi, abbastanza noiosi, hanno trovato qui
rifugio dal fisco e da tante altre
preoccupazioni.
Al direttore - Condivido il suo fondo di ieri e
l’invito a ripensare l’antropologia evangelica.
Mi pare che questo più che un Sinodo sia una
convention di prodotto/mercato. Senza mancare di rispetto mi viene in mente il dibattito in
corso fra il mitico Mojito della nostra infanzia
e il nuovo Gojito, che alla vecchia ricetta aggiunge la bacca selvatica mongola goji, il frutto della longevità.
Riccardo Ruggeri
Al direttore - Appello breve alle variopinte
comparse che ingombrano il palcoscenico sinodale: “Per decenza, toglietevi almeno di
dosso le vesti sacerdotali. Senza la dottrina,
sono buone solo per il carnevale”.
Elisabetta Frezza, Patrizia Fermani
C’è del caustico e dello sberleffo in tutto questo. E a meritarsi tanti schiaffi d’Anagni, dico sul serio, è un’assemblea sinodale della chiesa di Roma, presieduta dal Papa. Ammiro la scelta di obbligarsi alla disputa di coscienza e al gioco delle opinioni.
Certo clericalismo senza sapore è andato,
ed è comunque un bell’ascoltare e vedere.
Qualcosa di buono ne deve venir fuori.
Al direttore - Maurizio Landini minaccia una
nuova occupazione delle fabbriche. Chissà se ha
mai letto ‘’Il diciannovismo’’ di Pietro Nenni?
Giuliano Cazzola
Al direttore - Il bello e pungente quadro che
Michele Masneri, con la sua versatilità pittorica, ha fatto, soprattutto per il contorno, della
conferenza di Piketty alla Camera (il Foglio
del 10 ottobre) dovrebbe fare riflettere su come
un’opera seria e da meditare ancora possa essere svilita dal protagonismo dell’immagine. Il
Foglio è stato nettamente il primo giornale a
far conoscere Piketty in Italia e a realizzare su
“Il Capitale” un dibattito colto e molto interessante. Ciò è avvenuto, a merito del Suo quotidiano, pure per molte altre novità culturali
e scientifiche. Ora, però, sarebbe un peccato se
si perdesse di vista la parte fondamentale del
testo dell’economista francese che è l’analisi
delle disuguaglianze, le loro cause e i loro effetti, le relazioni tra produzione e capitale: soprattutto la disuguaglianza non solo come effetto, ma anche come causa di una crescita in-
soddisfacente (insomma, non un problema solo distributivo). Sulle terapie proposte – per
esempio, l’imposta mondiale sulle rendite e altro – si potrà discutere e, ovviamente, dissentire. Bisognerebbe allora bilanciare con un
nuovo approfondimento e ulteriori dibattiti seri – che coinvolgano anche le istituzioni competenti – i germi della diffusione di una nociva moda, i cui sintomi si possono individuare
nelle “signore” (ma forse anche nei signori), in
fila a piazza Montecitorio, che sono rimaste deluse perché si aspettavano di più, come riferisce Masneri, dalla tappa romana di Thomas
Piketty, come se si trattasse del lancio sul mercato di un nuovo congegno elettronico. Sarei
tentato di dire “sutor ne ultra crepidam”. Con
i più cordiali saluti.
Angelo De Mattia
Al direttore - Perfetto l’uovo di Pietrangelo
Buttafuoco ieri sul Foglio ma con un ulteriore
condimento: chi c’è dietro Apple? C’è l’industria
musicale, chi c’è dietro Amazon? C’è l’industria
editoriale. Il capitalismo, all’uovo bollito con il
sale, aggiunge sempre il pepe.
Francesco Gambaro
Isotta, l’orrendo Berio, la cacciata di Muti e l’Eneide a memoria
(segue dalla prima pagina)
I: Hanno fatto volare gli stracci, visto che
tre persone, Marino, Franceschini e il soprintendente Fuortes hanno visto realizzati i loro sogni, colla cacciata di Muti da Roma. L’orchestra andava castigata perché il
30 per cento dei componenti ha osteso certificato medico per non andare alla tournée
in Giappone diretta da Muti che ridondava
a onore della patria nostra. Ma io avrei incominciato dall’incredibile numero di tecnici…
L: Siamo concordi nel considerare Claudio Magris lo scrittore italiano più sopravvalutato. E il direttore più sopravvalutato?
Riccardo Chailly? O chi?
I: Chailly è certo sopravvalutato, è ignorante e casca in tutte le trappole del cretinismo musicale. Una per tutte, dirigerà alla
Scala la “Turandot” di Puccini col finale di
Luciano Berio, orrendissimo, invece che
quello di Franco Alfano (e di questo finale,
somma opera d’arte, nel libro parlo molto).
Però ha il cosiddetto braccio, nessuno può
negarglielo. I più sopravvalutati sono Pappano e Gatti.
L: Ehm, che cos’è il braccio?
I: E’ la qualità istintiva di avere un gesto
trascinatore dell’orchestra. Se si accompagna al cervello si ha il grande direttore, se
non vi si accompagna si ha il direttore dotato ma lontano dall’esser completo. Chailly ha solo il braccio.
L: Mi sembra di capire, dal tuo libro, che
i direttori debbano avere innanzitutto memoria. E’ vero che Carlos Kleiber e Pippo
Patanè e suo padre Franco conoscevano a
memoria tutto il repertorio? Com’è possibile? Potevano dirigere una qualsiasi sinfonia
di qualunque compositore senza avere davanti lo spartito?
I: Carlos Kleiber non so se tutto, ma quasi tutto certamente sì. Il tuo elenco però è
incompleto: va aggiunto Franco Mannino, il
più grande pianista del Novecento dopo
Claudio Arrau, sommo direttore, grande
compositore, deliziosissimo scrittore. A febbraio cadono dieci anni dalla sua scomparsa e io faccio sul Corriere della Sera un
pubblico appello affinché un editore di
buona volontà ripubblichi il meraviglioso libro “Genii” sugli incontri di una vita, da Toscanini a Stravinskij a Thomas Mann a Gorbaciov…
L: Anche per i critici la memoria è così
importante? Io credo conti moltissimo la
cultura: chi scrive di musica classica è molto più colto di chi scrive di musica moderna
e questo spiega perché leggo con piacere te,
Facci, Bortolotto, Buscaroli, anche se scrive-
te di musiche che trovo noiose, mentre leggo con strazio i recensori di musiche che trovo eccitanti quali rock ed elettronica.
I: Memoria e cultura nel critico fino a un
certo grado si identificano, se devi giudicare il valore di un’esecuzione devi conoscere a memoria il pezzo eseguito e magari anche i suoi problemi interpretativi. Se poi, da
storico, parli di pezzi musicali, ognuno di essi è legato a una catena infinita di antecedenti e conseguenti: più ne conosci gli anelli e miglior storico sei.
L: Scrivi che il jazz ultimamente ti sta cominciando a piacere. Mi fai qualche nome?
E davvero ti piacciono i miei prediletti Stones?
I: Ci sono arrivato tramite Gershwin, il
quale ha trasfigurato in musica assoluta motivi e pratiche del jazz. E così hanno fatto
Ravel e Victor De Sabata nel meraviglioso
balletto da “Le mille e una notte”, che incomincia in una centrale telefonica di Nuova York! Adoro Ray Charles e naturalmente il sommo André Previn. Certo, gli Stones
sono grandi. Invece pensa che attendevo
con ansia l’uscita del nuovo disco di David
Bowie ed è stata una grossa delusione!
L: Gli eroi devono morire giovani, Bowie
doveva morire nel ’77. Nel libro, oltre che di
musica, parli molto di letteratura e ti di-
chiari virgiliano al punto da affermare che
“Virgilio è il più grande poeta di tutti i tempi”. Non è che adesso tocca leggermi l’Eneide? Quale traduzione?
I: Vorrei arrivare all’ideale di conoscere
l’Eneide a memoria, come la conoscevano
Manzoni e Pascoli, ma mi ci vorrebbero decenni. La traduzione del Caro è un’opera
d’arte ma le più fedeli sono quella di Luca
Canali (nella “Lorenzo Valla”, con lo sterminato commento di Ettore Paratore che è una
delle cose più grandi della storia della cultura), la mia preferita, e quella pure di altissimo valore di Francesco Della Corte nel
quarto volume dell’Enciclopedia virgiliana.
L: Sei inoltre un accanito manzoniano:
“Io leggevo un anno ‘I promessi sposi’ e un
anno il ‘Fermo e Lucia’: adesso li leggo ambedue ogni anno”. Dove lo trovi il tempo per
leggere quella montagna di pagine?
I: Per me la lettura non è una passione,
è addirittura un vizio. Così ho sviluppato
un’enorme velocità nell’attendere al dovere
(che pure, sono fortunatissimo, mi piace da
morire) per avere lunghe ore destinate alla
coltivazione del vizio…
L: Sono un vizioso anch’io e quindi ti lascio, scappo a leggere i capitoli del tuo libro
che mi mancano.
Camillo Langone
Non criticavamo il Papa, ma l’aria malsana di Kasper. Parla Fessio, S.I.
Roma. Ma chi mai ha attaccato il Papa!
Noi abbiamo criticato le tesi di Kasper, il
che è un po’ diverso, dice al Foglio padre Joseph Fessio, gesuita fondatore
della casa editrice Ignatius
Press, che pochi giorni prima dell’apertura del Sinodo aveva mandato in stampa un libro dal titolo Remaining in the Truth of Christ, tradotto in italiano in Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione
nella chiesa cattolica (Cantagalli). Cinque cardinali, professori e vescovi che smontavano
la relazione teologica tenuta da Walter Kasper in sede concistoriale. Il porporato tedesco se l’era presa male, aveva definito quel
libro un’opera contro il Papa, che aveva sposato appieno le sue tesi. “Il libro non contiene in alcun modo tesi contro il Papa, ma
contiene – ed è questo che si riprometteva di
fare – una revisione scientifica completa
delle proposte controverse fatte dal cardinale Kasper. Il suo discorso è durato due ore
(molto tedesco!) e ha molte cose di grande
valore. Tuttavia, alla fine ha fatto due proposte concrete. E c’è stata una reazione negativa molto forte in concistoro da parte di
molti cardinali rispettati”, osserva padre
Fessio S.I., che per la tesi di dottorato a Ratisbona ebbe l’allora professor Joseph Ratzinger come relatore. “Non è dunque una
sorpresa che quando la presentazione del
testo di Kasper è diventata pubblica (nonostante la segretezza richiesta ai partecipanti del concistoro), diversi cardinali e molti
altri abbiano deciso che ci dovesse essere
una risposta pubblica. Lo stesso Kasper – aggiunge – ha detto di non aver proposto una
soluzione definitiva, ma piuttosto, dopo aver
ricevuto l’approvazione del Papa, di aver posto alcune domande e aver offerto considerazioni per eventuali risposte”.
Ebbene, “in tre dei libri da noi pubblicati, abbiamo presentato risposte ben documentate e argomentate alla proposta. Precisamente ciò che aveva chiesto il cardinale
Kasper. Il cardinale Carlo Caffarra, qualche
giorno fa, ha detto che il Papa ha chiesto un
dibattito, “e un dibattito c’è solo se non parla uno soltanto”. A giudizio del fondatore
della Ignatius Press, “vi è una sproporzione tra i giudizi espressi sulla proposta di
Kasper. Sono a conoscenza di almeno dieci
cardinali che hanno criticato pubblicamente la proposta del presidente emerito del
Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, e solo uno (il cardinale Reinhard Marx) che l’ha pubblicamente
Padri bergogliani per la relazione sinodale
Roma. Si discute talmente tanto, nell’aula nuova del Sinodo, che l’altra sera i
padri hanno avuto un appassionato scambio di opinioni perfino su Pio X, il Papa
santo della Pascendi. Oggetto del contendere, ancora una volta, la comunione ai divorziati risposati. Dinanzi a una contrapposizione tra due schieramenti ben organizzati – merita sottolineatura che nell’ora di discussione libera di giovedì siano
intervenuti, l’uno dopo l’altro i cardinali
Erdö, Ouellet, Schönborn, Forte, VingtTrois e Rodriguez Maradiaga –, c’è chi ha
infatti ricordato che anche Pio X fu definito un “rivoluzionario” quando decise di
ammettere all’eucaristia i bambini, cento
e più anni fa: “Ci sono quindi degli esempi di coraggio da parte di un Papa nel riflettere o introdurre delle novità per quanto può riguardare la prassi d’accesso all’eucaristia”, ha commentato padre Lombardi. Oltre alla posizione del prefetto della Segnatura apostolica, il cardinale Raymond Leo Burke, anche il cardinale George Pell ha ribadito la sua contrarietà a
ogni mutamento dell’insegnamento cattolico così come è ora configurato. Quasi tutti
i padri hanno fatto sentire la propria opinione (quasi duecentosessanta interventi
complessivi in questi primi giorni di Sinodo), con il cardinale Gerhard Ludwig Müller che si è detto contrariato dalla decisione di non diffondere i testi dei padri: “I fedeli hanno il diritto di conoscere le posizioni dei loro vescovi”. La strada che pare
riscuotere i consensi maggiori – in un confronto comunque a tratti acceso, con un
padre che ha definito “un rimedio peggiore della malattia” la proposta di Kasper –
è quella delineata dal cardinale canonista
Francesco Coccopalmerio e che è appoggiata anche da Francesco, mai intervenuto
fino a ora nel dibattito: salvaguardia assoluta della dottrina ma valutazione dei singoli casi demandata ai vescovi diocesani,
con i divorziati risposati che potrebbero
essere ammessi al sacramento dopo un
cammino penitenziale i cui contorni iniziano già a intravedersi. In più d’un intervento, infatti, si sono ipotizzate “forme e
atti ecclesiali” da mettere in pratica, proponendo delle celebrazioni comunitarie,
come ad esempio “un Giubileo della grazia”. L’arcivescovo di Vienna, il cardinale
Christoph Schönborn, che in aula ha nuovamente raccontato la sua esperienza di figlio di divorziati, ha auspicato un percorso
penitenziale serio per i divorziati risposati che chiedono l’ammissione alla comunione. Di Humanae Vitae, invece, s’è parlato ben poco, almeno tra i padri sinodali,
eccezion fatta per quanto detto mercoledì
sera dall’arcivescovo di Parigi, il cardinale André Vingt-Trois. Qualche accenno en
passant e poco altro. Intanto, terminata la
discussione generale, i padri si sono divisi nei circoli minori, dove il confronto proseguirà. E tra i presidenti eletti figurano i
cardinali Schönborn, Bagnasco, Sarah, Filoni e Burke. E sarà lì che la Relatio Synodi prenderà forma. Francesco ha deciso di
affidarne la stesura, oltre ai membri di diritto, anche a mons. Fernández, al cardinale Donald Wuerl e al preposito gesuita, padre Adolfo Nicolás. Un’indicazione sull’orientamento prevalente, però, si avrà già
lunedì, con la Relatio post disceptationem, la
cui stesura è già a buon punto. (mat.matz)
appoggiata. Certamente la sua proposta può
essere definita una ventata d’aria. Ma se l’aria sia fresca o malsana, questo è precisamente l’oggetto del dibattito in corso”.
Quel che ha teorizzato Kasper, prosegue
padre Fessio, non è nulla di nuovo: “Aveva
già proposto la stessa cosa in una lettera
pastorale scritta in Germania nel 1993. Solo che all’epoca fu respinta con decisione
dal cardinale Ratzinger, allora prefetto della congregazione per la Dottrina della fede,
con l’approvazione di Papa Giovanni Paolo II. Kasper – aggiunge il nostro interlocutore – ha anche preso pubblicamente le distanze da Ratzinger sulla Dominus Iesus,
con Giovanni Paolo II che diede pieno appoggio al documento”. “Non trovo inusuale – spiega – che molti cattolici intelligenti, inclusi molti cardinali, trovino gli argomenti di Ratzinger più convincenti di quelli di Kasper”. E comunque, dice padre Fessio, quello del riaccostamento alla comunione dei divorziati risposati “è certamente un tema minore se si considera il numero delle famiglie cattoliche che potrebbero essere ricomprese in questa fattispecie.
Il chiaro intento del Sinodo è un altro, e
cioè di affrontare una più vasta, significativa e pressante questione: la difficoltà di
comunicare e di vivere profondamente la
bellezza dell’impegnativo insegnamento di
Cristo sul matrimonio e la famiglia in una
cultura ormai decristianizzata, secolarizzata, consumista, edonista e individualista
che ha le radici in occidente, ma è stata
esportata ovunque nel mondo”. E comunque, bisognerà aspettare cosa dirà il Papa,
la sua decisione finale, che non arriverà
prima della conclusione del Sinodo ordinario del prossimo anno. Proprio padre Joseph Fessio S.I. ha ipotizzato che Francesco abbia mandato Kasper in avanscoperta,
tentando di “scuotere il nido di calabroni”.
“La mia era sottile ironia. Io credo che il
Papa voglia una discussione franca e aperta. Così ho suggerito, con un po’ d’ironia,
che forse abbia intenzionalmente voluto
scuotere il nido”. Poi si vedrà.
Matteo Matzuzzi
Occhio a fidarsi troppo dei testimoni-chiave, lo dice anche la neuroscienza
C
arbonara o amatriciana? Sei al ristorante, il cameriere raccoglie le ordinazioni e tu compulsi il menù. “Sto per scegliere, eh, un minuto”. Sei convinto di essere
sul punto di operare una scelta. Pensi di essere tu, e soltanto tu, a decidere tra carbonara e amatriciana. E invece ti illudi. Lo
scienziato Piergiorgio Strata ti spiega il perché in un libello dal titolo “La strana coppia. Il rapporto mente-cervello da Cartesio
alle neuroscienze” (Carocci, 161 pp., 12 euro). “La mente è una proprietà della materia, al pari della gravità e del magnetismo”,
dichiara al Foglio il professore emerito di
Neurofisiologia all’Università di Torino.
Non siamo altro che molecole. Pensiero,
memoria e coscienza sono “proprietà emergenti” determinate da interazioni molecolari. L’anima? Non esiste. Dall’alto dei suoi 80
anni, dopo una vita trascorsa a studiare tra
Canberra e Chicago con il premio Nobel Sir
John Carew Eccles, Strata non ha paura di
apparire blasfemo: “Il mio libro sconfessa
i dogmi del metafisico e dell’immortalità
dell’anima. Con un milione di miliardi di sinapsi e 170 mila chilometri di fibre nervose,
come si può pensare che esista un pianista
in grado di scegliere quale tasto pigiare?”.
Eppure Cartesio si sforzò non poco per dimostrare il dualismo tra res cogitans, mente, e res extensa, cervello. “Erano i tempi
dei Savonarola e dei Galilei. Chi dissentiva
finiva sul rogo. Cartesio aveva l’incubo dei
preti”. Quando si schiudono le uova di tartaruga, spiega Strata, le creature appena
nate, come primo atto di vita, zampettano
verso il mare. La loro non è una libera scelta ma un’azione determinata da precise molecole contenute nel loro Dna. Ma se il libero arbitrio è un’illusione, su quali basi un
tribunale può emettere una condanna? “La
società ha il compito di adottare regole che
limitino i crimini. L’individuo che si è reso
cosciente dell’illecito compiuto memorizzerà quell’esperienza nei propri circuiti cerebrali e ciò avrà un effetto deterrente in
futuro”. Quindi niente attenuanti, la regola
è quella a stelle e strisce: chi sbaglia paga.
In tribunale l’imaging, ovvero l’uso delle
scansioni cerebrali, consente di rilevare
anomalie anatomiche e funzionali. Tuttavia, tale metodo non vanta un grado di attendibilità paragonabile all’esame del
Dna. Soprattutto, una volta appurata l’esistenza di un’anomalia, come si può stabilire che essa sia la causa diretta dell’illecito? Bel dilemma. Negli Usa non c’è cervello che tenga. Quando nel 1983 il 52enne
Brian Dugan, psicopatico al terzo omicidio,
rapì e uccise Jeanine Nicarico di appena
10 anni, fu condannato alla pena di morte,
poi commutata in ergastolo, sebbene l’imaging cerebrale avesse rilevato gravi segni
di psicopatia. “Le immagini sono meravigliose ma non rilevanti”, affermò il perito
del tribunale. Oltre che per i suoi incarichi
internazionali – è stato direttore dello European Brain Research Institute, fondato
nel 2001 dalla Montalcini – Strata è noto
per aver vestito i panni scomodi di consulente della difesa in alcuni processi spettacolo. Ricordate il caso Marta Russo? “Il
video choc della Alletto e le confidenze telefoniche della Lipari (‘Tutto il pomeriggio
sono stati a dirmi: lei è in una posizione delicata, mors tua, vita mea’) sono formidabili esempi di manipolazione della mente”. E
che dire di Olindo e Rosa responsabili,
stando alla sentenza definitiva, della strage di Erba? “Li hanno condannati all’ergastolo sulla base delle dichiarazioni che il
defunto Frigerio rilasciò soltanto in un secondo momento, a seguito di interrogatori
manipolativi”. Il problema, secondo Strata,
è che nel pubblico e nei tribunali prevale
la falsa convinzione che la memoria sia
perfetta. Non è così. I testimoni chiave possono essere considerati tali solo a condizione che la persona nell’immediatezza del
fatto ricostruisca l’accaduto in modo coerente e preciso. Se ciò non avviene, “via via
che i giorni passano, le testimonianze rese
costituiscono manipolazioni della mente
prive di valore probante, tantomeno cruciale per emettere una condanna”.
Annalisa Chirico
Erdogan vs Obama
Turchi e americani si fanno
un dispetto che i curdi pagano con
la sconfitta sanguinosa di Kobane
(segue dalla prima pagina)
Il risultato di questo confronto che assomiglia a uno stallo diplomatico è che entrambi i governi guardano Kobane bruciare
senza intervenire – l’indifferenza totale non
è una novità nella guerra siriana, ma questa volta c’è una collinetta appena al di là
del confine e quindi protetta dalle truppe
turche da dove i giornalisti internazionali
possono fare la cronaca ora per ora, a differenza di quanto è accaduto durante i massacri avvenuti a Damasco, Aleppo, Homs,
Raqqa e in altre città della Siria.
Fonti del governo americano dicono (alla
Cnn, tra gli altri) che salvare Kobane non è
una priorità delle operazioni militari in Siria e che non c’è l’intenzione di restare invischiati “in una strategia città per città”. I
turchi non fanno molte dichiarazioni, ma
sbarrano di fatto la strada ai volontari curdi che vorrebbero attraversare il confine e
accorrere in soccorso di Kobane. Ankara affronta le proteste interne in cui sono morti
già 31 curdi (il bilancio di 4 giorni) e anche
le minacce da parte del gruppo Pkk, che avverte che in caso di caduta di Kobane sarà
di nuovo guerra con il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan. La Turchia accetta questa destabilizzazione per una campagna da cui non ha mai tolto gli occhi negli ultimi tre anni: la lotta contro Assad. La zona
cuscinetto che chiede Erdogan potrebbe finalmente ospitare i milioni di profughi siriani che oggi sono in Turchia, e in poco tempo evolverebbe in un’area protetta in cui i
ribelli siriani potrebbero addestrarsi (proprio ieri Ankara s’è detta pronta a collaborare all’addestramento dei ribelli, anche se
a questo punto della guerra le parole “addestramento dei ribelli siriani” suonano come
parole vuote e fantastiche, non più appartenenti al regno delle cose serie). “Sarebbe
un’area dove una struttura di governo alternativo siriano metterebbe radici”, dice al
New York Times Frederic Hof, ex inviato
speciale per la Siria del presidente americano Barack Obama.
Due giorni fa sui social media sono cominciate a circolare nuove foto di uno dei leader
dello Stato islamico che sta comandando l’offensiva su Kobane: si tratta di Abu Khattab al
Kurdi, che com’è chiaro dal kunya, il nome di
guerra, è curdo. Come pure è curdo e di
Diyarbakir – quasi certamente – anche Halis
Bayancuk, un predicatore dello Stato islamico conosciuto con il nome di Abu Hanzala. E’
stato rilasciato ieri notte dalle autorità turche (era stato arrestato per la quarta volta a
gennaio) e la mossa sta provocando critiche
per il tempismo considerato inappropriato.
Daniele Raineri
Twitter @DanieleRaineri
Renzi vs Baghdadi
L’Italia è pronta a schierare
tanker, logistica e un team
di istruttori. Anche due droni
(segue dalla prima pagina)
“Dare armi ai curdi esplicitamente per
combattere la jihad è una scelta di campo
che ci compromette nel presente”, ha ammonito ad agosto scorso Arturo Parisi, ex
ministro della Difesa del governo Prodi.
L’ipotesi più probabile è che l’Italia offra
in supporto alle forze aeree alleate un
maggior numero di tanker. L’aeronautica
dispone di quattro rifornitori Boeing Kc767A e può adattare a questo compito anche tre cargo C-130J. Velivoli che potrebbero essere schierati nella base di al Batin, negli Emirati Arabi Uniti, dove già
opera un distaccamento logistico italiano
a supporto del contingente nazionale in
Afghanistan. Più vicino al campo di battaglia (forse nel capoluogo curdo di Erbil
divenuto una base americana) potrebbero invece essere basati un paio di droni
Reaper del 32° Stormo dell’aeronautica.
Dei dodici Predator e Reaper italiani la
metà sono schierati a Herat, a Gibuti e assegnati all’operazione Mare nostrum. Il
dispiegamento in medio oriente di due
velivoli teleguidati migliorerebbe la capacità di sorveglianza del territorio del
Califfato ma non quella di attaccare bersagli al suolo poiché Washington si è finora rifiutata di fornire all’Italia i kit
d’armamento necessari per imbarcare
bombe a guida satellitare Jdam e missili
Hellfire.
Roma sembra intenzionata a offrire un
più ampio aiuto alle forze curde schierando a Erbil team di istruttori e consiglieri
militari che affiancherebbero statunitensi, britannici, francesi e tedeschi già presenti sul terreno. Su questo fronte sembra
che l’Italia stia puntando a costituire
team addestrativi congiunti con la Spagna, paese che non ha messo a disposizione aerei da combattimento ma dispiegherà una batteria di missili da difesa aerea Patriot in Turchia in sostituzione di
quelli olandesi. Non è chiaro se i consiglieri militari avranno solo compiti di addestramento e consulenza o anche di
“mentoring” cioè di accompagnamento
delle forze curde e irachene in prima linea, ipotesi quest’ultima che alcune fonti vicine agli ambienti militari tendono a
escludere. Probabili anche nuovi invii di
armi e munizioni ai curdi prelevati dagli
stock requisiti sulla nave Jadran Express
durante la guerra nell’ex Jugoslavia. In
aggiunta ai 400 mila proiettili per Kalashnikov e mitragliatrici e ai 2 mila razzi
l’Italia potrebbe fornire ai peshmerga anche alcuni dei cinquanta lanciatori con
quattrocento missili anticarro At-4 Spigot
di origine sovietica requisiti sulla nave.
Armi chieste a gran voce dal comando
curdo e che Roma fornì nel 2011 in un numero imprecisato di esemplari ai ribelli
libici di Bengasi.
Gianandrea Gaiani
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
IL DIO TASCABILE
Altro che dottrina, negli Stati Uniti la chiesa l’hanno già fatta i fedeli: non si può vivere
secondo la dura legge del Vangelo, adeguatevi voi vescovi, noi peccatori stiamo bene così
rank Bruni parla e scrive di cose di
chiesa con quel misto di livore e fascinazione proprio del fedele tradito, della
pecorella che un po’ s’è smarrita e un po’
non vuole farsi ritrovare. Un outsider del
gregge. E’ incattivito come certi giocatori
di talento con gli allenatori del passato
che non li hanno capiti e valorizzati, ma
quando sul New York Times tira di spadone su qualche faccenda di dottrina traluce un raggio di simpatia per la fede dei
semplici, in diretta opposizione alla grigia
ottusità della gerarchia. Bruni ha scritto
degli abusi del clero prima che montasse
la campagna giornalistica globale intentata alla chiesa cattolica dal suo giornale; ha
denunciato la chiesa omofoba che relega
quelli come lui nella soffitta degli “oggettivamente disordinati”, lo ha fatto con la
battagliera pervicacia dell’attivista arcobaleno velata dalla patina di nostalgia dell’ex. L’altro giorno ha riscaldato in un corsivo sul Nyt la zuppa sciapa della chiesa
ipocrita ossessionata dal sesso, dal gender,
dall’accoppiamento sotto le lenzuola, dai
matrimoni che sono soltanto fra uomo e
donna, faccende su cui rombano tuoni che
riverberano nell’aula romana del Sinodo
sulla famiglia, mentre sulle altre storture
interne, che pure non mancano, la chiesa
colpevolmente tace.
