LETTERA AI GALATI

DABAR - LOGOS - PAROLA
Lectio divina popolare
LETTERA
AI GALATI
Introduzione e commento di
STEFANO ROMANELLO
A
EDIZIONI
.. MESSAGGERO
PADOVA
LA LETTERA AI GALATI:
UNA LETTERA AVVINCENTE
Introduzione
Imprimatur
Padova, 6 dicembre 2004
Danilo Serena, Vie. Ceno
ISBN 88-250-1339-6
Copyright © 2005 by P.P.F.M.C.
MESSAGGERO DI SANT'ANTONIO - EDITRICE
Basilica del Santo - Via Orto Botanico, Il - 35123 Padova
www.edizionimessaggero.it
Non v'è dubbio che uno dei personaggi maggiormente influenti nella storia del primo cristianesimo
sia stato l'apostolo Paolo. La sua vicenda di zelante
ebreo, dapprima persecutore di coloro che, aderendo
alla fede in Cristo, si rapportavano con libertà alla
Legge giudaica, poi incontrato da quello stesso Cristo e divenuto di conseguenza suo apostolo e testimone, continua a suscitare interesse e fascino per le
persone di ogni tempo. La sua attività missionaria,
comportante un raggio d'azione senza paragoni per
quel tempo, lo ha portato a contatto con la cultura
ellenistica, per alcuni aspetti ben diversa dalle tradizioni ebraiche in cui era formato, e a fondare in tali
ambienti delle comunità di credenti in Cristo. Quali
tratti ha assunto questa sua evangelizzazione inculturata? Si deve poi tener presente che mai egli, in tutto
questo percorso, ha rinnegato la fede dei suoi padri,
pur rifiutando senza compromessi un'obbedienza assoluta a quella Legge cui invece aveva dapprima prestato assenso incondizionato. Quale rapporto, allora,
tra questa nuova identità di apostolo e la sua fede nel
Dio di Israele?
Le lettere che egli ha scritto ad alcune delle sue
comunità, e che sono state preservate e raccolte all'interno del canone, offrono uno spaccato delle convinzioni e delle vicissitudini sperimentate da Paolo,
permettendo anche al lettore odierno di entrare in
5
L'esordio e lo perorazione
odierna, occupata in ben altre problematiche. Tuttavia Paolo, rapportando questa questione ai dati fondamentali della fede in Cristo, ne rivela la sua perenne attualità. Si tratta, infatti, di ripensare al significato della persona di Cristo e della fede in lui nella
nostra esistenza. Non solamente di un riconoscimento teorico della figura di Cristo, ma di un riconoscimento delle sue ricadute esistenziali. Nelle chiese galate nessuno poneva in discussione la professione di
fede in Cristo, ma svalutava il suo ruolo di mediatore
unico del Padre ricercando un rapporto con Dio (anche) su altre basi. La Letter:a ai Galati mira così, innanzitutto, a ristabilire la centralità di Cristo per l'esistenza dei suoi primi destinatari e per i suoi lettori
di ogni tempo, noi inclusi. Ancora: di un Cristo che
si rivela nello scandalo di una croce, segno di impotenza, contestazione radicale alle pretese di autoaffermazione sugli altri. Essa, quindi, invita a interrogarmi su quanto Cristo sia effettivamente centrale nella
mia vita, nei miei sistemi di valori, nelle scelte che
quotidianamente sono chiamato a compiere. Se la
sua scelta di dono è sorgente per me di momenti di
gratuità, di perdono, di non-violenza. Ma la lettera
non ha l'obbiettivo di avvilirci con fredde autoanalisi
sulle nostre inadeguatezze, né di accentuare un volontarismo etico. Al contrario, invita a scoprire l'opera di Cristo per l'umanità, a cogliere quanto possa
essere liberante. Per questo il suo annuncio è un «lieto annuncio (vangelo)>>, che deve assolutamente risuonare nella chiesa in tutta la sua purezza, fatto da
cui Paolo non intende assolutamente recedere. Con
questo ci invita a capire, in fondo, se decidiamo della
vita fidandoci di Cristo e della sua Parola, o se vi sono degli spazi che vorremmo tenere estranei da Cristo e dalla sua opera.
38
LA TESI E L'INIZIO
DELL'ARGOMENAZIONE:
LA VOCAZIONE
DELL'APOSTOLO PAOLO
Galati 1,11-12.13-20
Il Vi faccio sapere, fratelli, che il Vangelo da me annunziato non segue un modello umano; 12 infatti io non
l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
13 Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: persepuitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, l superando nel
giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri.
15 Ma quando colui, che mi ha scelto fin dal seno di mia
madre e mi ha chiamato con la sua grazia, si compiacque
16 di rivelare in me suo Figlio perché lo annunziassi in
mezzo ai pagani, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, 17 senza andare a Gerusalemme da coloro che erano
apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a
Damasco.
18 In seguito, tre anni dopo, andai a Gerusalemme per
conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; 19 degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. 20 In ciò che vi scrivo - lo dico davanti a
Dio - non mentisco.
LETTURA
L'enunciato dal tono solenne di Gal 1,11-12 funge, a detta di molti commentatori, da enunciato tematico di buona parte dell'argomentazione della let39
Lo tesi e l'inizio dell'argomentazione
tera, come una sorta di tesi (propositio) che verrà da
questa suffragata. Continuando il tenore dell'esordio, Paolo pone al centro dell'attenzione dei suoi interlocutori non la scelta concreta della circoncisione,
ma il vangelo da lui già a loro annunciato. Si potrebbe
pensare che tale scelta sia dovuta alla necessità di rispondere ad accuse di suoi oppositori sulla legittimità
del suo annuncio evangelico, ma non c'è nulla, nelle
righe scritte da Paolo, che faccia trapelare una motivazione di questo genere. Piuttosto tale scelta rivela l'intenzione di porre il dibattito sulla circoncisione all'interno delle sue implicazioni teologiche, le quali chiamano in gioco l'annuncio del Cristo morto e risorto e
la valenza a esso riconosciuta. Questo sarà confermato
dallo svolgersi dell'argomentazione di tutta la lettera:
la funzione di un enunciato tematico va verificata, infatti, nelle righe che servono a suffragarlo.
Ora, proprio queste righe presentano un elemento
di sorpresa. In esse, infatti, Paolo non chiarisce da
subito i contenuti del vangelo, ma parla della propria
relazione con esso. Egli, cioè, narra di come sia divenuto credente, e come questo abbia comportato un
suo impegno all'apostolato. Un impegno caratterizzato da una dedizione senza riserve e compromessi,
da un'adesione totale. I galati saranno chiamati a
confrontarsi con questa sua adesione, riconoscendo
che essi stanno invece cedendo a compromessi insensati (2,15-18). Se già l'esordio presentava elementi
dell'elogio di sé, la prima parte dell'argomentazione
prosegue precisamente su tali registri, narrando a
questo scopo alcuni avvenimenti del passato di Paolo. Possiamo così definire Gal 1,13-2,14 come «argomentazione autobiografica».
Letterariamente, il brano qui esaminato è caratterizzato dalla figura dell' antitesi, ricavata attraverso il
gioco di negazioni e opposizioni evidenziate nel testo
(non... né... ma... ; il testo greco ne è ancora più ric40
Galati 1,11-12./3-20
co). Paolo ottiene così uno stile vivace, caratteristico
di molte parti della lettera, in cui le affermazioni sono enfatizzate anche attraverso la negazione dei possibili loro contrari.
INTERPRETAZIONE
Una premessa implicita collega il v. Il con il precedente. Lì, infatti, Paolo aveva dichiarato che, se
avesse cercato di piacere agli uomini, non sarebbe
stato servitore di Cristo. Ma - ecco il collegamento
implicito - egli non cerca il consenso degli uomini:
infatti il vangelo da lui annunciato «non segue un
modello umano». Tale espressione è di un tenore generale, serve a esprimere l'indole globale del vangelo,
ed è solamente parzialmente precisata al verso successivo con una dichiarazione a riguardo della sua
origine. Da notare la stranezza della locuzione iniziale, che letteralmente suona «vi faccio sapere il vangelo», in quanto indirizzata a uditori che dovrebbero
già essere a conoscenza di ciò che viene loro detto,
dal momento che il vangelo lo hanno ricevuto proprio da Paolo! Qui, al pari di 1Cor 15,1, è possibile
scorgere un certo ricorso all'ironia, che evidenzia come i galati si trovino nella necessità di essere ri-evangelizzati, di riconfrontarsi con l'annuncio evangelico
basilare che a loro è stato già rivolto. L'enfasi sul vangelo è poi accentuata con due espedienti letterari,
l'anticipo del termine «vangelo» a oggetto diretto
del verbo «vi faccio sapere», e la sua ripresa nel verbo
successivo: nel testo greco, letteralmente, si ha infatti
«il vangelo che venne evangelizzato da me».
Il vangelo è giunto a Paolo per «rivelazione di Gesù Cristo». L'espressione ha verosimilmente un significato duplice: indica infatti sia «Gesù Cristo» come
soggetto della rivelazione, in antitesi con la possibilità
41
La tesi e l'inizio dell'argomentazione
che soggetti umani siano all' origine della consegna
del vangelo a Paolo, sia «Gesù Cristo» come oggetto
della rivelazione, in conformità con ciò che verrà detto tra poco, ai vv. 15-16, ove Dio Padre rivela a Paolo
Cristo risorto. E d'altronde Paolo ormai pensa a Cristo come glorificato, come colui che vive nella pienezza della vita gloriosa di Dio, per cui l'agire di Cristo e l'agire del Padre ormai coincidono (cf. 1,1.3).
I vv. 13-17 presentano la seguente composizione
concentrica (A. PITTA):
vv. 13-14
agire di Paolo;
vv. 15-16 agire di Dio in Paolo;
vv. 16b-17 agire di Paolo.
I vv. 13-14 costituiscono una premessa a ciò che
risulta qualificante, ossia la vita di Paolo segnata dal
vangelo. Menzionando il proprio passato giudaico,
Paolo ricorda il proprio zelo nella persecuzione dei
credenti in Cristo, che probabilmente si concretizzava nella loro consegna ai tribunali rabbinici. E ovvio
che simile comportamento non prepara Paolo a divenire apostolo! Se c'è stato un cambiamento nella sua
vita, questo deve essere ascritto all'iniziativa di Dio.
Questa è infatti menzionata ai vv. 15-16a, con un
inizio che demarca subito la discontinuità con ciò
che Paolo viveva precedentemente (Ma quando ...).
Grammaticalmente l'opera di Dio è descritta nella
frase principale del v. 16a, in termini abbastanza succinti. Ma la ricchezza di premesse teologiche espresse
al v. 15, e lo stesso ruolo centrale di questi versetti
nella composizione letteraria, indicano la loro pregnanza di significato. Si rende quindi necessaria una
loro lettura attenta.
42
Galati 1,11-12.13-20
Innanzitutto un punto di partenza: Dio Padre rivela suo Figlio a Paolo. Quindi la «rivelazione di Gesù Cristo» (v. 12) è specificata come «rivelazione del
Figlio». Paolo non specifica qui come e quando avvenne, dal v. 17 possiamo capire che avvenne nei
pressi di Damasco, la narrazione degli Atti (At 9,
3-6) chiarisce che avvenne mentre Paolo si recava là
come persecutore. Ma in questa strada gli viene rivelata l'identità di quel Cristo i cui seguaci egli perseguitava: è il Figlio di Dio che vive nella gloria del
Padre. Questo causa uno stravolgimento nell'esistenza di Paolo. Se egli infatti pensava dovuto il suo atteggiamento persecutorio sulla base delle «tradizioni
dei padri» (v. 14), e che la vera fede in Dio fosse comunicata da quelle tradizioni, ora gli viene dispiegata
una nuova identità di Dio e del Cristo che avversava.
Dio, per cosÌ dire, «sta dalla parte di Gesù», rivela la
sua presenza nel Crocifisso glorificato, e per altro
verso è proprio questi, e non le tradizioni del giudaismo, a veicolare e rivelare il vero volto di Dio. Paolo
cercava, o pretendeva di seguire, Dio e la sua volontà, ma capisce d'un tratto di averlo fatto dalla parte
sbagliata: se Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è in lui
che Dio si rivela. Questa rivelazione è dovuta solo
alla gratuita liberalità di Dio, che giunge a illuminare
il cuore del persecutore. Tale gratuità è ben espressa
in questi versetti: «si compiacque... di rivelare»; «mi
ha scelto»; «mi ha chiamato con la sua grazia», e diviene elemento costitutivo della comprensione paolina
del vangelo. Ma il «Figlio di Dio» non è un'idea o
una teoria, è una persona, che intrattiene con Paolo
un rapporto interpersonale. Si noti, allora, la pregnanza dell'espressione «rivelare in me», che verrà ulteriormente chiarita in Gal 2,19-20 (vedi il commento). Ora, la rivelazione del Figlio ha uno scopo:
il suo annuncio tra le genti. L'oggetto dell'annuncio
di Paolo, sinora, era espresso con il termine «vange43
Lo tesi e l'inizio del/'argomentazione
lo» (1,8.9.11; 2,2; in 1,23 è la «fede»). Ne segue che
il vangelo è essenzialmente il «vangelo di Cristo»
(Rm 15,19; 1Cor 9,12; 2Cor 2,12; 9,13; 10,14;
Gal 1,7; Fil 1,27; 1Ts 3,2) o «del suo Figlio» (Rm
1,9), è l'annuncio di una persona che in quanto Figlio di Dio instaura un rapporto salvifico con le persone. «Il contenuto del vangelo è Cristo. L'apostolo e
i missionari cristiani non annunciano la dottrina di
Gesù, e nemmeno una dottrina su Gesù, bensì Gesù
Cristo, Figlio di Dio, che ha operato e opera ancora
la salvezza dell'umanità» (S. LÉGAssE).
La rivelazione del Figlio è intesa da Paolo come
una vocazione, e descritta con quei termini che nell'AT narravano vocazioni di profeti. Soprattutto il v.
