REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale monocratica, di Bari, nella Terza persona Sezione del Civile, dott. in Francesco composizione Agnino, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 8180/2006 R.G.A.C. vertente TRA C. A., elettivamente domiciliato in Bari, alla via D., presso lo Studio dell'avv. … che la rappresenta e difende in giudizio giusta procura a margine dell'atto di citazione; -ATTRICEE XXX Spa, in persona del legale rappresentante in carica, elettivamente domiciliata in Bari al Corso C., presso lo studio dell'Avv. … che la rappresenta e difende giusta procura a margine della comparsa di costituzione e risposta; -CONVENUTANonché WWW Assicurazioni Spa, in persona del legale rappresentante in carica, elettivamente domiciliata in Bari alla via P., presso lo studio dell'Avv. … che la rappresenta e difende giusta procura sulla copia dell'atto di citazione - TERZA CHIAMATA Oggetto: responsabilità professionale Conclusioni delle parti: come da separato verbale di udienza del 21 novembre 2013 Fatto e diritto Sulla base della documentazione agli atti, la vicenda oggetto di causa può essere ricostruita come segue. Nel gennaio 2003, l'attrice iniziò a soffrire di ripetuti dolori toracici associati a dispnea, che la costrinsero il 27 gennaio 2003 a recarsi presso il pronto soccorso dell'Ospedale YY di Taranto ove e a seguito degli esami ematochimici e strumentali cui fu sottoposta le venne diagnosticata angina instabile, con indicazione di coronarografia. Al fine di effettuare l'esame de quo, il 12 febbraio 2003 fu ricoverata presso il reparto di cardiologia della Casa di Cura XX, ma l'esame suddetto non le fu effettuato attesa la diagnosi di adenoma tossico in gozzo tiroideo multinodulare in fase di ipertiroidismo subclinico (v. certificazione a firma del dott. M.) e dimessa il successivo 15 febbraio. Successivamente alle dimissioni iniziò ad avvertire violenti dolori toracici che la costrinsero a recarsi presso l'ospedale YY ove le venne diagnosticata cardiopatia ipertensiva ed ischemica. Infarto miocardio acuto non Q, complicato ad edema polmonare acuto all'esordio e da angina post-infartuale. A seguito di tali fatti, e ritenendo che il quadro infartuale che la colpì sia da ascrivere a comportamento colposo della convenuta, concretatosi nell'omessa tempestiva effettuazione della coronarografia, l'attrice ha proposto il presente giudizio, al fine di ottenere la condanna della società convenuta al risarcimento di tutti i danni subiti. Alla pretesa attorea ha replicato la convenuta chiedendo il rigetto della domanda perché infondata in fatto ed in diritto. Il contraddittorio era integrato dalla WWW Assicurazioni chiamata in causa su domanda della convenuta che eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva, nel merito chiedeva si associava alle difesa della XX, chiedendo il rigetto della domanda perché infondata in fatto ed in diritto. La causa era istruita con l'espletamento di una consulenza medico-legale, ed alla udienza del 21 novembre 2013, dopo la precisazione delle conclusioni ad opera delle parti, era introitata a sentenza previa concessione dei termini di cui all'art. 190, comma I, c.p.c.. Così delimitata - in sintesi - la materia del contendere, osserva il giudicante che la domanda di parte attrice è fondata e deve essere accolta nei limiti che saranno indicati appresso. All'uopo è necessario richiamare i principi giurisprudenziali elaborati in subiecta materia. A riguardo si osserva che l'art. 3, comma 1, d.l. 158/2012, conv. dalla l. 189/2012, cosiddetto "decreto Balduzzi" non impone alcun ripensamento dell'attuale inquadramento contrattuale della responsabilità sanitaria, ma si limita (nel primo periodo) a determinare un'esimente in ambito penale (i cui contorni risultano ancora tutti da definire), facendo salvo (nel secondo periodo) l'obbligo risarcitorio e sottolineando (nel terzo periodo) la rilevanza delle linee-guida e delle buone pratiche nel concreto accertamento della responsabilità (con portata sostanzialmente ricognitiva degli attuali orientamenti giurisprudenziali). Ritenuto, pertanto, che anche nel caso in esame (concernente un'ipotesi di responsabilità di una struttura sanitaria privata per il pregiudizio che si assume conseguito a condotta colposa dei sanitari della struttura sanitaria per la mancata effettuazione tempestiva di esami strumentali) debbano applicarsi i criteri propri della responsabilità contrattuale (cfr. Cassazione, Sezioni Unite n. 577/2008) Al riguardo, la Suprema Corte ha costantemente configurato la responsabilità dell'ente ospedaliero (pubblico o privato che sia) come di natura contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale ovvero di un intervento chirurgico, comporta la conclusione di un contratto (cfr., Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141; Cass. 8 marzo 1979, n. 1716; Cass. 1 marzo 1988, n. 2144; Cass. 4 agosto 1988, n. 6707; Cass. 27 maggio 1993, n. 5939; Cass. 11.4. 