“Moralismo selettivo” lo chiama l’opinionista. Si sentono spesso preti inveire
contro la pena di morte dopo l’ultima esecuzione in Texas? E’ più facile trovare
membri della chiesa in una manifestazione a favore del matrimonio tradizionale o
a Occupy Wall Street? Eppure la giustizia
sociale è un’esigenza presente nella dottrina. Ai gay, dice Bruni, non viene concesso
neppure quel minimo sindacale di tolleranza che viene accordato agli atei, che
so accorciato. Il partito del “non si può vivere così” ha molte correnti, ma la premessa comune è quella che il teologo Antonio
López, decano dell’Istituto Giovanni Paolo
II di Washington, chiama una “antropologia teomorfica”, ovvero la “pretesa dell’uomo di essere la propria origine”, una forma di impazzimento moderno dell’imago
Dei in cui l’impronta divina contemporaneamente si vela e si svela. Nel trionfo dell’autodeterminazione e della self-ownership, termine tornato di gran moda in questa epoca libertaria, come la chiama Mark
Lilla, non è l’idea di Dio la prima a svanire dall’orizzonte. Lo strepitoso racconto
fatto da Allison Davis per il New York Magazine di una giornata fra il pubblico del
tour carismatico di Oprah (titolo: Oprah’s
the Life You Want) spiega meglio di molta
sociologia delle religioni che il sentimento
religioso in America è vivo e pugnace.
Intimismo protestante, spiritualismo,
animismo africano, self-help, sogno americano, gnosticismo, transumanesimo, voodoo, tutto è mixato nel grande frullatore
dello spirito americano, e tutto è valido
nella misura in cui non esce dai confini
controllabili del “self”, l’io-creatore che –
paradossalmente – oscilla fra onnipotenza
e impotenza. Strano Prometeo quello che
ruba il fuoco agli dèi e poi dell’agognata
fiaccola non sa bene che farne. Quel che il
partito del “non si può vivere così” oblitera è l’idea dell’uomo-creatura, relazione essenziale, capace di donarsi oltre i limiti del
suo “self” in quanto a sua volta donato. Nell’ultimo numero di Communio, monografia
dedicata alla famiglia in occasione del sinodo, López scrive: “L’insegnamento della
chiesa sull’indissolubilità del matrimonio
rimarrà inintelligibile finché la persona
umana sarà concepita come libertà astratta, cioè come agente senza relazioni che
crede e agisce come se fosse lui la sua stessa origine”. Non si può vivere così, gridano
Frank Bruni, sul Nyt, è tornato
a parlare di chiesa ipocrita
ossessionata dal sesso e dal gender.
“Moralismo selettivo” lo chiama
Louise Mensch, cattolica e
divorziata, scaccia i novatori che
vogliono ridurla a cavia di una
chiesa obliquamente misericordiosa
pure abbondano nelle strutture della chiesa e specialmente della chiesa americana
figlia del capitalismo e della sua etica protestante, che gestisce le sue operazioni come un business. L’insegnante omosessuale della scuola cattolica viene allontanato
con la sua lettera scarlatta – 17 casi soltanto nell’ultimo anno, ricorda Bruni – ma
“non sento nessuno che chiede il licenziamento del manager agnostico della parrocchia”, aggiunge padre James Martin, S.I.,
della rivista dei gesuiti America, per l’occasione sparring partner tonsurato del laico Bruni. Un’altra cattolica interpellata, la
professoressa di Teologia Lisa Sowle
Cahill, retoricamente si domanda se un vescovo negherebbe la comunione a un fedele che sostiene la pena di morte, e via di
questo passo. La conclusione, affidata a
Martin, è che se la chiesa applicasse la
stessa misura che applica ai gay agli imprenditori che non corrispondono ai loro
dipendenti un salario dignitoso, a quelli
che non danno nulla alle opere di carità,
a chi tifa nel segreto per il matrimonio gay,
a chi non si confessa e si mette in fila per
la comunione o a chi non crede davvero alla transustanziazione, “le istituzioni cattoliche si svuoterebbero e nessuno potrebbe
ricevere la comunione”.
Bruni è il primo columnist del New York
Times apertamente omosessuale, un’icona
della gay culture che si è battuta strenuamente su ogni fronte dell’agenda liberal,
dalla politica domestica – il suo primo
mandato di un certo peso è stato seguire
la campagna elettorale di George W. Bush
per il governo del Texas – fino al Vaticano,
di cui si è occupato per un paio d’anni in
veste di capo dell’ufficio di corrispondenza di Roma. Ha il piglio e il seguito dell’attivista, Bruni, che si è inserito in quell’ondata di opinion-maker che a un certo punto degli anni Novanta ha portato la questione gay al rango delle battaglie universali per i diritti umani. Con la chiesa ha
apertamente guerreggiato e in questi tempi di istanze da Concilio Vaticano III o giù
di lì il suo raggio di azione si sta allargando dall’attivisimo all’advocacy.
L’epilogo della sua column contiene un
ingrediente più salato del resto della zuppa. Il campo del ragionamento si allarga
dai gay a tutti gli emarginati del gregge, a
chi sta sulla soglia e vorrebbe entrare, a
chi non riesce ad abbracciare fino in fondo tutta la dottrina ma ugualmente vorrebbe poter sprofondare il capo nel caldo abbraccio della chiesa. Se questi sono da
Bruni e i riformatori interni ed esterni; non
si può vivere così, dicono gli alfieri della
misericordia a costo zero. Al realismo della chiesa cattolica non sfugge il rischio
umano della disperazione di fronte a un
compito tanto arduo, e nel catechismo sul
matrimonio si legge: “Questa inequivocabile insistenza sull’indissolubilità del vincolo matrimoniale ha potuto lasciare perplessi e apparire come un’esigenza irrealizzabile. Tuttavia Gesù non ha caricato gli sposi di un fardello impossibile da portare e
troppo gravoso, più pesante della Legge di
Mosè”. Per colmare il gap fra Vangelo e vita, fra dottrina e prassi, per portare il fardello gravoso e scambiare la tessera dal
partito del “non si può vivere così” per
quella del “si può vivere così” c’è l’incarnazione: “Venendo a ristabilire l’ordine iniziale della creazione sconvolto dal peccato,
Egli stesso dona la forza e la grazia per vivere il matrimonio nella nuova dimensione
del regno di Dio. Seguendo Cristo, rinnegando se stessi, prendendo su di sé la propria croce, gli sposi potranno ‘capire’ il
senso originale del matrimonio e viverlo
con l’aiuto di Cristo. Questa grazia del Matrimonio cristiano è un frutto della croce di
Cristo, sorgente di ogni vita cristiana”.
Sullo Spectator la scrittrice inglese
Louise Mensch, cattolica e divorziata, ha
scritto una testimonianza controcorrente e
inconcepibile per l’uomo “teomorfo”, una
testimonianza in cui il desiderio di riaccostarsi al sacramento non si trasforma in un
diritto, non rimpiazza la verità dell’eucarestia, non muta in lamento e pretesa e allo
stesso tempo non getta un giudizio definitivo di condanna sul peccatore. Il dramma
umano è intatto, il fardello non è magicamente svanito, ma la croce offre un appiglio solido. Mensch scaccia duramente i
novatori che vogliono ridurla a cavia di
una nuova chiesa obliquamente misericordiosa: “Quello che il cardinale Kasper pare voglia fare è indurre un’intera generazione settimanalmente in tentazione di
peccato mortale. In che modo questo è misericordioso? In che modo ci aiuta?”. Mensch dice, in sostanza, che si può vivere così. Nel partito del “non si può vivere così”
c’è il livore e la fascinazione verso la vita
cristiana, c’è tutta la potenza dell’uomo
che a un tempo è dio a se stesso ed è
schiacciato dagli umanissimi limiti che
tenta invano di cancellare. L’unico modo
per abbandonare il partito non è riformarne la struttura, ma incontrare qualcuno
del partito opposto.
di Mattia Ferraresi
F
Nato come festa cristiana, il Giorno del ringraziamento, una delle ricorrenze più sentite negli Stati Uniti, ha perso progressivamente i suoi contenuti religiosi (illustrazione di Norman Rockwell)
escludere, chi sarà incluso? La maglia del
giudizio è così fitta che nessuno può passare indenne. Poiché nel pensiero di Bruni e in quello di alcuni suoi interlocutori
abituali c’è il livore ma c’è anche la fascinazione, ne risulta che la chiesa semper
reformanda deve infine riformarsi per accomodare le esigenze dei fedeli in cerca di
misericordia, parola grande ma con forte
tendenza a degradarsi nel passepartout
con cui il cattolicesimo progressista tendenza Walter Kasper vuole aprire le stanze sfitte della dottrina per far circolare un
po’ d’aria, e rimetterle sul mercato.
Ma – obiezione ovvia – chi non s’adegua
all’insegnamento non potrebbe felicemente cercare un giaciglio religioso a propria
La chiesa americana abbonda
di fedeli di confine. Il 50 per cento
degli annullamenti della Sacra Rota
riguarda coppie degli Stati Uniti
immagine nella vasta Amazon della fede?
No, dice Bruni, e il motivo è semplice: la
chiesa è già piena di fedeli che stanno da
questa parte del famoso abisso fra dottrina
e prassi, e il cattolicesimo americano è
percepito come l’avamposto di un cambiamento di costumi che deve essere certificato con svolte pastorali e pure dottrinarie.
Thomas Reese, S.I., altro influente esponente del cattolicesimo progressista americano, vedendo l’andazzo sinodale dove
ogni frase si apre con “non ci saranno cambiamenti dottrinali”, sul National Catholic
Reporter – rivista d’area progressista – invoca disperatamente la coscienza storica
di Bernard Lonergan, il gran gesuita canadese che tentò di costruire un ponte soli-
do fra cristianesimo e modernità, per ricordare che la modifica della dottrina è
parte dell’ermeneutica cattolica, e meglio
sarebbe dare un’occhiata alle condizioni
reali piuttosto che a un irricevibile dover
essere. La struttura stessa della chiesa
americana abbonda di fedeli di confine,
periferici. Il chierichetto gay, il catechista
ateo, il professore di religione divorziato,
l’organista disperato, il cattolico “in good
standing” che però nel suo intimo non capisce perché negare il matrimonio agli
omosessuali, ché in fondo love is love. Ormai gli uomini si scambiano gli anelli di fidanzamento in diretta tv nel salotto di Ellen DeGeneres. Oltre la metà dei cattolici
americani è a favore del matrimonio gay e
il 28 per cento dei matrimoni cattolici finisce con un divorzio (10 per cento in meno
rispetto ai protestanti), mentre circa il 50
per cento degli annullamenti ordinati dalla Sacra Rota riguardano coppie degli Stati Uniti.
E’ di questa fragile pasta umana che è
fatta la chiesa visibile. Se la condizione
per partecipare al banchetto è aderire al
tipo di vita che la dottrina sancisce, stiamo
freschi. Un certo catto-progressismo americano ha risolto de facto il vecchio dilemma di T. S. Eliot: “E’ l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha
abbandonato l’umanità?”. La chiesa ha
abbandonato l’umanità, è oggi la loro risposta, quando le ha chiesto sacrifici impensabili, fuori dalla sua portata, e per
questo l’onere della riforma spetta alla
chiesa, non al fedele impotente. Se l’insegnante impone agli studenti di disegnare
un cerchio quadrato e questi lo guardano
come si guarda uno sciroccato, sono gli
alunni che meritano un’insufficienza o
l’insegnante che va licenziato? Dietro a
ogni richiesta di adeguamento della dot-
trina all’inflazione del secolo occhieggia
questo assunto implicito: non si può vivere così. Non si può raggiungere l’ideale di
vita che Gesù propone tramite la dottrina
della chiesa. Sarebbe bello, peccato che
sia impossibile. E’ una vita desiderabile
quella fatta di rapporti esclusivi, indissolubili e aperti alla vita, lo sa anche un’eroina della dissipazione come Elizabeth
Wurtzel, che negli anni Novanta s’imbottiva di Prozac per colmare l’insopprimibile
“bisogno di essere amata”, un paio d’anni
fa deprecava quell’inarticolata giustapposizione di “one night stand” che era la sua
vita di 44enne, troppo simile a quella che
faceva a 24 anni, e qualche settimana fa ha
annunciato sul New York Times che sposerà l’uomo giusto dopo 374 tentativi falliti. Subito però mette le mani avanti: un
amore che dura tutta la vita è bello, ma
chissà poi se può durare davvero, le statistiche – espressioni numeriche della prassi – dicono di no. Una professione di scetticismo, di disperazione della possibilità
vela all’origine qualunque ipotesi che si
muove nell’ambito del “per sempre”, fuori dall’oceano dell’amore liquido su cui gli
uomini vagano incerti come su una zattera, immagine potente escogitata da un
grande acquafortista del vivere postmoderno, Zygmunt Bauman.
“Gone Girl”, romanzo di Gillian Flynn
incoronato da un recente blockbuster, porta all’esasperazione l’idea della promessa
impossibile da mantenere. L’autrice non ci
gira intorno: “Il matrimonio è una specie
di lungo inganno, perché metti in luce la
parte migliore di te durante il corteggiamento, e allo stesso tempo la persona che
sposi dovrebbe amarti con tutti i tuoi difetti. Ma lo sposo non vede i difetti finché non
si va in profondità nel matrimonio e ti lasci andare un attimo”. Il vestito che cade-
va così bene sul manichino in vetrina, sulla carne flaccida della vita vera tira da tutte le parti. Anche gli apostoli, quando il
Maestro discuteva con i farisei, avevano
annusato d’istinto l’aria di fregatura: “Se
questa è la condizione dell’uomo rispetto
alla moglie, non conviene sposarsi”. Era
un altro modo per dire che la promessa di
indissolubilità è irrealizzabile. Non si può
vivere così, dice l’uomo d’oggi, non soltanto a proposito del matrimonio, della comunione ai divorziati e di altre specialità oggetto di discussioni sinodali, ma di qualunque cosa non accomodi le esigenze che si
affacciano sulla superficie degli eventi.
Non soltanto non è possibile che il matrimonio duri per sempre, ma non è possibi-
L’inganno del matrimonio. Il
vestito che cadeva così bene sul
manichino, sulla carne flaccida
della vita vera tira da tutte le parti
le vivere con il desiderio frustrato di un figlio nell’epoca della sua producibilità tecnica – è lì, a un utero di distanza, così vicino che lo arrogano come un diritto, come
resistere? – non si può vivere reprimendo
il bisogno di definire la propria identità
sessuale a prescindere da qualunque evidenza biologica, non si può vivere senza essere riammessi al sacramento dopo un errore. L’asticella è troppo alta anche per il
più atletico dei saltatori.
Su questa idea s’innesta l’esigenza di
una riforma, per incontrarsi a metà strada
fra il Vangelo e la vita, nell’area di intersezione fra le promesse impossibili e le
possibilità concrete. Per non sbagliare
chiameranno misericordia questo percor-
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
ean-Paul Sartre che lavora a un tavolino di caffè con l’immancabile sigaretta tra le labbra, Sartre a passeggio per Parigi e per le capitali di tutto il mondo con
Simone de Beauvoir, Sartre drammaturgo
circondato da attori famosi, Sartre che rifiuta il Nobel, Sartre con i potenti della
terra, Sartre alle assemblee alla Sorbona,
Sartre alle manifestazioni per il Vietnam,
Sartre che fa strillonaggio per la Cause du
peuple, Sartre davanti ai cancelli della
Renault, Sartre il comunista inquieto che
conia “la moralità nella politica” e confessa “stima incondizionata per Mao”. E’ il
professore borghese che si è trasformato
in filosofo e scrittore universale, con una
parabola personale che ha rappresentato
un esempio e uno stimolo per due generazioni d’intellettuali. Sartre finì con l’accreditarsi come instancabile chansonnier
della rive gauche, interprete di un sinistrismo ripetitivo, fuggito dalla filosofia, come amava dire Lucio Colletti, verso “le
scorciatoie della letteratura”. Con quella
sua faccia sabbiosa, la voce metallica, gli
occhi vigili dietro a lenti strette, il maglione nero girocollo e il giubbottino chiaro
che indossava nei giorni delle manifestazioni, Jean-Paul Sartre è stato il simbolo
dell’impegno a sinistra, un campione del
Bene. Ma anche un paradosso. Soldato
senza aver voluto esserlo e senza averlo rifiutato, prigioniero senza aver combattuto,
intellettuale che corre nella notte dietro
al proletariato senza avere acceso la propria lanterna, che mendica la prigione
rono per preferire la censura tedesca a
quella di Vichy. Molto più liberi sotto l’occupante germanico ossessionato dagli
ebrei.
Nel 1943, l’anno in cui Sartre divenne
Sartre, lo scrittore mise in scena il suo
“Les mouches” al teatro Sarah Bernhardt.
Soltanto che il teatro era stato “arianizzato” e il nome dell’ebrea cancellato dalla
facciata per far posto al più scarno “Théâtre de la cité”. Eccolo Sartre, che si vantava di non essere un intellettuale prigioniero nella “torre d’avorio”, ma lo studioso
collegato “alle masse” a un rapporto di solidarietà e di critica. Uno che si vanterà
di non essersi mai iscritto al Partito comunista perché “non ho voluto abbandonare
la mia libera ricerca”.
E’ lo stesso Sartre, spiega Ingrid Galster,
che scrisse per Comoedia, un settimanale
collaborazionista finanziato da Berlino. Il
suo primo articolo fu su “Moby Dick”, ma
nello stesso numero appariva un attacco a
Bernard Nathan, “quell’indesiderabile
del ghetto balcanico”. E anche al culmine
dell’occupazione, nel gennaio del 1944,
Sartre scrisse un saggio per la rivista collaborazionista, in omaggio a Jean Giraudoux. Sartre era arrivato addirittura ad
accompagnare René Delange, il direttore
di Comoedia, a un pranzo organizzato da
ufficiali culturali tedeschi. Comoedia era
nato nel 1907 sotto la direzione di Henri
Desgrange. Scomparve nel 1938 per riapparire il 21 giugno 1941, sotto la direzione
di Delange, che sebbene invocasse la propria “indipendenza totale”, dipendeva politicamente e finanziariamente dall’Istituto tedesco. Nel 1943 la De Beauvoir otten-
Al Lycée Condorcet il professor
Sartre prese la cattedra di un
ebreo cacciato, il nipote del
capitano Dreyfus
Abbandonò al suo destino
Bianca Lamblin, la studentessa
ebrea che andava a letto con lui
e Simone de Beauvoir
vendendo per le strade un giornale proibito. Adesso gli cade addosso l’accusa di
essere stato un cinico profittatore dell’occupazione nazista della Francia.
Adorazione isterica e denigrazione
hanno sempre accompagnato Sartre. Ma
adesso l’accusa viene da una sartrologa di
fama internazionale, Ingrid Galster, autrice del nuovo libro “Sartre sous l’Occupation et après. Nouvelles mises au point”,
pubblicato dall’Harmattan. Sono quelli
che l’Express chiama, nel numero in edicola questa settimana, “les années noires” di Sartre. Gli anni neri che smontano il mito sartriano.
L’accusa è pesante: “Attentisme”. Dunque né collabo né résistant. Ma neppure
“résistance de plume”, come si beavano
gli intellettuali sartriani dopo la guerra,
rispetto a chi, come Jean Cavaillès e Jean
Gosset, filosofi colleghi di Sartre alla Normale, imbracciarono le armi pagando con
la vita il loro impegno. Sartre invece beneficiò in molti modi dell’occupazione nazista di Parigi e del regime di Vichy. Archivi sorprendenti sono stati rinvenuti
negli ultimi anni. Galster, docente all’Università di Paderborn (Germania) e curatrice fra gli altri del saggio sartriano “Réflexions sur la question juive”, ha dato
forma a queste scoperte.
Il suo libro non si occupa dei celebri
letterati collaborazionisti felici di “separarsi dagli ebrei en bloc”, come Drieu La
Rochelle o Louis-Ferdinand Céline. Galster decifra e smonta l’autore della “Nausea”, l’icona del Café de Flore che nel primo numero della sua rivista Les Temps
modernes denunciò l’“homme de lettres”,
gli scrittori borghesi e collaborazionisti,
come una antitesi, l’incarnazione di qualità negative, la sentina del male.
“Durante la guerra, Sartre non era né
un santo né un criminale, o un resistente
o un ‘collaborazionista’”, scrive Galster.
“Prima della guerra, lui e Simone de
Beauvoir erano ‘spettatori’ delle notizie.
Sartre non ha nemmeno votato nel 1936,
l’anno del Fronte Popolare. Sotto l’occupazione, non ha rinunciato alla sua vocazione di scrittore. E ha ricoperto la carica di un professore ebreo licenziato da
Vichy”.
E’ l’“Affaire du Lycée Condorcet”. O,
per dirla con il Sunday Times di questa
settimana, “come Sartre ha beneficiato
dell’antisemitismo”. Nel settembre del
1941, Sartre fu nominato professore di Filosofia in quell’istituto di Parigi, che
avrebbe dovuto preparare gli studenti alla Ecole Normale Supérieure. Una promozione per il professore, allora trentaseienne, che fino a quel momento aveva
insegnato in un anonimo liceo di Neuilly.
L’unico problema è che quella prestigiosa cattedra in precedenza era assegnata
a Henri Dreyfus-Le Foyer, un ebreo cacciato in ottemperanza allo Statut des
juifs, nonché nipote del famoso capitano
Dreyfus. Il figlio di Dreyfus-Le Foyer ha
ne sempre da Delange il posto di regista
alla radio di Vichy, che emetteva programmi come “La milizia francese vi parla”.
Nei confronti di Auschwitz e di Vichy,
Sartre fu totalmente cieco, per non dire di
peggio. “Sartre fu indifferente all’Olocausto?”, chiede questa settimana il Jewish
Chronicle che dedica un lungo servizio allo scrittore francese. Nelle sartriane “Riflessioni sulla questione ebraica”, non si
trova alcun accenno, neppure una parola,
alla “soluzione finale” decisa dai nazisti.
Quel libretto, scrive Galster, fu piuttosto
una “compensation”, il tentativo di bilanciare il silenzio e la connivenza con l’occupazione tedesca.
Poi c’è il caso di Bianca Lamblin, nata
Bienenfeld, ebrea, la studentessa di Simone de Beauvoir al liceo Molière che divenne l’amante di entrambi. Ma quando i nazisti arrivarono, Sartre e “il Castoro” la
abbandonarono al suo destino. Dopo la
guerra, Bianca avrebbe accusato Sartre
nel libro, “Mémoires d’une jeune fille dérangée”.
Tra i sartrologi, c’è chi accusa Galster di
“disonestà intellettuale”, mentre c’è chi,
come Michel Winock, sostiene che “Sartre
mostrò la stessa indifferenza agli ebrei
della maggioranza dei francesi”. Paul
Johnson, nel suo magistrale “Intellettuali”, di Sartre scrive: “Per la Francia la
guerra fu un disastro; per alcuni amici fu
la morte: per altri fu il pericolo; ma Sartre ebbe una buona guerra”. André Malraux, un altro immortale che riposa nel
Pantheon, fu più spietato: “Io dovevo avere a che fare con la Gestapo, mentre Sartre vedeva i propri lavori pubblicati con
l’autorizzazione dei censori tedeschi”.
E’ lo stesso Sartre che nazificherà lo
scrittore Robert Brasillach, storpiandone
il nome in “Brazillach”. Come scrisse Philip Watts, “Sartre si erse ad avvocato, giudice e giuria” della letteratura francese
durante la guerra. Nel 1948 accusò gli
scrittori che si erano resi complici dell’ingiustizia: “Ritengo Flaubert e Goncourt
responsabili per la repressione che seguì
alla Comune, perché non scrissero una riga per prevenirla”. Lo stesso vale per Sartre, chansonnier a proprio agio nella Parigi occupata. Come hanno scritto Carlo
Fruttero e Franco Lucentini, “Sartre conservò lo stampo segreto, e letale del professore di liceo francese, del prof de philo
che con la parola e la penna potrà demolire e creare partiti e movimenti, librarsi
su complessi sistemi di pensiero e su civiltà millenarie, ma che poi, calata la sera, rientra in una casa dove ogni tavolo
esibisce un centrino di pizzo regalato dalla zia”. Dopo aver letto il libro di Galster
non resta niente del moralistico motto di
Sartre secondo cui, di fronte al male, si
può soltanto “collaborare o resistere”.
Emerge, invece, tutta l’ipocrisia del maître à penser. Che il suo arcinemico, Emil
Cioran, ebbe a definire, magistralmente,
“la bambola”.
di Giulio Meotti
J
Adorazione isterica e denigrazione hanno sempre accompagnato la figura di Jean-Paul Sartre. L’accusa ora viene da Ingrid Galster, autrice di “Sartre sous l’Occupation et après”
SARTRE IN NERO
Galster svela l’ipocrisia dell’intellettuale durante l’occupazione
nazista di Parigi. La cattedra, le riviste e le pièce teatrali
detto a Galster che il padre dopo la guerra, a cui sopravvisse per miracolo, morì
con l’amarezza di non aver mai ricevuto
il minimo segno, per non parlare di scuse, da parte di Sartre.
Alcuni anni fa Ingrid Galster aveva pubblicato un saggio sulla rivista Commentaire con l’eloquente titolo “Réponse à une
diffamation”. Galster è dura: “Sartre teorizza la cattiva fede (a proposito de ‘L’essere e il nulla’) nel momento stesso in cui
tazione di Sartre come membro della Resistenza. Georges Canguilhem e Jean Cavaillès furono due eroi della Resistenza.
Sartre a dir poco uno spettatore. Tutti i
membri della Resistenza avevano documenti falsi. Sartre non ne ebbe mai bisogno. Ma ebbe bisogno invece dell’autorizzazione di Otto Abetz, il plenipotenziario
culturale del Terzo Reich a Parigi, per
pubblicare il suo primo importante testo
filosofico, “L’être et le néant” (in italiano
“L’essere e il nulla”).
Poi emerge un documento in cui Sartre
dichiara di non aver mai fatto parte della
massoneria. Sotto l’occupazione, gli autori
avevano l’obbligo di sottoscrivere di non
essere né ebrei né massoni – e Sartre rimproverò duramente la compagna, Simone
de Beauvoir, di averlo fatto, assicurando
che lui non sarebbe mai sceso a un simile compromesso. Ora gli archivi lo smentiscono. Ipocrita. E’ lo stesso Sartre che il
1° novembre 1946, alla Sorbona, tenne il
discorso “La responsabilité de l’écrivain”
(la responsabilità dello scrittore), in cui affermava che ogni tedesco che non aveva
protestato contro il nazismo era responsabile di quanto accaduto. “Nella Germania
nazista i professori avrebbero potuto lasciare l’università o dimettersi quando un
ebreo veniva cacciato”, scriveva Sartre,
rimproverando agli insegnanti tedeschi di
non aver fatto quello che lui stesso non so-
Mise in scena “Les mouches”
in un teatro “arianizzato” di
Parigi, e dopo aver passato il
vaglio della censura nazista
Ancora nel 1944 scriveva per
Comoedia, la rivista antisemita
e collaborazionista finanziata
dall’Istituto tedesco
la pratica, e se può scrivere i suoi testi contro Vichy è unicamente perché ha il tempo
di farlo grazie all’esclusione antiebraica”.