15 echeggia l'esperienza di Geremia: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che
tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1,5), e del Servo di
YHWH: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di, mia madre ha pronunziato il mio
nome» (Is 49,1). E possibile che tali rimandi siano
suggeriti a Paolo dal fatto che questi profeti rivolgessero la propria missione anche a nazioni al di fuori di
Israele (per il servo di YHWH vedi Is 49,6). A ogni
modo, in questi versetti egli afferma che l'opera del
Dio che lo ha chiamato è iniziata «dal seno di sua
madre», è realtà operante fin dai primi momenti della propria esistenza. La vocazione, cioè, non è un
qualcosa di estrinseco alla persona, ma una realtà
che la coinvolge esistenzialmente.
Va da sé che, a conseguenza dell'evento così evocato, la vita di Paolo sia cambiata, che il persecutore
sia divenuto apostolo, annunciatore autorevole del
Cristo risorto, la cui rivelazione è stata così significativa perla sua vita (1Cor9,1-2; 15,8-1O),eivv.16b17 enfatizzano in tal senso la sua nuova condotta.
Egli riconosce l'autorità di coloro che erano apostoli
44
Galati 1,11-12.13-20
«prima di lui», ma chiarisce altresì che il suo apostolato non dipende da essi. Si comprende così la menzione di eventi non chiariti completamente, come il
suo viaggio in T ransgiordania, nel regno degli arabi
nabatei, le cui motivazioni non vengono esplicitate
(forse un' evangelizzazione di quelle regioni, altrimenti non testimoniata?). Essi servono solo a chiarire che l'autorità di apostolo viene a Paolo dalla propria esperienza di Cristo risorto, e non dall'autorevole chiesa di Gerusalemme, che egli non ha nemmeno
visitato, a seguito della sua vocazione apostolica. Un
gioco di parole con i verbi greci (paronomasia, similitudine fonica e differenza di significato) permette al
v. 17 di enfatizzare la direzione del movimento paolino, che si distanzia da Gerusalemme (senza andare
[anelthon] a Gerusalemme... mi recai [apelthon] in
Arabia).
In seguito comunque Paolo va a Gerusalemme
(vv. 18-19). Questo avviene «tre anni dopo» la sua
vocazione, verosimilmente. Lì incontra Pietro, menzionato con il nome aramaico «Cefa». Il tono delle
espressioni paoline permette di riconoscere il rilievo
di Cefa nella chiesa di Gerusalemme, e la pur breve
permanenza di quindici giorni fa presagire uno
scambio tra i due apostoli su questioni riguardanti la
fede e l'iniziale vita della comunità dei credenti. Tuttavia gli oggetti di questo confronto rimangono sconosciuti. Paolo sembra qui voler solo enfatizzare la
brevità di questo incontro, che certamente non permette un periodo di sua educazione religiosa, né un
esame con conseguente ratifica del suo apostolato.
L'origine di questo, e del vangelo da Paolo annunciato, sta nella rivelazione di Damasco: i diversi episodi
narrati fungono solo a rimarcare questo fatto. Tutto
questo è enfatizzato con una formula di giuramento,
secondo un costume che si riscontra nell'epistolario
paolino (Rm 1,9; 2Cor 1,23; Fil 1,8; 1Ts 2,5.10).
45
Galati 1,11-12.13-20
Lo tesi e l'inizio dell'argomentazione
L'esperienza qui descritta è convenzionalmente
conosciuta come «conversione di Paolo». Va tuttavia
no:at~ che egli non utilizza tale terminologia, e che
eglI ne ha abbandonato la fede nel Dio d'Israele, né è
passato ~a. una con?otta .morale turpe a una migliore. ~Olti I?terpreti OggI abbandonano quindi tale
termmologla, comprendendo che l'evento di Damasco è consistito piuttosto in un inveramento della fede di Paolo, che ha compreso che il Dio da lui adorat.o si rivela in Cristo, lo spinge a integrare nella proprIa fede quella nel Cristo risotto, ad aderire ai
credenti in lui e non a perseguitarli. Si parla oggi
quindi più volentieri di «vocazione di Paolo», comprendendo anche che essa comporta la missione dell'annuncio del Risorto ai pagani.
Se qu~sta ter~in?logia è più fedele a quella paolina, e se m quest ottICa vengono giustamente sottolineati gli elementi di continuità con la fede israelita di
Paolo, non va altresÌ dimenticato che la sua vocazione ha comportato un cambiamento radicale della sua
esistenza. Non potrebbe essere altrimenti, se la vocazione, come abbiamo detto, coinvolge la totalità della persona. Ma in aggiunta, si deve rilevare che anche
la fede di Paolo ha compiuto un salto enorme, dal
mo~ento che ha riconosciuto nel Figlio di Dio il
~edlatore ~~l ~apport~ con il Padre, ruolo che quindI .non h~ RIU nconoscIUto alla Legge e alle tradizioni
del padn. E vero che egli mai, in Galati come nelle
altre lettere sicuramente attribuite a lui, giunge per
questo ad «abrogare» la Legge, ma è altrettanto vero
che. l~ reinterpreta in modi radicali, e su questioni
deCIsIve, come quella della circoncisione. La sua vocazione poi non può essere compresa solamente entro l'esigenza di rivolgere l'annuncio ai pagani: in Fil
3,4-11 essa viene descritta proprio come un cambiamento radicale di valori operato dalla fede in Cristo,
senza che ciò sia necessitato dalla missione ai pagani,
46
là non menzionata. Quando, infatti, Paolo dichiara
d.i considerare «spazzatura [i propri privilegi giudaiCI], per guadagnare Cristo» (Fil 3,8), si presenta non
come apostolo, ma come credente.
ATTUALIZZAZIONE
La vocazione a essere apostolo fa parte di un periodo unico della storia della chiesa, quello delle sue origini, dal momento che la fede cristiana si fonda proprio sulla testimonianza di quelle persone che hanno
fatto esperienza del Signore risorto nella eccezionalità dell'immediato post-Pasqua, periodo in cui sono
avvenute le apparizioni del Risorto. Ma Dio continua a rivolgere il suo progetto di amore ai credenti
di ogni generazione, invitandoli ad aderirvi e corrispondervi con generosità. Ogni credente è, in questo
senso, chiamato a rileggere la propria vocazione nelle
pregnanti espressioni paoline. Si dà innanzitutto una
vocazione battesimale, in cui Dio manifesta personalmente il proprio progetto di amore a partire dal
sacrame?to .che associa gli individui all'evento pasquale dI Cnsto. Tale vocazione si concretizza poi in
vocazioni coniugali, presbiterali, consacrate, alla ministerialità ecclesiale istituita o di fatto ... Tutto questo avviene perché anche oggi Dio rivolge la sua viva
voce alle coscienze delle persone, le affascina presentando loro un singolare progetto di vita, che è un
modo del tutto singolare per vivere la comunione
con lui nella chiesa. Molte persone iniziano la strada
del proprio discernimento vocazionale perché affascinate da un ideale, o da figure di persone particolarmente significative per la propria vita. Ma poi può
subentrare il dubbio che «questa sia proprio la strada
per me», e la ricerca si arena. 0, in chi ha maturato
degli impegni, la stanchezza nel quotidiano della
47
La tesi e l'inizio del/'argomentazione
propria esistenza, che spegne progressivamente gli
entusiasmi iniziali, può, alla fine, rendere la propria
vocazione non sorgiva di testimonianze cristalline.
Questa pagina paolina, da leggere assieme a Fil 3,4Il, ci spinge a contemplare nuovamente la presenza
e l'opera di amore di Dio nella nostra esistenza, proprio considerando la sua opera di amore nell'esistenza di Paolo. A guardare alla nostra vita con una
«mentalità di fede», che capisce come essa sia frutto
di un progetto di amore di Dio, e che non ci può
essere una sua realizzazione sino a quando il Dio di
Gesù Cristo non sia posto al centro vitale dei nostri
interessi e delle nostre scelte. A coglierci raggiunti
dall'amore gratuito di Dio, che ci incontra come ha
incontrato Paolo, facendolo divenire da persecutore
apostolo. A far nascere la gioia del dono, del mettere
a disposizione a Dio e ai fratelli ciò che si è e ciò che
si ha, come risposta ai doni con cui Dio ci ha raggiunti. Ad accettare le fatiche e le sconfitte che questo spesso comporta, perché la misura della nostra
realizzazione non è posta nei nostri successi. Ad accettare la fatica della conversione, del continuo riorientamento dei valori che Cristo opera in noi, e
che così mirabilmente è stato testimoniato da Paolo.
In questo «clima di fede» il discernimento vocazionale, seppur nel mezzo delle sue difficoltà e cadute, certamente si realizza efficacemente.
48
I
;/1
PAOLO
E GLI ALTRI APOSTOLI:
COMUNIONE A GERUSALEMME,
CONTRASTI AD ANTIOCHIA
Galati 2,1-2.6-14
l Quattordici anni dopo, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito: 2 vi andai però in seguito a una rivelazione. Esposi loro
il Vangelo che io annuncio tra i pagani, ma lo esposi privatamente al~e persone più ragguardevoli, per non correre
o aver corso lllvano.
6 Da parte dunque delle persone più autorevoli - quali
fossero allora non m'interessa, perché Dio non guarda in
faccia nessuno - a me, da quelle persone autorevoli, non
fu imposto nulla di più. 7 Anzi, visto che a me era stato
affidato il Vangelo per i non circoncisi, come a Pietro
quello per i circoncisi - 8 poiché colui che aveva agito in
Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani - 9 e riconoscendo la grazia a me
data, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la mano destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i
circoncisi. lO Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, e io mi sono preoccupato di farlo.
11 Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a
lui a viso aperto perché aveva torto. 12 Infatti, prima che
giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò a
evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi.
13 E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione,
tanto che pure Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14 Ma quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in pre-
49
Lo Lettera ai Galati.· uno lettera owincente
con le sue comunità. Alcuni recenti autori hanno addirittura proposto di stravolgere radicalmente l'ordine degli avvenimenti narrati da Atti, e cosÌ di fornire
un quadro del tutto diverso per la datazione della
scrittura delle lettere. Non aderendo a queste proposte, il paragrafo precedente ha discusso le ipotesi di
datazione della Lettera ai Galati all'interno della successione degli eventi presentata dal libro degli Atti,
ritenendo non utile entrare in questa sede in una discussione critica su tali fattori. Rimane qui da annotare che la Lettera ai Galati offre il resoconto paolino
di due eventi di decisiva importanza della sua vita: la
vocazione (l, 13-17) e l'incontro con gli altri apostoli
a Gerusalemme per la discussione del suo stile di
evangelizzazione (2,1-10). Quali informazioni ci
vengono date al riguardo? Raccogliendo ulteriori notizie da altre lettere e dal libro degli Atti, quale configurazione possiamo dare a questi eventi? Poiché il
commento dei brani non affronterà tali aspetti, offro
qui un quadro sintetico di queste informazioni biografiche su Paolo.
o
Da persecutore ad apostolo: l'evento di Damasco. In
Gal 1,13-14 Paolo afferma di essere stato «accanito
nel sostenere le tradizioni dei padri», e che questo lo
portava a «perseguitare ferocemente la chiesa di
Dio», come anche ci ricorda in 1Cor 15,9 e Fil 3,6.
Il libro degli Atti offre alcuni particolari di questa attività di persecutore. Pur non partecipandovi direttamente, egli approvava la lapidazione di Stefano (At
7,58; 8,1), per poi assumere un ruolo attivo nella
persecuzione dei cristiani (ellenisti?) a Gerusalemme
(At 8,3) e incaricarsi della persecuzione degli stessi a
Damasco su mandato del sommo sacerdote (At 9,12), la cui giurisdizione fino a Damasco è comunque
un dato storicamente problematico. Sta di fatto che,
nella strada verso Damasco, egli è raggiunto da una
16
Introduzione
visione del Cristo risorto, e questo cambia immediatamente la sua esistenza (At 9,1-10; 22,6-11; 26,1218): da persecutore egli diviene credente e annunciatore di quello stesso Cristo i cui seguaci egli perseguitava. Gal 1,15 narra l'episodio come «rivelazione», e
la nota del v. 17 lo localizza nel viaggio paolino a
Damasco. In 1Cor 9,1; 15,18 Paolo afferma di aver
visto il Signore risorto, fatto che da solo fonda la sua
autorità di apostolo. Su questa base di sostanziale
convergenza tra Atti degli Apostoli ed epistolario
paolino, difformità si notano nella narrazione di ciò
che accade immediatamente dopo l'evento. Per gli
Atti, infatti, Paolo è introdotto nella comunità ecclesiale da un discepolo di nome Anania, che lo ha anche battezzato (At 22,16), e poi per due volte è andato a Gerusalemme (At 9,26ss.; Il,29ss.), mentre
Paolo non fa menzione alcuna di Anania, e nega
esplicitamente di essere andato a Gerusalemme se
non ~opo tre anni dall'evento di Damasco (l, 1718). E difficile ritenere che, nel mezzo di una narrazione polemica, Paolo abbia potuto affermare delle
falsità, per cui gli interpreti sono portati a ritenere
perlomeno non attendibile l'informazione lucana
del viaggio paolino a Gerusalemme a seguito dell'evento di Damasco.
o L assemblea di Gerusalemme. Secondo At 15,1-2
dei missionari giudeo-cristiani giunsero nella comunità di Antiochia predicando la necessità della circoncisione, e causando cosÌ l'invio a Gerusalemme
di una delegazione, comprendente Paolo e Barnaba,
per discutere della questione. In Gal 2,2 Paolo narra
d~ un suo viaggio a Gerusalemme per gli stessi motiVI, avvenuto però «in seguito a una rivelazione». Al di
là delle differenze, è importante notare che le fonti
concordano nel riportare una discussione con la
chiesa di Gerusalemme sulla necessità o meno della
17
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MAURO ORSATTI
IL CANTO
DELLA GIOIA
la Lettera di Paolo ai Filippesi
edizioni Pro Sanctitate
VESPERIENZA DI CRISTO
Fi13,1-4,1
31Per il resto, fratelli miei, state lieti nel Signore. A me non
pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose: 2guardatevi
dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli
che si fanno circoncidere! 3siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci
gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne,
4sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: 5circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; 6quanto
a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla
giustizia che deriva dall'osservanza della legge.
7Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. BAnzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di
Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo ge di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fède in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. IOE questo perché io possa conoscere lui, la potenza
della sua risurrezione, la partecipazione alle sue so.fJèrenze, diventandogli conforme nella morte, II con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. 12 Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi
sforzo di correre per conquistarlo, perché anch 'io sono stato
conquistato da Gesù Cristo. 13Fratelli, io non ritengo ancora di
esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso futuro, 14corro verso la mèta per arrivare al premio
che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
15Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. I 6Intanto, dal punto a cui siamo
arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea.
80
,
MAURO ORSATTI
17Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si
comportano secondo l'esempio che avete in noi. 18Perché
molti, ve l'ho già detto più olte e ora con le lacrime agli
occhi ve lo ripeto si comportano da nemici della croce di
Cristo: 191a perdizione però sarà la loro fine, perché essi,
ve hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui
dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra.
20La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, 2Iil quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo
glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé
tutte le cose.
4,1Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia
e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete
imparato, carissimi!
E
risaputo che la lettera di Paolo ai Filippesi non conosce problemi
circa l'autenticità, ma ne crea parecchi circa l'integrità. Al punto in
cui ci troviamo con la nostra presentazione, esattamente all'inizio del
terzo capitolo, inizia il valzer delle opinioni. Si assiste a un frenetico
impegno nell'uso di forbici e di colla, per tagliare e combinare i diversi pezzi. Qualcuno lega 3, la alla sezione precedente e unisce 3, l b
a quella seguente 110, fino al v. 14. C'è chi, unendo 3, la con 4,2-7 dove legge una serie di raccomandazioni, isola la parte 3, lb-4, 1.8-9 e
la identifica come una «lettera polemica», da considerare come elemento staccato ll1 • C'è chi riconosce un'unica lettera, ma con strati diversi, come si nota fin dall'inizio, passando da una parola di gioia a
una parola dura ll2 • C'è chi registra il fatto della diversità tra 3, la e 3,
lb, ma poi procede nella lettura continua ll3 . E c'è, infine, chi consi110 «I segni della mutazione sono più d'uno e hanno carattere sia formale sia contenutistico», PENNA, 77.
111 Di questa opinione sono, per esempio, GNILKA e BARBAGLIO.
112 «Piuttosto che di lettere diverse meglio si dovrebbe parlare di strati di pensiero, che cozzano invero l'uno contro l'altro, ma in un quadro parenetico complessivo sono vicendevolmente conciliabili», ERNST, 122.
113 Così PERETTO, 57.
L'esperienza di Cristo (Fil 3,14-4,1)
81
dera alcuni elementi letterari che legano 3,1-4,1, senza per questo negligere la conoscenza della problematica sottesa1l4 •
Come sempre accade in casi analoghi, la molteplicità interpretativa denuncia la fragilità di ogni scelta. E poiché bisogna decidersi, sembra che l'accoglienza del testo, così come si presenta,
sia la strada da privilegiare. Tale è la nostra scelta, proposta già
nell 'introduzione li 5. Accettiamo quindi di considerare unitariamente il blocco 3, 1-4, 1, perché letterariamente incorniciato dall'iniziale «Per il resto, fratelli miei», e dal conclusivo «Perciò, fratelli miei carissimi», che ne segnano i limiti. Sono due esortazioni che racchiudono il "corpo" del brano. Esso, in base all 'uso prevalente dei pronomi, potrebbe essere distinto in due parti: nella
prima predomina il pronome "io" (vv 1b-14), nella seconda i pronomi "noi-voi" (vv 15-21). A livello di contenuto, nella prima
parte Paolo ci fa dono di uno stupendo squarcio autobiografico
sulla sua vita intima, nella seconda esorta a una coerente vita incentrata su Cristo. Ne viene un grandioso affresco teologico, con
Cristo in primo piano. Schematicamente:
Esortazione iniziale: 3, la
Cristo al centro: 3, 1b-14
Cristo come meta: 3, 15-21
Esortazione conclusiva: 4, 1
Prima di considerare il materiale centrale, presentiamo le due
esortazioni che lo incorniciano, rispettivamente 3, la e 4, 1.
Il capitolo terzo si apre con l'esortazione «Per il resto, fratelli miei, state lieti nel Signore» (3, la) che potrebbe suonare come
una conclusione. Ciò sarebbe giustificato da esempi analoghi, come 2 Cor 13, 11: «Per il resto, fratelli, state lieti» che effettivamente si trova alla fine della lettera, prima delle raccomandazioCfr FABRIS (2000), 184-185.
Cfr 4.3. Autenticità e unità della lettera, soprattutto la nota 12 con la citazione di
Fitzgerald. Esistono opinioni che vanno nella direzione opposta, come quella di
E. CUVILLlER, L'intégrité de l'épitre aux Philippiens, in: ACFEB, Paul de Tarse,
Cerf, Paris 1996,65-77; l'autore conclude la sua rassegna con questa convinzione:
«De quelque manière qu'on l'explique, il existe une rupture de ton entre 3, I et 3, 2.
I..:hypothèse de la compilation demeure donc une solution envisageable», 77.
114
115
82
MAURO ORSATTI
ni finali e dei saluti 1l6 • Inoltre, il tema della gioia potrebbe richiamare e concludere pensieri espressi precedentemente, in particolare in 2, 17-18. Ma l'andamento saltellante di una lettera, affidato spesso alle impennate dello spirito, .soprattutto di quello focoso di Paolo, ammette e giustifica che a una frase con sapore conclusivo segua poi altro materiale. È, di fatto, il caso di 2 Ts 3, l:
«Per il resto, fratelli, pregate per noi», costruita allo stesso modo:
«Per il resto» ('tò À,Ol7tOV), seguito dal nome «fratelli», e quindi dal
verbo all'imperativo. Paolo, anziché congedarsi dalla comunità di
Tessalonica, come si poteva presumere dalle sue parole, riprende
il discorso e tratta della vita disordinata di alcuni oziosi (cfr 2 Ts
3,6-15). Confortati da questo parallelo, possiamo ritenere che anche Fil 3, la sia una conclusione che non preclude, tuttavia, la partenza di un nuovo pensiero. A livello di contenuto, Paolo esorta la
comunità, chiamata teneramente «fratelli miei», a vivere quella
gioia che ha la sua radice «nel Signore». La precisazione è importante per orientàre correttamente il senso della gioia.
Un'esortazione è pure reperibile in 4, 1: «Perciò, fratelli miei
carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, perseverate così nel Signore, carissimi»ll7. Il «perciò» (mO'tE) conferisce alla frase
un manifesto sapore conclusivo; segue il vocativo «fratelli miei»l18,
arricchito da una profusione di termini che mostrano l'intenso affetto di Paolo per la comunità. Li chiama due volte «carissimi»
(uyu7t,,'toi), aggiunge «desiderati» (É7tt7tOS"'tOl), e li qualifica sua
«gioia» e «corona», due termini fortemente evocatori. Il primo indica un sentimento che si prova nell'intimo, il secondo un oggetto
visibile. La corona, infatti, era portata da persone importanti che la
tenevano ben in vista: il sacerdote che officiava il culto, il vincitore di una gara, il sovrano in visita. Paolo considera la corona nel significato metaforico di "gloria" che gli viene dal suo apostolato, soprattutto quando una comunità risponde con fattivo entusiasmo alla proposta di vita cristiana. Del resto in 2, 16 aveva già prospettato la possibilità del suo vanto alla fine della vita, proprio dovuto alI;uso di ~Ò À.Ot1tOV di 4,8 ha veramente valore conclusivo.
Il testo greco o\'moç O'~T]KHE Èv KupiqJ è reso in modo ridondante dalla traduzione CEI: «Rimanete saldi nel Signore, così come avete imparato».
118 La formula àOEÀ.<poi ~ou compare, in tutta la lettera, solo qui e a 3, l.
116
117
L'esperienza di Cristo (Fil 3,14-4,1)
83
la risposta della comunità. Tutto questo serve da coreografia all' esortazione «così perseverate nel Signore»: l'imperativo chiede la
fedeltà a tutto quanto Paolo ha insegnato.
Esaminate le due esortazioni che incorniciano il nostro brano,
passiamo ora ad analizzare le sue due parti costitutive, che collocano Cristo al centro della vita di Paolo e della vita dei Filippesi.
1.
CRISTO AL CENTRO
(3, Ib-14)
Paolo esordisce ricordando il suo "ministero della penna", come diremmo noi oggi, cioè la sua attività letteraria; egli la considera uno dei mezzi per mantenere il contatto con le comunità e
per continuare la catechesi, troppe volte ridotta nel tempo ll9. Lo
scritto non necessariamente propone nuove idee o aspetti inediti
della dottrina. Qui vale il principio latino repetita juvant (giova ripetere le cose), come lascia capire lo stesso Apostolo: «a me non
pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose» (v. l b).
A questo punto inizia un breve passaggio dal tono molto duro. In apertura incontriamo un triplice «guardatevi», verbo che
spesso richiama il contesto di crisi, e quindi postula un supplemento di vigile attenzione 120. Lo stesso verbo (~AÉ1tE'tE) regge un
triplice accusativo: «cani», «cattivi operai» e «mutilazione» (traduzione CEI: «quelli che si fanno circoncidere»). Se accettiamo
di leggere sullo stesso piano i tre accusativi, otteniamo come risultato l'identità di coloro dai quali i cristiani devono stare in
guardia: sono dei giudaizzanti 121.
Infatti, il termine che li contraddistingue è quello di «mutilazione», forma spregiativa con la quale si designa la circoncisio-
119 Tale è il caso, per esempio, di Tessalonica, dove Paolo rimase due o tre settimane e poi fu costretto, per circostanze avverse, a fuggire; il suo ardente desiderio di tornare era motivato, tra l'altro, dalla volontà di «completare ciò che ancora manca alla vostra fede», l Ts 3, IO.
120 Due esempi: «Guardate (~ÀÉ1tHE) che nessuno vi inganni» (Mc 13, 5); «Ma
voi badate (~ÀÉltHE) a voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri... » (Mc 13,9).
121 «Non c'è dubbio che quelli a cui sta pensando Paolo appartenevano al partito
giudaizzante», C.K. BARRETT, La teologia di san Paolo, San Paolo, Cinisello
Balsamo (MI) 1996, 64.
84
MAURO ORSATTI
ne 122 • In greco il gioco lessicale risulta più evidente, passando da
«circoncisione» (peritomé, 1tEpt'tO~") a «mutilazione» (katatomé,
Ka'ta'to~"). Questo termine sembra essere stato inventato da Paolo l23
per ridicolizzare tutte le persone che fanno un uso quasi idolatrico
di tale pratica. C'è una buona dose di sarcasmo contro una pratica
che, un tempo segno di appartenenza al popolo ebraico e motivo di
vero vanto, è diventata un pretesto classista, per dividere e per disprezzare. Questi giudei sono con tutta probabilità anche dei catechisti. Lo deduciamo dalla classificazione «operai», termine usato
spesso per indicare coloro che nella comunità hanno compiti di
evangelizzazione (cfr Mt 9,38; lO, lO). La formulazione è però pesantemente negativa, perché si parla di «cattivi operai». Non possiamo precisare la ragione di tale negatività, da collegare, comunque, con l'attività apostolica di tali persone. Costoro potrebbero richiamare la situazione degli «operai fraudolenti» di 2 Cor Il, 13.
A conferma che si tratta di persone di provenienza giudaica
sta anche il primo titolo della serie, quello di «cani». È un termine dispregiativo, usato spesso per designare i popoli pagani 124, o i
grandi peccatori (cfr Ap 22, 15). Ora Paolo, per ritorsione, chiama così alcuni membri della comunità cristiana, la cui scorretta
dipendenza dal giudaismo disorienta la comunità. Perciò Paolo
lancia l'imperioso triplice «guardatevi».
Il v. 3 conferma l'identificazione proposta, perché si attarda a
parlare della vera circoncisione. Il tema attiene direttamente al
mondo giudaico. Paolo porta a termine un processo di spiritualizzazione già avviato dalla predicazione profetica e deuteronomica
che richiedeva un'appartenenza a Dio che non fosse puramente
122 La circoncisione (in ebraico mi/ah) è l'asportazione del prepuzio, cioè della
cute che ricopre l'estremità del pene, organo genitale maschile. Di uso antichissimo perché praticata in Egitto già nel III millennio a.C. e conosciuta da molti
popoli (Moabiti, Ammoniti, Arabi), aveva assunto in Israele un significato religioso di appartenenza al popolo eletto; il testo di riferimento è Abramo in Gn 17,
9-27. Cfr la voce Circoncisione in: Dizionario enciclopedico della Bibbia, BorIa-Città Nuova, Roma 1995,345-346.
123 Hapax del NT, non compare né nei LXX, né in scrittori greci prima dell'era
cristiana.
124 Cfr Mt 15, 26, però nella forma del diminutivo «cagnolino» (KuVaptov).
L'esperienza di Cristo (Fil 3,14-4,1)
85
esteriore. I richiami erano perentori e chiari: «Circoncidetevi per
il Signore, circoncidete il vostro cuore» (Ger 4,4); «Circoncidete
dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra nuca»
(Dt lO, 16). Nella stessa linea Paolo scrive: «Giudeo è colui che
lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera» (Rm 2, 29).
A questo punto possiamo inserire la frase mozzafiato che, tradotta letteralmente dal greco, suona: «Noi infatti siamo la circoncisione» (ilflEtç yap ECJflEV il 1tEPt'tOfli]) (v. 3a), resa un po' sbiadita
dalla traduzione: «Siamo infatti noi i veri circoncisi». L'idea è meglio illuminata dall'affermazione conclusiva dello stesso versetto:
«senza avere fiducia nella carne», che relativizza il valore della
circoncisione fisica a vantaggio di quella spirituale. Questa si trova nel culto a opera dello Spirito Santo e nella fiducia posta in Gesù: «noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù» (v. 3b).