1995, n. 4152; Cass. 27 luglio 1998, n. 7336; Cass. 2 dicembre 1998, n. 12233; Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in motiv.; Cass. 1 settembre 1999, n. 9198; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; Cass. 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316, in motiv; Cass. 4 marzo 2004, n. 4400; Cass. 14 luglio 2004, n. 13066; Cass. 23 settembre 2004, n. 19133; Cass. 2 febbraio 2005, n. 2042; Cass. 18 aprile 2005, n. 7997; Cass. 11 novembre 2005, n. 22894; Cass. 24.5.2006, n. 12362). Si tratta, in particolare: a) di un contratto atipico, con effetti protettivi nei confronti del terzo, che fa sorgere a carico dell'ente ospedaliero (o della casa di cura privata), accanto ad obblighi lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, di quello paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni (cfr., sostanzialmente in tal senso Cass. SS.UU. 1.7.2002, n. 9556); b) di un contratto a prestazioni corrispettive in quanto fa sorgere anche l'obbligazione di versare il corrispettivo per la prestazione resa dalla struttura sanitaria (pubblica o privata), restando irrilevante che questa obbligazione sia estinta dal paziente, dal suo assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente. La responsabilità contrattuale di tale struttura nei confronti del paziente può dunque derivare, a norma dell'art. 1218 c.c., sia dall'inadempimento di quelle obbligazioni che sono direttamente a carico dell'ente debitore, sia, a norma dell'art. 1228 c.c., dall'inadempimento della prestazione medico - professionale svolta direttamente dal sanitario, che assume la veste di ausiliario necessario del debitore. E' poi irrilevante stabilire, nella fattispecie che ci occupa, se detta responsabilità sia conseguenza dell'applicazione dell'art. 1228 c.c., per cui il debitore della prestazione che si sia avvalso dell'opera di ausiliari risponde anche dei fatti dolosi o colposi di questi, ovvero del principio di immedesimazione organica, per cui l'operato del personale dipendente di qualsiasi ente pubblico o privato ed inserito nell'organizzazione del servizio determina la responsabilità diretta dell'ente medesimo, essendo attribuibile all'ente stesso l'attività del suo personale (cfr. Cass. Civ. n. 9269/1997 e Cass. Civ. n. 10719/2000). Infatti, ciò che rileva, in questa sede, è che l'ente ospedaliero risponde direttamente della negligenza ed imperizia dei propri dipendenti nell'ambito delle prestazioni sanitarie effettuate al paziente: in altri termini, l'ente ospedaliero è contrattualmente responsabile se il suo medico è almeno in colpa, applicandosi il corrispondente regime dell'onere probatorio. L'affermata natura contrattuale della responsabilità della casa di cura, del resto, non ha mancato, proprio in epoca assai recente, di trovare il conforto delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione, le quali con la ormai notissima sentenza dell'11 gennaio 2008, n. 577 hanno prestato sostanziale adesione a tale opzione ermeneutica, affermando che, per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria (cfr., nello stesso senso Cass. 25.2.2005, n. 4058). Le principali ricadute della acclarata natura contrattuale della responsabilità medica si manifestano, indubbiamente, sotto il profilo della ripartizione dell'onere della prova tra le parti in causa. Anche con riferimento all'onere probatorio, appare decisivo il già citato arresto delle Sezioni Unite n. 577/2008, avendo con tale decisione il supremo consesso della Corte di nomofilachia, in parte confermato ed in parte corretto il precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità. Coerentemente alla affermata natura della responsabilità, sono state ribadite le regole in materia fissate dalla nota sentenza, sempre delle Sezioni Unite, n. 13533/2001, la quale ha riveduto il criterio che distingueva in proposito tra inadempimento assoluto ed inadempimento relativo. Secondo le regole fissate in tale sentenza il creditore deve provare la fonte legale o negoziale del suo diritto ed allegare l'inadempimento del debitore; il debitore convenuto, per parte sua, deve dare la prova del fatto estintivo costituito dall'avvenuto esatto adempimento. Pertanto, avuto riguardo al profilo dell'onere della prova, il paziente che agisce in giudizio deve, anche quando deduce l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria, provare il contratto e allegare l'inadempimento del sanitario. Non anche la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità (da ultimo v. Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 21/6/2004, n. 11488). Sotto altro aspetto, nell'odierna fattispecie rileva altresì l'accertamento del nesso di causalità. All'uopo occorre distinguere tra causalità materiale che avvince il fatto doloso o colposo ed il danno-evento, e causalità giuridica che lega il danno evento e il danno conseguenza, cioè il danno risarcibile. La disciplina dei due nessi di causalità è regolata da norme diverse che saranno di seguito meglio evidenziate. Il nesso di causalità materiale non è disciplinato dal codice civile, di modo che occorre guardare all'articolo 40 c.p., il quale prevede che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Bisogna fare riferimento alla celebre sentenza Franzese (Cass. sez. un. 10 luglio/11 settembre 2002 n. 30328), che ha condotto la giurisprudenza ad approdi al momento certi. La verifica della causalità, constata l'arresto citato, postula il ricorso al "giudizio controfattuale", articolato sul condizionale congiuntivo "se ... allora ..." (nella forma di un periodo ipotetico dell'irrealtà, in cui il fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale "doppia formula", nel senso che: la condotta umana "è" condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l'evento non si sarebbe verificato; la condotta umana "non è" condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l'evento si sarebbe egualmente verificato. Ciò osservato, è tuttavia evidente che, in tanto può affermarsi che, operata l'eliminazione mentale dell'antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, "già da prima", che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento. Perché ciò sia possibile, quindi per spiegare l'evento hic et nunc verificatosi, occorre fare ricorso all'esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero alla sussunzione del singolo evento, opportunamente ri-descritto nelle sue modalità tipiche e ripetibili, sotto "leggi scientifiche" esplicative dei fenomeni. Quindi, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica - detta "legge di copertura" -, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi "del tipo" di quello verificatosi in concreto. Occorre però osservare che il sapere scientifico è costituito sia dalle c.d. leggi universali, per cui ad un determinato fatto accede sempre un certo determinato evento, sia dalle c.d. leggi statistiche, le quali invece si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa. Tali ultime leggi (ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica) sono tanto più dotate di "alto grado di credibilità razionale" o "probabilità logica", quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente controllabili. Peraltro, per accertare l'esistenza della condizione necessaria secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, spesso il giudice, dopo avere ri-descritto il singolo evento nelle modalità tipiche e ripetibili dell'accadimento lesivo, deve necessariamente ricorrere ad una serie di "assunzioni tacite" e presupporre come presenti determinate "condizioni iniziali", non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, fermi restando gli ulteriori elementi, mantiene validità l'impiego della legge stessa. Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide assicura che il giudizio controfattuale, che potrebbe essere insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, rimanga ancorato a parametri oggettivi. La giurisprudenza si è poi interrogata sul grado di probabilità richiesta affinché possa essere ritenuta, sotto l'egida di una legge statistica, un nesso causale tra un determinato evento o comportamento e il danno. Gli approdi finali a cui, dopo lungo confronto, è giunta la giurisprudenza penalistica sono i seguenti: "non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso della legge statistica, la conferma o meno dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale e probabilità logica. L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio" (Cass. sez. un. 10 luglio/11 settembre 2002 n. 30328, cit.). Una volta assodato il modus operandi della causalità penale, è d'uopo domandarsi se la causalità civile segua gli stessi canoni, ossia se anche ai fini civili non sia sufficiente la mera possibilità o il mero aumento del rischio, ma sia necessaria la prova vicina alla certezza, sia pure logica e non più meramente statistica (si parla di elevata attendibilità razionale e logica), o se viceversa la causalità civile segua logiche diverse. È noto come, storicamente, nella verifica del collegamento causale tra condotta ed evento lesivo nei processi per responsabilità sanitaria, l'atteggiamento valutativo della Cassazione civile (come è noto sorretto dal dichiarato intento di protezione del paziente, quale soggetto più debole - in quanto "più distante dalla prova" - nella relazione di cura), da un lato, non sia stato contrassegnato da assoluta chiarezza e linearità circa i rapporti con gli approdi correlativi (di garanzia) - ad un tempo, singolarmente, evocati e disattesi - della giurisprudenza penale, dall'altro, abbia quasi sempre prodotto soluzioni