Quanto al ruolo di Sartre nella Resistenza, Galster taglia corto. Il filosofo, la
De Beauvoir e i loro amici avevano creato un gruppo chiamato “Socialisme et Liberté”, che prevedeva di resistere a Vichy
e al nazismo attraverso degli incontri intellettualoidi a cui partecipavano quattro
gatti. Nel corso dell’estate 1941, Sartre e
Beauvoir avvicinarono diverse personalità, tra cui André Gide e André Malraux.
Tutti declinarono l’invito a unirsi al loro
gruppo.
Dopo la Liberazione, questo e altri episodi hanno contribuito a costruire la repu-
lo non aveva saputo fare, ma peggio che
aveva alimentato prendendo il posto dell’ebreo al liceo.
Su Libération del 1986, il filosofo ebreo
Vladimir Jankélévitch ebbe parole durissime su Sartre, la cui retorica resistenziale non faceva i conti con la sua condotta a
Vichy. E’ la stessa accusa che gli rivolgerà
Gilbert Joseph nel libro “Une si douce occupation” (una così dolce occupazione), a
proposito del suo carrierismo. Carrierismo comune ad altre icone, come Cocteau,
Miró, Matisse, Braque e Kandinsky. Tutti
esposero quadri a Vichy, mentre l’editore
Gallimard triplicava il suo fatturato e in
quattro anni si girarono duecento film. E
il paradosso ultimo fu che tanti artisti fini-
Militari tedeschi a Parigi durante l’occupazione, 1940-’44 (foto di André Zucca)
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG III
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
LA RETE NON E’ PIU’ IL PARADISO
Cade l’illusione che internet regali libertà e renda migliori. Non ci crede più nemmeno Rampini
a anni mi sentivo solo. Sentirmi solo
non mi inquieta molto, anzi. Mi succede però da tempo di non trovare qualcuno
che capisca quello che intravedo a proposito di mondo digitale, internet, web, social
network eccetera. Mi sorprende e trovo
umoristico il fatto che ogni tanto, anche
molti intellettuali, proclamino con soddisfazione, illuminandosi, come se fosse una
loro originale scoperta, che l’informatica
“gli ha cambiato la vita”: cosa che una volta si diceva di un grande amore, di una
conversione religiosa, di un intervento chirurgico, della scelta di emigrare o di cambiare lavoro.
Il mio istinto, forse sano, forse perverso,
mi ha prima consigliato e poi costretto a
non avere niente a che fare con questo recente Brave New World. In fatto di rete sono un totale analfabeta, come probabilmente nel prossimo futuro soltanto gli animali riusciranno a essere. Questa compagnia non mi dispiace affatto.
Ho riletto da poco uno scritto di José
Bergamin che si raccomanda soprattutto
per il suo titolo: “Decadenza dell’analfabetismo”. Mi ha deluso, lo ricordavo migliore. Ma ogni volta che decade qualcosa di
antico o precedente e ritenuto negativo,
qualunque tipo di “analfabetismo” riguardante un qualche abbiccì della civiltà progressiva, credo che ci sarebbe da chiedersi che cosa precisamente sta succedendo.
Che cosa decade di buono insieme a ciò
che decade di cattivo. L’idea di progresso
assoluto, cioè immancabile e garantito,
“Internet ci rende liberi” è il primo articolo di fede o dogma del Nuovo mondo
progettato nella Silicon Valley. Questa religione, come altre, in certe circostanze dà
forza, un senso di padronanza che però
può trasformarsi in qualcosa che somiglia
a un delirio o sogno infantile di onnipresenza e onnipotenza.
Straordinari effetti psichici. Eccezionali effetti sociali. Vertiginosa moltiplicazione di desideri e bisogni. Purché rigorosamente limitati a quelli che le nuove macchine comunicative e informative offrono.
Sempre meno cose e attività sono concepibili senza l’uso di queste protesi tecniche.
Del resto lo stesso spazzolino da denti
elettrico aveva già qualcosa di sinistramente comico: annunciava l’avvento di
una vita domestica in cui basterà guardare il frigorifero con l’intenzione di aprirlo,
perché si apra.
State tranquilli: Rampini non è né un
luddista né un apocalittico. Sono io che sono tentato di esserlo. Per questo mi compiaccio di sentirgli dire che lui non riesce
a fare a meno della Google Map, del suo tablet sottile e leggero, di Amazon che gli fa
ricevere a casa libri introvabili. E’ lui ad
ammettere che la sua produttività è aumentata rispetto ai tempi in cui aveva bisogno di un telefono, di una stenografa, di
un fax. Ma ora che è tornato in California
per “andare a vedere da vicino il laboratorio del futuro” si rende conto di una semplice verità spesso dimenticata e a volte riscoperta: che “il progresso è tale se ne restiamo noi i padroni”.
Padroni? Di che cosa siamo padroni?
Neppure, o a mala pena, della nostra vita
La civiltà occidentale è la più
infatuata di progresso. Ma l’idea
di progresso assoluto, immancabile
e garantito, non mi entra in testa
Mai come oggi abbiamo avuto
a che fare con macchine così
potenti e intelligenti. Ma la
possibilità di dominarle si è ridotta
non mi entra in testa: dovrei considerare
la nostra vita presente, l’attuale umanità,
con tutte le sue abitudini mentali e fisiche,
come il più alto valore raggiunto nella storia delle civiltà umane e della civiltà umana occidentale, che è fra tutte la più appassionata, devota, infatuata di progresso.
Ora Federico Rampini, un giornalista
che ho sempre stimato nonostante la sua
palpabile aureola snobistica, perché sa
correre subito lì dove succede qualcosa di
veramente nuovo, ora è proprio uno come
lui a farmi una gradita, inaspettata compagnia.
Rampini possiede tutte le competenze
giuste che io non mi sogno di avere. Eppure nel suo libro “Rete padrona. Il volto
oscuro della rivoluzione digitale” (Feltrinelli, 278 pp., 18 euro) nutre le mie stesse
convinzioni. E’ vero che io (devo dirlo) ci
sono arrivato prima: ma non avevo, non ho
mai avuto né cercato tutte le prove per giustificare una tale inamovibile diffidenza
antinformatica. Rampini invece ha percorso tutta la strada, la conosce a memoria in
tutte le sue tappe e le sue svolte, sa tutto
dei maggiori protagonisti di questa storica
impresa. Può affermare con competenza
ciò che si poteva intuire per istinto, solo
che l’istinto, che può intuire bene, rischia
sempre di essere cieco, perché pretende
di vedere al buio.
Ho letto “Rete padrona” in uno stato di
sovraeccitato ottimismo. Beninteso, nessuno fermerà o rallenterà l’espansione del
potere dei nuovi Signori dell’universo, che
soccorrevoli e premurosi hanno infilato
con dolcezza, come in una Fabbrica del
cioccolato, miliardi di esseri umani, tutti
consenzienti e quasi sempre entusiasti. Ma
Rampini, mezzo americano com’è, vissuto
in California al momento giusto e ora stabilito a New York, ha capito ciò che innumerevoli intellettuali italiani non riescono
ancora a concepire: che il paradiso informatico, la religione digitale, se non di fatto, è ideologicamente in declino e negli ultimi anni ha manifestato con progressiva
accelerazione tutti i vizi nascosti nelle sue
celebrate virtù.
Internet non dispensa libertà, non rende migliore la nostra vita e il nostro cervello. I geniali e giovanissimi ingegneri-imprenditori di Silicon Valley non sono né
dei Leonardo da Vinci né dei benefattori
dell’umanità. Oggi siamo tutti sotto il loro
controllo e (per usare una parola passata
di moda) siamo tutti “manipolati” come
mai prima tecnologie della comunicazione
erano riuscite a fare.
Davvero molto bello che un tipo informato come Rampini si sia convertito dall’ottimismo al pessimismo o scetticismo
tecnologico. Lo dice lui stesso fin dalle prime pagine: prima credeva, ora no, prima
era innamorato, ora è deluso. Vale la pena di sentire la sua voce: “I grandi amori
sono pericolosi. Preparano delusioni, ferite incurabili. I miei ultimi viaggi a San
Francisco mi lasciano in bocca un sapore
strettamente privata. Loro invece, i demiurghi della rete che Rampini senza ritegno chiama “i nuovi Padroni dell’universo”, dettano le regole del futuro e di che
cosa va considerato progresso. Proprio loro “sono stati all’origine di una nuova religione, con tanto di certezze assolute, condivise dalla tecno-casta sacerdotale di
esperti che serve i loro interessi”.
Sarà così. Ma questo, mi sembra, sarebbe il meno. C’è forse qualcuno che non sia
adepto della stessa religione promossa e
custodita dalla tecno-casta? Le “masse”
della sociologia reazionaria o rivoluzionaria? Il “pubblico” della sociologia liberale e democratica? Sembra di no. Quella religione si è impadronita di tutti gli utenti.
I quali non pregano nessun Dio, ma ubbidiscono alle loro amate abitudini tecniche.
Rampini ogni tanto sembra spaventarsi
di quello che dice e pensa ora. Sente di
avere ormai opinioni che in passato non
avrebbe condiviso. Così, per tranquillizzarsi, a volte fa un passo indietro e scrive:
“Sono convinto che, nel bilancio finale tra
i costi e i benefici della modernità, ci sia
ancora un segno positivo. Dobbiamo vaccinarci contro un pessimismo cosmico che
troppo spesso è un handicap psicologico
della vecchia Europa, e dell’Italia in modo particolare. Tuttavia lo stesso dibattito
americano, di cui vi racconto diversi episodi in queste pagine, è animato da una corrente modernissima di critici del totalitarismo tecnologico”.
Queste righe sono rivelatrici. E’ probabile che Rampini, se fosse rimasto a vivere in
Italia, non sarebbe arrivato a mettere insieme un così pesante e documentato atto
di accusa come “Rete padrona”. Vivendo
negli Stati Uniti ha capito che l’èra gloriosa, l’età dell’innocenza entusiasta, sono finite. Le opinioni più avanzate e d’avanguardia nel grande paese in cui la rivoluzione informatica è nata, sono opinioni che
rendono difficili gli entusiasmi del passato. In un libro brillante, puntiglioso e sinceramente disgustato come il suo, le righe
che ho appena citato sono le meno felici.
Che bisogno c’era di dire che “nel bilancio
finale tra i costi e i benefici della modernità” il segno è positivo? Chi può credere
che sia possibile un bilancio “finale”? Nessuno ha ancora visto la fine, mi sembra. E
poi dobbiamo davvero “vaccinarci contro
un pessimismo cosmico”? Chi ne è affetto?
Attualmente, di ottimisti sulla Rete e ogni
tipo di gadget ce ne sono più in Europa e in
Italia che negli Stati Uniti, paese nel quale Rampini ha respirato un’atmosfera di
nuova critica radicale all’utopia tecnologica. Al leopardiano “pessimismo cosmico”
gli italiani mi sembrano impermeabili. Se
non usiamo di più le nuove tecnologie è solo per pigrizia. La stampa italiana è abitata invece da molti pappagalli che cantano
ancora le lodi di un’idea di libertà comunicativa illimitata e ininterrotta: quella
che sembrò vera vent’anni fa, ma ora è sia
vecchia che falsa.
di Alfonso Berardinelli
D
L’informatica quando ancora internet non c’era. Federico Rampini ha pubblicato per Feltrinelli “Rete padrona. Il volto oscuro della rivoluzione digitale”
dolceamaro (…) L’inondazione di nuova
ricchezza dalla Silicon Valley si traduce
anche in una frenesia immobiliare, che
trasforma San Francisco in un cantiere
perpetuo. I capitali debordano, le ruspe
avanzano, i nuovi grattacieli si innalzano
a una velocità da paese emergente. Le ‘bolle’, o la distruzione creativa, fanno parte
del Dna californiano dai tempi della febbre dell’oro (…) Quando ci andai ad abitare quattordici anni fa, era in atto un’altra
febbre, il boom di Internet, la new economy (…) Alle porte di San Francisco, imboccando l’autostrada 101, entravo nel cyber-universo di Internet. Oppure, andando
a ritroso nel tempo, rivisitavo i miti fonda-
Negli ultimi anni la religione
digitale ha manifestato con
progressiva accelerazione tutti i vizi
nascosti nelle sue celebrate virtù
tori della mia giovinezza: il Free Speech
Movement di Berkeley che inaugurò la
contestazione studentesca quattro anni
prima del Maggio ’68 parigino, il radicalismo pacifista, la Summer of Love musicale, le prime battaglie vincenti dell’ambientalismo moderno. Ma anche la rivolta anti-stato (…) Oggi arrivo a San Francisco da
New York. Ma ormai a San Francisco avverto un disagio, un’inquietudine. Per la
velocità con cui si bruciano le illusioni, si
tradiscono gli ideali, si sovvertono le utopie. Nel 2000 ancora c’era una tribù di
hacker delle origini, quelli che avevano sognato Internet come una prateria aperta,
un bene pubblico; accerchiati e assediati
da colossi che allora si chiamavano Micro-
soft, Aol, Yahoo. Poi la fiaccola dell’innovazione passò nelle mani di Steve Jobs con
Apple e di Larry Page e Sergey Brin con
Google. Più di recente ancora, i social
network Facebook, Twitter. Tutti promettono, all’inizio, di inventare un capitalismo
nuovo. Disdegnano il profitto. Finché scopri che stanno creando una società diseguale quanto il vecchio capitalismo
newyorchese. Perseguono gli stessi disegni
egemonici, monopolistici. Ancora vestono
come hippy, ma dentro i volti di tanti ventenni sognatori spunta una macchina pronta a tritare tutto ciò che ne ostacola i programmi di conquista”.
Senza nessuna voglia di rimproverare
Rampini per avere creduto nell’utopia,
quella macchina tritatutto forse si vedeva
in azione fin dall’inizio. Le macchine che
dicono di produrre libertà sono ambigue.
Moltiplicano il potere nelle tue mani e
quindi il gusto di un potere che vuole
espandersi, la cui logica è solo quella di
crescere, divorando tempo e spazio, spezzando vecchi vincoli per crearne di nuovi.
Rampini racconta le parabole di Bill Gates e di Steve Jobs, di Microsoft e di Apple.
“Spodestata l’Ibm, Gates però divenne a
sua volta uno spietato monopolista”. All’inizio Apple è “la piccola mela che si distingue dai colossi informatici. Poi però,
quando il successo gli arride, Jobs si sforza di costruire un sistema chiuso, impenetrabile. E al tempo stesso diventa l’artefice
di uno sfruttamento ignobile della manodopera cinese, in quegli stabilimenti Foxconn che lui si rifiuta perfino di visitare”.
Google, fondato dai “ragazzini” Larry
Page e Sergey Brin, comincia con l’escludere “ogni pubblicità dai risultati del suo
motore di ricerca” ma poi diventerà “la
più gigantesca macchina pubblicitaria del
pianeta”. Facebook e Twitter nascono come sorridenti giocattoli “per renderci tutti più vicini tra noi, più amici e comunicativi”, ma la loro trasformazione ne fa velocemente delle “macchine di distruzione
della nostra privacy, ci spiano per vendere le informazioni sui nostri gusti e sui nostri consumi al migliore acquirente”.
Dunque macchine e ancora macchine.
Rampini è costretto a ripetere questa vecchia parola dietro cui si spalanca una lunga storia che all’improvviso, trent’anni fa,
ci si è rifiutati di leggere. La macchina è
un mezzo che facilmente diventa scopo
perché contiene uno scopo, lo fa intravedere, lo produce, lo impone. Nessuna tecnologia è soltanto uno strumento che ci lascia
uguali a noi stessi, a come eravamo prima
di usarlo. La ruota contiene il correre come scopo. Il fuoco fa nascere il desiderio
e il bisogno sia di cuocere e riscaldarsi che
di incendiare. Cose risapute, idee da bambini che per magia sono state dimenticate
nell’ultimo mezzo secolo quando si è trattato di televisione e di informatica. Si è
detto: tutto dipende dall’uso che ne fai, l’uso che sei libero di farne. I fatti hanno mostrato il contrario. Le macchine usano chi
le usa, non meno di quanto facciano con loro gli utenti. Mai abbiamo avuto a che fare come oggi con macchine così potenti,
polimorfe, versatili, intelligenti, promettenti, divertenti, magiche. La possibilità di
dominarle si è vertiginosamente ridotta e
questa diminuzione di libertà sia individuale che collettiva è il vero evento, il vero contenuto della rivoluzione digitale.
Quanto più la macchina è intelligente, tanto più intelligentemente sequestra la tua
intelligenza. Sarai anzi proprio tu a delegare volentieri, come fosse una liberazione, ciò che prima facevi in proprio: ricor-
dare, orientarti, ponderare e scegliere, visualizzare, organizzare conoscenze e dati,
eccetera. L’intelligenza artificiale è un’intelligenza senza corpo e senza psiche, i cui
effetti derealizzanti sono calcolabili, ma
non ancora calcolati e messi in conto.
Anche l’universo digitale, vengo a sapere, ha già avuto un suo Orwell. Si chiama
Dave Eggers, è l’autore di un romanzo,
“The Circle”, di cui Rampini dice che è
“una formidabile allegoria orwelliana del
nuovo totalitarismo digitale, abile nel mascherarsi dietro le bandiere progressiste,
pronto a schierarsi con tutte le cause nobili per la salvezza del pianeta, ma spietato nel sorvegliare le nostre anime”.
Bill Gates spodesta l’Ibm per
diventare a sua volta monopolista.
Google, senza annunci prima, poi
gigantesca macchina pubblicitaria
Ecco comparire qui, inaspettatamente,
una parola desueta: anime. Siamo dotati di
anime? Dobbiamo crederlo? Lo crediamo
al di qua e al di là di ogni concezione religiosa? Mortale o immortale o appena un
poco più longeva di noi, l’anima si fa viva
ogni volta che qualcuno si mostra molto,
troppo interessato, più interessato di noi
stessi a farne uso: un uso indiscreto, invadente. La tecnologia digitale ci rende liberi? Divertitevi con questo giochetto: provate a decidere di farne a meno per una settimana, magari quando siete in vacanza.
Ce la fate? No? Dov’è finita la vostra libertà o anima?
Non a caso, il convertito al pessimismo o
al realismo Federico Rampini dice che
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG IV
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
e pensate a Palermo – e non le appartenete – immaginate una prigione senza grate né sbarre. Non ce n’è bisogno. Il
canone dell’immobilità basta per chiudere
a chiave, per serrare le manette ai polsi.
Prigionieri i palermitani, fisicamente, tra
cortei di protesta e di fame, piogge autunnali annunciate, eppure fatali per la circolazione libera di uomini e cose. Prigionieri i palermitani, mentalmente, nell’impossibilità di vagheggiare una via di fuga,
un’uscita di sicurezza da qualche parte.
Prigioniero il sindaco di Palermo, il Professore, Leoluca Orlando. Incatenato alla
retorica che non sazia, ammanettato, nella
lussuosa cabina di Palazzo delle Aquile,
alla carcassa di una città che annega. Prigioniero di Orlando, Leoluca Orlando – Luca lo chiamano, oppure, il SinnacOllanno,
tutto attaccato –, vittima e carnefice della
speranza che un giorno suscitò, fabbricando una narrazione fascinosa col marchio
della “Primavera”, in anni lontanissimi:
era l’epoca della prima sindacatura costellata di maxi-processi ed eroi antimafia.
Tutta la schiuma delle parole si è infine
ritirata, svelando la nudità. Tutta la risacca è tornata al mare. E’ rimasto un paesaggio di alghe e conchiglie vuote. Il simbolo
della damnatio, della condanna di Palermo è il guscio senza polpa. Tutte le formule che occorrevano per reggere l’incantesimo non servono più.
Se pensate a Palermo – e siete uomini liberi – dimenticate gli scatti del luogo comune, della metafora, perché credete di
Antimafia, passione, rivoluzione, i capisaldi che componevano il vocabolario Leoluchiano, distanti dall’avvento dei cavalieri
dell’apocalisse: rassegnazione, scomparsa,
penitenza. Tre sindacature passarono, dalle primavere agli inverni. Gli speranzosi
scoprirono di avere partecipato al gioco
dell’oca, con dadi stregati, per ritrovarsi
alla casella di partenza. Un po’ è stato il
gioco dell’oca, un po’ è l’oggettiva incommensurabilità dei problemi a rendere invincibile la stregoneria. Il sindaco si va
dissolvendo. Ogni proclama si mangia un
pezzo dell’Orlandismo. Ogni dito puntato
verso il futuro ricade nella desolazione
del presente. Lui, il SinnacOllanno, combatte con le armi note, con il ripetersi della narrazione contro l’evidenza della catastrofe. Indica simboli che si rivelano boomerang. Aveva eletto la Favorita, il polmone verde, il parco reale di alberi e di asfalto, a nuovo Teatro Massimo, a presidio della rinascenza. Il risultato? Un astruso piano di chiusura sperimentale, poi rinnegato, che ha scontentato i pedonalizzatori
selvaggi e i feticisti del tubo di scappamento. Aveva additato, il Professore, nel
cantiere del tram, la chiave di volta della
mobilità metropolitana. Per ora stravince
la beffa dello zio di Johnny Stecchino intrappolato nel “ciaffico” di un perenne ingorgo causa lavori. E chissà se giungerà
puntuale per i titoli di coda del film, lo zio
che parlava siculiano. Senza contare l’apartheid delle pedonalizzazioni concepito
con l’intento di punire gli automobilisti,
che ha contribuito moltissimo alla vertigine dell’indice di gradimento. Il cantiere
tranviario fu proclamato da eloquenti car-
Il canone dell’immobilità gira
la chiave: prigionieri i palermitani,
prigioniero il sindaco, incatenato
alla retorica che non sazia
Il dovere, sia pure scomodo, di
pagare le tasse, a Palermo diventa
rito borbonico, certificato di
sudditanza, penitenza
conoscere, ma non conoscete. Scordate la
bonomia dello zio di Johnny Stecchino,
Paolo Bonacelli, che, in siculiano, in uno
slang sicilnazionale, si lamenta del “ciaffico ttentacolare”, sputacchiando saliva e
folclore in faccia a Roberto Benigni. Non
saranno né l’ironia né il talento di un attore comico a cambiare le carte in tavola
e il domani di una comunità rattrappita in
se stessa. Non sarà l’arte del paradosso a
far sbocciare il riso, mentre si consuma il
Palermicidio perfetto. E i palermitani come operano nello sfacelo? Da immobili,
appunto. Maledicono talvolta. Mimano
cenni di protesta. Non azzardano un passo.
Condannati, in fila quieta e rassegnata, sospesi sull’abisso. E non c’è più nemmeno il
lato ridicolo della faccenda, il sarcasmo
che permette di scovare un dettaglio di
buonumore, un appiglio, nella più cupa
delle tragedie. Le cose sfasciate sono talmente avanti da sopravanzare l’omeopatia
del sorriso.
Dimenticate le foto oscene ed eroiche. I
Riina, i Provenzano, le trattative, i processi, le bandiere dell’impegno. La mafia resta una vicenda terribilmente seria. E’
l’antimafia di rito panormitano, quaggiù
creata e da quaggiù propagandata, a non
esserlo più, ridotta a scimmiottamento di
passione civile. Quelle belle bandiere furono ammainate. Antimafia oggi significa –
fatti salvi il coraggio e la buonafede dei pochi coraggiosi in buonafede – esibizione di
distintivi, califfato della prepotenza, liturgia del complottismo da cui è illecito dissentire, se non si vuole essere tacciati di
collaborazionismo. Il dualismo mafia-antimafia appare comunque irrilevante nel
dramma quotidiano. Palermo va alla deriva, con i suoi gusci vuoti. Reagisce, ormai
con distacco, al mantra della legalità, che
è commercio, marketing, certificato per costruire patrimoni e carriere, rilasciato da
apposite agenzie. La città (con)dannata ha
fiutato l’impostura, si è ricongiunta a Sciascia nel suo atto finale, alla denuncia sui
“professionisti dell’antimafia” che valse
allo scrittore l’ingiuria di quaquaraquà. Va
alla deriva, certo, immobile, ma con gli occhi aperti.
Palermo prigioniera è un’esperienza suprema di sopravvivenza, riservata ai residenti. Si comincia dalle bagattelle, per raccontarla, da eventi che altrove sarebbero
contorno, breve di poche righe in colonna.
La pioggia, per esempio, ovunque evento
meteorologico, quaggiù biblica sciagura,
testimonianza della malevolenza di un dio.
Cade, come sempre accade, ai primi di ottobre, e sempre trova una comunità indifesa. Colpa dei tombini strapieni, della cattiva manutenzione? Colpa della rete fognaria, del destino acquatico e baro? Bastano
quattro gocce per allagare un popolo, dalla borgata marinara di Mondello alla stazione centrale. L’attraversamento dell’asse
viario assume la mitologia di un’impresa
epica. Agli incroci e ai semafori gli automobilisti intrattengono pattuglie di turisti con
telloni pubblicitari che ritraevano ectoplasmi, stretti nell’abitacolo della macchina, avviliti per il caos, nonché presi in giro dalla didascalia: “Non ci scusiamo per
il disagio”. E siamo alle bagattelle, alle annotazioni marginali di piogge, munnizza,
ingorghi, disagi per l’invisibile posteggio.
Piccole cose che svelano. Il male fisico e
mentale sta nell’abitudine all’agonia, nel
canone che inchioda amministratori e amministrati all’immobilità.
Se non siete palermitani e pensate a Palermo, come ossessione letteraria, non vi
meravigliate della polpa di fiele sotto la
corteccia. Non meravigliatevi del riflusso
di spuma e speranze contro il primo cittadino pro tempore. E nemmeno dell’affetto
da compagni di pena che si nasconde dietro il disappunto. Leoluca Orlando – come
Diego Cammarata, il predecessore – è carceriere e carcerato, imputato e giudice. La
lima che viola la cella, il secondino che la
richiude, restando incastrato nell’ingranaggio.
Se non siete palermitani, in fondo, questa è solo una favola di chiavistelli immaginari, nell’Ucciardone – penitenziario cadente e coerente col contesto, tuttora in
funzione – senza sbarre, né mura di cinta.
Una suggestione che brucia in forma di
metafora, oppure si spegne all’istante.
Qualcosa che non vi riguarda, un libro che
si può gettare via, oltre il paralume del comodino, perché viene a noia, perché è diventato troppo surreale. In caso contrario,
vi riconoscerete nella polpa, vi specchierete nella nudità.
Se siete Viaggiatori Consapevoli, tornerete, volendo tornare, fingendo di volere
scappare, attratti dalla decomposizione,
inorriditi, paghi di un’illusione di salvezza.
Ritornerete, per affrontare con circospezione il tragitto dall’aeroporto al centro.
Sbarrerete la porta di casa, una incantevole ridotta patrizia, ricolma di affreschi, soffitti altissimi, di arazzi luminosi, scene di
caccia adornate d’oro. Una dimora per
compensare con gli ornamenti interni la
nudità dell’esterno. Palermitani di alto mare, rosi dai sensi di colpa, telefonerete agli
amici che non partirono, ai palermitani di
scoglio, per rinfacciarvi reciprocamente
l’errore. Metterete il naso alla finestra di
rado, subendo uno strano rimpianto, nel
gioco dell’oca di tutte le partenze e di tutti i ritorni.
Se siete residenti obbligatori, se non siete andati via, se ora è troppo tardi per farlo, la damnatio, la condanna di Palermo, è
un demone con cui avete già imparato a
convivere. La nudità è solo un altro modo
di vestirsi. L’invisibilità è un espediente
per proteggersi, per non soffrire troppo
nella dissolvenza. Si può resistere, agonizzando, anche da immobili. Se tutto è prigione, catena arrugginita ai polsi, cosa sarà
mai il piacere della libertà? Se tutto è abitudine al peggio, che male può fare questa
dannazione, la botola che si spalanca, annunciando l’inferno?
di Roberto Puglisi
S
Palermo è talmente indifferente da non battere più di mezzo ciglio al cospetto del nulla che la sta divorando (foto di Enzo Sellerio)
DAMNATIO PALERMO
Una grande città trasformata dalla crisi in un grande Ucciardone.