Paolo parla ora della «carne», intesa come l'elemento umano
sul quale poggiare il proprio vanto. Essa prende forma nei sette titoli di credito, che vengono sciorinati ai vv 5-6, e che possiamo
distinguere in quattro originali, perché posseduti senza averli meritati, e tre acquisiti, perché frutto di sforzo e impegno personale.
Paolo ricorda prima di tutto di essere stato circonciso l'ottavo
giorno, secondo la più rigorosa osservanza giudaica 125 • Quindi, di
essere vero giudeo, «della stirpe di Israele»126, e, per di più, di appartenere alla gloriosa tribù di Beniamino. Questa può vantare, sia
di aver dato i natali a Saul, il primo re di Israele, sia di aver salvaguardato la fedeltà all'alleanza. Infatti, sarà sempre fedele, insieme
alla tribù di Giuda, alla più pura tradizione biblica. Le due tribù formeranno il regno del sud, distinto dal regno del nord, scismatico,
comprendente le altre dieci. Il quarto titolo fa di Paolo un membro
125 Cfr Lv 12, 3: «~ottavo giorno si circonciderà il bambino»; cfr Gn 17, 10-12.
La legge è osservata scrupolosamente anche da Giuseppe e da Maria che fanno
circoncidere Gesù ('ottavo giorno, come leggiamo in Lc 2, 21: «Quando furono
passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione ... ».
126 «Il nome "israelita" al tempo di Paolo ha una speciale risonanza. Diversamente dal termine "giudeo" ("ebreo") usato spesso dai pagani in senso spregiativo, esso accentua l'alta rivendicazione religiosa», ERNST, 127.
86
MAURO ORSATTI
di famiglia rigidamente ebraica, anche se stanziata all'estero:
«ebreo da Ebrei»127. Ciò comporta, tra l'altro, la perfetta conoscenza della lingua ebraica, la lingua dei padri, che Paolo usava perfettamente (cfr At 21,40), perché abituato a parlarla in casa 128 •
Fin qui i quattro titoli di vanto che Paolo possiede grazie alla
sua famiglia, e non per merito personale. La seconda serie enumera i tre titoli che sono frutto del suo impegno.
Paolo si dichiara «fariseo quanto alla legge», cioè parte viva di
quella corrente che esaltava la legge al di sopra di tutto, perché centro e cuore della vita religiosa: «La Legge (Torah) doveva essere
considerata come una specie di costituzione, come tale, e soprattutto, perché donata da Dio a Mosè, doveva essere presa alla lettera.
Ecco perciò il lavoro di interpretazione inteso come «adattamento
alla vita, rispettando la lettera». Solo una fedeltà profonda alla Legge di Dio può spiegare questo modo giuridico di procedere»129. All'interno del gruppo dei farisei 130, Paolo si distingueva ulteriormente per singolare dedizione: «quanto a zelo, persecutore della Chiesa». Infatti, il Libro degli Atti lo presenta dapprima partecipe passivo al martirio di Stefano (cfr At 8, 1), poi attivo nel ricercare i cristiani per imprigionarli (cfr At 9, 2). Ancora più eloquente è la documentazione autobiografica: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel
giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1, 13-14).
Paolo conclude l'elenco dei "meriti" con il più importante: «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della
legge». Da buon fariseo, riteneva di costruire il suo rapporto con Dio
l2J «Si manteneva fedele al giudaismo e viveva secondo la fede e i costumi dei
suoi padri. Nella diaspora (a Tarso) il nome "ebrei" si usava per designare in particolare quegli ebrei che praticavano nella vita quotidiana le usanze ebraico-palestinesi avite», SCHLIER, 52.
128 Nella vita pubblica Paolo parlava il greco; era quindi perfettamente bilingue e
possedeva l'ebraico e il greco come lingue materne.
129 G. SEGALLA, Panorama storico del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia
31992,93.
130 In epoca neotestamentaria erano circa 6.000.
L'esperienza di Cristo (Fil 3,14-4,1)
87
con la scrupolosa osservanza delle varie prescrizioni. Il punto di partenza era buono, come riconosciuto dalla migliore tradizione giudaica: «Osservare la legge era fonte di merito (Abot 6, Il). Questa concezione spingeva inevitabilmente a presentare il fariseo in modo caricaturale e a rinfacciargli l'accusa, in parte fondata, di legalismo.
[... ]. Si dimentica troppo in fretta che alla base di tutto questo movimento, che ha saputo meritare il rispetto e l'amore del popolo, vi era
l'amore della legge. "Chi osserva un solo precetto con fede, merita
che lo Spirito Santo riposi su di lui", afferma la Mekilta di Rabbi
Ismael, Es 14,31»131. C'è quindi un giusto zelo, però orientato in
senso unico, e perfino estremizzato.
Il dettagliato elenco serve a Paolo per indicare il suo vanto secondo la "carne", cioè da un punto di vista umano. Poi, improvvisamente, sopraggiunge una specie di rivoluzione copernicana
nel suo universo teologico: l'esperienza di Cristo. Paolo ne parla
usando la categoria di «conoscenza», da intendere come una relazione, e perfino come un possesso 132 •
Dalla conoscenza si passa al «guadagno» paradossale, da qui
al mistero pasquale e quindi si procede per una conoscenza interminabile 133 • È l'itinerario dei vv 7-11.
Ciò che prima contava, era motivo di vanto e costituiva il baricentro della vita, perde inesorabilmente tutto il suo valore, trasformandosi in negatività: «Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo»
(v. 7). Privilegi e meriti, titoli familiari e acquisiti, tutto ciò che poteva essere catalogato come «guadagno» 134, si trasforma in «perdita»135. Usando il linguaggio commerciale 136 , Paolo esprime il ribaltaF. MANNS, Il giudaismo, EDB, Bologna 1994, 162.
Paolo parla di «conoscenza» che potrebbe essere intesa «una relazione personale col Cristo, sotto tutti i punti di vista, che comporta una trasformazione radicale, una autentica "metanoia'», PERETTO, 61.
1]3 Cfr A. PITTA, Lafede e la «conoscenza di Cristo» (Fil 3, 7-//), PSV 30 (1994)
171-182.
114 Il sostantivo KÉpOOç è raro; non compare mai nei LXX; nel NT si trova tre volte soltanto: nel nostro passo, in Fili, 21 e in Tt 1, Il.
135 Anche çllf!la ricorre poche volte, quattro in tutto: in Fil 3, 7.8 e in At 27, 10.21.
1]6 «Nella lingua commerciale e nella Ota~pt~i], çllf!la-çllf!t6ro s'oppongono di
norma al guadagno e al profitto, ossia KÉpOll-KEpoaivro. Ora, il Signore ha utiliz131
IJ2
88
MAURO ORSATTI
mento di valori che ha sperimentato nella sua vita, da quando ha incontrato Cristo. Infatti, occorre sottolineare che il peso gravitazionale sta tutto alla fine della frase, quando viene indicata la causa: la
scoperta di Cristo. A partire da questo momento, tutto sembra sbiadire, diventare evanescente, fino quasi a scomparire. È l'attualizzazione della parabola della perla preziosa, trovata la quale si è disposti a fare pazzie pur di entrarne in possesso (cfr Mt 13,45-46).
Il v. 8 riprende l'idea appena espressa e la radicalizza. Il «Cristo» del versetto precedente diventa ora «Cristo Gesù, mio Signore», una concentrazione di titoli soffusa di intensa carica affettiva.
Paolo rivendica un'esperienza profonda - «sublimità della conoscenza» - che non ammette dubbi o tentennamenti: quando si incontra Gesù, come ha fatto lui sulla via di Damasco, davvero tutto il resto si scolora fino a diventare «spazzatura». Il termine greco skybalon (md)~aAov) potrebbe essere reso in forma ancora più
forte e tradotto «letame»137.
Il v. 9 propone in mirabile sintesi il pensiero paolino sulla salvezza, fondata esclusivamente sull'abbandono fiducioso in Cristo, e per nulla sul valore delle proprie opere. È qui davvero irriconoscibile il fariseo del v. 6, che vantava di essere «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge». Il
v. 9 è la liofilizzazione della lettera ai Galati e più ancora di quella ai Romani, in cui Paolo espone con dovizia il suo pensiero 138 •
zato metaforicamente l'esempio di un rovinoso bilancio, per mostrare che il guadagno di tutto l'universo a nulla varrebbe, se l'uomo perdesse se stesso (Mt 16,
26; Mc 8, 36); assioma di cui S. Paolo, alludendo alla via di Damasco, fa uso»,
C. SPICQ, Note di lessicografia neotestamentaria, I, Paideia, Brescia 1988, 732.
Il7 Ricorre solo qui in tutto il NT e non compare mai nei LXX. Nella grecità può significare "avanzo", "residuo", ma anche "letame", "immondezza" e anche "escremento": «Si tratta, comunque sia, di qualcosa di cui ci si deve liberare [... l. Per rendere la crudezza del greco, non v'è che la locuzione francese: C'est de la crotte», C.
SPICQ, Note di lessicografia neotestamentaria, II, Paideia, Brescia 1994, 548.
138 Lo si vede raccolto in Rm I, 16-17, tema della lettera. Paolo vuole chiarire fin dall'inizio il senso e il cuore del vangelo che intende portare a Roma e lo fa con due
frasi ad altissimo voltaggio teologico, come documentano i termini "vangelo", "potenza di Dio", "salvezza", "fede", "credere", "rivelare", "giustizia", "vita", Pur nella densità dei termini, il messaggio è scarno nella sua essenzialità: il vangelo di Dio
(cfr v. I), che è Gesù Cristo (cfr vv 2-4), raggiunge tutti gli uomini che si aprono a
L'esperienza di Cristo (Fil 3,14-4,1)
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Il legame con Cristo mediante la fede rende possibile il travaso del mistero pasquale da Cristo stesso al credente. I.;esperienza
di Cristo viene partecipata a Paolo: «E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (vv 10-11). È un
processo di "cristificazione", che rinnega totalmente il valore
salvifico delle proprie opere. Scaduta ogni pretesa meritocratica,
rimane solo un amoroso abbraccio al Crocifisso 139 per partecipare con lui alla gloria della risurrezione. Questa, allora, «non rappresenta un' eredità universale, valida per tutti gli uomini, bensì
soltanto la speranza di coloro che credono in lui»140.
Ora è posto il fondamento per la nuova giustizia, quella che
viene da Dio per mezzo della fede in Cristo. Essa consiste fondamentalmente nella comunione vitale con lui, è capace di creare'
una relazione che matura nel tempo e sfocia nell'incontro salvifilui nella fede. Paolo dice di non vergognarsi del vangelo, opponendosi a qualcuno
che invece si vergogna. Il messaggio di Gesù suona come scandalo per i Giudei che
attendevano un Messia rivestito di gloria, e come assurdità per i Greci che sentivano
ferita la loro dignità intellettuale. Esistevano quindi motivi di vergogna. Positivamente Paolo afferma che il vangelo è potenza di Dio: è la forza di Dio che fa vivere, come attesta 2 Cor 13,4: «Egli fu crocifisso per la sua debolezza ma vive per la
potenza di Dio». In questa vita nuova, che sprizza dal mistero pasquale, sta la salvezza. Destinatari sono tutti, espressi però nell'ordine che rispetta la volontà divina
che si è rivelata dapprima al popolo ebraico con le promesse ai patriarchi. Quindi,
viene prima il Giudeo, poi il Greco (= pagano). Si trattava di una fase storica della
storia della salvezza, scandita da tempi e da modalità precise. La fase successiva,
quella attuale, è un superamento della antiche barriere e delle esclusioni.
Nel vangelo si rivela la giustizia di Dio. È nel vangelo, cioè in Cristo, che impariamo a conoscere il Padre, il suo amore e i modi del suo intervento. È da lui che
proviene ogni bene. Con lui ci si regola secondo un unico criterio, quello della fede. In altri termini, il rapporto con Dio non si costruisce sulla partita doppia del dare e dell'avere, ma su quella della gratuità del suo amore che si riceve con animo
riconoscente e disposto a conservarlo: è la fede. Questo significa la citazione di Ab
2,4: «Il giusto vivrà per mezzo della fede». Qualcuno preferisce tradurre «Chi è
giusto per la fede, vivrà», in quanto il vangelo è rivelazione della giustizia di Dio
per la salvezza del credente. In entrambi i casi si sottolinea che la vita viene dalla
libera e amorosa iniziativa divina a cui l'uomo risponde con la fede.
IJ9 Fortemente suggestiva è la formulazione greca crufLfwpq>té,ofLEvoç ~éiJ 9avémo aù~ou.
140 A. PITTA, Lafede e «la conoscenza di Cristo», cit., 181.
90
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co finale. La meta è chiara davanti agli occhi, ma non ancora raggiunta. Nel v. 12 Paolo si dichiara homo viator, cioè pellegrino
sulla strada della perfezione, che può percorrere perché Cristo ve
lo ha immesso: «mi sforzo di correre per conquistare il premio,
perché anch'io sono stato conquistato l41 da [Gesù]142 Cristo».
Al v. 13 Paolo apre il suo cuore ai fratelli di fede con una confidenza ricca di umiltà: «Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto ... ». Può essere utile ricordare che in greco troviamo il verbo
katalambano (lCa'taÀ.aJl~av(O), lo stesso già impiegato due volte al
v. 12; quindi, si dovrebbe rendere: «Fratelli, io non ritengo ancora di
essere stato conquistato...», nel senso che non è mai conclusa l'opera di assimilazione a Cristo. Da qui la voglia di continuare la corsa
fino ad «arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (v. 14). Paolo è mosso da un intenso desiderio che lo stimola incessantemente a proseguire il cammino intrapreso l43 .
Il paradiso, esperienza di comunione divina, è la meta cui Paolo
tende, dopo che Cristo lo ha messo in pista: «La corsa verso il traguardo non esprime uno sforzo frenetico, con cui ci si illuda di potercela fare da soli, né una paura preoccupata solo di se stessa, ma la
reazione all'opera di Cristo Gesù e da questi motivata»l44.