ricostruttive poco convincenti, in quanto non dimostrative, in termini sufficientemente persuasivi, della effettiva ricorrenza del nesso di derivazione. A tale stregua, si è generalmente ritenuto risultato probatorio appagante il riscontro di genericamente "serie ed apprezzabili probabilità di successo" dell'intervento medico omesso, ovvero la mera "ragionevole possibilità" della lesività della condotta del sanitario, come anche la sola astratta "idoneità" causativa di danno della medesima, o la "probabilità scientifica" dell'ipotesi di correlazione, quand'anche non integrata da elementi di conferma tratti dal caso concreto: secondo una linea interpretativa che, palesemente attestata sulla soglia di una causalità "potenziale" o "in generale", davvero affidava a basi poco solide, per non dire evanescenti, la (pur indeclinabile) prova "particolaristica" del rapporto causale, ossia la sua dimostrazione nella individualità del concreto caso processuale, avuto riguardo a tutte le circostanze del medesimo (Cass. 13 settembre 2000 n. 12103; Cass. 3 dicembre 2002 n. 17152; Cass. 23 settembre 2004 n. 4400; Cass. 18 aprile 2005 n. 7997; Cass. 31 maggio 2005 n. 11609; Cass. 19 maggio 2006 n. 11755). Secondo una parte della giurisprudenza, la causalità civile sarebbe autonoma rispetto alla causalità penale, e ciò per almeno tre ordini di ragioni. La prima ragione concerne la diversa funzione del sistema sanzionatorio penale rispetto a quello della responsabilità civile contrattuale ed aquiliana: il sistema penale ha una funzione sanzionatoria che infligge sanzioni privative della libertà personale che si deve limitare solo se non c'è alcun dubbio sulla colpevolezza in base ai principi costituzionali sulla personalità della responsabilità, sulla funzione rieducativa della pena, sulla presunzione di innocenza, nonché anche nell'ottica codicistica posto che il codice penale con la nuova lettura degli artt. 42 e 43 c.p. ha eliminato le presunzioni di colpa eliminando così le forme di responsabilità oggettiva. Il sistema della responsabilità civile ha diversamente una funzione riparatoria dal punto di vista del soggetto che subisce il danno, sicché questa logica che non è sanzionatoria non può essere impostata in termini di certezza. In secondo luogo, il codice civile, diversamente da quello penale, non esclude forme di responsabilità oggettiva e di presunzione di responsabilità; infatti, l'esigenza di tutela del danneggiato fa sì che accanto al criterio della colpa si prevedano delle forme di presunzione di colpa o di responsabilità oggettiva, anche sotto forma di presunzione di causalità, nel senso cioè che il danneggiato non deve provare né la colpa, né la causalità, bensì deve solo dedurre di aver subito un danno come conseguenza di una fattispecie che il codice oggettivamente imputa al danneggiante (si vedano le norme sulla responsabilità per danno da cose in custodia o per attività pericolose). La terza ragione attiene alla diversità dei beni tutelati: il codice penale imperniato su un sistema basato sulla tassatività prevede reati che prevedono la lesione di beni predeterminati; viceversa, nel campo civile vi è un sistema della responsabilità aquiliana più elastico anche sul piano dei beni e degli interessi tutelati, come dimostra la flessibilità del concetto di ingiustizia fissato dall'art. 2043 c.c. È dimostrato che le diverse esigenze di politica legislativa che sono alla base dei due sistemi, quello della responsabilità penale e quello della responsabilità civile, impongono di riconoscere che il modello di causalità disegnato dalle sezioni unite penali mal si attaglia a fungere da criterio valido anche in sede di accertamento della responsabilità civile da illecito omissivo del sanitario: nel diritto penale campeggia la figura dell'autore del fatto ed il principio della tipicità dell'illecito, nel diritto civile la figura del danneggiato ed il problema della allocazione del costo anche sociale del danno. È così rifiutato come criterio di riconoscimento del nesso causale quello dell'alto grado di credibilità razionale, in favore del criterio del più probabile che non. Criterio, questo, destinato ad operare nel campo del mancato raggiungimento del risultato atteso, non in quello della perdita di chance, cioè del sacrificio della stessa possibilità di conseguire il risultato, possibilità questa intesa come bene attuale, autonomo e diverso da quello della salute. Danno quest'ultimo che dunque sussiste, è da considerare provocato dal comportamento colposo ed è esso risarcibile, nella stessa misura della possibilità che il comportamento virtuoso avrebbe avuto di portare ad un esito diverso. Sul punto, la Suprema Corte si è pronunciata a Sezione Unite (Cass., sez. un. 11 gennaio 2008 nn. 576-585) su alcune questioni inerenti alla responsabilità civile del medico per danni cagionati a pazienti nell'esercizio