Dovrebbe amministrarla Leoluca Orlando, sindaco a scomparsa
la messinscena di affollate naumachie. Come mai si narra della pioggia, per riferire
della damnatio? Perché si colgono, già qui,
i tratti somatici dei prigionieri e della prigione. Quando non sono impegnati a “curnutiarsi” (a darsi reciprocamente del “cornuto” per sfogo) dai finestrini delle macchine bloccate, gli autoctoni rimangono tranquilli, soddisfatti del canone dell’immobilità. Nessuno alza più di mezzo sopracciglio, se la piena dai marciapiedi arriva fino alla maniglia dello sportello. Non è impianto di civiltà londinese, atarassia buddista orientata verso una più composta visione della vita. Si tratta di celle che non consentono l’evasione. Il palermitano è fatalista. Boccheggia nella sua disperazione di
un metro quadrato, perseguendo la riduzione del danno. Muoversi potrebbe addirittura peggiorare la situazione, seppure ci voglia una sfrenata fantasia per immaginarlo.
Nessuno osa osare, mentre la pioggia allaga e riga i finestrini, gli oblò del carcere.
Il canone dell’immobilità si rivela com-
Tolti i coraggiosi in buona fede,
antimafia oggi significa califfato
della prepotenza, esibizione di
distintivi, liturgia del complottismo
piutamente nella penitenza del corteo irrinunciabile, unificandosi al romanzo della
scomparsa: tutti archetipi del decadimento in atto. Le strade traboccano di esistenze piagate, di ex lavoratori che non lavorano, di impiegati della formazione professionale finiti sul lastrico, sfiniti dalla predicazione di un presidente della regione – il celebre Rosario Crocetta – quello che aveva
solennemente giurato: “Non farò macelleria sociale”. Deve essere andato storto
qualcosa se, nell’affinare i marchingegni
della macchina burocratica in ossequio alla rivoluzione crocettiana, la Sicilia si è trasformata in una macelleria totale, con famiglie appese in vetrina, simili a teste di
capretto. E non è che fosse un godibile
spettacolo la Trinacria sciupona, ben oltre
i propri mezzi, ingrossata dalle file dell’occupazione clientelare. Era fetida. Ma non
lo è neanche questa carnezzeria periferica
che trita innocenti e colpevoli insieme.
Martedì scorso è stato il giorno del grande
assedio. Tutti, proprio tutti, si sono dati appuntamento sotto le finestre della presidenza, a Palazzo d’Orleans. Il canone dell’immobilità non è stato scalfito dalle urla
che però si sono sentite con pena e chiarezza. C’erano i forestali e i formatori, figli dell’opulenza trascorsa, costretti a battersi per
ricevere la carità di stipendi arretrati. A
margine, i palermitani, incaprettati nella
coda, con la solita e quieta aria di rassegnazione. Da una parte, il romanzo della scomparsa: l’isola muore e sparisce negli stenti
dei semplici che ieri riuscivano a sbarcare
il lunario e adesso soffrono la fame del
brontolio di stomaco, non per posa letteraria. Dall’altra, Palermo nella sua prigione,
appesa al clacson, congelata, indifferente,
abituata al massacro.
Talmente indifferente è Palermo da sopportare il romanzo della propria scomparsa, da non battere più di mezzo ciglio al cospetto del nulla che la sta divorando. Riecco il duplice rivelarsi di una malattia fisica e mentale. Nella strage dei negozi che
chiudono per mancanza di economia e
tracciano il diagramma di una crisi avvitata su se stessa. Ha calato la saracinesca
perfino il bar Mazzara della centralissima
via Magliocco, ritrovo di Giuseppe Tomasi
di Lampedusa, passerella della dolce vita,
gettando nello sconforto gli estimatori delle sue arancine al burro. Il virus si diffonde nella malinconia delle case invendute
e sfitte, ché nessuno compra sebbene tutti
cerchino di vendere. Mini-regge languiscono crocifisse a uno stinto cartello del prezzo. Dalle roccaforti borghesi di viale Strasburgo, alle villette nobiliari di via Libertà,
agli antichi manieri di piazza Politeama, si
assiste alla processione degli immobili, nel
senso del Canone e dell’edilizia. L’epidemia deflagra sotto i colpi dei rifiuti ormai
“ttentacolari” più del “ciaffico”. E non si
ode sussurro di Vespri. Il rimedio della ri-
duzione del danno contempla il vezzeggiativo, tra l’orrido e il confidenziale, il trucco del ridicolo e del pietoso che non sana.
L’immondizia, per esempio, è chiamata
“munnizza”. Definizione dialettale, familiare, di reciproca vicinanza. Non si può
cambiare. Si possono inventare orrende tenerezze per contenere lo sgomento.
La risacca ha lasciato la nudità esposta,
con le uniche parole disponibili. Tre parole per spiegarsi: non sole, cuore, amore.
Rassegnazione, scomparsa, penitenza. Ci si
rassegna alla scomparsa per una penitenza che si ritiene meritata, per scontare la
colpa di averla amata davvero questa città
di splendore e di macerie, che si narra nel
ricongiungimento di parabole irriducibili,
nello splendore delle macerie. Colpevoli e
condannati per avere nutrito la follia della rinascita.
Ancora nelle bagattelle, c’è la risacca.
C’è un palermitano di alto mare, uno che
conosce le onde e – proprio perché le conosce – decise, lustri fa, di andare via, abbandonando gli scogli. Torna, il palermitano di
mare aperto, il Viaggiatore Consapevole
che non si fa abbindolare. Da buon cittadino, si appresta a pagare una cartella esattoriale. Solo che, quaggiù, non è sufficiente corrispondere il costo della cittadinanza, se non c’è la penitenza in aggiunta. Il
palermitano di alto mare capisce che l’unica è recarsi personalmente in persona
presso il domicilio dell’ufficio preposto. Va
e trova l’apocalisse. Una marea di uomini
e di donne, nell’imbuto dell’attesa, dall’alba, con pizzini volanti, assurti al rango di
sovrani elementi giuridici del turno. Una
moscacieca di stanze, di rincorse, di figuranti che non sanno rispondere e somigliano alle tre scimmiette della storiella, non
vedenti, non parlanti, non udenti. Ciò che
in democrazia – pagare le tasse – rappresenta uno scomodo dovere da assolvere
senza ulteriori perdite di tempo, a Palermo
diventa rito borbonico, certificato di sudditanza, penitenza, appunto, cui corre l’obbligo di rimarcare le distanze tra i servi della gleba che stanno quaggiù e i valvassini
del potere lassù. Ovviamente, il Viaggiato-
re Consapevole maledice gli dèi che lo convinsero a “scendere”, come i Residenti Obbligatori maledicono il dio della pioggia. Si
consuma nel sottoscala di un Olimpo di dèi
corrucciati la scenografica sofferenza delle persone.
Se pensate a Palermo – e non le appartenete – penserete, forse, che qui ci sia almeno un nume benigno, “Leoluca Orlando, sindaco”. Lo penserete perché avrete
sentito parlare benissimo di lui. Del suo
impegno antimafia. Della Primavera che
dichiarò di volere impiantare, durante i
mesi della prima sindacatura, promettendo alla capitale mafiosa la svolta, il vento
della riscossa. Perciò, sareste assai sorpresi di constatare quanto sia basso l’indice di gradimento del Professore – lo è sul
serio professore, con acume di cultura
profonda e ama il vezzeggiativo del titolo
universitario – tra i suoi compatrioti, sodali di processione. Una disapprovazione vidimata dai dialoghi urbani, dagli sfregi sui
giornali online, dai fischi che si mischiaro-
La pioggia, ovunque evento
meteorologico, quaggiù biblica
sciagura, testimonianza della
malevolenza di un dio
no agli applausi nel corso dell’ultimo Festino di Santa Rosalia, la patrona delle disgrazie locali (corollario per i forestieri:
non è un dato inerte. Ogni palermitano ha
ben presente l’importanza di applausi e fischi, quando il primo cittadino pro tempore si inerpica sul gigantesco carro della
Santuzza, per dare fiato al propiziatorio:
“Viva Palermo e Santa Rosalia!”). Ciò accade in virtù del sortilegio che provoca la
dissolvenza di Luca, nella città della scomparsa. Anche il Professore è vittima di un
maleficio. Ai tempi in cui la risacca non
c’era, i precetti orlandiani ribollivano di
spuma e di speranza. Era una fascinazione dolcissima, la pillola regalata al malato grave con la promessa di guarigione.
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG V
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
LA SIGNORINA FLOP FLOP
Una comicità che produce solo cacchette. Storia di Sabina Guzzanti e dei suoi superbi fallimenti
on ha mai avuto la faccia da monella
dispettosa, Sabina Guzzanti, attrice
comica recentemente affezionatasi al grottesco, tipo quello del tweet di solidarietà
ai boss Totò Riina e Leoluca Bagarella, imputati “privati del diritto”, così ha scritto,
di assistere alla deposizione da testimone
del presidente Napolitano nel processo
sulla cosiddetta “trattativa”, oggetto di un
docu-film della Guzzanti medesima, passato al Festival di Venezia e ora in sala con
successo di pubblico non proprio travolgente (al limite del flop). Né ha mai avuto,
Sabina Guzzanti, anche per questo brava
imitatrice, il physique buffo della caratterista: regolare per lineamenti e corporatura, il più delle volte si mimetizza con vestiti scuri in stile “Occupy Wall Street”, anche se nel 2010, a Cannes, dov’era andata
a presentare un altro docu-film, “Draquila”, è apparsa in foto – e ci mancherebbe
– con un vestito da tappeto rosso. Ma ora,
in tempi grami per l’intero carrozzone cosiddetto “mediatico-giudiziario” e per il
comune sentire ex girotondino, ex popolo
viola, ex post-it giallo ma sempre inguaribilmente nostalgico dei giorni d’oro della
furia “NoB.”, Sabina Guzzanti, comica riluttante (l’ha detto in tv, da Michele Santoro: non ho voglia di fare battute), pare addirittura sacerdotessa investita di una missione. Abito e monaco al tempo stesso, sopravvissuta. Non ci sono più i Di Pietro di
una volta (l’ex pm Tonino è tornato sul trattore). I De Magistris sono nella bufera, per
non dire nella tragicommedia. Gli Ingroia
zanti, ai tempi de “La tv delle ragazze” e
poi di “Avanzi” e di “Tunnel”, quando ancora poteva permettere a se stessa di prendere in giro attrici e giornaliste senza per
questo dover coltivare il chiodo fisso della democrazia stralciata e vituperata, dei
“traditori” annidati nei Palazzi e dello stato marcio che si nasconde sotto la faccia
dei politici (praticamente tutti). Imitava
con gran seguito di spettatori Massimo
D’Alema, Silvio Berlusconi e Moana Pozzi,
allora, aderendo ai personaggi perfettamente anche se non prestando a quelle
maschere estro, malinconia e personalità
(a differenza del fratello Corrado, che i
personaggi li domina). Chissà se Sabina covava già il germe della comica che non lo
fa per piacer suo – e del pubblico – ma per
il compito autoassegnato che le ha rubato
il cuore (“mettere in fila i fatti”, come dice lei, e farli vedere a chi, a giudicare dal
flop, forse non ne può più di rovistare dietro all’apparenza). Non è dato saperlo, anche perché non si era ancora arrivati al
punto in cui Sabina si sentì oggetto di un
suo personale “editto bulgaro” (2003, chiusura della tramissione “Raiot”, data da cui
origina tutto: c’è sempre una “cacciata”
dalla Rai all’inizio di tutto, come dimostra
anche il caso Grillo). Sabina aveva attaccato Mediaset (secondo la dirigenza Rai “senza contraddittorio”), il programma era stato temporaneamente sospeso, poi non era
stato raggiunto un accordo e la comica si
era sentita, come dirà, “in punizione”. Due
anni dopo, intervistata dal Corriere della
Sera, se l’era presa con il presidente della
commissione di Vigilanza Rai Claudio Petruccioli (reo di aver detto che quella di
Non ci sono più i Di Pietro di
una volta, i De Magistris sono
nella bufera, gli Ingroia non
hanno sfondato (anzi)
“Mettere in fila i fatti”, dice
lei, e farli vedere a chi, a giudicare
dal flop, forse non ne può più di
rovistare dietro all’apparenza
non hanno sfondato (anzi). Le dieci domande di Repubblica sono un ricordo. Il corpo delle donne non è più così in cima ai
pensieri delle Lorelle Zanardo. E se Michele Santoro vuole chiudere il suo talk
(l’ha detto lui, in diretta: questo è l’ultimo
giro per “Servizio pubblico”), a Marco Travaglio, incredibile a dirsi, tocca fare da arbitro-paciere proprio tra lei, Sabina, e l’ex
procuratore Giancarlo Caselli, descritto da
Guzzanti, ne “La trattativa”, come una sorta di “vanesio” pilotato dai Ros (così è parso a Lucia Annunziata, che ha intervistato
Sabina Guzzanti a “In mezz’ora”). Caselli
a un certo punto ha pure scritto al Fatto,
lamentando i toni “da cabaret” della scena che lo riguardava, Sabina ha replicato
piccata per aver ricevuto una “lezione”
non “richiesta” sui limiti della satira, Travaglio ha cercato di calmare gli animi con
un editoriale in cui dava a Caselli quel che
era di Caselli e a Guzzanti quel che era di
Guzzanti (della serie: su, ragazzi, fate i bravi, siamo tutti nella stessa baracca). Vai a
capire se i litiganti si intenderanno. Fatto
sta che, dopo l’editoriale di Travaglio, Guzzanti, in televisione, ha ridetto più o meno
le stesse cose su Caselli, ma sempre premettendo di avere “il massimo rispetto”
per l’ex procuratore.
Rottamata pure la concordia NoB. (il
nuovo mostro, non a caso, è “il patto del
Nazareno”, punto di partenza di ogni sorgente sospetto e controsospetto), l’intero
canovaccio è in sofferenza. E non si diverte, Guzzanti. Non smitizza, non dissacra (i
tempi, per lei, richiedono massima pesantezza), decide di prendersi definitivamente e inesorabilmente sul serio: massima
sciagura per un comico. Eppure accade, e
non soltanto a lei (vedi Beppe Grillo, sceso a Roma per i tre giorni del giudizio al
Circo Massimo senza lume preventivo di
battuta: alla vigilia della kermesse gli è
toccato incontrare seriamente, e per tre
ore, Luigi Di Maio, suo futuro Angelino Alfano). Guzzanti, che si è autoinvestita sibilla di messaggi importanti per la collettività (“ho sviluppato” una vera e propria
“avversione per la comicità”, ha detto a
“Servizio pubblico”), si dondola pericolosamente sul limitare del baratro oltre il
quale si diventa barzelletta di se stessi: “I
traditori nelle istituzioni sono peggio dei
mafiosi”, ha scritto per meglio spiegare il
tweet su Riina e Bagarella, seguita entusiasticamente da qualche deputato complottista a cinque stelle (tipo Carlo Sibilia,
quello che non crede allo sbarco dell’uomo sulla Luna, e che due giorni fa alludeva agli “scagnozzi” Riina e Bagarella cui
viene “impedito” di “vedere” il “boss”).
“La Guzzanti che esprime solidarietà a
Riina dimostra che la crisi di una certa
cultura ‘di sinistra’ è ormai irreversibile”,
scriveva allora Matteo Orfini, presidente
pd, mentre Daniela Santanchè, al grido di
“la Guzzanti s’è bevuta il cervello”, ci vedeva la classica operazione di marketing
(“per convincere qualcuno ad andare a ve-
Guzzanti “non era satira”). In ogni caso è
da quell’episodio che sgorga una nuova Sabina (almeno a giudicare dall’autobiografia in terza persona che campeggia sul suo
sito): “Novembre 2003. ‘Raiot’ chiude i battenti e Sabina Guzzanti lascia la Rai con
una consapevolezza in più, il dovere di battersi per il diritto di espressione. Verve comica, ironia, il tagliente punto di vista sull’attualità, saranno le sue armi vincenti. La
sua missione, dopo una lunga esperienza
televisiva in programmi cult dove ha partecipato come autrice e interprete, è stata
quella di raccontare la verità e far luce sugli eventi bui della storia contemporanea
italiana…”. Eccola lì, la missione. Nel frattempo, molto più saggiamente, il fratello di
Sabina, Corrado, si divertiva a prendere in
giro Romano Prodi (“sono come un semaforo, sempre fermo”), o un Francesco Rutelli (“a Berlusco’, ricordate dell’amici”). La
terza sorella, Caterina, ancora non era diventata famosa. Lo farà poi, senza missioni contemporanee da svolgere (e nel 2012,
quando Sabina è tornata in tv con “Un due
tre Stella”, su La7, Aldo Grasso sul Corriere ha fatto il confronto diretto: “Vogliamo
infine dire che Caterina ormai è molto meglio di questa Sabina che si butta via nel
nome della tetraggine?”). Sabina Guzzanti si circondava già di pensieri fissi e foschi su poteri economici amici del Bilderberg (c’era Mario Monti al governo) e immancabili trame mafia & stato oltreché di
esponenti di teatri occupati, precari diseredati ed economisti anti sistema. Addirittura riportò in video, dopo anni di parziale sonno mediatico, un Giulietto Chiesa
anti yankee e un Michael Moore anti tutto. E a quel punto sempre Grasso sbottò:
“… Forse si sperava in un programma che
indulgesse meno al predicatorio e pescasse ad antiche riserve di satira. Niente da
fare. L’avvio è lento (se nove anni vi sembran pochi provate voi a lavorar o a rinnovare il repertorio)… Guzzanti ha molti
rospi da togliersi ma il programma procede tra noia e tristezza, tra comizietti e saccenterie: propaganda infida… Insomma,
Guzzanti si salva solo con le vecchie imitazioni…”. Lei, Sabina, sul suo sito, dice invece di essere “alla costante ricerca di
nuove forme di drammaturgia”. Tuttavia il
nuovo, negli altri, le fa ribrezzo. Nel 2009
disse che la fusione Ds-Margherita le ricordava “Jeff Goldblum” che si fonde “con
la mosca nel film di Cronenberg… uno
strano senso di euforia nella prima fase,
di forza sovrumana, poi il corpo comincia
a perdere pezzi.…”.
“Sono molto più stronza di come mi dipingete”, ha detto un giorno Sabina Guzzanti, per la quale la “character assassination”, esecuzione verbale di un personaggio pubblico con distruzione della sua credibilità, è sempre divertente quando è lei
a farla. Ma sempre meglio quella Guzzanti
d’antan dell’attuale, quella che, allarmata,
parla sul web di terribile “rischio di non
arrivare nemmeno stavolta alla verità”.
di Marianna Rizzini
N
Una satira ricorrente negli anni scorsi: Sabina Guzzanti accenna a un’imitazione di Lucia Annunziata (foto LaPresse)
dere ‘la Trattativa’ ci si inventa di tutto…”). I prodromi di quel tweet, comunque, c’erano già tutti: a inizio settembre,
intervistata sul Fatto da Malcom Pagani,
Guzzanti aveva detto che “come diceva
Giovanni Falcone, i mafiosi sono uomini
come tutti gli altri. Esistono uomini simpatici e uomini antipatici. A modo loro, Gaspare Mutolo e Francesco Di Carlo fanno
parte della seconda categoria. Nel mio
film, e mi auguro che il messaggio arrivi,
non ci sono buoni e cattivi, ma solo esseri
Non passa giorno che non
esterni sul suo blog parole da
studiosa di mafiologia avanzata
(giudici, processi, depistaggi)
umani. Non c’è né il magistrato santo né il
mafioso luciferino, perché la realtà è più
complessa di qualunque schema preconcetto e le sfumature contano”. Detto una
volta, ripetuto più volte.
Ma la veste di apprendista svelatrice di
segreti italiani è solo l’apice dell’avvitamento anti comico della comica: non passa giorno che Guzzanti non esterni sul suo
blog parole da studiosa di mafiologia avanzata (giudici, processi, depistaggi, caste,
furbi e corrotti si contendono i titoli dei
suoi scritti in bacheca). E non passa giorno che una Guzzanti levantina non si offenda per qualcosa – se è in video strabuzza
gli occhi e fa la faccia di chi pensa che gli
altri nulla abbiano capito, ma se è al com-
puter apriti cielo. Qualche mese fa, a “Otto e mezzo”, aveva fatto perdere la pazienza a Massimo Cacciari: “Aspettiamo la
morte politica di Berlusconi”, aveva detto
Guzzanti dopo che il tribunale di Milano
aveva affidato l’ex premier ai servizi sociali. “L’anima di Berlusconi è già uscita dal
suo corpo ed è entrata nel corpo di Renzi.
Il premier prosegue il lavoro di Berlusconi”, aveva aggiunto. Cacciari aveva guardato un po’ così, perplesso, per poi esplodere quando Sabina aveva detto “basta” ai
soldi pubblici “a chi poi sposta le proprie
imprese all’estero” (critica di straforo a
Sergio Marchionne). “Non diciamo palle,
signora, smettiamola di dire palle, le cose
non stanno così”, aveva risposto Cacciari.
Più sta su Twitter, più Guzzanti litiga.
Più litiga, più scrive su Twitter. E un giorno, all’indomani delle elezioni politiche
2013, si è scontrata senza freni col giornalista Andrea Scanzi, sull’argomento “Grillo & Casaleggio”. “Ho sempre pensato che
Guzzanti fosse una Grillo senza avere avuto il coraggio di essere Grillo. Vorrei sapere: fai satira, fai politica?”, scriveva lui,
mentre lei rispondeva: “Decidi tu se fai il
giornalista o il cantore di Grillo, narciso
nauseabondo”. Ironia della storia, ora Guzzanti e Grillo sono dalla stessa parte, con
Guzzanti che difende a spada tratta da fantasmi di persecutori il rapper Fedez, autore di un inno a cinque stelle che, tanto per
cambiare, parla di trattativa: “Caro Napolitano / te lo dico con il cuore / o vai a testimoniare / oppure passi il testimone!”. “Il
Pd non cerchi di imbavagliarlo o di intimidirlo”, si è letto sul blog di Grillo dopo che
Stefano Pedica, ora nel Pd prima dipietrista (altra ironia della storia), adombrava il
“vilipendio” dietro la strofa di Fedez. E
Guzzanti era già lì a sventolare scimitarre
contro i mulini a vento.
In questo stato di non-comicità incipiente è giunta dunque la Sabina-regista martedì scorso ad “Agorà”, su Rai3, dove, con
suo sommo disappunto, si parlava principalmente di incontro sindacati-Renzi (il
giorno era pur sempre quello del vertice
governo-parti sociali) e non della sua
“Trattativa” (possibile che al mondo così
poco importi?, diceva l’espressione trasecolante dell’orfana della piazza truculenta in cui sei anni fa imperversò, Erinni anti Carfagna e profetessa di future sventure
scandalistiche, presenti tutti gli allora castigamatti: Andrea Camilleri, Italia dei valori al completo, i seguaci di MicroMega, i
pre-grillini, le pre-insultatrici delle Olgettine, gli anticasta e gli anti Walter Veltroni,
con contorno di Lidia Ravera e Furio Colombo). E siccome ad “Agorà” un politico
di Forza Italia (Osvaldo Napoli) contraddiceva Guzzanti sulle origini di Forza Italia
(che per Sabina, manco a dirlo, affondano
nella “trattativa”, come pure, manco a dirlo, per lei diventa frutto della “trattativa”
pure l’arrivo di Matteo Renzi, ché tutto è
scritto da vent’anni), alla fine Guzzanti
esplodeva con un “non faccio talk-show e
vorrei essere risparmiata”, primo annuncio della successiva sequela di tweet esacerbati: “Agorà, che programma assurdo,
io me ne vado, vi saluto…”, scriveva alle
ore 9 e 52. “Il conduttore di Agorà, pagato
con i nostri soldi, è un incapace”, scriveva
all’indirizzo di Gerardo Greco alle ore 10
e 45, mettendoci pure, nella foga, l’errore
di ortografia (“un’incapace” con l’apostrofo). Se n’è andata o l’hanno scollegata?,
si sono chiesti allora gli spettatori sconcertati per un simile sfoggio di malumore – ma
più che malumore era disorientamento:
“Non mi sono innervosita, come ha scritto
qualche vigliacco, sono loro che hanno tolto la linea senza nemmeno salutare”, diceva l’ultimo sconsolato dispaccio della serie, alle 15 e 45.
I tempi di “Avanzi” e di
“Tunnel”, quando ancora poteva
permettersi di prendere in giro
tutti senza coltivare chiodi fissi
Non che una comica debba essere per
forza autoironica, ma forse, chissà, la Guzzanti filmaker ed educatrice di masse
avrebbe dovuto ascoltare l’accorato consiglio del Monde, che, dopo il suo sbarco a
Cannes con il docu-film di denuncia “Draquila” (sulla ricostruzione dopo il terremoto a L’Aquila), si era permesso, pur definendo “corposo” il dossier, di indicare come
criticità “ce cinéma à l’estomac”, ovvero
“questo cinema viscerale” che “manca sovente di precisione e rigore, fa digressioni
a non finire” e “si lascia trascinare dalla
febbre, a rischio di vedere le sue stesse approssimazioni che gli si ritorcono contro”.
E pensare che era una promessa della
satira, poco più di vent’anni fa, Sabina Guz-
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG VI
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
Un fiasco di gran successo
di Stefano Di Michele
M
adame Sosostris, “famous clairvoyante”, dietro le quinte del teatrino inforca i grandi occhiali leopardati, accarezza
con la mano (un saluto, un ultimo saluto:
un addio, perciò) l’uccellino – e c’erano stati altri animali, pure la mano bianca dello
scheletro (quella ghermisce, però, non accarezza), marionette, scarabei color turchese e libellule tutte d’oro. “Con un infernale mazzo di carte”, il suo, da chiromante di chiara fama sa come tutto va: ché
carte, appunto, distribuisce – l’annegato, il
Marinaio Fenicio, la Belladonna, la Ruota, come il mercante orbo o la Donna delle Rocce: venghino, signori, venghino a
sentire la sorte! Esce di scena, Madame Sosostris – usciamo di scena. Usciamo dall’opera d’arte. Non tela immobile. Non lucida
ceramica. Nove appassionanti minuti. Clic.
Si esce. Clic. Si può di nuovo rientrare.
Clic. Si ricomincia. E dove si prendeva
congedo con “La terra desolata” di Eliot e
la sua veggente – “Is known to be the wisest
woman in Europe”, la più saggia, la più
Né farandole né ombrellini né
ostesse. “Via i ciaffi e le frappe
da veglione turistico”. Linee, pois,
paillettes grandi come frittate
saccente tra tutte – si ricomincia con “Il
Ramo d’Oro” di James G. Frazer: “Destino” e “Love”, le prime due parti della trilogia (tre minuti per parte, che si possono
mutare in trenta o trecento, novanta o novecento, a piacimento), e qui nulla manca,
precipitando nel Bosco Sacro: Re-Maghi e
Dèi Morituri, perfidi Sacerdoti, il Re del
Bosco, le Aiutanti Fate e il tempio di Diana Nemorensis… “Si parla delle origini
dell’umanità, di religioni, di tradizioni popolari… Ma nell’insieme la narrazione, gli
accadimenti, i personaggi, sono trattati nel
segno della magia e dell’incantesimo…” –
così dice Giosetta Fioroni di questa ultima
opera sua. Che non è un quadro, stavolta.