Con la soave nota escatologica, Paolo conclude questo squarcio autobiografico che ha permesso di sbirciare nella sua vita intima e di capire che cosa abbia significato per lui aver incontrato
Cristo: «Quello che sconvolse Saulo sulla via di Damasco non fu
tanto la forza che lo colse dall'alto e lo gettò a terra come una fol141 Si potrebbe tradurre in modo più forte con «afferrato». Il testo è richiamato
nel titolo del libro Afferrati da Cristo, frutto degli esercizi spirituali che Mariano Magrassi predicò in Vaticano alla presenza di Paolo VI e della curia romana.
142 La critica testuale tende a lasciare solo «Cristo».
143 Sant'Agostino ha dedicato pagine memorabili al "desiderio", come, per esempio, la seguente: «L intera vita del fervente cristiano è un santo desiderio. Ciò che
poi desideri, ancora non lo vedi, ma vivendo di sante aspirazioni ti rendi capace
di esser riempito quando arriverà il tempo della visione. [... ] Cerchiamo, quindi, di vivere in un clima di desiderio perché dobbiamo essere riempiti. Considerate l'apostolo Paolo che dilata il suo animo, per poter ricevere ciò che verrà. Dice infatti: «Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto» (Fil 3, 13)>>, Trattati sulla Prima Lettera di Giovanni, Trat. 4, PL 35, 2009.
144 GNILKA, 327-328.
L'esperienza di Cristo (Fil 3,14-4,1)
91
gore e come lo strappo improvviso di una corda, prima allentata,
poi tirata per domare un cavallo, ma la scoperta di un amore nuovo, dolcissimo. Il persecutore costretto ad amare il perseguitato, a
predicare l'amore per lui a tutti. Lui, il Nazareno, era il vincitore,
perché aveva voluto vincere a ogni costO»145.
2.
CRISTO COME META
(3, 15-21)
L'idea della meta, già presente nella parte appena presentata,
è radicalizzata nel nuovo segmento del discorso. Se prima Cristo
era stato visto soprattutto come il centro propulsore della vita di
Paolo, l'asse attorno a cui far motare l'intera esistenza, ora egli è
considerato maggiormente come la meta ultima, il fine verso cui
tendere e per il quale concentrare tutti gli sforzi l46 . Veramente Cristo è per Paolo l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il principio
e la fine (cfr Ap 2, 13). Il discorso, finora strettamente personale
perché caratterizzato dalla prima persona singolare, si apre adesso al "noi" comunitario e, poi, al "voi" esortativo: cambiano i pronomi, varia leggermente la grammatica, ma la prospettiva rimane
sostanzialmente la stessa. Possiamo dire che il pensiero procede
senza soluzione di continuità.
Dopo la presentazione autobiografica, Paolo esorta i lettori del
suo scritto a incanalarsi nella medesima prospettiva che ha guidato
le sue scelte (cfr vv 15-17). Egli si presenta come modello da imitare, creando una catena che ha in Cristo l'archetipo e che, passando attraverso l'Apostolo, lega insieme i cristiani. Nessuna millanteria in tutto questo, nessuna gloria umana, ma solo l'umile convinzione di offrire alla comunità un modello concreto da imitare, rimandando sempre alla fonte che è Cristo. Il migliore testo per illustrare bene il pensiero paolino è reperibile in 1 Cor Il, 1: «Fatevi
miei imitatori, come io lo sono di Cristo»147. Forse nella linea della
C. CREMONA, San Paolo, Rusconi, Milano 1993,36.
«Paolo si vede come un corridore, nella speranza di giungere alla meta per ricevere il giusto premio, rappresentato da Cristo stesso; nessuna olimpiade ha mai
pensato di mettere tra i trofei dei vincitori Gesù Cristo!», A. PITTA, Lettera ai Filippesi, in: La Bibbia Piemme, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1995,2848.
147 Cfr anche 1 Cor 4, 16; 1 Ts 1,6.
145
146
92
MAURO ORSATTI
vera sequela di Cristo, verso cui Paolo aveva detto di correre (cfr v.
14), è da leggere e interPretare il «Quanti dunque siamo perfetti»
che apre il v. 15. Infatti troviamo, sia un «dunque» (ouv) che richiama quanto detto in precedenza, sia il verbo «avere gli stessi sentimenti» (<ppOVEtV), che era stato il "pezzo forte" nell'invito a imitare
Cristo (cfr 2, 5). Alla luce dell'imitazione di Cristo e della sua sequela, la perfezione a cui si accenna non è di ordine morale. Paolo
ha appena affermato di essere in cammino e di non avere ancora
raggiunto la meta. La perfezione allora è la coscienza di essere sulla strada giusta. Perfetti sono coloro che, spiritualmente maturi e
veramente saggi, conoscono il senso, lo scopo e il compito della vita cristianal48 . Cristo è il loro maestro e modello. Paolo ha il non
piccolo merito di additare la strada giusta e di essere lui stesso incamminato su di essa. Proprio qui sta la "perfezione".
Il cristiano "pellegrino" (homo viator) smentisce tutti coloro
che, come pseudoprofeti, predicano un perfezionamento già raggiunto in questo mondo. Chi si considera "un arrivato", arresta la
corsa, si blocca, non raggiungendo mai Cristo che sta sempre al di
là dei limitati sforzi compiuti. Il discorso si tinge di impopolarità
perché, se l'esistenza cristiana viene caratterizzata come pellegrinante, l'uomo percepisce la precarietà dell'universo. Non c'è nulla di definitivo, finché non si arriva a Cristo e in Cristo; ecco perché Paolo sollecita a imitare lui e tutti coloro che si comportano
come lui. Da qui l'esortazione del v. 16: «Intanto, dal punto in cui
siamo arrivati, continuiamo ad avanzare sulla stessa linea»149.
I vv 18-19 contengono una rovente polemica contro nemici,
148 <<Perfetti, nel senso che siamo in movimento verso Cristo, la nostra meta, e che
ci lasciamo dietro e dimentichiamo ciò che sta alle nostre spalle», SCHLlER, 59.
CO è la possibilità di una duplice lettura: «Il vocabolo "perfetti" può essere preso
seriamente oppure in senso ironico; nel primo caso, verrebbe riconosciuta una
certa maturità, se non a tutta la comunità, almeno ad alcuni suoi membri [... ].
Nel secondo senso, il termine sarebbe la parola d'ordine dei propagandisti e di
quanti danno loro una mano», PERETTO, 65.
149 La frase è molto sintetica e quindi un po' oscura; la critica testuale enumera
diversi tentativi per illuminarla, soprattutto con l'inserimento del verbo <ppovEiv
(S corretto, K, P, D, 1881,81,104... e scrittori come Crisostomo, Teodoro, Giovanni Damasceno ... ).
L'esperienza di Cristo (Fil 3,14-4,1)
93
non meglio identificati. Non è escluso che si tratti delle stesse persone menzionate in 1,15-17; certamente sono dei cristiani. Considerati a questo punto del discorso, possiamo pensare che siano
persone che si oppongono risolutamente alla sequela di Paolo, e,
in definitiva, all'imitazione di Gesù. Sono infatti caratterizzati co- I
me «nemici della croce di Cristo». La frase connota persone che
propagandano una via di accesso a Cristo, diversa dalla Via Crucis. Pura illusione: non ci sarà mai il radioso mattino di Pasqua'
senza le tenebre del venerdì santo. Eppure, poiché la sofferenza e
la rinuncia ripugnano istintivamente all'animo umano, si vogliono collaudare strade più comode, asfaltate di piaceri e vellutate di
comodità. Paolo qualifica questi cristiani come persone dedite alla vita gaudente, che «hanno come dio il loro ventre». Il ventre sa-'
rebbe per qualche autore «una parola castigata per indicare cupidigie sensuali senza complessi, crapule e godimenti sfrenati»150.
Altri preferiscono leggere tutta l'espressione come «una forma religiosa diametralmente opposta non solo a quella del cristiano, ma
anche a quella del giudeo»151. Comunque si voglia interpretare, la
frase le classifica come persone totalmente ripiegate su se stesse,
incapaci di sollevarsi oltre l'angusto orizzonte del loro egoismo,
destinate a una fine misera. Questa è la «perdizione» (èX1tcOÀEta)
del v. 19 che coincide con il giudizio finale, decisamente sfavorevole 152 , e che non ammetterà nessun appello. Sono persone che
hanno fallito totalmente la meta. La loro corsa è terminata nel baratro della perdizione.
Tutt'altra aria si respira con i vv 20-21 che additano il vero
traguardo della vita cristiana. Abbiamo qui, forse, il frammento di
FRlEDRICH, 231-232.
L. DE LORENZI, «Il nostro "politeuma" è nei cieli» Fil 3, 20a, PSV 28 (1993)
163; cfr tutto l'articolo 135-181.
152 «11 sostantivo assume un senso nettamente più profondo quando riguarda la
rovina definitiva che l'uomo si procura per propria colpa (Mt 7, 13; qui il concetto opposto è "vita": 7,14), specialmente in Paolo (Rom 9, 22; FilI, 28; qui il
contrario è "salvezza": Fil 3, 18). Gli uomini che sono caduti in questo stato sono detti "figli della perdizione" (2 Tes 2,3; cfr Gv 17, 12; 18,9 e Qurnran)>>, A.
KRETZER, à1tcl:>À.Eta, in: H. BALZ - G. SCHNEIDER (edd.), Dizionario esegetico del
Nuovo Testamento, l, Paideia, Brescia 1995,361-362.
150
151
94
MAURO ORSATTI
un inno 153 • Dapprima si parla di una realtà «nei cieli». Qui la geografia non serve. ~uomo ha bisogno di concretezza e a questo mira
il riferimento spaziale. ~ espressione è quindi un tributo da pagare al
modo di esprimersi umano e al bisogno di localizzazione. La sostanza del messaggio incomincia a chiarificarsi con la precisazione del
termine «patria» (politeuma, 1tOÀl1:EUf!(154), da intendere come «la nostra costituzione e governo (che) è nei cieli»155. Abbiamo una cittadinanza che ci onora e ci nobilita, perché ci rende familiari con Cristo.
Egli, presentato nella pienezza dei suoi titoli: «salvatore, Signore Gesù Cristo», è l'oggetto della speranza di Paolo e di tutta la comunità.
Dicendo che noi l'attendiamo «di là», lascia intendere che la
sua condizione gloriosa sarà un giorno partecipata alla comunità. Il
v. 21 spiega in che cosa consista la funzione salvatrice di Cristo.
Sarà, sostanzialmente, una trasfigurazione, intesa come trasformazione radicale di tutto il nostro essere, corpo compreso, conformato a Cristo, e, più precisamente: «al corpo della sua gloria» (traduzione CEI: «al suo corpo glorioso»). Tale espressione «è un tentativo linguistico per significare il tipo di esistenza gloriosa proprio di
Gesù dopo la sua morte» 156. La piena assimilazione a Cristo: era
questo il segreto desiderio di Paolo, che anelava a seguire Cristo
nella morte per seguirlo pure nella risurrezione (cfr vv 10-11).
Paolo travasa le sue convinzioni e le sue aspettative nella comunità, ricordando la gloriosa meta di ogni uomo. Cristo non è
solo l'agognata meta della fine della vita, ma colui che già oggi ci
attrae a sé, trasfigurandoci ogni giorno e favorendo la nostra assimilazione a lui.
IS3 È l'opinione di 1. REUMANN, Philippians 3.20-21 - a Hymnic Fragment?,
NIS 30 (1984) 593-609, dove, tra l'altro, si afferma: «It appears possible to us
therefore that 3.20-21 is a non-Pauline hymn, written prior to his use of it here, preserved pretty much intact», 605. Di parere contrario, in quanto non lo ritiene un inno preesistente, L. DE LORENZl, «Il nostro "politeuma" è nei cieli»
Fil 3, 20a, cit., 144.
IS4 Il sostantivo è un hapax di tutto il NI; nell'AI ricorre solo in 2 Mac 12,7.
15S Questo è il tentativo di tradurre il fonema greco 1toÀl~EufW, cfr L. DE LORENZI,
«Il nostro "politeuma" è nei cieli» Fil 3, 20a, cit., 135.
156 PENNA, 121.
L'esperienza di Cristo (Fil 3,14-4,1)
95
CONCLUSIONE
Paolo, che potremmo sportivamente chiamare "l'atleta di Cristo", è in vena di confidenze e parla alla comunità di Filippi della sua "corsa" spirituale. Lui, un tempo giudeo osservante fino
allo scrupolo, avrebbe potuto trarre dalla sua posizione motivo di
vanto e di gloria; invece, ritiene tutto spazzatura da quando ha incontrato Cristo. E si è messo a seguire solamente lui.
Ha accettato una radicale trasformazione del cuore, perché,
dimentico di tutto, si protende verso l'unica cosa capace di inglobare tutte le altre: la conoscenza di Cristo, cioè l'esperienza
profonda della sua persona. È in lui che ha scorto la vera novità di
vita, l' unum necessarium, che merita di essere ricercato sempre e
a ogni costo. Lo aveva detto ripetutamente, ma ancora una volta
Paolo sente il bisogno di ripeterlo e quasi di gridarlo: la sua vita è
Cristo. Egli è l'unica, l'ultima realtà.
Non per questo Paolo si sente arrivato. Sa di essere stato
afferrato da Cristo e di continuare a correre verso una meta che
non si raggiunge mai nel tempo. Egli è sospinto dalla speranza di
raggiungere la comunione con Cristo. Fermarsi per compiacersi
delle proprie virtù, sarebbe come uno che si fermasse per sapere
se corre! La fede non la si possiede, ma si è posseduti, o meglio,
si è afferrati da Qualcuno.