della propria attività ponendo alcuni punti fermi sulla questione. L'elaborazione penalistica sul nesso di causalità, infatti, si può anche applicare nel giudizio civile. Secondo tale orientamento giurisprudenziale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria in quanto nel primo vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio, mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del più probabile che non, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti. La Suprema Corte mostra di prendere vigorosamente le distanze dal paradigma giustificativo impiegato nei propri precedenti, allorché - ad esempio - quasi ammonisce che (pur orbitando la responsabilità civile intorno alla figura del danneggiato) la corretta individuazione di un responsabile sia sempre e comunque necessaria anche nell'illecito civile: "un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un'assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio"; siccome quando aggiunge che, quale che sia il criterio di imputazione soggettiva del danno (e dunque anche se indipendente dalla colpa ed operante in via oggettiva), esso (criterio) non fornisce indicazioni proprie ed autonome circa l'accertamento del nesso causale, sicché un tale nesso deve essere pur sempre riscontrato tra la condotta del responsabile (in ipotesi di responsabilità colposa) o la condotta di altri (ad esempio, art. 2049 c.c.) o i fatti considerati dalla specifica norma (cfr. artt. 2051, 2052, 2054 comma 4 c.c.), collocati all'inizio della serie causale. Fondamentali e finalmente chiarificatori appaiono i principi di diritto dettati: --a) non esiste una teoria della causalità autonoma per il diritto civile, ma, anche per quest'ultimo, la matrice normativa della causalità riposa negli artt. 40 e 41 c.p., che fissano la regola della condizione necessaria (e cioè dell'equivalenza causale), temperata dall'intervento interruttivo dei fattori sopravvenuti di cui al cpv. dell'art. 41 c.p. (per il vero, a tale indiscutibile enunciato si fa anche seguire il richiamo, quale criterio effettivamente applicabile, alla teoria della cd. causalità adeguata alias della "regolarità causale", a garanzia della non imputazione delle conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili della condotta, ma unicamente di quelle prevedibili nel momento della condotta e dunque ex ante: teoria, per come è noto, in realtà assai censurata in dottrina e poco condivisa nella giurisprudenza); --b) in particolare, in caso di omissione, il criterio metodologico di verifica consiste nel giudizio controfattuale di tipo prognostico- ipotetico, secondo il medesimo protocollo di indagine applicato in sede penale; --c) ciò che diverge, tra processo penale e processo civile, è la regola probatoria, "in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio", mentre nel secondo la regola è quella della "preponderanza dell'evidenza" alias "del più probabile che non": essendo la diversità degli standard probatori la conseguenza della diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti; --d) il "probabile" probatoriamente rilevante è quello "logico" e non quello meramente "statistico", essendo la probabilità logica la risultante del necessario raffronto tra le leggi (scientifiche) statistiche e tutte le circostanze del caso concreto, e questo anche allo scopo di escludere l'intervento di fattori causali alternativi; a tale stregua, l'attendibilità di una ipotesi ricostruttiva deve essere vagliata sulla base degli elementi di conferma che riceve nel processo. Il criterio del "più probabile che non" si configura come un vero e proprio principio di garanzia sul piano dell'accertamento giudiziale del fatto, di per sé inconciliabile con spiegazioni causali (le quali al fatto ineriscono) per così dire "deboli", ossia elaborate in astratto e non adeguatamente corroborate dagli elementi di prova disponibili. Ed infatti, la sua corretta applicazione processuale assicura un risultato dimostrativo oggettivamente credibile circa l'esistenza del nesso, non consentendo l'avallo di alcuna ipotesi ricostruttiva che, pur in sé plausibile ovvero più plausibile delle altre con cui si trovi a concorrere, risulti però intrinsecamente sprovvista di una qualificata attendibilità logica (che si collochi almeno al livello "minimo assoluto" precisato). In tale prospettiva, vengono a risultare sostanzialmente violative della reale essenza del criterio probatorio in discorso, e devono essere perciò disattese, letture giurisprudenziali genericamente attestate sulla unica giustificazione causale proponibile o su quella tra le altre apparentemente più dotata di probabilità di fondatezza, senza che ne sia stata vagliata la "precondizione" della intrinseca pregnanza dimostrativa secondo il parametro probabilistico (se non eccellente, di sicuro qualificato) più volte ribadito. Una rapida rassegna