Neppure quelle ceramiche di luci che
prendono forma – di cane o di albero o di
vestito – presso la rinomatissima Bottega
Gatti di Faenza. Né legni colorati che ardono e palpitano. E’ un video di mille cose – dall’innominabile talismano del Ramo
d’Oro a Madame Sosostris (dalla Fioroni
stessa interpretata) che le carte estreme
consegna al destino. Il Magico e l’Inaspettato – cullati dalla musica, “che potremmo
definire romantico-siderale”, di Franco
Piersanti. E dunque c’entra l’arte – ovviamente: in questa espressione, dice Giosetta, “il massimo del contemporaneo”. Poi
dei vestiti, che a primavera passata sfilavano su certe passerelle di Parigi. Prêt-àporter, Madame. E poi ancora dell’arte –
bozzetti di una fenomenale e indimenticabile “Carmen” andata in scena, tra fischi
e contestazioni, applausi scarsi e mirati, a
Bologna. Nel lontano 1967 – appena un anno, ma già molto oltre il Sessantotto che
scalpita alle porte. Regia: Alberto Arbasino. Scene: Vittorio Gregotti. Costumi: Giosetta Fioroni. Dietro le quinte (drammaturgo, diciamo): Roland Barthes, “come
suggeritore, per una settimana a Bologna,
ignorato da tutti perché non di moda”. Il ricongiungersi, in fondo, di due modernità: il
video di oggi (passando per certi di ieri, anche dell’altro ieri, tra gli Ottanta e i Sessanta) e quella messa(in)scena tumultuosa
QUELLA SUBLIME
E PAZZOTICA
“CARMEN”
MESSA IN SCENA
DA ARBASINO
A Bologna, l’anno prima del Sessantotto: la contestazione
colpisce toreri-Superman e sigaraie abbigliate con palline
da ping pong. Feltrinelli contro i fischi: “Fascisti!”. Dietro
le quinte Roland Barthes, consolato dalla cucina bolognese
“Un felice matrimonio tra arte e moda –
racconta il pittore (non la pittrice, ché
quando erano gli anni Cinquanta, “le pittrici erano considerate quasi prostitute”)
– I costumi della ‘Carmen’ di Bizet che avevo ideato nel 1967, per l’edizione bolognese, con la regia di Arbasino, sono stati riportati nell’attualità da Maria Grazia e
Pierpaolo, Chiuri e Piccioli, che con rapido e brillante intuito, e vere possibilità interpretative, hanno guardato al passato
per tradurre segni e immagini di allora in
una vitale contemporaneità”. I bozzetti di
quei costumi, insieme a stelle e cuori e alberi del mondo onirico di Giosetta – “che
cammina con passo leggero”, scriveva il
suo compagno di vita Goffredo Parise – fatti rinascere e spediti in apposita sfilata
(bolle, linee, tagli, e i pois, i pois soprattutto: non zebre, ma gonne e pantaloni e
paltò, il trionfo della Pop Art italica): su
tacchi, su corpi levigati, dentro luci adeguate. I due “creativi” (la parola è quella
che è, eccessiva e imprecisa: ma quella è),
Chiuri & Piccioli, hanno spiegato: “Carol
Rama, Carla Accardi e Giosetta Fioroni sono figure emblematiche della corrente ar-
Tumultuosa sera della prima.
Il toro scatenato per la platea: “I
capelloni!”. Gli artisti imploranti:
“Dottore, non possiamo!”
tistica italiana degli anni Sessanta. Artiste
che hanno trattato temi profondamente
femminili, che descrivono emozioni del
fantastico, mantenendo un legame con l’infanzia e i sentimenti”. Un rapporto che
porterà fino al video d’arte (che adesso sul
sito della Maison si mostra, si frantuma, si
ricompone) commissionato alla Fioroni –
che Frazer illumina ed Eliot, prestando alla sorte Madame Sosostris, conclude. E come per un’inchiesta, un “cold case” che tra
scena e proscenio, passerella e video art, si
dipana per decenni, indietro bisogna tornare: al 1967, sul palco del Comunale di
Bologna. “Come diceva Palazzeschi – sogghignò anni dopo Arbasino –, adesso mi
sembra di raccontare, da superstite, un futurismo più antico dell’impero romano”.
Dunque, 1967. Dunque, non ancora 1968.
Dunque, il mondo non esisteva ancora.
“Non c’era ancora stato Ronconi, né il
Maggio Francese, è vero (solo quello Fiorentino)”. Ma per i formalisti russi e lo
strutturalismo francese “c’era una viva cotta intellettuale in corso, fin troppo giusta”.
E così, tra Viktor Sklovskij e Roland
Barthes (eccolo, rieccolo, tra poco riappare), nella già sazia e molto antifascista e
piuttosto conservatrice Bologna si decise
temerariamente di azzardare. Su il sipario.
Dirige: Pierre Dervaux.
Nelle foto in bianco e nero di quei giorni, Arbasino – di giovanile beltà, si sa; già
di consacrata intelligenza, pure questo si
sa; anzi, “incantevole per talento e bellezza” (Anna Revendi), che di suo peraltro si
era già sperimentato con una “Traviata” al
Cairo – in bianca camiciola dirige, megafono d’antan tra le mani e aria da pischello dissacratore. Vittorio Gregotti, di
calvizie già ornato ma di patriarcale barba ancora orbo, affianca ora il regista ora
Giosetta Fioroni, sadicamente pronta a sostituire le trine con le palline, a far trionfare i “pois”, a varie e variopinte metrature: piccoli, grandi, grandissimi… (Per qualcuno, a lavoro del terzetto finito, Barthes
sempre nell’ombra, fu quella loro “Car-
“Sommerso dai fischi per avere
evitato i falpalà ebbi la sensazione
di avere avuto a che fare con
coglioni. Non ci pensai più”
L’architetto Gregotti, che ideò
le scene: “Lo rifarei? Certo che
sì”. La Fioroni, che creò i
costumi: “Un felice ricordo”
di quasi mezzo secolo fa, tra fine gennaio
e i primi di febbraio – Escamillo Toreador
vestito da Superman sprofondato verso il
cielo, sopra una scala d’argento, e Carmen
ammanettata per ingiusta causa, temeraria
e un po’ mignottesca (“a modo suo tentava
audacie alla Artaud sopra Don José affondato fra cuscini d’argento entro gradoni da
pre-discoteca”, la specifica di Arbasino),
ma pure da palline di ping-pong e reti metalliche – oltre che “paillettes grandi come
una frittata per 10 persone”, così si scrisse (Anna Revendi, storica dell’arte, lo
scrisse). Oggi, più barbaricamente si direbbe: come piatti da happy hour.
Bisogna fare un po’ come i salmoni, in
questa storia: risalire la corrente al contrario, così da ritrovare l’origine (l’originale, si potrebbe dire). E c’è di mezzo oltre a
una famosa artista, appunto Giosetta Fioroni, una grande casa di moda, Valentino.
men” scenica peggio messa dell’inquieta
sigaraia canterina a seguito della mortale
coltellata di Don José, “libera è nata e libera morirà!”, zac!). In certe altre foto, la
destrutturazione/ricostruzione appare già
compiuta: sotto giganteschi cubi bianchi e
luminosi – il villaggio mediterraneo a visione di Gregotti – si affollano le sigaraie
di ogni orpello spogliate e consegnate alla
modernità, in certi accostamenti arancione/rosa/nero (parecchie di abbondante taglio, come era d’uso: così il bicipite, di
grosso dirigibile evocativo, qua e là si mostra). “Erano disperate, sperdute. Quasi
nessuna aveva capacità attoriali: si andava sul proscenio, si aprivano le braccia e
si cantava. Faticavano, poverette, a muoversi con quei vestiti. Signora, signora, perché?, imploravano…”, rievoca la Fioroni.
Pure il povero Escamillo mutato in Superman (ché certo era da escludere il Super-
Alberto Arbasino durante le prove della sua “Carmen”, nel 1967. A sinistra l’aiuto Franco Guendalini, a destra Vittorio Gregotti, ideatore della scenografia
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG VII
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
Giosetta Fioroni, “Madame Sosostris” (foto di Fiorenzo Niccoli)
Guardi l’ultima opera di Giosetta Fioroni, che è un video d’arte, e corri
al 1967, ai costumi per l’opera di Bizet tornati a sfilare in passerella
toreador) – senza l’oro e il nero e lo sbrilluccichìo solito della divisa da gladiatore
d’arena – implorava, in ginocchio quasi
cadde, il regista Arbasino, invero spietato,
perché lo lasciasse toreare in pace sul proscenio, “Toreador, attento! Toreador , toreador!” – come d’uso, adesso pareva come
d’abuso – invece di spedirlo lassù in cima
alla scala d’argento, in alto, “dottore, non
posso cantare lassù, dottore, non posso!”.
Salì, senza scampo salì, fu peggio che fronteggiare dieci tori insieme, si perdeva il
suono, così che manco un vitellino, altro
che la furiosa bestia, si sarebbe fatto impressionare. Fu piuttosto lo stesso teatro
che si mutò, quella sera, in arena.
Per gli habitué, quella forte e provocatoria e intelligente messa in scena, appunto
fu gran provazione e massima pena. Ma lasciamo la musica, ma lasciamo le voci. I costumi interessano, perché i costumi ci riconducono a oggi. Se c’è un’opera dove di
tutto c’è sovrabbondanza, ogni infausto sovrappiù, è certo la “Carmen”: lì nulla è precluso, per la gioia del medio tinello, per
cuori romanticamente divisi (a Don José, a
Escamillo, el corazòn va in tumulto e si
spezza), per cuscini da lacrime bagnati, lacrime sgorganti copiose, si capisce, sotto la
dovuta nera mantiglia di pizzo. Via “i ciaffi e le frappe da veglione turistico”, decretò
il regista. “Al posto delle scene dipinte e
di costumi da carnevale al circolo delle zie
dei commendatori, si fornirono segni, emblemi, simboli, icone, sintesi, carichi però
di altra spettacolarità e colori diversi…”.
Ventitré anni dopo, 1990, sul catalogo di
una mostra presso la romana Galleria dell’Oca di Luisa Laureati, allestita proprio
per rievocare l’epica impresa, le tante sottrazioni rievocherà a sua volta Arbasino:
“Ho eliminato ogni possibilità di quadretti del genere: sono sempre e talmente uguali che chiunque può facilmente immaginarseli, anche senza vederli. Ecco perché
non ci sono farandole né ombrellini né
ostesse procaci né vecchine che inciampano né bambini non indispensabili, e soprattutto niente bancarelle che si rovesciano. Sarà magari troppo, non so: comunque neanche un venditore ambulante. Non
ho nemmeno tentato di riprodurre degli
angolini tipici riconoscibili dai cineamatori di Ferragosto”. (Manco, a dirla tutta, un
pizzico di antifranchismo che all’epoca andava tanto, che all’epoca si doveva qualunque cosa della Spagna si evocasse, nemmeno un cauto parallelo tra Carmen, per
dire, e la Pasionaria Dolores Ibàrruri: stando ancora in vita e disgraziatamente in sa-
Quasi mezzo secolo dopo, quei
bozzetti così pop sono tornati in
passerella. E un video d’arte
celebra l’avvenuta rinascita
lute el Caudillo, el Generalissimo, el Francisco Franco, el Toreador funereo della penisola iberica tutta). Fossero pure, come
scrive nel capitolo dedicato alla Fioroni
nel suo libro “Ritratti italiani” (Adelphi),
“acquarelli folkloristici, dépliantes turistici, cartoline da aeroporto, manifesti di corride, costumi da veglione con gonne gitane
e volants”, vade retro!, via!, via! – i “topoi”,
piuttosto, parliamo dei “topoi”! Insomma,
teletrasportata altrove, quella poveretta
della sigaraia: come Topolino senza Topolinia, Paperino senza Paperopoli, Amleto
senza teschio né castello. E la matita e i colori e le forbici di Giosetta Fioroni, insieme
alle scenografie di Gregotti (“di un nightclub da perdizione dell’anima”, annotò il
regista), materializzano questo Altrove dove Carmen si sposta – e dove molti degli interpreti sulla scena, e moltissimi spettatori in platea, casomai si sperdono. “Lo spettacolo ebbe assai contrastate accoglienze
dovute alla regia di Arbasino e non alla direzione musicale. Ossia applausi a scena
aperta per l’iniziale apparizione della scenografia e dei costumi, e urla e fischi per
l’andamento della dinamica e le ‘scelte visive’ della regia. In parte dovuti anche ai
cantanti, buoni professionisti, ma preoccupati e tremanti dalle richieste innovative
(per loro forse abnormi!) del regista. Dunque altamente spaesati nei movimenti scenici, nelle scenografie e nei costumi, nei
quali non si riconoscevano!” (Anna Revendi). I costumi, appunto. Com’è che andò? Dice Giosetta, ancora con gran divertimento,
che si trattò di “una Carmen lievemente
inaudita” (lievemente – a eufemismo qui
s’intende), “i costumi che immaginai erano
a base di gomma piuma, polistirolo, palline
da ping-pong, rasi, rasatelli, plastica e stoffe varie… e paillettes con diametro di dieci centimetri. Forme e colori alludevano
con simbologie semplificate ai temi della
pittura contemporanea. I pois nelle multiversioni pop e i segni, le strisce, i gonfiori,
gli ornamenti e i trucchi… in una costante
stilizzazione”. Così che, “i costumi scatenarono vive disapprovazioni in vasta parte
del pubblico”.
E sì che arrivarono: a precipizio giunsero, fischi e urla – pure l’allarme massimo,
“i capelloni! i capelloni!”, quando sulla
scena si appalesano il Dancairo e il Remendado con parrucche bionde, perfette
per il “Lohengrin”, non fosse il biondo di
Spagna biondo più che altro da ossigenati. Il tumulto! Il tumulto! Fuggito dall’arena, il toro si aggira tra la platea e sul loggione. E là in platea siede un altro amico
di Giosetta e di Arbasino – Giangiacomo
Feltrinelli. S’alza in piedi, l’irrequieto militante editore, e rivolto al loggione che
protesta, a sua volta urla: “Fascisti! Fascisti!” – e quelli figurarsi, fascisti a noi?, decisi alla furiosa discesa per toreare con l’editore, e piantare “banderillas de fuego”,
de fuego di ardente antifascismo, sul groppone dell’insultante laggiù in platea. “Molti volevano venire giù a menarlo”. Un parapiglia. Per cinque minuti – cinque minuti a scena aperta sono un’eternità – sul
palco toreri impietriti, sigaraie impietrite,
sbirri impietriti. “Alberto era bianco come
una panna montata, pallidissimo”, rammenta Giosetta. “Sommerso dai fischi per
avere evitato i falpalà, ebbi la sensazione
di avere avuto a che fare con coglioni. E
non ci pensai più, lo rievoco oggi perché
me lo chiedono”, decenni dopo disse il pallido Alberto, a buon colore ripreso – quando appunto glielo chiesero. Tormentatissima la sera, tormentata la mattina. Conferenza stampa degli arditi della messa in
scena, proprio nel luogo del crimine (il Comunale). “La sala era gremita. Giovani e
meno giovani aggressivi in prima fila puntarono contro di noi il dito del rimprovero
– racconta la Fioroni –. Molte domande,
molti perché. Discutemmo, parlammo, urlammo. Sul finire, con un secco colpo di
tosse, Barthes chiese la parola. Si creò un
silenzio assoluto. Lentamente, con tono
sommesso Barthes ‘raccontò’ gli intenti di
Arbasino regista. Espresse una consapevole approvazione per questo fare e ne
spiegò le complesse ragioni legate alla
struttura poetica dell’opera, a una speciale rilettura”. Si fece silenzio, dunque – e si
rimase in silenzio: da Barthes furono i contestatori appagati. Con Giosetta e Arbasino, il semiologo francese abitava in quei
giorni d’azzardo all’Hotel Baglioni – tè e
chiacchiere e consolanti aperitivi. “Era silenzioso e prendeva continui appunti in un
calepino – ancora Giosetta –. Era anche
molto compiaciuto della cucina bolognese.
Ricordo che il suo volto allungato, pallido,
lievemente enfio, si coloriva dopo mangiato e l’occhio profondo e intenso si accendeva di languore a mano a mano che arrivavano le pietanze”. E satollo di bollito e
dotto in analisi, così Barthes azzittì i protestatari – “l’indignazione furibonda del
pubblico”, arbasiniana constatazione, per
Un’immagine del primo atto della “Carmen” di Arbasino
il suo regale rifiuto di una “regìa tipo modinette, che moltiplica le trovatine pittoriche”. Nulla “Carmen” fauve – fischiate ma
non l’avrete! Tutt’altra messa in scena, fece l’Arbasino regista, di ciò che invece aveva visto l’Arbasino spettatore: quella “stupenda” di Karajan alla Scala, scrisse, e
quella “deliziosa” di Zeffirelli al “Carlo
Felice” – e “stupenda” e “deliziosa” hanno
di sicuro accenti diversi – ove “le sigaraie
sciamavano come abat-jours della Belle
Epoque, e nella taverna Danilo Donati faceva le controscene a Giulietta Simionato
che si dava le pacche sul sedere su un tavolone”. Ecco. Tutt’altro, tutt’altra cosa, co-
Nove minuti da moltiplicare
all’infinito, tra paillettes e Frazer,
Eliot e la sua Madame Sosostris.
La musica di Franco Piersanti
sa inattesa – “Stilizzazione Emblematica”,
a volerla dire compiutamente, a saperne
cavare con dottrina il meglio.
Quella “Carmen” andata in scena il 31
gennaio – così in anticipo da scavalcare anche il Sessantotto che compostamente ancora in fila aspettava il suo turno – riaprì
il sipario per le due repliche previste del
2 e 5 febbraio, e poi si giacque, diciamo. E
a parte i “coglioni” arbasianamente rievocati, e i cantanti, inopinatamente squamati sotto padelloni di paillettes, fu in realtà
esperienza felice. “Ricordo felice” (Fioroni). “Lo rifarei? Certo che sì” (Gregotti).
Passano i decenni, si scavalca il millennio
– chissà quante Carmen si sono in seguito
agitate, tra toreri e militari, tra scialli e
nacchere, mille cosce sudate/sfregiate di
sigaraie danzanti. Poi gli occhi curiosi di
Chiuri & Piccioli sugli antichi bozzetti di
vesti cadono, sulle foto in bianco e nero,
sull’ingombro di pois, “delirante ripetizione”, di linee e di palle di ping-pong che
sembrava impedire e invece liberava – e a
questi si ispirano per l’ultima collezione
(oltre che al resto del mondo onirico dell’artista): e tornano così a vivere, dopo il
tempestoso debutto barthesianamente
chetato. Abiti, si dirà. Chissà se solo abiti,
però. “Intreccio assai raro tra l’arte e la
moda”, dice la Fioroni. Si rianimano i pois,
le linee, le paillettes – smentita a una fosca
previsione, questa addirittura di ben oltre
mezzo secolo fa: “All’inizio del mio lavoro
un collezionista voleva comprarmi un quadro, ma quando ha visto che la firma era
di una donna non lo ha comprato più. Ha
detto che dopo mi sarei sposata, avrei
smesso di lavorare e il quadro avrebbe
perso valore”. E dalle sigaraie alle Madame, dal bozzetto alla sartoria, dall’arena
alla Maison, a Paris, toujours Paris!, dalla
provocazione al trapasso alla rinascita –
così la storia andò, avanti tornando sui
suoi passi. Fino al video d’arte finale, dentro il teatrone ligneo dello studio di Giosetta – “la metafisica bellezza di un Unicum-Visivo”, il favolistico, il fantastico,
l’Altrove. Già molti anni fa la Fioroni aveva girato alcuni video d’arte, già in quel fatidico 1967 di Carmen all’avanguardia e di
toreri sospirosi come appesi in alto, aveva
giocato con brevissimi film in 16 mm. e Super 8 – e adesso tutto si incrocia con quel
freddo fatidico gennaio bolognese. Se a
Carmen (atto III) le carte pessima fine spalancano davanti agli occhi – forse che Madame Sosostris non ha i tarocchi in mano
per determinare l’altrui destino, con effetto che riavvolge e ribalta? E se la torbida
Habanera di Carmen strugge l’ormone maschile mentre canta, come ognuno sa, che
“l’amour est un oiseau rebelle” – forse che
Madama Sosostris non prende congedo,
nel video d’arte, con una lunga carezza al
pennuto ora quieto, sazio d’amor ribelle,
sempre qualcosa che si riavvolge e si muta? Dai fischi agli applausi – ma forse furono, sulla distanza, quei fischi più generosi di molti più facili applausi: ché poi,
bastava una frangia in più e qualche pois
in meno. Resta un rimpianto – uno solo:
che quel che disse Barthes agli scalmanati il giorno dopo sia andato perso per sempre. “Peccato non rimanga il testo o la registrazione”, il lamento ultimo della Fioroni. Prosciugato. Ma i tortellini per l’illustre coltissimo maître à penser erano ancora, a contestazione sedata, caldi (si spera). Dal palco il coro delle sigaraie si alza:
“Il fumo seguiamo con gli occhi / il fumo /
che sale profumato / verso il cielo” – tanto
dal piatto (fumante), si alza (il fumo, non il
coro), quanto dal sigaro (acceso).
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG VIII
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
o letto molti saggi e romanzi ove si
trattava di bugie, menzogne e falsità.
Le si smascherava, le si giudicava e catalogava, e via via che leggevo queste voci così precise e sicure di sé mi suonavano false, come se fosse impossibile sentenziare
sul vero o sul falso da una cattedra o anche
dalla bocca più sapiente. Tuttavia la falsità
che ho percepito, e che scrivendo ora percepisco, non m’impedisce di parlare e di
scrivere, sento che c’è del vero in quel che
dico anche se non è la verità. Se pensassi
di dirla sarei un gran bugiardo, chi può
pensare di dire la verità, tutta la verità,
nient’altro che la verità? Nessuno; tuttavia
chi tace pensando così di evitare le trappole della falsità, si getta nelle sue braccia.
Lascio volentieri il mutacismo al giovane
Lord Chandos – che ora avrebbe sui trecento anni, essendo il suo celebre smarrimento avvenuto nella metà del Sedicesimo
secolo. Il silenzio fu la strada senza sbocco che l’eroe di Hugo von Hofmannsthal
scelse, disgustato dalla propria e altrui loquela, reputata falsa, irrimediabilmente
corrotta e inascoltabile, “indecente”. Sordido gli apparve il pronunciare parole come anima, spirito, corpo, parole che riteneva irrimediabilmente contaminate dall’uso corrente. Lo straripante mondo delle sensazioni lo annichiliva, costringendolo ad anticipare il celebre detto di Wittgenstein: “Di ciò di cui non si può parlare si
deve tacere”. Nobilissime scelte, tanto nobili da risultare snob; a un certo punto nel
monacale esilio quel silenzio che ha no-
no è più masochista dello snob, nasconde
il meglio ed esibisce il peggio. Si mente
per vanità e anche per vergogna, sorella
della vanità. Ci si vergogna di quel che si è,
e ci si spaccia per altro, ma proprio nell’atto di spacciarsi ci si rivela per quel che si
è. La smania di mascherarsi ci rivela nella nostra essenza più profonda: la paura
dell’altrui giudizio, proiezione del proprio.
Signor snob, racconti di quando piccino lavava i pitali e avrà il nostro plauso. Macché! Eccolo escogitare una miserabile bugia, essendo le bugie vanitose le uniche
davvero miserabili, e derise. Il bugiardo
pensa di trionfare; convinto di avere a che
fare con uomini onesti e un poco babbioni
finge di dimenticare che tutti colgono al
volo la bugia dell’altro poiché a loro volta
mentono. Fingono di credere nell’altrui
bugia, assentono, mostrano il migliore dei
sorrisi, e intanto preparano la punizione.
Per esempio non lo invitano più alle cene
mondane, lasciandolo macerarsi per giorni e mesi e anni senza comunicargli il vero motivo dell’esclusione, accampando
strane scuse, sicché il disgraziato si arrovellerà senza mai sapere la cagione della
sua disgrazia.
Mentendo si dice la verità, ma per coglierla occorre ascoltarsi. Sordo è chi si assorda per non intendere quel che di vero,
nel suo delirio, dice. Lui non lo ascolta ma
altri sì, e glielo rimandano. Ma lui urla più
forte e le loro parole risultano vane. Peccato, perché la bugia incontra la gloria
quando si trasfigura e diventa altro, quando tradisce se stessa, la propria funzione,
la volontà di potere, la consapevolezza.
Quando vola e si dimentica di sé, dello sco-
Il silenzio fu la strada che l’eroe
di Hugo von Hofmannsthal scelse,
disgustato dalla propria e altrui
loquela, reputata falsa e corrotta
La smania di mascherarsi ci
rivela nella nostra essenza più
profonda: la paura dell’altrui
giudizio, proiezione del proprio
mea d’essere d’oro appare pacchianamente dorato, a sua volta falso e menzognero.
Non più un atto di umiltà, un tacere che
permette l’ascolto di angelici canti, quanto piuttosto un’ostinazione cupa, un tacere per timore di esporsi, di mentire. In tal
modo della menzogna si diventa i più ostinati complici. Meglio, molto meglio, dire
una cosa e il suo contrario, dirli con slancio come se davvero vi si credesse, e ridere. Meglio prendersi in giro che sul serio.
Dal silenzio di Cordelia ci salvi il monologo di Molly Bloom!
Da una parte la parola e dall’altra il silenzio, entrambi viziati e viziosi, entrambi menzogneri se presi nella spirale di
Lord Chandos e del suo mentore, quel divino Hugo che già a diciassette anni era
perfetto, al punto che i personaggi dei
suoi memorabili libri morivano esausti e
stralunati per tanta perfezione. Vent’anni
dopo, il protagonista di un altro celebre libro di Hofmannsthal, “L’uomo difficile”,
pensa di potere vivere in un eterno malinteso, tra il dire tacendo e il tacere parlando. Incontrando la Donna Coraggiosa,
l’Uomo Difficile attenuò il raffinato gioco
delle perle di vetro, ma per scompigliarlo ci volle altro. Improvviso il reale irruppe nella vita di Hofmannsthal: suo figlio
si suicidò a vent’anni e l’ancor giovane padre fu colto da un infarto che lo uccise.
L’emozione - l’emottisi di Kafka, Keats e
tanti altri, lo sbocco di sangue – scardina
i nostri indugi, non rispetta i nostri tempi
e testimonia della più profonda e irrimediabile verità, amorosa in questo caso come in tutti i casi. Un amore che spinge un
padre a seguire il figlio in quelle terre dai
cui confini più nessuno torna, nell’idea di
potersi in un qualche modo ricongiungere a lui. La Riconciliazione è il grande miraggio dell’arte di Hoffmannsthal, della
sua vera vita.
Essendo io stesso un uomo difficile e
piuttosto bugiardo, ho avuto modo di riconoscere mon semblable, mon frère, per
dirla con Baudelaire e Eliot, in molti uomini, donne e specchi. Tutti siamo bugiardi, alcuni lo sanno, altri no, nel senso che
riescono a credersi leali e senza macchia,
alcuni tra dubbi e tormenti, altri del tutto convinti. I bugiardi consapevoli sono i
più felici, un falso d’autore, dichiarato, firmato e fin apprezzato. Quelli invece che
si credono veri trovano il loro incubo nello specchio: quando dallo specchio cerchiamo conferma della nostra sincerità,
vediamo facce che fanno paura, non perché siano brutte ma perché sono le nostre,
e noi sappiamo chi siamo, anche se facciamo finta di non saperlo. Fingiamo d’interrogarci: “Chi sono io?”. E sui giornali colti scriviamo che “nessuno sa chi è, e chi
sostiene il contrario è un presuntuoso”.