Paolo sa bene che la sua scoperta non deve restare un tesoro
da proteggere o da custodire gelosamente. Perciò scrive alla
comunità, comunica la sua passione di apostolo e di innamorato
di Cristo, sollecitando perché la sua esperienza sia partecipata e
condivisa. Dalle parole e dal comportamento dell' Apostolo, i
Filippesi apprendono che la vita non è semplicemente l'adempimento di una norma, ma, molto di più, la pienezza di un incontro:
«Il cristiano non deve realizzare un ideale di perfezione morale,
egli vive nell' amore una sua unione, anzi, una sua assimilazione,
una trasformazione sempre più intima e vera nel Cristo» 157 ,
157
D. BARsoTTI, Meditazione sulla lettera ai Filippesi, Queriniana, Brescia 1990, 63.
,
\1
DABAR - LOGOS - PAROLA
Lectio divina popolare
II
LETTERE
AI TESSALONICESI
Introduzione e commento di
FRANCESCO MOSETTO
~
EDIZIONI
MESSAGGERO
PADOVA
,
I
I
PREMESSA
I
I
Questo breve commento alle lettere di Paolo alla
chiesa di T essalonica, inserito nella collana «Dabar Logos - Parola», si propone anzitutto di guidare nella
lettura del testo biblico mettendone in evidenza il
senso letterale, ma anche di aiutare il lettore nella meditazione personale mediante alcuni spunti di attualizzazione. Numerosi e qualificati sussidi offrono utili
orientamenti per la lectio divina. Una breve guida si
trova anche nel risvolto della copertina di questo volumetto. In questa Premessa ci pare utile segnalare
alcuni momenti essenziali dell'esegesi, affinché il
commento proposto risulti più utile e convincente.
Come leggere le lettere di san Paolo
Imprimatur
Padova, 24 aprile 2007
Danilo Serena, Vico Ceno
ISBN 978-88-250-1696-3
Copyright © 2007 by P.P.f.M.C.
MESSAGGERO DI SANT'ANTONIO - EDITRICE
Basilica del Santo - Via Orto Botanico, Il - 35123 Padova
www.edizionimessaggero.it
Qualsiasi commentario delle lettere di san Paolo
utilizza un "metodo" esegetico. La metodologia utilizzata nel presente commentario è quella generalmente condivisa dall'esegesi contemporanea. Il documento della Pontificia Commissione Biblica
«L'interpretazione della Bibbia nella chiesa cattolica»
(Città del Vaticano, 1993) la riconosce sostanzialmente valida. N e evidenziamo alcuni aspetti essenziali:
• Le lettere paoline appartengono al canone delle
Scritture sacre, che comprendono l'Antico e il Nuovo Testamento. Vanno perciò lette e interpretate in
tale contesto. In particolare, le Scritture ebraiche
(Antico Testamento) offrono il retroterra religioso e
culturale, necessario per comprendere la teologia e il
5
Prima lettera ai Tessalonices i
AZIONE DI GRAZIE E RICORDI
(1,2-3,13)
1. RINGRAZIAMO SEMPRE DIO... (1,2-10)
Lettura
2 Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere 3 e avendo continuamente presenti, davanti a Dio e Padre nostro, il vostro impegno nella
fede, il vostro amore operoso e la vostra perseverante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo. 4 Ben sappiamo, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. 5 Il nostro
vangelo, infatti, non è giunto a voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito santo e
con profonda convinzione: ben sapete come siamo stati
in mezzo a voi e per voi. 6 E voi avete seguito il nostro
esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in
mezzo a grandi prove con la gioia dello Spirito santo, 7 così
da diventare modello per tutti i credenti della Macedonia e
dell'Acaia. 8 Per mezzo vostro, infatti, la parola del Signore
risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra
fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne. 9 Sono essi infatti a raccontare
quale accoglienza abbiamo avuto tra di voi e come vi siete
convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivente e vero
lO e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato
dai morti, Gesù, che ci libera dall'ira che sta per venire.
Interpretazione
N elle lettere private dell'antichità classica al saluto
segue sovente un'espressione di ringraziamento rivolta alle divinità. Anche Paolo di norma inizia la
sua corrispondenza con una "azione di grazie", che
in questo caso riguarda quanto Dio ha operato e
20
Testo e commento
continua a operare nella giovane comunità di T essaIonica (v. 2; cf. 2,13; 3,9). Nelle sue preghiere egli si
ricorda costantemente di quei fedeli: si affaccia allora
alla sua mente l'intensità della loro vita cristiana,
riassunta nelle tre dimensioni fondamentali «fede amore - speranza» (v. 3; cf. 1Cor 13,13). Più che le
virtù in se stesse, Paolo sottolinea la loro manifestazione concreta: l'«impegno» (letter. «opera»), che è
frutto della fede; l'instancabile operosità (letter. «fatica»), che scaturisce dall'amore; la pazienza nel sostenere le prove, che trae forza dalla speranza. Questa è
rivolta al Signore Gesù, che un giorno verrà dal cielo
(cf. v. lO) e porterà con sé quelli che gli appartengono (cf. 4,13-18; 5,9).
La missione di Paolo a Tessalonica
Dal quadro confortante della vita cristiana dei destinatari l'apostolo risale alla chiamata divina, della
quale è segno evidente l'accoglienza che il messaggio
evangelico ha avuto a T essalonica e la sua diffusione
per mezzo degli stessi tessalonicesi. Dal momento
che li ha chiamati alla fede, Paolo è certo che Dio li
ha «scelti» (cf. Rm 8,28ss.), così come un tempo aveva eletto la stirpe di Abramo per fare di essa il suo
popolo (v. 4). Ne è prova il fatto che la buona novella (<<il nostro vangelo») non consisté unicamente in
parole umane, ma era sorretto dalla «potenza (dfnamis)>> di Dio (cf. 1Cor 2,1-4; Rm 1,16) e accompagnato dall'azione dello Spirito, il quale operava nel
cuore di uomini e donne portandoli alla conversione
e alla salvezza (v. 5). Il risultato è stato una «profonda
convinzione» (pleroforia, traduzione CEI), la certezza
interiore dei credenti, o - forse meglio - una «grande
pienezza», nel senso di perfetto compimento, pieno
successo dell'azione evangelizzatrice, o anche di abbondanza di doni spirituali (cf. lCor 1,4-7), frutto
appunto della potenza operante dello Spirito.
21
Prima lettera ai Tessalonicesi
L'accenno al comportamento dei missionari prepara lo sviluppo successivo, nel quale Paolo richiama
il suo stile missionario generoso e disinteressato (2,112). Intanto, sempre in chiave di ringraziamento, l'apostolo continua a elogiare i cristiani di Tessalonica,
i quali sono diventati (letter.) «imitatori nostri e del
Signore» (v. 6). Ai corinzi scriverà: «Diventate miei
imitatori, come io lo sono di Cristo» (l Cor 11,1; cf.
Fil 3,17). Gesù è il modello, che ogni cristiano deve
riprodurre (cf. Fil2,5ss.); ciò vale in modo particolare per la sofferenza, che non è risparmiata a coloro
che abbracciano la fede (cf. 2,14ss.). CosÌ i tessalonicesi hanno «accolto la parola [di Dio] con la gioia
dello Spirito santo in mezzo a grandi prove (letter.:
grande tribolazione)>>. La gioia nella sofferenza è un
paradosso cristiano, vissuto da Paolo in prima persona (cf. 2Cor 7,4).
Da Cristo a Paolo ai tessalonicesi, diventati a loro
volta «modello per tutti i credenti della Macedonia e
dell'Acaia» (v. 7), le due province romane dell'antica
Grecia. L'apostolo sottolinea l'irradiarsi della fede
cristiana a partire da T essalonica, sia in forza dell'esempio (<<la fama della vostra fede in Dio si è diffusa
dappertutto», v. 8) sia mediante l'attivo impegno
missionario (<<la parola del Signore riecheggia per
mezzo vostro»). Non occorre che Paolo continui a
parlarne, dal momento che il successo della sua missione nella loro città è noto in tutta la regione.
La conversione dei tessalonicesi
A questo proposito Paolo descrive in modo incisivo il mutamento che si è verificato nella loro vita:
«... vi siete convertiti dagli idoli a Dio per servire il
Dio vivente e vero e attendere dai cieli il suo Figlio,
che egli ha risuscitato dai morti...» (vv. 9-10). Nel
linguaggio biblico «conversione» e «convertirsi» (let22
Testo e commento
ter. «ritorno», «ritornare») presuppongono un rapporto di amore e obbedienza verso il Signore, che è
stato compromesso dall'infedeltà (vedi, per esempio,
Is 6,9-10). Nel NT la conversione si coniuga con l'adesione a Cristo (cf. At 2,38; 3,19-20; ecc.) e, trattandosi di «gentili» (coloro che appartengono alle
«genti», i non ebrei), comporta un passaggio e una
trasformazione ancora più radicale e profonda.
Il primo aspetto della conversione sta infatti nell'abbandono del culto delle divinità del mondo pagano, gli «idoli» (di per sé le statue di tali divinità), che
a sua volta esige il rifiuto dello stile di vita dei gentili,
spesso immorale (cf. lCor 6,9-11; Rm 1,18-32). Positivamente, la nuova esistenza si caratterizza come
«servire al Dio vivente e vero», aggettivi che nelle
Scritture ebraiche si addicono all'unico Dio, il Signore di Israele (vedi, per esempio, Es 34,6 Lxx; Dt
32,40): la conversione di un «gentile» consiste in primo luogo nell'abbracciare il monoteismo giudaico,
con il conseguente impegno etico, quanto già facevano i proseliti e quelli che negli Atti degli Apostoli
sono chiamati «adoratori di Dio».
Ma l'adesione alla fede cristiana comporta un momento specifico, qui definito a partire dall'oggetto
della speranza: la (seconda) venuta di Cristo come
salvatore escatologico. Solo in modo subordinato è
evocato il centro del kerigma (cf. 4,14): colui del
quale si attende la venuta è «il suo Figlio, che egli
[Dio Padre] ha risuscitato dai morti, Gesù... » (v.
lO). Il Figlio di Dio, che il Padre ha risuscitato e innalzato alTa sua destra (cf. At 2,33; ecc.), ritornerà un
giorno come giudice (cf.At 10,42; 17,31; Mt 25,3146) e come salvatore (cf. Mc 13,27; Lc 21,28). Qui
si sottolinea il significato salvifico della seconda venuta di Cristo: venendo «dai cieli», ossia dalla dimora
divina (il plurale riflette il linguaggio ebraico), egli
«ci libera dall'ira che sta per venire». Sulla scia dei
23
Prima lettera ai Tessalonicesi
testi biblici, l'espressione «ira di Dio» indica la sua
reazione nei confronti del peccato (cf. Rm 1, 18ss.).
N el «giorno del Signore» i peccatori saranno colpiti
da una «rovina eterna» (5,2ss.; 2Ts 1,8ss.), mentre i
«figli della luce» (5,5) saranno sottratti all' «ira» che
«sta per venire». Grazie al Signore Gesù, che per loro
è morto ed è risuscitato, essi sono certi di essere stati
«eletti da Dio» (l,4), chiamati «al suo regno e alla sua
gloria» (2,12), «destinati all'acquisto della salvezza»
(5,9). Il tema sarà ripreso nella sezione parenetica
della lettera (cf. 4,13-5, Il).
Attualizzazione
La preghiera di Paolo è la preghiera di un missionario. Egli non può rivolgere la mente e il cuore a
Dio senza «ricordarsi» delle persone alle quali ha
consacrato la sua vita. Le ha continuamente presenti
e si preoccupa di loro, affidando al Signore le loro
necessità. Prima ancora, però, vede il bene che c'è
nella loro vita. La preghiera cristiana, e Paolo ne è
modello, è anzitutto ringraziamento, «eucaristia».
Da Timoteo l'apostolo ha appreso che i fedeli della
giovane comunità sono cristiani convinti e ferventi.
Mentre ne ringrazia Dio, Paolo li elogia sinceramente, incoraggiandoli così a perseverare.
Testo e commento
polo e ciascuno dei suoi figli, li destina a essere conformi all'immagine del Figlio, li chiama per mezzo
degli annunciatori del vangelo.
D Paolo ne è certo, dal momento che la sua missione
a T essalonica ha avuto pieno successo. Il suo annuncio non è stato solamente questione di parole, ma ha
avuto la forza dello Spirito che opera nel cuore delle
persone. Ne è conferma la risposta meravigliosa dei
neofiti: non solamente hanno accolto la Parola, ma
sono diventati testimoni convinti del vangelo e
l'hanno diffuso in tutta la regione. Così sono a loro
volta diventati un modello per tutti i credenti della
Macedonia e dell'Acaia.
D
D Fede, carità, speranza, sono i cardini della vita cristiana. L'una non sta senza l'altra. Tutte e tre si manifestano in atteggiamenti concreti: la fede nell'impegno di viverla coerentemente; l'amore nell'operosità che esso suscita; la speranza nella paziente
sopportazione delle prove.
D Contemplando lo spettacolo di una comunità fervorosa, l'apostolo risale alla sua origine: l'elezione e la
vocazione divina. Ogni dono spirituale viene da Dio:
fin dall'eternità egli sceglie gratuitamente il suo po-
24
D Inizio e fondamento della vita cristiana è la conversione. È questo il passo decisivo. Chi abbraccia la fede
deve anzitutto convertirsi, volgere le spalle agli idoli quelli di oggi come quelli di allora - e mettersi al servizio del Dio vivente e vero. Conversione a Dio e fede
in Cristo sono inscindibili, perché è Dio Padre a
mandarci il Figlio Gesù e questi a sua volta ci conduce al Padre e ci riconcilia con lui. La fede in Cristo,
morto per i nostri peccati e risuscitato dal Padre, è
anche speranza nella salvezza finale: al suo ritorno egli
ci introduce definitivamente nel regno di Dio.
2. L'ANNUNCIO DI PAOLO (2,1-12)
Lettura
l Voi stessi infatti, fratelli, sapete che la nostra venuta
tra voi non è stata vana. 2 Dopo aver sofferto e subito oltraggi a Filippi - come sapete - abbiamo avuto il coraggio
nel nostro Dio di annunciarvi il vangelo di Dio tra molte
lotte. 3 La nostra esortazione non era mossa da volontà
d'inganno, né da torbidi motivi, né abbiamo usato frode
25
I
DABAR - LOGOS - PAROLA
Lectio divina popolare
LETTERA
AI ROMANI
Introduzione e commento di
ANTONIO PITTA
~
EDIZIONI
MESSAGGERO
PADOVA
I
A F. Zerrillo mio vescovo,
a M Ricci mio parroco,
per il loro 50° anno di presbiterato,
e ai tanti presbiteri con i quali
il Signore mi ha concesso di condividere
il vangelo di Paolo.