delle pronunce di legittimità successive alle Sezioni unite del gennaio 2008, evidenzia che - quantomeno - non sempre l'indagine causale conduce a risultati giustificativi persuasivi nella misura implicata dal parametro del "più probabile che non", e ciò quand'anche tale formula venga nelle decisioni formalmente enunciata a premessa dell'indicazione del regime della prova applicabile. A tale stregua, se la sentenza n. 13530 del 2009 si pone in linea con il nuovo e più probante criterio valutativo (la derivazione causale ricorre quando la si possa affermare "in base ad un criterio di elevata probabilità e non sia stato provato l'intervento di un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così accertata"), siccome fa - in termini ancor più fedeli - la pronuncia n. 23059 del 30 ottobre 2009 (ove si scrive che "il nesso di causalità può essere riconosciuto anche in base ad un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, che però deve essere "qualificata" da ulteriori elementi idonei a tradurre in certezze giuridiche le conclusioni astratte svolte in termini probabilistici"; non mancando di precisare che "in altri termini il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile, non già una mera possibilità astratta"), ed anche la sentenza n. 26893 del 2010 (della Sezione lavoro della Cassazione: nella quale, in tema di malattia ad eziologia multifattoriale, si afferma che "la prova del nesso causale non può consistere in semplici presunzioni desunte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma deve consistere nella concreta e specifica dimostrazione, quanto meno in via di probabilità, dell'idoneità dell'esposizione al rischio a causare l'evento morboso"), altre decisioni di legittimità, viceversa, rimangono ancorate a parametri probatori di verifica della causalità scarsamente rassicuranti. Ad esempio, Cass., sez. III, n. 10743 del 2009 continua unicamente ad enunciare un generico criterio di "ragionevole probabilità" ed indica come effettiva ratio decidendi il "vecchio" parametro delle "serie ed apprezzabilità probabilità di successo" dell'azione omessa, siccome fa, nei medesimi termini (occorre "la dimostrazione di una ragionevole probabilità di evitare il danno") Cass., sez. III, n. 10741 del 2009; né appare in linea con il protocollo di verifica dettato dalle più volte citate Sezioni unite, Cass., sez. III, n. 975 del 2009, che ricostruisce in maniera sostanzialmente presuntiva il nesso causale, ritenuto "implicato" in caso di insuccesso o di parziale insuccesso di un intervento chirurgico di routine dotato di elevate probabilità di esito favorevole. Ebbene, nel caso di specie sussiste il nesso di causalità tra la mancata tempestiva esecuzione della coronarografia ed il successivo infarto del miocardio subito dall'attrice. Deve rilevarsi come il ctu nella relazione depositata l'11 gennaio 2009 così si è espresso: l'esecuzione di tale esame diagnostico avrebbe comportato, come poi è stato effettuato nel secondo ricovero - nonostante sia incorso un edema polmonare ed un infarto miocardico - la concomitante esecuzione di una rivascolarizzazione angioplastica (su IVA ostruita al 90%) e, quindi, scongiurato l'evento infartuale. In particolare, il ctu ha ritenuto di poter imputare sotto il profilo della efficienza causale l'infarto del miocardio alla mancata sottoposizione all'esame contrasto grafico, tenuto conto che se effettuato tempestivamente si sarebbe proceduto alla rivascolarizzazione mediante angioplastica. Tali conclusioni - sulla efficienza causale - sono contraddette dal prof. Dell'Erba - consulente tecnico di parte convenuta - per il quale sussistevano due controindicazioni cliniche (endocrinologica e pneumologia) alla effettuazione dell'esame, giacché diversamente opinando si sarebbe esposta la paziente ad un rischio maggiore e non è assolutamente detto che avrebbe evitato l'insorgenza dell'infarto realizzatosi il 18 successivo. Invero, il ctu ha avuto modo di osservare - con motivazione piana e convincente - che in pazienti quali l'attrice affetti da adenoma tossico in gozzo tiroideo multinodulare in fase di ipotiroidismo subclinico, la possibilità che si manifesti una crisi tireotossica a seguito dell'utilizzo del mezzo di contrasto è stimata in Germania a 1:50.000 (v. p. 4 della relazione a firma del dr. C.). Ebbene tenuto conto del modesto numero di crisi tireotossica derivanti dall'uso di mdc, della esistenza di adeguati mezzi clinici idonee a contrastare efficace l'eventuale verificarsi della crisi stessa, sulla scorta della documentazione acquisita, l'adito Tribunale osserva che nel caso di specie il ritardo della diagnosi e degli interventi terapeutici più opportuni ha determinato l'insorgere di gravi complicanze, evitabili nel caso di una diagnosi tempestiva. Invero, il gozzo non è una controindicazione assoluta ma relativa da mettere in