Così dicendo si pensa di fare bella figura
in certi ambienti, finché a cena ci ritroviamo a dire, tutti in coro: “Chi siamo noi per
poter giudicare?”. Alla pari dell’altrettanto celebre “Torni a bordo, cazzo!”, la fra-
po. Le donne e i bambini, i più avidi di bugie, supplicano l’uomo: “Raccontami una
storia, una vera storia, e se non l’hai inventala, dimmi una bugia, ma che sia bellissima, grande come una casa, come il palazzo dell’imperatore, tanto grande che io
possa perdermi nei suoi meandri ove scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa di te,
perché questo soprattutto m’interessa”. E’
la bellezza a far la differenza tra una bugia e un racconto, e se Keats scrisse l’immortale verso “Bellezza è verità, verità è
bellezza”, è proprio per dire questo, se no
avrebbe detto verità è sincerità o roba del
genere; no, ha detto bellezza, perché anche una bugia può essere bella se grande
come il diamante dell’Hotel Ritz di cui
narra Fitzgerald. Uno che di bugie se ne
intendeva assai: dalle parti di Cap d’Antibes erano il pane quotidiano degli yankee
pieni di soldi e di amore per la dissipazione e grazie ai fiumi di alcol soggiornavano sempre ai confini della realtà con l’allucinazione. Il Grande Gatsby su una sola
cosa non mentiva, il suo amore per Daisy
che non a caso lo porterà alla morte, come
si addice a un onest’uomo nel profondo. Si
dimenticherà di mentire: lui che amava
travestirsi da eroe di guerra, da industriale, da ogni cosa, alla fine del gioco, inconsapevolmente, vestirà i panni dell’uomo
che odia e morirà al suo posto. In una piscina naturalmente, almeno quella. Il bugiardo, chi crede di gestire la realtà come
meglio gli aggrada, che pensa d’essere in
qualche modo padrone del sapere dell’altro e di poterne determinare in certe occasioni il destino, non sa che in realtà all’altro si sta consegnando.
Le piscine attraggono i grandi bugiardi
innamorati, come ne fossero la culla e la
tomba. In “Sunset Boulevard” è l’ingenuo
William Holden a rimetterci le penne, lui
che credeva di poter tradire Gloria Swanson, la regina di quel cinema muto caro a
Lord Chandos e a Wittgenstein. Eccolo
l’ancor giovane Holden galleggiare a faccia in giù, innamorato della parola al punto di raccontarci la sua vita anche da morto. Gloria Swanson s’indispettisce ed entra
in competizione: “Mr. DeMille, sono pronta per il primo piano”.
Sublime faccia tosta superata sola da
una certa Mlle Sommery che, nella Parigi
della Restaurazione, sorpresa in flagrante
con un tizio, negò spudoratamente l’evidenza. E poiché l’amante in carica protestava, addolorata gli disse: “Ah, vedo dunque che non mi amate più, credete più ai
vostri occhi che alle mie parole”. Il misogino marito della tolstoiana “Sonata a Kreutzer” l’avrebbe scannata con un surplus di
godimento, ma Stendhal non è russo, è
francese e la racconta con ammirazione; e
forse anche l’amante tradito ha sorriso per
tanta audacia, per la sovrana sfida della
parola alla realtà, per l’estrema richiesta
d’amore. Mai andrei al Festival della Mente, ma correrei subito al Festival della
Menzogna.
di Umberto Silva
H
Il Grande Gatsby su una sola cosa non mentiva: il suo amore per Daisy, che non a caso lo porterà alla morte (Leonardo DiCaprio, protagonista del “Grande Gatsby” di Baz Luhrmann, 2013)
VITE BUGIARDE
Ricordate il Grande Gatsby? Si mente per vanità e vergogna, ma
nell’atto di spacciarsi per altro, tutti si rivelano per quel che sono
se del Papa è diventata un leitmotiv e mi
è capitato anche di sentirla a una riunione di alcolisti. Per dire che si dispiacevano della loro logorrea, si sono messi a biascicare prima: “Chi sono io per…”, e poi
addirittura a urlare: “Chi cazzo sono io
per…”. E ho dovuto farli star zitti con le
cattive maniere.
Gli alcolisti mi annoiano a morte, preferisco uno schizoparanoide con retrogusto
I bugiardi consapevoli sono i più
felici, un falso d’autore. Quelli
invece che si credono veri trovano
il loro incubo nello specchio
sadico; il classico motto in vino veritas è
assolutamente da vietare nei testi scolastici onde non creare nuovi disgraziati: non si
deve pensare che da sbronzi si dica la verità, si dicono un sacco di scemenze con
una voce talmente insopportabile che anche le parole vere suonano false. Epperò
tocca ascoltare anche gli alcolizzati, perché Scott Fitzgerald era uno di loro insieme a un mucchio di gente che invidio, e
quindi è doveroso ogni tanto fare gli esseri umani per meritarci il paradiso, di cui
peraltro non si parla più. Eppure nelle
chiese i quadri paradisiaci la fanno ancora da padroni, perché allora non celebrare il paradiso e azzardare qualche ipotesi
sulla sua natura? Si teme di mentire, di di-
re il falso? D’ingannare? Occorre pur dire
certe cose, ad esempio che se si vota Grillo si va all’inferno, come all’inferno si andava quando si votava Togliatti, mentre chi
ha la pazienza di fare il bravo e prega e
pensa le cose giuste in paradiso ci va, ma
è il caso di dirglielo, se no c’è il pericolo
che nel silenzio di chi dovrebbe cantarne
le lodi lui stesso si senta dapprima imbarazzato e poi passi armi e bagagli agli altri, i nullisti. Il paradiso è la grande verità
di sempre, ora è taciuta perché tutti la credono la più grande menzogna; i preti e i papi dicono qualsiasi cosa ma del paradiso si
vergognano, cadono in quel che i padri gesuiti chiamano – chiamavano? – “rispetto
umano”, temono il sorrisino ironico dei
non credenti, o, peggio ancora, il sorrisino
comprensivo, o rassegnato, o, peggio del
peggio, temono che neppure sorridano ma
facciano finta di niente. Altro che sottostare al ricatto mondano, occorre parlar chiaro e a brutto muso chiedere: “Europei, credete al paradiso? No? Peggio per voi, andrete all’inferno”.
Intanto gli snob pensano di andare
chissà dove, nel Nulla con la N maiuscola
che fa tanto chic, altro che il niente che è
roba da morti di fame. Nel Nulla a fare
poi cosa lo sanno solo loro; ripongono una
forte attesa in questo Nulla, alcuni per tagliar la corda da se stessi e molti altri perché sotto sotto pensano che il Nulla sia un
qualcosa. Ho conosciuto una signora che a
una cena diceva che il Nulla non è proprio nulla ma ci sono dei filamenti qua e
là, e tutti ad annuire fingendosi convinti,
gli occhi bassi a tagliare il manzo come se
stessero compiendo un delitto. In realtà
questa storia dei filamenti non andava
giù, ma la padrona di casa insisteva e ci
aveva invitati apposta per dire la storia
dei filamenti, che non era proprio granché a tavola. Anche le padrone di casa
mentono, dicono: “Oh che piacere che siate venuti!”, sì il piacere di far del male ai
loro ospiti, come del resto anche la Verdurin di Proust, che metteva insieme il bel
mondo perché tutti dicessero male uno
dell’altro. Beh, ’sta tipa dei filamenti mi
guardava con occhi cattivissimi perché io
neppure facevo lo sforzo di dirle “sì, qualche filamento nel Nulla c’è, basta attendere che prima o poi…”. No, facevo la mia
faccia che non saprei più definire da
quando la persi in una certa vergognosa
occasione, e però deposi le posate. Ecco,
nell’èra attuale si osa contrapporre al paradiso dantesco quattro schifosi filamenti di dubbia provenienza, giusto perché il
Nulla fa paura, anche se fa chic. Chic ma
anche paura, così ben gli sta a chi crede di
farla franca. Vorrei potere annunciare la
morte di quella signora, la sua discesa
agli inferi, ma mentirei, essa vive tuttora,
e sebbene non la frequenti più i suoi filamenti ancora mi perseguitano.
Mi sono chiamato bugiardo, ma anche
questa è una bugia del tipo più ricercato,
la vanità. Povere creature senza guida
amiamo denigrarci per potere pensare di
essere qualcuno. Sballottati tra verità che
assomigliano tremendamente a menzogne,
definendoci bugiardi cerchiamo di darci
un tono, di trovare un nostro ruolo, e invece precipitiamo in una palude ancora più
melmosa. Tutti si vantano di essere criminali, sporcaccioni, cretini, miserabili, disgraziati, assassini, ladri, si vantano e portano prove che pensano concrete, e le esibiscono nei teatri del mondo e nel cabaret
di casa. Ma è una bugia, si spacciano per
Mentono le padrone di casa,
come la Verdurin, che metteva
insieme il bel mondo perché tutti
dicessero male uno dell’altro
quel che non sono. Non sono nemmeno dei
veri miserabili, il verbo “sono” è un decoro che spettò al secolo del grande Descartes, che lo innescò col “cogito”, un inebriante pungiglione. Siamo oggi nell’epoca
dell’inesistenza, ove la menzogna più in voga è spacciarsi per qualcuno, quando invece si è quel che si è ovvero quel Nulla che
si brama diventare un giorno. E chi se ne
compiace, già è Nulla. Anzi, niente.
La vanità è il vivaio della bugia, là dove
essa cresce senza freno, giusto per dare lustro alla propria immagine, che per un
qualche oscuro o luminoso motivo pare
sempre compromessa da un peccato originale. Che so, da un’umile nascita di cui, invece che rallegrarsi ci si vergogna; nessu-
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG IX
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
LA FABBRICA DEI PICCOLI PAPI
Vendono souvenir sacri per strada. A Roma li chiamano “urtisti”, per tradizione sono quasi tutti ebrei
Sempre in strada, dall’alba al tramonto, anche il sabato e la domenica. Il profilo ideale dell’urtista secondo il decano della professione, Massimo Misano: “Paziente, con la parlantina sciolta, un pizzico di psicologia e molto fascino. Il venditore di souvenir è soprattutto un seduttore”
di Cinzia Leone
C
hi li chiama ricordari, chi madonnari e
chi addirittura peromanti, ma il loro
nome è urtisti, da quel piccolo urto che i
loro padri, e prima ancora i loro nonni, con
la cassetta piena di santi, papi, madonne
e rosari, portata al collo con una cinghia di
tela, davano ai pellegrini di piazza San
Pietro per attrarre l’attenzione. Una toccatina per attaccare discorso, per vendere un
ricordo e ricominciare la danza: con qualche lira in tasca in più e una statuetta del
Papa di turno in meno.
Il nome non è l’unica curiosità di questo mestiere curioso. Una curiosità che è
sotto gli occhi di tutti ma che pochi conoscono. I centododici urtisti romani sono
tutti ebrei. Tutti meno uno: Fabio Gigli,
cristiano, quarantenne laureato in Scienze politiche, che ha ereditato la licenza
dal nonno che l’aveva acquistata da un
venditore di souvenir di religione ebraica. Un imbucato in un mestiere per tradi-
Il nome deriva dal piccolo urto
che i loro padri e i nonni davano
ai pellegrini di piazza San Pietro
per attirare l’attenzione
zione monopolizzato dagli ebrei? Niente
affatto, Gigli è il presidente della loro associazione.
L’urtista è un mestiere identitario e con
una raffinata origine teologica che risale
alla fine dell’Ottocento quando, con una
concessione papale viene permesso ai soli ebrei, ancora chiusi nel ghetto, di vendere rosari ai pellegrini. Risolvendo così, con un colpo d’ingegno, l’intricato problema di diffondere le immagini sacre,
che esponeva i cristiani al peccato di simonia, affidandolo agli ebrei romani: la
comunità più antica della Diaspora. Così,
per più di un secolo, il popolo a cui la
Legge proibisce le immagini religiose
vende nella capitale della cristianità l’immagine della fede dei “fratelli minori”.
Soluzione teologica geniale per i papi. E
anche per gli ebrei di Roma.
Scorrendo i nomi delle licenze degli urtisti, troviamo tutti i cognomi storici degli
ebrei romani: Zarfati, Di Veroli, Terracina,
Sermoneta, Di Segni, Piattelli. Ma tra loro
usano soprannomi fantasiosi: Gastone, il
Polacco, Celletto, Sapone e varechina, Cavallo, Cagnolino, Mugnetta, Pipino.
“Sono uno degli ultimi ad aver lavorato
a urto. Se non fosse per i rosari, nel Dopoguerra sarei morto di fame”, Misano, classe 1951, occhi azzurri in una faccia abbron-
zata alla Paul Newman, racconta un mestiere duro, tutto talento e colpi di genio.
“Fino agli anni 70 c’era il divieto di posare sul suolo pubblico lo schifetto, la cassetta piena di souvenir che eravamo costretti
a portare sempre al collo. Ma noi avevamo
inventato uno stratagemma: una zampa di
metallo pieghevole che puntata sull’asfalto ci permetteva di avere le mani libere
durante la vendita e persino di riposarci
un po’”. Senza contare che al momento giusto gli urtisti sapevano fare squadra e con
quattro schifetti uniti si trasformavano in
una bancarella collettiva in grado di attrarre i pellegrini senza violare la legge.
“Noi siamo molto di più che venditori di
cianfrusaglie e paccottiglia, come molti ci
accusano”, dichiara orgoglioso Devid Di
Segni, 36 anni, laureato in Scienze politiche ed erede di tre generazioni di ricordari. “Noi siamo parte della storia della capitale e della comunità ebraica di Roma. Per
fare questo mestiere bisogna avere la memoria nel Dna”. Chi meglio del popolo della Memoria per vendere ricordi.
Il Borsino dei papi
I venditori di souvenir della capitale
hanno un osservatorio unico sull’avvicendarsi dei papi. Il calendario degli urtisti si
modella sulle scadenze religiose della cristianità: le udienze papali, l’Angelus, l’Anno Santo, e poi ci sono le beatificazioni…
Prima i santi o prima i santini? Prima di
tutto i papi. Il decano degli urtisti Massimo
Misano, che nella sua vita di papi ne ha visti passare cinque “e io sono ancora qui”,
stila la sua classifica: “A Paolo VI, commercialmente, do un bel 7, ma bisogna considerare che negli anni 70 c’era il boom dei
turisti americani. A Papa Luciani non si
può dare che un “non classificato”. Poteva
essere un altro Bergoglio, ma è durato
troppo poco e con lui molta merce è rimasta invenduta. A Wojtyla regalo un 8 pieno,
è stato un maestro nella comunicazione. A
Ratzinger invece un 4, non ha richiamato
nessuno. A Papa Francesco do un 8. Con
lui c’è stato un risveglio delle coscienze”.
Devid Di Segni con i suoi trentasei anni, di
papi ne ricorda meno, ma stila anche lui
la sua classifica: “A Wojtyla un 10 spaccato, è stato l’uomo del secolo”. E a Ratzinger? “E’ un uomo colto e discreto. Sarei un
ipocrita a sostenere che non amo i papi
con appeal mediatico, con loro il lavoro gira di più, ma io preferisco le personalità ri-
“I primi giorni dopo l’elezione
di Francesco in giro non c’era
nulla. Chi ha avuto i primi rosari
col suo volto ha fatto buoni affari”
servate e discrete. Quindi a Ratzinger do
un 7 abbondante, anche se commercialmente merita 4. Con lui, il mercoledì delle udienze papali era diventato un giorno
quasi normale e la domenica all’Angelus
la piazza si riempiva poco o niente. Con il
combinato disposto di Ratzinger e della
crisi economica mondiale noi abbiamo rischiato la chiusura”. Ratzinger non ha trascinato le vendite e gli urtisti non dimenticano il dicembre del 2006 quando, per garantire il decoro a piazza San Pietro, la più
importante del cattolicesimo, il Papa tedesco li sfratta. Anche se, dopo le proteste, il
divieto rientra rapidamente.
Le dimissioni di Ratzinger, come la morte improvvisa di Papa Luciani, complica-
no la vita ai venditori ambulanti di souvenir. La fumata bianca porta sempre affari
ma può mietere vittime tra gli urtisti. Per
fortuna con Bergoglio ripartono le vendite.
Cosa succede quando viene eletto un nuovo Papa, i souvenir con l’effigie del vecchio
si rottamano? “Un secondo dopo l’‘Habemus papam’, le fabbriche sparse per il
mondo si mettono in moto”, racconta Di
Segni. “I primi giorni dopo l’elezione di
Papa Francesco in giro non c’era nulla e
chi ha avuto i primi rosari con il volto del
Papa argentino ha fatto buoni affari. In magazzino qualche souvenir con il vecchio
Papa però io lo conservo sempre. Ci sono
sempre i collezionisti e gli intenditori…”.
Quanto vendono i papi non più in carica?
“Dall’elezione di Bergoglio di rosari con
l’effigie di Ratzinger ne avrò venduti una
decina, mentre di Wojtyla un centinaio.
Giovanni Paolo II si è venduto molto anche
durante il papato di Benedetto XVI. Ma di
Papa Francesco ne ho già venduti più di
mille. Anche se, dopo il boom dell’elezione, le vendite si sono stabilizzate”. Il borsino degli urtisti restituisce flussi economici stringenti e rivelatori. “Con Francesco i
romani hanno riscoperto il Papa” commenta Gigli, presidente di urtisti A1, l’associazione che raccoglie i venditori con le
postazioni di pregio come il Vaticano e il
Colosseo, mentre agli urtisti A2, quella di
cui fa parte Devid Di Segni, spettano piazza di Spagna, piazza Navona e il ponte di
Castel Sant’Angelo.
Forza fisica, parlantina e seduzione
Sempre in strada, dall’alba al tramonto,
anche il sabato e la domenica, con il caldo cocente d’estate e il freddo d’inverno,
quello del venditore di souvenir è un mestiere ondivago, meteoropatico e stagionale. E molto logorante. “Non ho mai visto
nessuno abbronzato sul viso e sulle braccia come mio nonno Pellegrino Di Segni.
Ma nessuno sotto la camicia aveva la pelle più bianca di lui. E’ stato cinquant’anni
sotto il sole ma in cinquant’anni non è mai
stato al mare”, ricorda Di Segni, anche lui
con la pelle cotta dal sole. C’è l’Anno Santo e ci sono i buoni affari, ma per gli urtisti c’è anche l’inverno, duro e qualche volta catastrofico. Con la brutta stagione calano le vendite e per far fronte agli impegni qualcuno rischia di dover impegnare
l’oro al Monte di Pietà. “Sono un ebreo osservante e da ragazzo avevo studiato al collegio rabbinico”, racconta il decano Massimo Misano. “La mia era una vocazione
ma, come mi disse un rabbino, ho preferito una tremolante bancarella alle tiepide
mura del collegio”. Il papà non era urtista,
faceva il cameriere. Era stata la madre a
ereditare la licenza da suo padre, Giacomo
Terracina, titolare dal 1911. “Mamma diceva sempre: ‘Se mandavo mio marito nella
fossa dei leoni degli urtisti, se lo mangiavano subito’. Così fu lei a mettere al collo la
cassetta dei souvenir e a diventare la prima donna urtista della capitale. La chiamavano tutti ‘la Signora’, e quando per
prenderla in giro, e perché la temevano come concorrente, gli altri urtisti le dicevano
‘perché non vai a fare la calzetta?’, lei rispondeva: ‘Io sono qui e tu sai cosa faccio,
mentre tua moglie io non lo so cosa sta facendo’. Mia madre tra gli urtisti era famosa e così nel ’73, quando io ho cominciato,
ero per tutti ‘il figlio della signora’. Poi finalmente, negli anni 80, ho avuto la mia
bancarella”.
La resistenza fisica al venditore di souvenir non basta. A descrivere il profilo
ideale dell’urtista è sempre il decano Misano: “Paziente, disponibile, con la parlantina sciolta, un pizzico di psicologia, e molto fascino. Il venditore di souvenir è soprattutto un seduttore”. Regola numero
uno, conoscere le lingue. Misano parla correntemente inglese, francese, spagnolo, tedesco ed ebraico. E quando con Wojtyla
sbarcano nella capitale i pellegrini polacchi, gli urtisti imparano a masticare un
centinaio di parole anche in quella lingua.
I flussi turistici cambiano e gli urtisti si attrezzano. “Io so dire ‘grazie’ in una ventina di lingue, compreso il turco e il norvegese”, risponde pronto Devid Di Segni. Gli
toccherà imparare anche il russo e il cinese? La lingua universale dell’ambulante,
quel gramelot parlato da Pompei a Venezia passando per Capri e Lourdes, lo conoscono tutti alla perfezione.
La vertigine del kitsch
Figli di una religione che vieta l’utilizzo
delle immagini sacre, gli urtisti vivono in
un bazar di sacralità altrui. In una vertigine di pop-kitsch globalizzato, allineano
statuette, tazze, apribottiglie, ventagli, calamite da frigo con papi, santi e madonne.
Se la cultura di massa ha ridisegnato le
coordinate dell’estetica moderna, il turismo low cost la colora con pittura fosforescente. Ma è più kitsch il castello di
Ludwig di Baviera o quello della regina
Grimilde di Disney? Beh, è lo stesso castello. Le stratificazioni della storia della
capitale complicano l’intreccio e moltiplicano le possibilità. Gli urtisti non stazionano solo al Vaticano, ma, a rotazione, davanti ai più importanti monumenti romani. E al cambio turno, le proporzioni tra
sacro e profano si invertono. Spuntano il
Colosseo, Giulio Cesare, don Vito Corleone e t-shirt con il logo “The Grandfather”.
Se dell’Italia tutti conoscono Papa, mafia,
Ferrari e pizza, non è di certo colpa degli
urtisti. A fare la parte dei mercanti del
tempio del cattivo gusto e del kitsch tocca
proprio agli ebrei? “Il gusto non è il nostro, è del mercato”, sottolinea Di Segni.
“Ho provato a mettere in mostra eleganti
rosari d’argento, ma non andavano. Alla
massa piace il kitsch. Noi urtisti non vendiamo solo trash, ma il trash è quello che
vende di più. E’ così anche a Lourdes, non
solo a Roma”. Il decano Misano, con sano
pragmatismo, taglia corto: “Il kitsch è sempre andato di moda. Chi vuole un souvenir
non lo vuole firmato Armani”. Armani se
ne farà una ragione.
Le leggi razziali e il ritiro delle licenze
Con le leggi razziali, nell’autunno del
’38, gli ebrei devono diventare “invisibili”.
Quelli che lavorano nell’amministrazione
pubblica sono cacciati dagli uffici e dall’università. I divieti sono per tutti gli ebrei,
infiniti e umilianti: gli è proibito pubblicare annunci funebri sui giornali, conservare il proprio nome nell’elenco telefonico,
frequentare luoghi di villeggiatura, lavorare nel mondo dello spettacolo anche come
operai e macchinisti. Gli ebrei non possono fare l’ostetrica, l’infermiera o l’amministratore di condominio e persino l’affittacamere. Non possono avere il brevetto di
volo, non possono accedere nei locali delle Borse e nelle biblioteche pubbliche. Eliminati dai libri scolastici i testi scritti da
ebrei, cancellati dalle strade i nomi di
ebrei illustri, raschiati dalle lapidi degli
ospedali o delle scuole i nomi di benefattori ebrei. I cittadini di religione ebraica
vengono accuratamente schedati, registra-
ti, contati dalle prefetture, dalle questure,
dalle amministrazioni comunali e dagli uffici locali del Fascio. Per un breve periodo ai venditori ambulanti ebrei viene permesso di continuare a lavorare, ma con indosso una divisa e sul berretto l’acronimo:
Sfva (Sindacato fascista venditori ambulanti). Il 30 luglio del 1940 con la circolare
54299 viene ritirata la licenza agli ambulanti ebrei di tutta Italia. Le leggi razziali
azzerano la vita e il lavoro. A Roma, in quegli anni drammatici, esercitano la professione oltre 800 commercianti ebrei, pari al
75 per cento dell’intera categoria romana.
E’ la fame. Dopo le proteste delle autorità
ebraiche dietro intervento diretto del Duce, sarà concessa una proroga di pochi mesi per consentirgli la liquidazione della
merce in giacenza. Ai ricordari ebrei non
resta che la vendita abusiva di sigarette di
contrabbando, sapone da barba e lucido
da scarpe ai soldati tedeschi. Meno rischioso mandare in strada a vendere i
bambini e le donne. Poi la tragedia della
guerra e la razzia del ghetto. Dei 1.259
ebrei romani catturati il 16 ottobre ne tornarono solo 12. Due erano urtisti: Raimondo De Neris e Settimio Piattelli.
La concorrenza degli abusivi
Con il Dopoguerra e gli Alleati, gli affari dei venditori di souvenir ripartono. Gli
urtisti imbottiscono i soprabiti di merce,
rimettono al collo lo “schifetto” e tornano
in strada. C’è merce nuova: le diapositive
kodachrome da srotolare davanti agli occhi dei soldati inglesi e americani, gli orologi e qualche cameo venuto da Napoli per
i generali. Dall’alba al tramonto esposti alle intemperie, gli urtisti ricominciano a vivere. “Ma solo negli anni 80 l’attività sarà
pienamente regolamentata”, racconta Fabio Gigli. Difficile trovare davanti al Louvre una statuetta di Napoleone o della Gioconda, mentre in Italia il souvenir piace.
“Anche Firenze e Venezia sono piene di
souvenir, ma in confronto alla capitale
sembra di essere in Svizzera. E i magneti
che a Roma vendiamo a uno, o due euro, a
Firenze e a Venezia li vendono al doppio”.
“Noi siamo gli occhi della strada”, aggiunge Devid Di Segni. Trattiamo ogni giorno con i turisti, ma anche con ladri, abusivi e poliziotti. Siamo un ufficio informazioni e un pronto soccorso e spesso il nostro
banco si trasforma nel lettino dello psicoanalista”. “Siamo l’argine ai vucumprà. Le
Statuette, apribottiglie, ventagli,
calamite da frigo con l’effigie di un
pontefice. “Non vendiamo solo
trash, ma è quello che va di più”
sentinelle e la diga al degrado. Ma la diga
– secondo Massimo Misano – sta franando”.
Accanto al colonnato del Vaticano o al
Colosseo, a piazza Navona o a Castel
Sant’Angelo, i banchi di urtisti con regolare licenza sono assediati da una pletora di
ambulanti abusivi. Un esercito di irregolari con merce scadente o contraffatta, prezzi fuori mercato, niente fisco e nessuna regola. Le forze dell’ordine spesso chiudono
un occhio, ma mettono a segno anche clamorosi sequestri di merce illegale. Lo
scorso aprile la Guardia di Finanza ha scoperto un centinaio di scatoloni con 700 mila souvenir contraffatti con l’effigie di Papa Francesco e dei santi Giovanni Paolo II
e Giovanni XXIII. La merce sarebbe stata
venduta ai fedeli in arrivo nella capitale a
un prezzo inferiore rispetto a quello dei
prodotti originali, fruttando ai contraffattori non meno di 3 milioni e mezzo di euro. Il malaffare, scavalcando gli urtisti, gioca di anticipo anche sul borsino dei santi.
E molla patacche.
Con l’ultima delibera, nella capitale, aumentano le tariffe sul suolo pubblico, triplicata quella degli urtisti che da generazioni lavorano in strada e sono i primi a
soffrire il proliferare dell’abusivismo. A
Roma le nuove normative antidegrado restringono gli spazi degli ambulanti. Cosa
c’entrano gli urtisti, le carrozzelle e i gladiatori, tre mestieri capitolini legati al turismo che annoverano molti ebrei, con i giganteschi camion bar che atterrano come
navicelle spaziali accanto ai monumenti?
Con il turismo “mordi e fuggi” le vendite
calano, di quanto? “Almeno del 40 per cento” per Gigli. “Rispetto agli anni 70 il lavoro è più che dimezzato”, e continua raccontando del suo incontro con Diego Della
Valle davanti al Colosseo. “Si è avvicinato
Con il turismo “mordi e fuggi”
le vendite sono calate di molto.
Devid Di Segni: “Gli abusivi ci
stanno distruggendo”
al mio banco e ha detto: ‘Bella roba’. Gli
ho garantito che era tutto Made in Italy e
lui ha scelto un Colosseo di polvere di marmo da 200 euro. Ma io i 200 euro glieli ho
restituiti”. Peccato. Di statuette del Colosseo di marmo Della Valle poteva comprarne quante ne voleva. Tutte candide e nuove di zecca. Senza bisogno di restauro.