Imprimatur
Padova, 15 luglio 2003
Danilo Serena, Vico Ceno
ISBN 88-250-1292-6
Copyright © 2003 by P.P.F.M.C.
MESSAGGERO DI SANT'ANTONIO - EDITRICE
Basilica del Santo - Via Orto Botanico, Il - 35123 Padova
Il confronto tra Gesù Cristo e Adamo
senza un orizzonte che ponga in risalto la funzione di
Gesù Cristo nella storia della salvezza e nelle vicende
umane.
La domanda che dovrebbe accompagnare la questione sull'uomo, quale risalta da Rm 5,12-21, non è
come si è diffuso il peccato originale, e tanto meno
sulle origini della specie umana, ma quale via di liberazione dal dilemma che attanaglia, da sempre, gli
esseri umani, senza Cristo: di fronte e oltre il fato e/
o la responsabilità, si trova il dono della grazia o della
giustificazione, realizzato da e in Cristo. Chi è Gesù
Cristo per me oggi? Che peso occupa la grazia e la
vita che Dio ha riversato in noi per mezzo di Cristo?
A volte, come Adamo, dopo il peccato originale fuggiamo da Dio: non ci sentiamo persi e dibattuti, senza sosta, tra il destino e il peso delle nostre responsabilità?
Un luogo evangelico di grande importanza ci aiuta
ad affrontare queste domande, nello scrigno del cuore: Cesarea di Filippo, la città del primato di Pietro,
in cui Gesù chiede, senza scampo, ai suoi discepoli
chi egli sia per loro (cf. Mt 16,13-20). La risposta a
tale domanda, diversa e personale per ognuno, aprirà
uno squarcio luminoso su chi siamo noi per lui, a
che cosa siamo indirizzati, nella via della sequela.
Qualunque itinerario di sequela stiamo compiendo,
dobbiamo sempre passare per Cesarea di Filippo.
78
...
L'INCOMPATIBILITA
TRA LA GRAZIA E IL PECCATO
Romani 6,1-14
1 Che diremo dunque? Rimaniamo nel peccato perché abbondi la grazia? 2 E assurdo! Noi, che già siamo moni al
peccato, come potremo ancora vivere in esso?
3 O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo
Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? 4 Per mezzo
del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai moni per
mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo
camminare in una vita nuova. 5 Se infatti siamo stati completamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo
saremo anche a somiglianza della sua risurrezione.
6 Lo sappiamo: l'uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di
peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. 7 Infatti
chi è morto, è liberato dal peccato.
8 Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, 9 sapendo che Cristo, risorto dai morti,
non muore più; la morte non ha più potere su di lui.
lO Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece che vive, vive per Dio. Il Così anche voi
consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.
12 Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri.
13 Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti
di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi,
ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia.
14 Il peccato infatti non dominerà su di voi perché non siete sotto la Legge, ma sotto la g@zia.
79
L'incompatibilità tra la grazia e il peccato
LETTURA
La parte kerigmatica di Rm 5,1-21, dedicata alle
conseguenze della giustificazione in Cristo e al confronto tra Adamo e Cristo, lascia il posto a una serie
di questioni che Paolo affronta nella sezione di Rm
6,1-7,25. Lo stile utilizzato è quello della diatriba
popolare: Paolo stesso si pone alcune domande e risponde con frasi brevi che spiega nel corso della dimostrazione, causando le seguenti questioni:
L'incompatibilità tra la grazia e il peccato (6,114);
La signoria della grazia contro quella del peccato
(6,15-23);
L'appartenenza a Cristo e non alla Legge (7,1-6);
La tragicità della Legge e dell'io (7,7-25).
La nostra attenzione si concentra ora sulla prima
questione delineata in Rm 6,1-14: si tratta di una
delle pagine più note nella teologia sacramentaria e
battesimale, in particolare, delle lettere paoline. Tuttavia è bene precisare che la tematica principale del
paragrafo non è quella del battesimo, nonostante i
titoli posti nelle diverse versioni del paragrafo, bensì
riguarda l'incompatibilità o l'impossibilità della coesistenza del peccato e della grazia nell'esistenza cristiana, come dimostra la domanda d'apertura (cf.
6, 1). JI!Junzion~ di talequesti(me,_ Paolo si sofferma
anche sul battesimo, ma tale argomentazione rappresenta una prova ulteriore rispetto alla tesi da dimostrare.
La composizione del brano permette di cogliere
l'importante relazione tra il kerygma e l'etica nel
pensiero di Paolo: di fatto, i vv. 1-11 sono dedicati
alla definizione delle relazioni con la morte e risurrezione di Cristo, mentre i vv. 12-14 passano alle
80
Romani 6,1-14
is:a~1Ze etiche su!.!' 0f!ert~ .dei proP7i corpi per la giuStlZIa e non per l mglUstlZla, per DIO e non per il pec~at? Tale ~ntrecci? lascia intendere che, per Paolo, .
l etlca no~ e semplIcemente una conseguenza del ke- Y
Iygma, plU o meno presente o consistente, bensì una
r~altà o .un a~bito nel quale il keIygma della morte e :/
nsurrezIOne dI Cristo si rende visibile e s'incarna.
.J
. ~e_I1.~a.il k~ry_grna, l'etica rischia di cadere in forme
dI moralIsmo, fondate semplicemente sul «tu devi»; e
S~!!~<lX~!~c:.a, il keIygma e la fede corrono il pericolo
~I non ave.re. alcuna incidenza o ripercussione nell'esIstenza cnstlana. Per questo, nonostante la distanza
spazio-temporale tra le lettere paoline e il nostro
tempo, la sua morale non si presenta come desueta
né transitoria, ma assume orientamenti permanenti
e sempre attuali: è ancorata e costruita sulla fonda~ent~le reLl~ione con ~r~sto e non soltanto sui paradigmi moralI della societa greco-romana o giudaicoellenistica.
Il lifolgu~gg~o .che do~ina il paragrafo è quello
«parteClpaZIOlllStlCO»; ed e la grande novità che offre
l'opportunità di ripensare la consistenza del battesimo cristiano: si assiste a un continuo interscambio
tra la morte e risurrezione di Cristo, da una parte, e
la morte e vita dei credenti, dall'altra (cf. 2Cor 4,71.I). Da q~esto punto di vista, persino il linguaggio
dI Paolo dIventa nuovo: «essere-con-crocifissi» (v. 6),
«con-sepolti» (v. 4), «con-uniti» (v. 5) a Cristo sono
verbi coniati da lui, per esprimere la condivisione dei
credenti alla morte di Cristo. Tale rivoluzione di linguaggio non è semplicemente formale ma veicola
una novità contenutistica: il battesimo non è visto
ta~1t? c~me rito o in quanto condIzione per diventare
CnStlalll, analogo alla circoncisione, per l'adesione al ~
popolo giudaico, ma ancor più come espressione di
una partecipazione vitale, per la fede, alla morte e
risurrezione di Cristo.
81
L'incompatibilità tra lo grazio e il peccato
INTERPRETAZIONE
O Il v. 3 è composto secondo una disposizione chia-
stica che orienta nella comprensione del suo contenuto; se tradotto in modo letterale, cosÌ recita:
a) Non sapete che quanti siamo stati battezzati
b) in Cristo Gesù,
b') nella sua morte
a') siamo stati battezzati?
Il centro del chiasmo è occupato dalla relazione
con Cristo Gesù e, in particolare, con la sua morte
(b-b'); le parti limitrofe sottolineano l'evento passato
dell'essere battezzati (a-a'). Poiché, in genere, nel
chiasmo paolino, il posto più importante è occupato
dalla parte centrale, al centro di questa sente~za battesimale si trova la relazione con la morte dI croce,
quale condizione per essere ?attez~at~. In ta~ senso,
la visione paolina del batteSImo SI dIfferenZIa dalla
partecipazione religionistica dei culti mist~r~ci (cf. il
culto di Mitra o di Iside nei misteri eleusIlll), come
anche dalla visione qumranica o della trazione che
rimanda a Giovanni Battista.
~
Non si tratta di un semplice rito di purificazione
né di una relazione misterica con la divinità, bensÌ di
una partecipazione alla morte di Cristo, da c~i deriva
la morte e la vita dei credenti. Per questo, In 1Cor
1,13-17 Paolo prende le distanze da una concezione
magica del battesimo, sottolineando di essere s~ato
mandato ad evangelizzare e non a battezzare. PrIma
e come condizioni senza le quali il battesimo cristiano non può dirsi tale c'è, da una parte, l'accoglienza
del vangelo e, dall' altra, l'adesione per la fede alla
morte e alla vita di Cristo.
O Nei vv. 4-5 Paolo esprime tutto il dinamismo nel-
la propria visione del battesimo: si può notare che
mentre la partecipazione alla morte e alla sepoltura
82
Romani 6, /-/4
di Cristo si riferisce al passato dell'esistenza cristiana,
quella alla sua risurrezione è spostata verso il futuro:
un elemento di ulteriore e fondamentale differenza
rispetto ai culti misterici, per i quali si assiste alla sincronia o alla contemporaneità della partecipazione __
alla morte e alla vita delle divinità. In tal modo, una
condizione autenticamente battesimale attraversa
l'intero arco dell'esistenza cristiana: nel passato e nel
presente si è relazionati alla morte di Cristo, quale
origine della morte e della vita dei credenti; nel futuro si spera di condividere la sua risurrezione.
Da questo punto di vista, il Paolo di Gal 3,27-28
e di Rm 6,1-14 si differenzia anche dal Paolo della
sua tradizione, per il quale anche la partecipazione
della risurrezione è un evento già realizzato, insieme
alla condivisione della sua morte: «Se dunque siete
risorti con Cristo, cercate le cose di lassù» (Col 3,1).
\j i ç I
'j V' ~
O Una breve precisazione merita anche la visione
paolina del «peccato» in 6,1-14: non riguarda tanto
la dimensione etica e categoriale del peccato, opposto alle azioni buone o positive che ognuno compie,
quanto il peccato come poten~a che rende schiavi gli
uomini e impedisce di vivere nella libertà più profonda. In pratica, il peccato di Rm 5,1-8,39 è soprattutto una Machtkraft o una potenza che soggioga gli
esseri umani e da cui s01tanto Cristo può liberarci,
diventando lui stesso peccato e maledizione sulla
croce (cf. 2Cor 5,21; Gal 3,13-14), pur non avendo
commesso alcun peccato. Pertanto, il~red~n.t~, pur
sperimentando le cadute, dovute alla fragilità nella
sua condizione umana, è libero dal peccato, in quan- .'to è passato a servizio di Cristo: appartiene a una
nuova vita che, in lui, diventa ragione e potenza per
superare anche le cadute quotidiane che, in certo
senso, rischiano di offuscare la sua appartenenza alla
creazione nuova, nata dalla croce di Cristo.
83
L'incompatibilità tra /o grazio e il peccato
o Il vocabolario della partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo in 6,1-14 è, comunque, parziale,
in quanto sottolinea soltanto il movimento all'indietro della condivisione cristiana: i credenti sono stati
con-crocifissi e con-sepolti insieme a Cristo. Altrove,
Paolo non dimentica di evidenziare anche il movimento inverso, dal passato al presente dell'esistenza
cristiana: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che
vive in me», dirà in Gal 2,20 (cf. anche 2Cor 4,7-12).
In questione è, ancora una volta, una partecipazione dinamica e non statica: senza la relazione con
il passato della morte di Cristo si rischia di ridurre il
messaggio cristiano e il battesimo a una sorta di gnosi, carente di qualsiasi incidenza nella storia; e senza
la relazione con il presente, si cade in un archeologismo che non ha ripercussioni o ricadute sul presente
della nostra vita. In fondo, tale circolo relazionale
con Cristo si trova alla base di tutta la teologia dei
sacramenti nella chiesa: è l'autentica partecipazione
al mistero del culto cristiano, come amava definirlo
O. Casel, uno dei padri della teologia liturgica contemporanea l.
ATTUALIZZAZIONE
«Ritornare al battesimo» è la grande sfida con la
quale la chiesa oggi si propone di delineare un percorso di nuova evangelizzazione. Tuttavia tale opzione decisiva ha bisogno di scelte a volte radicali, senza
le quali il battesimo rischia di restare insabbiato nelle
categorie magiche del culto. Tornare al battesimo significa ripensare, prima di tutto, la propria relazione
l Cf. O. CAsa, Fede, gnosi e mistero. Saggio di teologia del culto
cristiano, Edizioni Messaggero, Padova 2001 (l'originale tedesco è del
1941).
84
Romani 6, /-/4
con il vangelo e, in particolare, con la morte e risurrezione di Cristo; accompagnare tale sacramento con
una fede non tanto radicata sulle tradizioni o suoi
costumi familiari e popolari, bensì sull'opzione fondamentale per Cristo; e una fede che riscontra il suo
sbocco naturale non nell'intimismo delle proprie
scelte, bensì nella condivisione etica dei propri modi
di pensare e di agire.
Poiché al battesimo si accompagna il dono della
vita nuova in Cristo, resta importante continuare a
impartire il pedo-battesimo o il battesimo dei bambini; ma è necessario, anzi urgente, che la fede degli
adulti sorregga tale dono, affinché non si riduca al
lumicino né sia visto semplicemente come qualcosa
di passato e basta.
Al contrario, dove manca un reale contesto di fede
e di evangelizzazione, è bene, se non necessario, dilazionare il battesimo dei bambini e confidare nella
grazia del Signore che, attraverso un itinerario catecumenale, conduce al battesimo.