seconda linea dietro la possibilità di evitare alla paziente un infarto miocardico acuto- sulla cui evoluzione anche spesso funesta nessuno può avere previsioni - in relazione al peggioramento di uno stato tossico tiroideo (v. p. 32 della relazione del ctu). Peraltro, si osserva come lo stesso ctu rileva come gli elettrocardiogrammi effettuati presso la XX denotassero la manifestazione di una ischemia-lesione della parete anterosettale del ventricolo sinistro (l'ecg effettuato il 14.2.2003 evidenzia una lieve negatività dell'onda T in D1 e AVl), circostanza resa evidente altresì dalla curva di dosaggio della troponina che presentava valori in costante progressione (v. p. 33) In conclusione, il bilanciamento rischio/beneficio prepone nettamente a favore dell'esame coronarografico. In altri termini, alla luce dei dati riportati dalla letteratura scientifica (puntualmente indicati dal ctu) la probabilità che la C. non avrebbe subito l'infarto ove sottoposta tempestivamente all'esame coronarografico (con successiva rivascolarizzazione angioplastica) risulta essere statisticamente e scientificamente più importante e considerevole rispetto alla possibilità remota e altamente improbabile di crisi tiroidea per effetto dell'uso del mdc. Passando alla liquidazione dei danni, si osserva che il "danno biologico" incide sul valore umano in tutta la sua concreta dimensione, valore umano che non è riconducibile soltanto all'attitudine a produrre ricchezza, ma che è collegato alla somma delle funzioni naturali aventi "rilevanza biologica, culturale, sociale ed estetica", in tale nozione omnicomprensiva di danno sono inclusi anche il danno alla vita di relazione e il danno estetico, lo stesso danno da incapacità lavorativa, inteso come compromissione di uno degli aspetti fondamentali della persona umana, nonché le stesse invalidità, generica, permanente e temporanea, che senz'altro incidono sulla piena esplicazione della personalità dell'individuo. Per quanto attiene al danno morale soggettivo, che tradizionalmente veniva fatto coincidere con un pati, cioè con la sofferenza interiore per sua natura transeunte, occorre evidenziare come le recentissimamente Sezioni Unite della Cassazione - Cass.SS.UU. dell'11 novembre 2008, n.26972 - hanno ritenuto che, nell'ambito di una ricostruzione bipolare della responsabilità aquiliana, vada abbandonata l'autonoma categoria del danno morale e la sofferenza morale vada ricondotta nell'ambito della categoria generale del danno non patrimoniale (nell'ambito del quale è riconducibile altresì il danno biologico). Alla luce di tale osservazione, onde evitare una duplicazione di risarcimento attraverso la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale, quest'ultimo non va liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo, ma occorre procedere ad un'adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. La Suprema Corte, ha anche chiarito che nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri come reato (poiché la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato -lesioni colpose), è risarcibile il danno non patrimoniale sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo - Cass. 9556/2002), come sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerato, meritevole di tutela in base all'ordinamento. Allegati gli elementi costitutivi della responsabilità - fatto illecito in quanto si è in presenza di un fatto-reato - il ricorso alla prova presuntiva assume particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice (cfr. Cass. n. 9834/2002). Il danno biologico patito dall'attrice è stato stimato nella misura del 10-12%. La determinazione del danno biologico nella misura del 10-12% operata dal ctu è corretta, dal momento che la cardiopatia ischemica dell'attrice è riconducibile nella I classe con valutazione tra il 10% ed il 20%. Relativamente alla liquidazione dei danni così individuati, l'intestato Tribunale rinvia alle Tabelle di Milano, rispetto alle quali la Corte di Cassazione ha ritenuto che le stesse esprimano il valore da ritenersi "equo", e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l'entità (Cass., 7 giugno 2011, n. 12408; nonché Cass. 30 giugno 2011, n. 14402 che hanno aderito al principio di recente affermato: le Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all'integrità psicofisica del Tribunale di Milano costituiscono valido e necessario criterio di riferimento ai fini della liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., laddove la fattispecie concreta non presenti circostanze che richiedano la relativa variazione in aumento o in diminuzione). Pertanto, tenuto conto che al momento dei fatti la C. aveva 56 anni, deve liquidarsi a titolo di danno non patrimoniale la somma di euro 26.483,00 (riconoscendo la maggior percentuale di danno biologico per al 12%, tenuto conto del deficit cardiaco sofferto