Anche il turista è cambiato. “Ai tempi di
mio nonno – ricorda Di Segni – a Roma potevi anche provare a vendere la Fontana di
Trevi come Totò, ma oggi anche il turista è
diventato più accorto”. Il futuro? “Nonostante la laurea in Scienze politiche, ho voluto continuare la tradizione di famiglia.
Ma penso che tra cinquant’anni questo mestiere non ci sarà più. Gli abusivi ci stanno distruggendo: vendono gli stessi souvenir senza licenza e senza pagare le tasse”.
Sotto il sole ancora caldo dell’ottobre romano Devid deve tornare al suo banco di
souvenir. Quest’anno, niente vacanze? “Sono stato una settimana in Belgio per un
tour di abbazie”. Ma allora è una mania?
“Ma no, vado solo pazzo per la birra”. Prima di scomparire inghiottito da un’orda di
turisti, mi ricorda di scrivere bene il suo
nome: “Mi raccomando, Devid e non David. Hanno sbagliato quelli dell’anagrafe,
ma ormai mi sono affezionato all’errore”.
Anche quello è un souvenir.
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG X
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
ttobre è il mese in cui tutto torna uguale a prima del terremoto estivo. E’ il
mese consacrato alla nostalgia di ciò che è
trascorso ed è affetto da una miopia collettiva che rende impossibile guardare avanti. Ottobre assomiglia, in miniatura, proprio agli anni che viviamo: anni di un infinito tramonto, con il presente sempre
più colonizzato dal passato. Una grande
seduzione per tutto ciò che c’era ieri e oggi è retrò, con colletti e comodini vintage,
tantissimi remake, e come colonna sonora
quasi soltanto le cover. Se la fine estate è
dedicata ai ricordi dei giorni appena conclusi stavolta è forse anche il momento per
accorgersi che siamo arrivati a una svolta
epocale: il passato non solo ha colonizzato il presente, ma ora potrebbe colonizzare anche il futuro.
Da decenni, non si contano più scrittori, architetti, musicisti e registi che lavorano con la testa rivolta al contrario, saccheggiando stili e forme di epoche precedenti, con un’insistenza che non si era mai
verificata prima. Ci hanno restituito tutti,
all’infinito, quella che Fredric Jameson
chiamava la “cinquantezza degli anni Cinquanta” e la “sessantezza degli anni Sessanta”. Ma se davvero il postmoderno doveva essere solo una moda culturale, di
certo non è mai finita: durante l’estate nelle sale italiane è arrivato il film nuovo di
Clint Eastwood, “Jersey Boys”. Non solo è
basato su un musical di una decina di anni fa ed è ambientato negli anni Sessanta,
ma racconta della band dei Four Seasons
prodotti, metà consumatori. E’ anche per
questi motivi che nel romanzo si genera
una irresistibile fascinazione per i manufatti come precisa Ishiguro: “Una volta al
mese, un grosso furgone bianco percorreva quella lunghissima strada, provocando
un’agitazione che si percepiva per tutta la
casa e i campi da gioco. Quando parcheggiava nel cortile, trovava ad attenderlo
una folla – allievi delle elementari perlopiù, poiché raggiunti i dodici o tredici anni, quello non era il genere di cose per cui
mostrare un interesse così evidente. Ma la
verità era che eravamo tutti eccitatissimi”.
Che si tratti di futuro prossimo o di ucronie, il destino è che gli oggetti siano sempre più inebrianti.
In “La possibilità di un’isola” di Houellebecq gli uomini di domani non provano
più sentimenti ed emozioni, secondo l’inevitabile sbocco del nichilismo dell’autore.
Nel romanzo c’è un Daniel, un Daniel 1, un
Daniel 24 e a ognuno è legato un piano
narrativo e temporale diverso, sebbene il
tempo, rispetto a Fontana, abbia ancora
una sua linearità. Sarà che più passano gli
anni, più il futuro è difficile da immaginare e – dipenderà anche dalla fantascienza
che soffre la crisi della pagina bianca – ormai il domani assomiglia terribilmente all’oggi, ed entrambi sono una copia virata
seppia di ciò che c’era ieri.
L’impossibilità di immaginare il futuro
è un tormentone, un refrain, un passatempo estivo. Secondo quanto scriveva Simon
Reynolds in “Retromania”, il futuro non è
morto, ma procederebbe come una lumaca. Il pregio maggiore del libro di Walter
Fontana è di essere una vera e propria vi-
Ci hanno restituito tutti quella
che Frederic Jameson chiamava
la “cinquantezza degli anni 50”
e la “sessantezza degli anni 60”
Nel romanzo “Splendido visto
da qui”, di Walter Fontana, è
caccia ai trafficanti illegali di
prodotti da un’epoca all’altra
che più che vivere quell’epoca, la inventò
e la rese immortale.
Di recente, il chiacchiericcio sulla rilevanza del passato nell’arte contemporanea ha cambiato tono. Quel recupero di
vecchie poetiche che prima era visto come
un vezzo artistico, un tic, al massimo una
logica culturale, si è poi cominciato a leggerlo come una vera e propria ossessione
collettiva: l’ossessione di fare un salto in
cantina prima di creare arte. Nel 2011, il
critico musicale Simon Reynolds ha pubblicato il saggio dal titolo “Retromania.
Musica, cultura pop e la nostra ossessione
per il passato” (pubblicato in Italia dall’editore Isbn). Non era certo il primo a notare questa infatuazione che ha contaminato molti artisti, ma la tesi del libro è che
sarebbe la tecnologia – l’aver reso così
semplice l’accesso al passato – a incentivare l’abitudine a guardarsi indietro e a imporlo come atteggiamento onnipresente,
pervasivo, maniacale. Grazie a strumenti
come YouTube niente si perde, tutto ciò
che è stato prodotto è riesumabile e a portata di clic. Sarebbe per questo motivo che
l’attuale cultura digitale con tutti i suoni
del passato sempre a disposizione – Reynolds si concentra principalmente su fenomeni musicali – si ritroverebbe priva del
desiderio di innovare e sperimentare,
slanci ancora presenti fino agli anni Novanta e poi finiti in soffitta.
Il passo successivo di questa epopea
della colonizzazione da parte del passato
non poteva che approdare al futuro. Sono
usciti di recente due libri che rilanciano
questo dibattito sporgendosi un po’ più in
là rispetto all’oggi, per sbirciare come sarà
il domani. Il primo è la raccolta di saggi
di Mark Fisher dal titolo emblematico:
“Ghosts of My Life. Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures” in cui,
sempre partendo da un’analisi della cultura pop, si descrive la nostra epoca come
quella invasa da spettri di idee di futuro
che non si sono realizzate. E così il futuro,
che prima o poi dovrebbe pure arrivare,
sembra ormai moribondo, o comunque
fuori tempo massimo. L’anno prossimo saremo inevitabilmente invasi dai confronti
tra il nostro 2015 e il 2015 in cui sbarcavano i protagonisti del film “Ritorno al futuro II”: l’unica azienda pronta a reggere
l’ansia da prestazione sembra la Nike che
ha già annunciato che farà uscire in tempo adatto le scarpe auto-allaccianti che indossava Michael J. Fox in quella pellicola.
Almeno, se davvero dovesse venire il futuro, avremo qualcosa da metterci.
Come accade spesso, il contributo più
penetrante per sapere ciò che si agita nelle zone profonde della società arriva dalla letteratura. Il secondo libro uscito di
recente è un romanzo, lo ha scritto Walter
Fontana e si intitola “Splendido visto da
qui” (editore Giunti). Nel futuro prossimo
in cui è ambientata la storia il mondo è diviso in zone: anni Sessanta, anni Settanta,
anni Ottanta, anni Novanta, anni Zero. Chi
sita guidata che accompagna il lettore tra
le rovine del futuro per mostrare come sarebbe davvero il mondo se si avverassero
alcuni degli adagi che ci accompagnano da
un po’ di anni. Ha il merito di aver reso
cioè tridimensionali e letterali molte teorie dei guru. Eccone alcune: ha reso letterale la tanto minacciata impasse con cui
si va elaborando il domani: dopo gli anni
Zero, in “Splendido visto da qui”, non c’è
niente: “Il 31 dicembre 2009 è l’ultimo degli ultimi giorni”. Fontana ha reso letterale anche il tormentone che vuole che oggi
“presente”, “passato” e “futuro” convivano insieme: è contemporaneamente la primavera del 1961, 1971, 1981, 1991 e del 2001.
Nonché l’idea dei tanti teorici più o meno
apocalittici secondo la quale per gli artisti a un certo punto si sarebbe persa per
sempre la possibilità di creare cose nuove e originali perché tutto è già stato ideato e scritto. Fontana mette in scena il culmine di questi ragionamenti e con ironia
denuncia tutti i loro paradossi: i prodotti
che escono sul mercato sono sempre gli
stessi e si può escludere categoricamente
qualsiasi tentativo di essere originali. Una
ragazzina che vive negli anni Ottanta desidera per regalo il Moncler di contrabbando dagli anni Zero, anche se il Moncler degli anni Zero non è altro che un rifacimento di quello degli anni Ottanta.
Quando nel 1984 Don DeLillo scrisse
“Rumore bianco” le Torri gemelle erano
ancora in piedi, la crisi finanziaria ed
economica degli anni Zero era schermata da un muro di edonismo. La sola paura da sconfiggere era quella della morte
e nel suo romanzo si escogitava come soluzione la pasticca chiamata Dylar che toglieva agli uomini la paura di morire. Nel
mondo attuale in cui niente è démodé ma
tutto è imbevuto d’angoscia, la letteratura
sembra suggerire che più che la paura
della morte abbiamo oggi paura del futuro e che l’unico analgesico sia imbottirlo
di passato.
In Italia quest’anno, grazie alle pressioni degli utenti della rete, l’Algida ha rimesso in commercio il gelato Winner Taco che era già uscito nel 1998 (con poi polemiche sul gusto che sarebbe cambiato).
In futuro, dunque, possiamo forse davvero
aspettarci di rimangiare i gelati che si acquistavano in lire durante l’infanzia, perché prima o poi potrebbero riapparire nei
nostri frigoriferi (bombati). E magari, dopo
il ritorno della Fiat 500, della Mini Cooper
o del Maggiolino, si può vivere in attesa
che un domani torni in produzione l’auto
con cui si veniva accompagnati all’asilo.
E’ ormai ottobre e tutto sembra finire e
ricominciare. Ma una volta accomodati
nella nostra nuova auto di generazioni fa,
per avvistare come sarà il futuro – che si
tratti dell’autunno che verrà o degli anni
che ci attendono – non servirà altro che
sollevare bene lo sguardo e contemplare il
paesaggio che scorre immobile nello specchietto retrovisore.
di Francesco Longo
O
La moda del postmoderno non è mai finita. In estate è uscito in Italia il film “nuovo” di Clint Eastwood, “Jersey Boys”, basato su un musical di una decina d’anni fa e ambientato nei Sessanta
UN FUTURO VINTAGE
Sempre più artisti e scrittori lavorano con la testa rivolta all’indietro.
Il passato colonizzerà, oltre al presente, anche il tempo che verrà
vive in uno di questi settori non può accedere agli altri e tutto è sorvegliato da
un’organizzazione militare. In ognuna di
queste zone (o sarebbe meglio definirle
epoche?) il decennio di riferimento procede all’infinito, in loop: se si vive nella zona degli anni 90, dopo il 31 dicembre 1999
si riparte dal 1° gennaio 1990. Non si tratta dunque di un eterno presente, ma di un
presente ciclico, che dura dieci anni:
quando finisce, si riavvolge e riparte. Quali sono stati i processi che hanno portato
a questo mondo? Molte spinte dal basso,
qualche idea legata al marketing e la convinzione individuale e collettiva che ci
siano state epoche d’oro grondanti di innocenza che sono le uniche in cui si sarebbe potuto vivere felicemente; ma soprat-
Quel recupero di vecchie
poetiche che prima era visto come
un vezzo, si è cominciato a leggerlo
come un’ossessione collettiva
tutto, a generare questo mondo è stata l’idea – ed è questa l’invenzione più vertiginosa dell’autore – che per non far soffrire
l’umanità di troppa incertezza si doveva
eliminare il futuro: “La paura del futuro
è brutta. Non si può eliminare la paura
dall’animo umano. Così abbiamo eliminato il futuro”. Che cosa ci aspetta dunque
domani? Secondo Walter Fontana, ci attende il passato.
Il protagonista di “Splendido visto da
qui”, Leo, fa parte di una squadra che si
occupa di scoprire i trafficanti che smerciano illegalmente prodotti da un’epoca
all’altra, ovvero da una zona a un’altra.
Già nelle prime pagine, setacciando tra i
rifiuti (non è un caso che epoche caratte-
rizzate dalle merci si riconoscano dai loro rifiuti), Leo scopre, nell’ottobre del
1979 – cioè tra Breznev e Carter – una confezione di carta multistrato di un gelato
Magnum Ecuador Dark. I contrabbandieri hanno colpito ancora. Tutt’intorno, la
radio suona “Whatever You Want” degli
Status Quo, gli studenti vanno a scuola col
montgomery, le ragazze indossano il poncho a geometrie andine.
In questo romanzo, quando un decennio
sta per finire si avvia il processo chiamato Riassortimento: gli abitanti di ogni zona devono restituire i prodotti usciti nel
decennio. Le case vengono ripulite. In
cambio si ricevono prodotti di inizio decennio (negli anni Novanta, per esempio,
si restituiscono i lettori dvd e si hanno indietro i vecchi videoregistratori Vhs). Dato che i genitori di Leo si sono separati, lui
da piccolo ha vissuto a metà tra due zone.
Durante la settimana vive negli anni Sessanta insieme al padre, mentre nel
weekend raggiunge la madre negli anni
Ottanta: “In tre ore arrivavo alla stazione
transiti del Quartier Generale. Lì cambiavo treno, e vestiti, per raggiungere Ottanta,
luogo dove mia madre viveva insieme al
suo compagno”. Nel passaggio tra le due
zone – Leo lascia i cinema in cui si può ancora fumare per mettersi davanti agli
schermi in cui Mtv trasmette le Bangles –
deve cambiarsi negli spogliatoi, “stanzoni
illuminati dove rabbrividendo toglievo la
camicia stirata di flanella, i calzoni al ginocchio con la piega e le scarpe di cuoio
con le stringhe, e indossavo il cambio:
jeans Carrera chiari”.
Il tempo, ci ammonisce Fontana, trascorre solo per gli esseri umani. Oggetti e
prodotti artistici hanno trovato l’elisir di
lunga vita ma si tengono la ricetta segreta,
vivono un’esistenza parallela, di sogno.
Nel mondo che ha ideato, “giornali, radio,
tv raccontano gli stessi fatti di cronaca,
nella sequenza in cui si sono svolti. Film,
libri, musica, tutto è reso disponibile al
pubblico nell’esatto ordine originario”.
Così, se vivi nella zona degli anni Ottanta,
e nel 1984 hai sedici anni quando esce
“Like a Virgin” di Madonna, poi, quando
sarà di nuovo il 1984, avrai ventisei anni,
e poi trentasei, finché “a 56 anni dell’esordio di Madonna non ti frega niente”, anche
se poi “a 76 anni c’è una patina su tante cose. Che sia questo il tuo ultimo 1984?”. Come si intuisce, è vero che la paura del futuro si dissolve sapendo che tutto ricomparirà uguale, ma il clima rassicurante dell’eterno ritorno non stempera gli assilli
della nostalgia. Non c’è speranza, staccarsi dai propri feticci resta comunque uno
strappo insopportabile, anche in un mondo dove le passioni artistiche non sono
perse una volta per tutte ma risorgono di
continuo: “Solo ‘Abbey Road’, Leo. Fa’ che
ci portino via tutto, mobili, vestiti tutto il
resto, ma facci tenere ‘Abbey Road’, è solo un disco. Solo quello, Leo”, implora il
padre al figlio.
Fontana ha ben presente che oggi le
epoche sono sostanzialmente sorrette dalle icone che le rappresentano, e niente come i Beatles incarna meglio il potere delle immagini culturali di dar corpo ai miraggi, di formare i giovani, di saldare tra
loro le generazioni donando un’identità
fatta tutta di simboli: “I Beatles costituiscono il cuore del loro universo mentale e
affettivo”, intuisce Leo.
L’atmosfera distopica, l’onnipresenza
dei prodotti e la claustrofobia temporale
di “Splendido visto da qui” richiamano alla mente tantissimi romanzi, tra cui almeno tre che, pur non appartenendo ai canoni della fantascienza classica, hanno disegnato dei mondi alternativi, alcuni futuribili, altri cupamente disumani: “Infinite
Jest” di David Foster Wallace, “Non lasciarmi” di Kazuo Ishiguro, “La possibilità
di un’isola” di Michel Houellebecq. Il futuro in cui è ambientato “Infinite Jest” è
quello in cui gli anni non hanno più come
riferimento delle date, ma sono riconoscibili soltanto perché sponsorizzati da un
prodotto che li identifica: quando finisce
l’“Anno dei Cerotti Medicati Tucks” inizia
l’“Anno della Saponetta Dove in Formato
Prova”, e si va avanti fino all’“Anno del
Pannolone per Adulti Depend” e l’“Anno
Glad”. Per Wallace, come per Fontana, ciò
che resta del tempo che viviamo, ciò che lo
esprime al meglio, non sono più rivoluzioni o sconvolgimenti politici, ma un quiz o
una merendina. I giovani personaggi di
Ishiguro sono chiusi nel collegio di Hail-
L’anno prossimo confronteremo
il nostro 2015 e il 2015 in cui
sbarcavano i protagonisti di
“Ritorno al futuro II”
sham, in Inghilterra: non possono avere figli, non hanno genitori, e sono destinati a
essere donatori dei loro organi. Sono cioè
diventati loro stessi delle merci: “Là nel
mondo fuori, tutto è in vendita”, intuisce
uno di loro, e ciò è legato al “fatto che un
giorno cominceremo a essere dei donatori.
Non so perché, ma è da tempo ormai che
ho questo presentimento, che sia tutto collegato, sebbene non riesca a capire in che
modo”. Come per i personaggi di Fontana,
isolati in epoche diverse, anche per quelli di “Non lasciarmi” di Ishiguro, che vivono malinconici in un universo protetto, sono gli oggetti “l’unico modo per entrare in
contatto con tutto ciò che proveniva dal
mondo di fuori”. Questi ragazzi sono metà
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG XI
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
SPETTATORI PER UNA SETTIMANA
NUOVO CINEMA MANCUSO
scelti da Mariarosa Mancuso
AMORE CUCINA E CURRY di Lasse Hallström, con Helen Mirren, Om Puri, Manish
Dayal, Charlotte Le Bon
Q
uattordici anni dopo “Chocolat”, lo
svedese torna sul luogo del delitto.
Nella Francia di fine anni 50, mutuata da
un romanzo dell’inglese
Joanne Harris, la cioccolataia Juliette Binoche stuzzicava i sensi
assopiti dei paesani,
non andava in chiesa e faceva comunella con lo zingaro
Johnny Depp (basta
meno per scatenare
una guerra). Nella
Francia di oggi, mutuata da un romanzo
dell’americano Richard C. Morais –
esce da Neri Pozza
con il titolo del
film, ma se avete
letto un romanzo che
ha in copertina “Mrs
Mallory e il piccolo chef indiano”
sappiate che è lo
stesso – un cuoco
di Bombay apre il
suo locale di fronte
a un ristorante stellato. La proprietaria
Helen Mirren si lamenta per gli odori
forti e per la musica:
cosa diranno i suoi clienti che macinano chilometri per una sauce
hollandaise fatta come Escoffier
comanda? Il gastronomo si rivolta
nella tomba, a vedere la salsa per gli
asparagi preparata nel film con l’olio e
non con il burro fuso. Perfino Julia Child
– non sapeva come passare i pomeriggi
CLASS ENEMY di Rok Bicek, con Igor Samobor, Natasa Barbara Gracner, Tjasa Zeleznik, Masa Derganc
L
o vogliano o no, tutti i film sulla scuola si ritrovano confrontati con “L’attimo fuggente” di Peter Weir. Il professore
che conquistava gli studenti strappando
le pagine dei libri, che ridusse il torrenziale Walt Whitman a “Oh capitano! Mio
capitano!” (la poesia era stata scritta in
morte di Abraham Lincoln), che trovava
le rime un’idiota costrizione da cui liberarsi fu adottato come modello dagli insegnanti progressisti. Gli stessi che ora lamentano l’ignoranza o la mancanza d’attenzione dei propri studenti, e senza il sospetto di aver contribuito al degrado cavalcando la scuola dal volto umano. Con il
rispetto che si deve al defunto Robin Williams, fu un colpo al cuore vedere un comico di strepitoso talento adorato per un
ruolo che grondava melassa e sottocultura. C’era un suicidio, tra gli allievi dell’imbonitore, e ce n’è uno in questo film sloveno, opera prima che promette benissimo
e si perde quando dovrebbe collegare i
puntini generosamente distribuiti. La
professoressa di tedesco, incinta, lascia la
classe al supplente arrivato da un altro
mondo: pretende l’alzata in piedi, spiega
che lo studio costa fatica, che i voti bisogna guadagnarseli, che per suonare il piano in una sala da concerto l’esercizio serve quanto il temperamento artistico. Perfetto nemico di classe quando una studentessa, senza motivo apparente, muore suicida: i due erano stati visti mentre parla-
parigini, al seguito del marito che lavorava per il governo, scrisse bestseller svelando i segreti dei piatti francesi alle casalinghe americane e inventò i programmi di cucina in tv – rispettava la ricetta
originale. Lasse Hallström no, preferisce
esibirsi nel solito montaggio di zucchine
affettate e uova sbattute, cipolle che soffriggono e olio bollente che fa gonfiare la
pastella dei fritti. In materia, preferiamo la sigla della serie tv “Dexter”, il serial killer che ammazza i
serial killer (il giovanotto
ha istinti omicidi, lo sa, li
mette al servizio del bene).
Guardatela, se non siete già fan, e
avrete la versione hard dello sfrigolìo e del tagliuzzamento: in cucina siamo tutti serial killer. La
Maison Mumbai si trasferisce a
Lumière, profondo e immaginario sud della Francia, perché a Bombay – Mumbai dal
1995, ribattezzata dagli indù
che volevano cancellare l’origine portoghese del
nome – non è più
aria. Scintilla per
uno scontro tra culture che si svolge a
tavola, e si sa che nei
film di Lasse Hallström tutto finisce a
tandoori e samosa
(sul tema, era più divertente “Tandoori
Love” di Oliver Paulus, peperoncino indiano nell’Oberland
bernese). Om Puri
e Helen Mirren
fanno quel che possono, con gli ingredienti a disposizione. I
personaggi di contorno sono insipidi. I
produttori Oprah Winfrey e Steven Spielberg incassano.
Popcorn
“Inerzia di genere”. Hayley Krischer se ne lamenta su Salon: le donne registe sono ancora troppo poche, e il loro numero va diminuendo. Nel 1998 il 9 per
cento dei 250 film in cima alla lista degli incassi era diretto da donne. Nel 2013,
la percentuale è scesa al 4 per cento. Il primo Oscar vinto da una donna risale
a quattro anni fa: la fortunata è Kathryn Bigelow, una che fin dal film di debutto – “The Loveless”, motociclisti nella provincia americana anni 50 – si è sentita dire che aveva in corpo più testosterone dei colleghi.
A occhio, non avremmo mai scommesso neanche su quel nove per cento. Quanto a “The Hurt Locker”, il film che di Oscar gliene fece vincere due, l’altro in qualità di produttrice – e lei li reggeva come fossero manubri da palestra – era una
gran bella storia di guerra. Punto: nessuno ha mai dato della femminuccia a Clint
Eastwood, dopo aver visto lo zuccheroso “I ponti di Madison County”. Fa da attenuante al lamento la confessione spontaneamente resa da Hayley Krischer all’inizio del suo articolo: “Negli anni 90, quando il mondo sembrava pieno di donne registe – Peggy Marshall, Jane Campion, Lisa Chodolenko, Sofia Coppola – ho
girato un film indipendente che attualmente giace nella mia cantina”.
Va molto meglio sul fronte della produzione, certifica “Entertainment
Weekly”. Le donne sono il 18 per cento e sono nei posti giusti, mica a produrre
titoli che finiranno in una cantina. Sono spesso sul palco degli Oscar, sono dietro i film che incassano e dietro i film che fanno chiacchierare. Nella lista troviamo “Lincoln”, “12 anni schiavo”, “The Master”, “American Hustler”, “Her”,
“Zero Dark Thirty”, “The Dark Knight”, “World War Z”, “Jane Eyre”.
Bel bottino, e belle carriere. Kathleen Kennedy, che ora è a capo della LucasFilm e si sta occupando della nuova trilogia di “Star Wars” cominciò negli anni 70 come segretaria di Stephen Spielberg. Il regista ne notò la bravura e le affidò “E. T.”. Megan Ellison ha 28 anni, e invece di godersi i miliardi ereditati da
papà Larry (co-fondatore del gigante informatico Oracle, patrimonio personale
stimato in 40 milioni di dollari) li ha investiti in “Foxcatcher”, un film che nessuno voleva fare, e che ora si trova in prima fila per l’Oscar: lotta libera, la dinastia dei du Pont, Channing Tatum e Steve Carrell irriconoscibile in un ruolo
drammatico. La Pixar ha una sola donna regista – mezza, più correttamente,
Brenda Chapman a metà di “Ribelle – The Brave” è stata affiancata da Mark
Andrews. Vanta però dieci produttrici, tra cui Darla K. Andersoon: “mostruosamente intelligente”, dice il suo capo John Lasseter.
E’ un lavoraccio, sicuro. Il regista al confronto ha la parte facile e si prende
tutto il merito (ai nostri occhi: i capi degli studios sanno ben ricompensare le
produttrici di successo). Ma come dice Emma Thomas, che ha appena prodotto “Interstellar” di Christopher Nolan, son soddisfazioni: “Metti insieme il gruppo. Metti insieme il progetto. Guidi il carrozzone invece di aspettare che qualcuno ti assuma”.
vano, il pettegolezzo fa presto a
diffondersi. Lo scostante professore continua a interrogare
sulla vita di Thomas Mann, che
ebbe un figlio suicida e non
andò al suo funerale (si riferisce a Klaus Mann, ma anche l’ultimo, Michael Thomas Mann,
morì dopo aver mandato giù una
mistura di alcol e barbiturici) e
sul “Tonio Kröger”, pretendendo risposte in tedesco. “Nazista”, è la
pronta reazione della classe, che si ribella e lascia i banchi vuoti: sempre più
facile che
svolgere il
tema “la
morte di
un uomo è
un problema
per chi resta”. Il confronto si estende agli insegnanti e ai genitori, e ci sarebbe
materia per un
dramma meno scolasticamente svolto. La
vita è complicata, gli allievi
son confusi, si capisce anche
senza farlo ripetere alla preside, preoccupata per quel che scriveranno i giornali.
Neppure c’è bisogno di raggelare anche i
buoni dialoghi con una regia che indugia
sui silenzi: l’espediente lasciamolo ai registi più scarsi di idee.
IL REGNO D’INVERNO – WINTER SLEEP
di Nuri Bilge Ceylan, con Haluk Bilginer,
Melisa Sozen, Demet Akbag, Ayberk Pekcan
L
a storia del teatro turco – opera fondamentale, se mai sarà scritta, che l’ex
attore Aydin si ripromette di cominciare prima o
poi – somiglia alla
“Chiave di tutte le mitologie” coltivata da
Edward Casaubon in
“Middlemarch”
di
George Eliot. Uno
dei romanzi più feroci sul fai e disfa
intellettuale e velleitario, protagonista uno studioso
che ne approfitta per
convolare a nozze con la
giovane
Dorothea
Brooke, reclutata come
assistente e sul principio incantata da tanta
sapienza (poi capirà,
rimasta vedova sposerà il cugino che
aveva capito tutto).