con conseguenti alterazioni funzionali). A tale somma deve aggiungersi quella pari ad euro 13.000,00 per l'i.t.a. (riconoscendo per ciascun giorno la somma equitativamente determinata di euro 100,00) Pertanto a titolo di danno biologico spetta all'attore la somma di euro 39.483,00 in valori attuali. Tali somme sono liquidate all'attualità. Su tali somme non può riconoscersi la rivalutazione monetaria poiché, come detto, la misura del risarcimento è già espressa in valori attuali. In favore dell'attore non possono essere riconosciuti gli interessi "compensativi" in quanto gli stessi non hanno allegato e provato un nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa della mancata, tempestiva disponibilità della somma dovuta a titolo di risarcimento. Sicché deve ritenersi che la somma rivalutata (cioè liquidata in moneta attuale) ricomprenda il danno causato dal ritardato pagamento dell'equivalente monetario (cfr. in proposito Cass. sez. 3 sent. 24 ottobre 2007 n. 22347, 25 agosto 2003 n. 12452, 28 luglio 2005 n.15823, 12 febbraio 2008 n.3268, 12 febbraio 2010 n. 3355). Quanto alle ulteriori voci di danno non patrimoniale invocate da parte attrice (e nominalisticamente individuate come danno esistenziale e danno morale) deve precisarsi quanto appresso. Il danno, anche in caso di lesione di valori della persona, non può considerarsi in re ipsa, in quanto ne risulterebbe snaturata la funzione del risarcimento che verrebbe ad essere concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno bensì quale pena privata per un comportamento lesivo (così Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26975), ma va provato dal danneggiato secondo la regola generale ex art. 2697 c.c. A tale stregua, (pure) il danno non patrimoniale va dunque sempre allegato e provato, in quanto, come osservato anche in dottrina, l'onere della prova non dipende invero dalla relativa qualificazione in termini di "danno-conseguenza", tutti i danni extracontrattuali dovendo essere provati da chi ne pretende il risarcimento, e pertanto anche il danno non patrimoniale nei suoi vari aspetti, e la prova può essere data con ogni mezzo (v., in particolare, successivamente alle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, Cass., 5 ottobre 2009, n. 21223; Cass., 13 maggio 2011, n. 10527; Cass., 22 luglio 2009, n. 17101; Cass., 1° luglio 2009, n. 15405). Ebbene, nel caso di specie parte attrice non ha allegato, neppur attraverso il ricorso a presunzioni, sofferenze e patemi ulteriori, né ha allegato circostanze dirette a dimostrare il cambiamento delle proprie abitudini di vita. La WWW Assicurazioni, in ragione del rapporto assicurativo, è tenuta a rifondere alla XXX Spa - nei limiti dell'80%, tenuto conto del rapporto di coassicurazione con … - tutte le somme che quest'ultima dovesse trovarsi a pagare in favore di C. A. quale conseguenza della presente sentenza. L'eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dalla terza chiamata è infondata atteso che l'art. 1 della contratto di assicurazione (oggetto dell'assicurato) prevedeva l'obbligo assicurativo per i danni conseguenti all'attività esercitata dalla Casa di Cura, id est evidentemente medica, a prescindere dalla circostanza che il professionista fosse lagato e meno da un rapporto di dipendenza con la Casa di Cura stessa (tale circostanza non è affatto contemplata). Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Tribunale di Bari, sez. III civile, definitivamente pronunciando, ogni contraria domanda ed eccezione disattesa: dichiara la responsabilità contrattuale della XXX Spa, in persona del legale rappresentante in carica, nella causazione dell'evento dannoso che ha colpito l'attrice; condanna la XXX Spa, in persona del legale rappresentante in carica, al risarcimento in favore di C. A. del danno biologico che si liquida nella somma di euro 39.483,00 in moneta attuale, oltre interessi dalla presente sentenza all'effettivo pagamento; condanna la WWW Assicurazioni Spa, in persona del legale rappresentante in carica, alla rifusione, in favore della XXX Spa, in persona del legale rappresentante in carica, nei limiti dell'80%, di tutte le somme che quest'ultima dovesse trovarsi a pagare in favore di C. A. quale conseguenza della presente sentenza; condanna la XXX Spa, in persona del legale rappresentante in carica, e la WWW Assicurazioni Spa, in persona del legale rappresentante in carica, alla refusione in favore dell'attrice delle spese e competenze professionali che liquida in euro 4670,00 oltre iva e cpa come per legge, da liquidare in favore dell'Avv. ... dichiarato antistatario; pone a carico delle parti convenute in solido, le spese di ctu - liquidate con separato decreto, con diritto di C. A. a ripetere quanto eventualmente già pagato. Bari 14 febbraio 2014 Il giudice Dott. Francesco Agnino
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