Aydin si è ritirato in
Cappadocia, dove
gestisce l’Hotel Othello: il regista francese
François Dupeyron lo
aveva scelto per una scena di “Monsieur Ibrahim
e i fiori del corano”, ancora ci sono le fotografie di Omar Sharif, e ne
va fiero con i rari turisti
invernali. Ha una rubrica su
un giornaletto locale, La voce della steppa, convinto che
sia meglio essere il primo in provincia
che il secondo a Istanbul (sa tanto di volpe con l’uva, ma anche questo fa parte del
personaggio). A differenza di Casaubon,
ha una sorella che lo molesta quando si
siede al computer, sottoponendogli dilemmi morali: “Non resistere al male serve a
evitarlo?” (e allora se uno vuole ammazzarti ti suicidi per risparmiargli la fatica?). Ha una moglie
giovane che invece
di aiutarlo con gli
appunti si dedica alla beneficenza. Ogni
volta che si parlano,
scopriamo l’inattesa bravura nei dialoghi – per noi
che abbiamo odiato senza
eccezione tutti i suoi
film precedenti, esistenzialisti e muti – di
Nuri Bilge Ceylan. A riprova e per cartina di tornasole, i fan più sfegatati del
Michelangelo Antonioni turco sono usciti da “Il regno
d’inverno” con l’aria assai
delusa. Preferivano “C’era
una volta in Anatolia”, dove
il più vispo era un cadavere
seppellito da qualche
parte (ma la tomba non si
trovava, quindi le immagini mostravano curve, fari
nella notte, alberi che il
sospetto avrebbe dovuto
identificare). La svolta è
clamorosa, perché cambia
il modello di riferimento.
Fuori a calci l’incomunicabilità – e non si può
non ricordare il ritratto
del permaloso maestro
fatto da Alberto Arbasino, l’unico che ebbe il
coraggio di dirlo allora
– entra la commedia
cechoviana. Entra con un po’ di ritardo rispetto ai titoli di testa, ma lo spettatore che resiste sarà ricompensato.
mericani all’estero, come quasi sempre accade nei romanzi di Patricia
Highsmith. Comincia così la saga di Tom
Ripley, piccolo truffatore di New York arruolato dal ricco Mr Greenleaf perché gli
riporti a casa il figlio che svacanza a
Mongibello (Italia del sud, il nome è inventato dalla scrittrice texana
che con il suo primo romanzo,
“Sconosciuti in treno”, destò
l’interesse di Hitchcock).
Nel romanzo – “I due
volti di gennaio”, Bompiani – incontriamo
Chester e Colette a
bordo della nave
S. Gimignano (anche le brave scrittrici hanno le loro ingenuità) in
vista del canale di Corinto. Nel
film sono
già in visita
al Partenone,
dove incontrano un altro americano che si arrangia come guida turistica nonché accompagnatore di miliardarie annoiate
(lucrando sul cambio, anche,
tanto il greco e il valore esatto
della dracma nessuno li capisce). E’ il
1962, viaggiano vestiti da ricchi turisti: lino e cappello di Panama per lui, tubino
per lei e all’occasione un bel paio di
guanti, neanche una goccia di sudore per
tutti e due. Guardiamo Viggo Mortensen
e Kirsten Dunst, guardiamo Oscar Isaac
– senza barba e chitarra, non sembra
neppure lo stesso attore di “A proposito
di Davis” diretto dai fratelli Coen. Sono
splendidi tra le rovine, e pensiamo: se
tutto il film rimane all’altezza del casting
e del guardaroba, ci sarà da divertirsi.
Non succede, purtroppo, per una fatale
convergenza. “I due volti di gennaio” non
è il romanzo migliore di Patricia Highsmith, che quando lavora al suo massimo
racconta le complicità tra maschi come
nessuno. Hossein Amini – aveva sceneggiato “Drive” di Nicolas Winding Refn a
partire da un romanzo di James Sallis, i
suoi primi lavori erano adattamenti da
Henry James e da Thomas Hardy – è più
bravo a scrivere che a dirigere. Colette
guarda con troppa insistenza la guida turistica, il marito afferra con troppa insistenza la bottiglia, finché uno sconosciuto bussa alla porta, con qualche conto da
regolare. E qui Viggo Mortensen, come
nel film di David Cronenberg “A History
of Violence” da gentiluomo si trasforma
in killer. Purtroppo la guida turistica ha
visto l’occultamento del cadavere, indecisa se denunciare tutto alla polizia o
guadagnarci un po’ su. Il palazzo di Cnosso fa da sfondo a un altro colpo di scena.
Depistare i poliziotti è sempre più difficile (e il dialoghetto finale edipico del
tutto inutile).
I DUE VOLTI DI GENNAIO di Hossein
Amini, con Viggo Mortensen, Kirsten Dunst,
Oscar Isaac, Daisy Bevan
A
RIPESCAGGI
SIN CITY 3D – UNA DONNA PER CUI UCCIDERE di Robert Rodriguez e Frank Miller, con Joseph Gordon-Levitt, Eva Green
BOXTROLLS - LE SCATOLE MAGICHE di
Graham Annable e Anthony Stacchi, voci
italiane Massimo Lopez, Andrea di Maggio
MEDIANERAS – INNAMORARSI A BUENOS AIRES di Gustavo Taretto, con Adriana Navarro, Javier Drolas
TAKE FIVE di Guido Lombardi, con Peppe
Lanzetta, Salvatore Striano, Salvatore Ruocco, Carmine Paternoster
LA BUCA di Daniele Ciprì, con Sergio Castellitto, Rocco Papaleo, Valeria Bruni Tedeschi, Jacopo Cullin
PASOLINI di Abel Ferrara, con Willem
Dafoe, Adriana Asti, Ninetto Davoli, Valerio
Mastandrea
N
I
B
D
C
T
on risponde ai criteri del Bechdel test. Non risponde neppure ai criteri,
più andanti, di chi pensa che il cinema
amico delle donne debba sfoggiare avvocatesse, chirurghe, capitane d’industria
(una sfilata che a noi ricorda le Barbie
con lo stetoscopio o la tuta da astronauta). Ma è la femmina più fantastica vista
sullo schermo da un bel po’. Eva Green –
nel film tratto dai fumetti di Frank Miller
si chiama Ava Lord – è la quintessenza
della femme fatale. Un po’ di Barbara
Stanwyck: in “La fiamma del peccato” fa
uccidere il marito dall’amante Fred MacMurray, l’assicuratore che le aveva proposto una polizza sulla vita. Un po’ di Kathleen Turner in “Brivido caldo” di Lawrence Kasdan. Ava Lord ha un marito miliardario, un autista-guardia del corpo che
per lei si fa torturare, e un ex amante con
la faccia di Josh Brolin, new entry in un
cast che ricupera Mickey Rourke, Jessica
Alba, Rosario Dawson. Recita con tutti e
tre, racconta bugie, si atteggia a fanciulla
innocente quando le torna comodo, fa la
vamp con il poliziotto incaricato delle indagini. Il film usa il fumetto in bianco e
nero come storyboard, unica infedeltà le
tre dimensioni. Purissimo pulp, violento e
rinforzato da battute che stanno tra James
Cain e Raymond Chandler.
l mondo di sopra e il mondo di sotto. Una
fissazione per gli animatori della Laika,
casa di produzione che cerca di insinuarsi
tra Pixar e Disney. Coraline sfuggiva agli
occupatissimi genitori e trovava rifugio da
una mamma uscita da uno spot per casalinghe anni 60: elegantissima, sempre in cucina e sempre pronta a coccolarti (poi però
cercava di cucirti due bottoni al posto degli
occhi). Norman di “ParaNorman”, vedeva
gente morta, più interessante dei vivi. Qui
i due animatori promossi registi – passaggio sconsigliabile, cadono anche i direttori
della fotografia, gli unici che possono sperare di sopravvivere sono gli sceneggiatori
– inventano un mondo vittoriano che adora i formaggi puzzolenti e un sottosuolo di
Boxtroll che vivono in una discarica (si
chiamano così perché usano le vecchie scatole per vestirsi). Sopra ci sono i ricchi che
si dilettano assaggiando brie e gorgonzola.
Sotto stanno i mostriciattoli dalla pessima
reputazione. Sentite arrivare la morale della favola? Certo che arriva, stagionata a
puntino. I Boxtroll hanno cresciuto un orfanello – tanto per non insistere sulle atmosfere dickensiane – che ne ha sperimentato i lati buoni e giocherelloni. Purtroppo i
pupazzi sono animati bene ma disegnati
maluccio, Vale per i buoni, i cattivi, la ragazzina dai capelli rossi.
uenos Aires. Martin da dieci anni non
esce di casa, vive davanti al computer
progettando siti web. Il primo per conto
del suo strizzacervelli, con un giochetto
chiamato Pills Out, perfetto per gli insonni che invece di contare le pecore fanno
partite di Pac Man con le pastigliette. Arduo, date le condizioni, trovarsi una fidanzata, anche se sul profilo Facebook il
tuo status dice “disponibilissimo”. “Ragazzo incontra ragazza” è l’inizio classico
delle commedie romantiche. Il regista e
sceneggiatore argentino Gustavo Taretto –
classe 1965, qui espande un cortometraggio con lo stesso titolo uscito nel 2005 – la
prende da lontano. Siccome sa scrivere e
dirigere, piazza una bomba sotto il genere e regala un film originale che ricorda
“(500) giorni insieme” di Marc Webb, con
Zooey Deschanel e Joseph Gordon-Levitt.
Serve una ragazza, tra un inserto a fumetti e l’altro: a questo neanche il regista più
sperimentale in materia di storie d’amore
può rinunciare. Ed ecco Mariana, architetta che per campare fa la vetrinista. Dopo un fidanzamento durato quattro anni
si è comprata metri della plastica che serve per imballare servizi di piatti e televisori, e fa scoppiare le bolle a una a una.
Fatti l’uno per l’altra, se solo riusciranno
a incontrarsi.
opo “Gomorra” di Stefano Sollima
sembra facile. Ma Guido Lombardi
ha girato “Take Five” nel 2013: il suo secondo lavoro dopo “Là-bas”, ambientato
tra gli immigrati di Castel Volturno. “Ambientato” in questo caso significa “utile
a far da sfondo a una storia originale”.
Giusto per chiarire le differenze con l’accezione registicoitaliana del termine:
“Una storia che telefona compassione
per i raccoglitori di pomodori”. La svolta verso la commedia criminale, fa modello “I soliti ignoti” di Mario Monicelli,
funziona benissimo. A Napoli, un idraulico con il vizio del gioco ripara una perdita di liquami in una banca. Vede il caveau aperto, decide il colpo grosso. Film
di rapine andate a male ne abbiamo visti, la bravura di Guido Lombardi – che
oltre a dirigere ha scritto la sceneggiatura – sta nel giocare con le nostre aspettative. Sta nell’uso sapiente dei personaggi, descritti all’inizio con i pochi dettagli che servono a caratterizzarli. Tutto
poi servirà quando le cose cominciano
ad andar male (non è certo la rapina al
caveau che vediamo all’inizio della serie
belga “Salamander”, 66 cassette di sicurezza vuotate in tempo record). Regia
non compiaciuta, dialetto e attori sfruttati al massimo.
ome rovinare la già scarsa credibilità
del cinema italiano, grado zero del patto stipulato con lo spettatore. Valeria Bruni Tedeschi pare già un azzardo: l’allure altoborghese da ragazza “schifosamente ricca” – come confessava al prete nel suo primo film da brava regista, “E’ più facile per
un cammello…” – non sparisce se la piazzi
dietro il banco a preparare cappuccini. Se
poi le metti addosso un twin set di finissimo cachemire, in sfumature di mattone e
rosa cipria accostabili solo da chi mangia
moda e brioche (nel senso di Maria Antonietta) anche lo spettatore più complice
sussulta. Il primo film di Daniele Ciprì –
“E’ stato il figlio”, dal romanzo di Roberto
Alajmo – aveva offerto a Toni Servillo l’occasione per tirar fuori un po’ di grinta recitativa, al netto dell’aura da mostro sacro
portata a pieno compimento in “La grande
bellezza” di Paolo Sorrentino. Qui si invocano le cattiverie da commedia all’italiana
- e c’era di che, in una storia di avvocati
truffaldini, innocenti ingiustamente accusati, decenni di carcere senza sconti, finti
ciechi che si buttano sotto l’autobus per
raddoppiare l’assegno di invalidità – poi
tutto sfocia in un bell’abbraccio. Nei momenti di stanca, quando vengono meno le
battute e le gag visive, supplisce la colonna sonora.
utte le copie di “Petrolio”, per quanto
scarsamente lette, si aprono da sole in
corrispondenza dell’appunto 55, “Il pratone della Casilina”: una sfilata di cazzi e di
pompini. Se nelle scuole fanno leggere
“Sei come sei” di Melania Mazzucco, si
apre a questo Pasolini una carriera di
proiezioni a uso studentesco. Magari in
coppia con “Il giovane favoloso” di Mario
Martone. Ovvero gli intrecci tra arte e vita
nei poeti italiani. Gente che a giudicare
dai film fa una cosa e poi corre a scriverla, sicché i canzonieri risultano una forma
arcaica di “Caro diario” o di Facebook.
Esaurito il pratone, arriva il saccheggio di
“Porno-Teo-Kolossal”, che Pier Paolo Pasolini avrebbe voluto girare dopo l’inguardabile “Salò o le 120 giornate di Sodoma”:
a giudicare dalle scene girate da Ferrara
in vece sua, una mistura infernale di sesso,
poesia, ninettidavoli con i ricci e brevi cenni sull’aldilà. Il resto è vita quotidiana
chez Pasolini: il bacio della mamma, la lettura del Corriere della Sera, la visita di
Laura Betti che ha appena doppiato “L’esorcista”, l’intervista con Furio Colombo
(l’attore è Francesco Siciliano, figlio di Enzo Siciliano) declamata riga per riga come
se fosse un radiodramma. Unica cosa notevole, tra gli sbadigli e le goffaggini, la
mancanza di teorie complottistiche.
ANNO XIX NUMERO 240 - PAG XII
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 11 OTTOBRE 2014
IL LIBRO CUORE DI SEGANTINI
Sentimento e uomini poveri. Milano celebra il pittore che meglio seppe interpretare
la crisi di fine Ottocento. Un’infanzia difficile, una sorellastra amorevole, poi il successo
rent’anni fa all’incirca, in un povero
abbaino della via San Simone a Milano, abitavano una giovinetta e un fanciullo, fratelli di padre ma non della stessa
madre”. Potrebbe essere l’incipit di un romanzo popolare, d’appendice si sarebbe
detto appena qualche anno prima: così inizia invece un lungo articolo, a firma di
Neera, apparso nel numero di marzo del
1896 di Emporium. E’ una nuova rivista,
molto illustrata, che vuole essere insieme
colta e popolare. La pubblica l’Istituto italiano d’arti grafiche di Bergamo, su ispirazione di The Studio (1893) di Londra. I temi sentimentali e pauperistici sembrano
perfetti per la sensibilità della gente in balia della grave crisi economica degli anni
Novanta, l’ultima del secolo che muore, la
prima del secolo che nasce. E’ del mese
prima, 1° febbraio 1896, il grande immediato successo di pubblico, se non di critica,
al Regio di Torino della “Bohème” di Giacomo Puccini, diretta da Arturo Toscani-
se ne vendettero tante copie (150.000) da indurre l’allora presidente del Consiglio Luigi Federico Menabrea a invitare i diplomatici a raccogliere notizie degli italiani che
avevano avuto successo nel mondo. L’editore Barbera commissionò allora allo scienziato Michele Lessona, seguace e traduttore di Charles Darwin, un libro analogo, ma
d’ambiente italiano: “Volere è potere” fu
uno dei più grandi successi dell’editoria
italiana, un longseller dalle innumerevoli
edizioni. Segantini non vi era entrato solo
per motivi anagrafici. Quando compì i tredici anni, la sorella si liberò del suo peso
portandolo al celebre istituto milanese per
ragazzi difficili che prendeva il nome dal
fondatore, il padre somasco Paolo Marchiondi. Era per il tempo un istituto moderno che puntava sulla riabilitazione e
l’addestramento professionale degli ospiti.
Conosciuti in città come barabbitt, probabilmente più per via della sede che era in
via San Barnaba, alla Commenda che per
via di Barabba, il bandito che la folla preferì a Gesù di Nazaret, gli ospiti erano tenuti a seguire corsi professionali che anda-
Apolide, a 38 anni abita con
la famiglia in Engadina. Le sue
opere hanno vinto i primi premi
nelle grandi rassegne europee
Stendeva il colore con sottili
pennellate di andamento circolare,
una uguale all’altra, con una
metodicità impressionante
ni. Il fanciullo, che la sorellastra lascia solo a casa per andare a lavorare, probabilmente di ago, è Giovanni Segantini.
Nel marzo del 1896 Segantini non solo si
è stabilito in una casa di proprietà in Engadina, capace di ospitare con agio la moglie e i quattro figli; non solo le sue opere
hanno vinto i primi premi nelle grandi rassegne di quelle città europee dell’arte dove lui non può seguirle perché apolide:
portato via da Arco in Trentino, dove è nato nel 1858 suddito dell’imperatore Francesco Giuseppe, ha perso la cittadinanza
austriaca né ha mai ottenuto quella italiana. Nel 1896 è riuscito forse anche a rispondere sì alla domanda: “Saprò dare alla materia che dipingo quella luce che dona la vita ai colori e che illumina e dà aria
alle lontananze e rende infinito il cielo?”.
In marzo è già impegnato in un progetto
colossale. Di lì a quattro anni, il primo
maggio del 1900, a inaugurare il secolo
conclusivo del secondo millennio, aprirà a
Parigi l’Esposizione universale. La data è
fatidica. A partire da quella del 1867, le
esposizioni parigine sono state organizzate a intervalli di undici anni (1878, 1889)
perché la prossima cada nel 1900. La prima Olimpiade dell’età moderna si tiene
nel 1896, perché la seconda edizione si
possa svolgere nel 1900, sempre a Parigi.
Per l’esposizione universale del secolo,
dal suo “eremo” (le virgolette sono indispensabili, giacché da un quarto di secolo
abbondante St. Moritz è una elegante stazione turistica, aperta d’estate come d’inverno, frequentata da un pubblico internazionale, ma soprattutto inglese) ha cominciato a realizzare la prima di tre immense
tele (circa quattro metri per due e ottanta
ciascuna, che dovranno magnificare davanti al mondo la bellezza dell’Engadina.
Si intitoleranno, in ordine di realizzazione: “La morte”, “La vita”, “La Natura”, ovvero il “Trittico delle Alpi”. Una volta entrati nel museo che St. Moritz dedicherà
all’illustre cittadino acquisito, naturalizzato svizzero post mortem, non si muoveranno più, neppure per un breve viaggio fino
a Milano. Nella mostra che la città con la
collaborazione della casa editrice Skira
dedica finalmente a Segantini il grande
trittico non c’è. Sembra che le dimensioni
rendano le tre tele troppo delicate per
qualsiasi trasferimento. A Palazzo Reale si
è supplito con un’intera sezione ricca di
studi e di lavori preparatori.
Che a Parigi il trittico non arriverà, che
Segantini morrà di peritonite nel settembre del 1899, solo, nella bufera, sullo
Schafberg, a più di tremila metri, dove si
è arrampicato per studiare un effetto di
neve, Neera non può immaginarlo. Ma
sembra una premonizione il racconto dell’impresa del bambino che scappa di casa
(se casa si può chiamare un abbaino in
contrada San Simone per chi ha passato i
primi anni di fronte alle montagne) per andare in Francia; che esce correttamente
da Milano, dalla parte dell’Arco della Pace, come gli ha insegnato il padre uscito
per sempre dalla sua vita forse per quella
stessa strada. Poiché la verità alla quale
Neera è devota è quella dei sentimenti e
non dei fatti, molto di ciò che racconta dell’infanzia e della giovinezza di Segantini è
inventato o trasfigurato. Se da lei o da Segantini stesso non sappiamo, probabilmen-
vano dalla tipografia e la legatoria, all’ebanisteria e la liuteria. Segantini fu un allievo così volonteroso da completare il corso
in due anni, per essere poi chiamato a insegnare per due anni di fila, e essere infine menzionato negli annali come l’ospite
che più illustrò l’istituto.
Della volontà di Segantini testimoniò
anche Vittore Grubicy de Dragon, il pittore e mercante che gli aveva svelato il segreto del divisionismo in risposta al suo
desiderio di dipingere le vibrazioni della
luce. Osservandolo lavorare si accorse che
applicava il metodo di stendere il colore
con sottili pennellate di andamento circolare, una uguale all’altra, con una metodicità impressionante, soprattutto rapportata alle dimensioni della tela da coprire.
Impressionato dalla qualità dei risultati,
Grubicy si rese conto di non avere il carattere necessario per imitarlo. Se ne fece
una ragione, concludendo che se il principio del divisionismo era uno, molte erano
le tecniche per tradurlo in immagini.
Della forza di volontà di Segantini non
dubitò chi lo vide eseguire “Alla stanga”,
una delle sue opere più famose del periodo realista e pre-divisionista. La stanga è
di quelle che si trovano nel terreno che
funge periodicamente da mercato del bestiame tra il comune di Caglio e quello di
Sormano, in Valassina. Per realizzare l’opera Segantini ha affittato una stanza a Caglio e assoldato tre uomini che ogni giorno per sei mesi gli portano sul prato la tela di 390 centimetri per 170 e la tendono
sul telaio. Ogni giorno la scena viene ricostruita, con un’unica modella professionista per la figura centrale. Quando si pensa alla pittura en plein air, si pensa a un
cavalletto e a un seggiolino pieghevoli, più
a un supporto che possa essere portato sotto al braccio.
Per sei mesi Segantini ha lasciato Pusiano, in Brianza. Vi si è trasferito con la famiglia per fuggire l’ambiente malsano di
via San Marco al 16, dove ha lo studio con
l’amico di una vita Emilio Longoni. Neera,
che con i figli e il marito, il banchiere Emilio Radius, abita in via Borgospesso, scrive: “Il primo studio lo aperse in via San
Marco, lungo quel soleggiato e pur così tenebroso (il Tombon, secondo la dizione popolare, il fognone, secondo il dizionario di
Cletto Arrighi) dove echeggiano spesso fosche tragedie”. Ma nello studio di via San
Marco Giovanni ha dipinto la “Falconiera”,
un ritratto storicistico di cui si potrebbe tacere, se a posare non fosse stata la Bice, la
Luigia, la sorella diciassettenne di Carlo
Bugatti, già stipettaio e futuro massimo
rappresentante dell’art nouveau italiano.
La Bice, di cui abbiamo un ritratto più leggibile di mano di Emilio Longoni (“Maternità”, 1882) mentre allatta il piccolo Gottardo, darà a Giovanni quattro figli e sarà la
sua compagna di una vita. Se non si sposeranno sarà per la condizione di apolide di
Giovanni, ma soprattutto perché tra coloro
che non avevano contratti matrimoniali da
stipulare le coppie di fatto erano molto più
frequenti di quanto si tenda a pensare a oggi. Anche nella fedeltà alla Bice e nella
predilezione e la considerazione per la
donna, come la parte buona dell’umanità,
la femminista morbida e sentimentale Neera non può non vedere un tratto speciale
della personalità di Segantini.
di Sandro Fusina
T
Giovanni Segantini, “Costume grigionese (ritratto di Barbara Huffer)”, 1887 (St. Moritz, Museo Segantini, deposito della Fondazione Otto Fischbacher - Giovanni Segantini)
te ciascuno ha messo del suo: tra i due c’è
un nutrito scambio epistolare, anche se
per ragioni di curriculum scolastico il pittore sembra usare il pennino più agevolmente per disegnare che per scrivere.
Così come la disegna Neera, l’infanzia di
Segantini rispetta troppo il canone di un
sottogenere letterario in quel momento
Nel 1896 è impegnato in un
progetto colossale: tre immense
tele, il “Trittico delle Alpi”, per
l’Esposizione universale di Parigi
molto in voga. Di origine tanto francese
quanto tedesca, quello dell’infanzia dei
grandi uomini è uno dei motivi preferiti
nella letteratura destinata alla gioventù,
soprattutto nella forma di libro premio per
meriti scolastici.
Non c’è bisogno di dire che più l’infanzia è svantaggiata, più grande è il merito
del personaggio che ha saputo eccellere.
Se in quegli anni gli esempi più prestigiosi vengono dagli esploratori, soprattutto
nell’Africa nera e nelle terre polari, e dagli scienziati, in particolare i biologi e i
medici che si sono dedicati a combattere
qualche terribile morbo , anche certi artisti, quelli posati, non scapigliati, non bohémien, godono di buona stampa.
Dell’uomo di successo di fine Ottocento,
in cui ancor più del talento vale il carattere, in contrasto con il genio e sregolatezza
degli artisti romantici e dei loro epigoni,
Segantini ha la perfetta fisionomia. Forse
non scrive molto bene, ma ha le idee chiare, soprattutto nella sua ricerca di un’arte
più pura, capace di rendere con i colori le
vibrazioni di luce che sono la vera realtà
della natura contro l’opacità della materia. Ma questa sua eccellenza professionale non è che un particolare della sua personalità. Soprattutto agli occhi di Neera.
L’arte di raggiungere il successo partendo
da una posizione sociale svantaggiata Neera la conosce bene, perché l’ha praticata
in prima persona. Sa che l’impresa è tanto più meritevole, tanto più encomiabile,
quanto più dura, disperata è la partenza.
La perdita della madre sarebbe la cosa
più grave che può capitare a un bambino
ormai in grado di ricordare, se non ci fos-
se un padre che lo porta via dal paese dove è nato per indicargli la strada per Parigi e affidarlo, prima di scomparire per
sempre, a una figlia avuta da un’altra donna, a una ragazza che da sempre deve lavorare per guadagnarsi il misero vitto e il miserrimo alloggio. Quello che allevia la miseria della storia è una indeterminatezza
mitologica, un padre che dissemina figli
per tutto l’arco alpino per poi emigrare secondo una lectio in America, del nord o del
sud non viene detto, secondo un’altra per
perdersi sulle strade del mondo, mentre
una terza, più definitiva e più consolatoria
allo stesse tempo, ne salva in parte la figura facendolo morire. La sorellastra sembra troppo presa dalle sue responsabilità
per mostrarsi, se non affettuosa, indulgente. Per impedire che le monellerie del piccolo Giovanni le guastino i rapporti con i
casigliani, lo rinchiude per giornate intere
nell’abbaino. Il bimbo fugge, non prima di
avere osservato nel corridoio su cui si
aprono gli usci degli abbaini un imbianchino decorare a spugnatura una parete e
avere scoperto nelle macchie informi tutto un campionario di figure cangianti. Nell’apprendistato remoto degli uomini famo-
si cenni di premonizione non sono indispensabili, ma neanche rari. A Neera Segantini racconta che la prima volta che
prese in mano una matita fu per ritrarre
una bambina morta come fosse viva, per
esaudire il desiderio della madre di tenere con sé la figlia. Erano gli anni in cui i fotografi agghindavano e atteggiavano i ca-
Racconta a Neera che la prima
volta che prese in mano una
matita fu per ritrarre una
bambina morta come fosse viva
daveri per un ultimo ritratto che spesso
era anche il primo della loro esistenza. La
compassione all’origine della vocazione è
un tratto che per Neera non guasta nella
fisionomia di un grande artista. Ma è il carattere, la volontà il tratto che più è apprezzato, a destra e a sinistra dello spettro politico nell’Italia unitaria.
Quando nel 1865 con il titolo “Chi si aiuta Dio l’aiuta” venne pubblicato in Italia
“Self Help”, dello scozzese Samuel Smiles,
Segantini, “Le due madri”, 1889 (Milano, Galleria d’arte moderna). Le due opere di questa pagina fanno parte della mostra allestita a Palazzo Reale, a Milano, fino al 18 gennaio. Catalogo Skira