Battezzare significa in termini letterali «immergere», «affogare»: i credenti sono immersi nella morte e
vita di Cristo. Si fa sempre più urgente la ripresa di
catechesi battesimali che ridefiniscano i simboli stessi
della fede e dell'iniziazione cristiana. Anche i padri
della chiesa (cf. le catechesi mistagogiche di Giovanni Crisostomo, Ambrogio di Milano, Agostino d'Ippona, Cirillo di Gerusalemme) si sono trovati, come
Paolo, di fronte a queste sfide; e hanno prodotto
splendide catechesi battesimali.
Qual è la nostra concezione del battesimo? In che
termini ci relaziona alla morte e risurrezione di Cristo? E perché continuiamo a conferire il battesimo ai
bambini se non sosteniamo tale gesto con una fede
capace di prodursi in pedagogia o in accompagnamento? Che incidenza ha, nella nostra condotta etica, la grazia battesimale?
85
L'incompatibilità tra /o grazio e il peccato
Spesso è questione di linguaggio e di comunicazione, in quanto il linguaggio cristiano contemporaneo risulta poco o per nulla comprensibile a quanti
desiderano rifondare e motivare la propria fede. Paolo è stato capace di coniare termini nuovi che permettessero l'inculturazione della fede: soltanto l'ascolto paziente e umile del linguaggio del nostro
tempo, rende giovane e affascinante l'esperienza cristiana che, insieme al battesimo, riattesta e riformula
il vang.elo e la fede in colui che è morto ed è risorto
per nolo
86
LA TRAGICITÀ DELLA LEGGE
E DELL'IO
Romani 7, 7-25
Che diremo dunque? Che la Legge è peccato? No, certamente!
Però io non ho conosciuto il peccato se non mediante la
Legge. Infatti non avrei conosciuto la concupiscenza, se la
Legge non avesse detto: Non aver desideri cattivi. 8 Ma,
presa l'occasione, il peccato scatenò in me, mediante il
precetto, ogni sorta di desideri. Senza la Legge infatti il
peccato è morto.
9 E io un tempo vivevo senza la Legge, ma sopraggiunto il
precetto, il peccato ha ripreso vita lO e io sono morto.
La Legge, che doveva servire per la vita,
è divenuta per me motivo di morte. Il Il peccato infatti,
presa l'occasione, mediante il precetto mi ha sedotto e per
mezzo di esso mi ha dato la morte.
12 Così la Legge è santa, e santo, giusto e buono è il precetto.
13 Ciò che è bene allora è diventato morte per me? Non
davvero!
Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte
servendosi di ciò che è bene, perché il peccato risultasse
oltre misura peccaminoso per mezzo del precetto.
14 Sappiamo infatti che la Legge è spirituale,
mentre io sono uomo carnale, venduto come schiavo del
peccato.
15 Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non
quello che voglio, ma quello che detesto. 16 Ora, se faccio
quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona;
~7 quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita
m me.
18 lo so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il
bene;
7
87
LETTERATURA PAOLINA
2 Studio esegetico – teologico di alcuni testi
2.3 La lettera agli Efesini
2.3.1 Aspetti introduttivi alla lettera
(1) Data: se paolina: verso l’anno 60dC; se pseudonima: tra gli anni 80-100, più
probabilmente verso l’anno 90.
(2) Autore (= problema dell’autenticità): forse si tratta di una lettera deuteropaolina; il suo autore –non Paolo– era grande conoscitore di Paolo e delle sue lettere,
particolarmente di Colossesi. Si tratterebbe di un discepolo della «scuola di Efeso».
(3) Destinatari: sembra un dato sicuro che questo scritto non è stato destinato agli
Efesini, sebbene si legga così nelle nostre traduzioni (cf. 1,1). «In Efeso» è assente
dal P46 (il testo più antico di Efesini; c.200d.C), dai Codici Vaticano e Sinaitico
(secolo IV); alcuni Padri sono consapevoli di tale assenza (cf. Tertuliano, Origine,
Basilio; anche Marcione). L’aggiunta si spiega per l’importanza della città e per la
connessione con Ef, 6,21-22 e 2Tm 4,12 («ho inviato Tichico a Efeso»).
(4) Relazione con la lettera ai Colossesi: ci sono delle similitudini verbali ed strutturali (cf. p.es. L’indirizzo: Ef 1,1-2 con Col 1,1-2; rendimento di grazie: Ef 1,15-17
con Col 1,3-4.9-10; conclusione: Ef 6,21-22 con Col 4,7-8). Aspetti dottrinali e parenetici di Ef vengono sviluppati in dipendenza da Col, p.es. la risurrezione di Cristo:
33
Ef 2,5-6; Col 2,12-13; il codice domestico: Ef 5,22-25; 6,1-9 con Col 3,18-4,1 (per
altri aspetti, cf. Kobelski, «Efesini», 1158; cf. la ampia tavola sul confronto tra Efesini e Colossesi, in Brown, Introduzione, 829-830). La prospettiva delle due lettere è
pero diversa: «Il nucleo dottrinale di Ef è l’ecclesiologia, non la cristologia come in
Col. […] in Efesini vengono applicati alla Chiesa dei termini che hanno un significato cristologico, come mystérion e pléroma». Da queste e altre osservazioni, Kobelski
tira la seguente conclusione:
«L’autore di Ef ha usato Col come una fonte per la composizione della propria lettera, ma
con libertà; egli ha inoltre sviluppato le sue tematiche indipendentemente, introducendovi
delle idee che le rendessero idonee ai suoi obiettivi» (p. 1158).
(5) Divisione formale della lettera:
A. Formula introduttiva: (1,1-2);
B. Ringraziamento (1,3-23);
C. Corpo della lettera: (2,1-6,20):
2,1-3,21: istruzione dottrinale;
4,1-6,20: esortazione ad una degna condotta cristiana;
D. Formula conclusiva: 6,21-24.
Bibliografia sull’introduzione:
• Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia 2001, 818-840.
• Kobelski, «Efesini», in Brown - Fitzmyer - Murphy, Nuovo Grande Commentario Biblico,
Brescia 20022, 1156-1159.
34
2.3.2 Studio esegetico-teologico di Ef 4,1-5,20 e 6,10-20: la «vocazione cristiana»:
«La vita Nuova in Cristo» nella sua dimensione quotidiana
La letteratura paolina e deuteropaolina contiene ricchissimi materiali per la comprensione della condotta del cristiano in risposta alla sua vocazione. Le diverse lettere sono nate per confortare nella fede, nella carità e nella speranza a delle comunità gravemente minacciate internamente ed esternamente nella loro fedeltà al vangelo. È necessario dunque entrare nel mondo delle comunità primitive per vedere non solo come
hanno risposto alla chiamata vocazionale, ma anche per illuminare la nostra risposta
personale e quella delle nostre comunità. Per motivo di tempo, ho pensato solo alla
lettera agli Efesini. Che sia o meno di Paolo non toglie nulla alla portata del suo straordinario messaggio. In essa vedremo alcuni aspetti contenuti nella sua «parenesi» (le
istruzioni comportamentali pratiche per i cristiani) contenuta in 4,1-5,20 e 6,10-20.
(1) Vita cristiana e chiamata iniziale (Ef 4,1-3)
Come Paolo fa riferimento alla sua vocazione personale per fondare la sua attività
apostolica (cf. Rm 1,1; 1Cor 1,1; Gal 1,11-24; ecc), così egli fa riferimento alla chiamata ricevuta dai cristiani per motivarli a vivere degnamente il vangelo (1Cor 1,2;
35
Gal 1,6; 5,13; Ef 4,1; ecc). Esiste, perciò, un esplicito nesso tra la vocazione cristiana
e il comportamento cristiano. Vediamo questo rapporto in Ef 4,1-3.
(a) L’autore esorta («parakaléō»). Non si tratta di una buona parola (un consiglio), ma
di una dovuta risposta e che, perciò, ha il valore di un imperativo. Il suo rapporto con
quanto precede –indicato dal testo con la parola ou™n («oûn» = «dunque»)– e con quanto segue –il contenuto stesso dell’esortazione e la sua concrezione in una serie di norme pratiche– evidenziano un fatto essenziale: la forma di vita che obbliga ad ogni
cristiano (l’imperativo) ha il fondamento nella realtà che possiede nel presente (l’indicativo. Cf. p.es. 5,2.8; Gal 5,1.13). È il rapporto tra fede ed etica cristiana (alcuni
testi della prima parte della lettera indicano la realtà presente del cristiano [p.es. 1,314; 2,1-22; 3,4-7], la quale serve di base all’imperativo della vita cristiana.
(b) L’esortazione prende una direzione precisa in 4,1: i credente vengono esortati «a
vivere di una maniera degna della vocazione con cui siete stati chiamati». Questa è
la chiave della seconda parte della lettera. Rivolgiamo la nostra attenzione al verbo
«vivere». «Peripatéō» indica il cammino che si deve percorrere e con esso la condotta
del camminante. «Vivere» è sinonimo di «camminare» e di «comportarsi» (p.es. Rom
6,4; 13,13; 2Cor 10,3; Gal 5,16; Col 1,10; 2,6; ecc). Il suo nesso con uno stile preciso
36
di vita risulta evidente dal duplice e antitetico uso in 2,1-2.10. La sua importanza
aumenta, perché viene ripreso poi in 4,17, versetto iniziale del brano 4,17-24, il quale,
a sua volta, prepara una lunga serie di fatti (4,25-6,20) che indica lo stile cristiano
–come anche quello non cristiano– di camminare (= di vivere = di comportarsi) (cf.
«peripatéō» anche in 5,2.8.15).
(c) L’autore suggerisce che c’è un modo «indegno» di vivere, quello che corrisponde
alla condizione che i cristiani hanno già lasciato indietro (2,2; 4,17; 5,8); ad essa oppone, affermandolo esplicitamente, lo stile «degno» della vita cristiana. L’avverbio di
modo «degnamente» (aÓxi÷wß = «axíōs» = «di modo degno») introduce il criterio al
quale deve aggiustarsi il modo cristiano di camminare e col quale viene valutato. Tale
avverbio ha, di certo, una portata etica; essa prepara, con il suo carattere di esortazione generale, quanto verrà precisato dopo in un insieme di regole pratiche.
Due aspetti arricchiscono quanto è in gioco con l’avverbio «degno»: da una parte, il
suo uso nel NT (6x: Rom 16,2; Ef 4,1; Flp 1,27; Col 1,10; 1Tes 2,12; 3Jn 1,6) è messo
in rapporto ad una determinata condotta che caratterizza ecclesiologicamente, cristologicamente e teologicamente il modo d’essere cristiano (cf. Rom 16,2; Fil 1,27):
dall’altra, si trova in rapporto diretto o indiretto con la vocazione cristiana. P.es.:
37
1Tes 2,11-12: «11e sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, 12incoraggiandovi e scongiurandovi a vivere [«peripatéō»] in maniera degna [«axíōs»] di quel Dio che vi chiama [«kaléō»] al suo regno
e alla sua gloria»;
Ef 4,1: «Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a vivere («peripatéō») in
maniera degna [«axíōs»] della vocazione [klēsis] con cui siete stati chiamati
[«kaléō»],… »
Ciò che è proprio di Ef 4,1 (cf. A.T. LINCOLN, Ephesians [WBC 42], Dallas, 1990,
235) si può vedere in tre punti: (a) presentare tutta la vita del cristiano come risposta
fedele alla chiamata accaduta nel passato e fatta concreta nell’accoglienza del Vangelo e dello Spirito (1,13); (b) il passivo riferito all’atto col quale Dio ha chiamato deve
mettersi in rapporto col carattere di «chiamata» che ha la comunità (cf. 4,4), dal
quale emana la sua vita responsabile: iniziativa divina ed sforzo umano non si escludono a vicenda, sebbene il secondo aspetto sia posteriore al primo e lo presupponga;
(c) non si può separare né teoricamente né praticamente il comportamento nella vita
–in tutti i suoi aspetti: intimo, personale, comunitario, sociale, proprio come lo farà
vedere più avanti l’autore– dall’azione di Dio e dalla vocazione cristiana: quello
sgorga dal cuore stesso del Vangelo e dallo Spirito (1,4-6.13).
38
(d) Le qualità richieste per camminare di un modo degno della chiamata divina (vv.
2,-4): sono cinque qualità necessarie per la costruzione della comunità («2umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, 3cercando di conservare
l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace»). Sebbene per la loro natura sono positive, esse permettono d’intravedere delle difficoltà con cui deve lottare la comunità per essere «degna» della sua vocazione.
L’umiltà è la capacità di considerare che gli altri sono superiori a me stesso (Fil 2,3); è
il risultato di una seria valutazione della propria persona e delle capacità degli altri (cf.
Rom 12,3; Flp 2,3). La mansuetudine è in rapporto alla soavità e tenerezza e con esse
alla capacità di rinunciare ai propri diritto e al prestigio personale di fronte al bene
della comunità. La pazienza fa riferimento al dominio di se stesso e alla tolleranza
riguardo ai comportamenti altrui esasperanti. Senza di essi non c’è né pace né armonia (Col 3,12); sono in funzione diretta dell’unico corpo, la Chiesa (cf. LINCOLN,
Ephesians, 236).
La quarta qualità («sopportandovi a vicenda con amore») è uno sviluppo particolare
della terza (la pazienza): non è rassegnazione passiva, ma un atteggiamento positivo
verso coloro che creano tensione: non si tratta né di negarli i loro valori né di toglierli
lo spazio necessario e giusto. Sopportare il loro peso è possibile solo «nel» e «per»
39
amore (v. 3); Si tratta dunque di un rapporto vissuto con bontà, misericordia e perdono (4,32). L’ultima qualità, «cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo
del vincolo della pace», non indica la costituzione di un gruppo la cui incollatura sono
i sentimenti umani –di per sé già importante–, ma la sua unità viene dallo Spirito Santo (cf. anche v. 4) e anche da Dio che l’ha creata per mezzo della morte di Gesù (2,1418). Come Cristo «ha creato» la pace e ha riconciliato gli uomini tra di loro e con Dio
(2,15-16), così lo sforzo del cristiano per l’unità della comunità si esprime in termini
di pace.
(2) Che cos’è «la Vita Nuova» in Cristo (Ef 4,17-24)
(a) Esiste un nesso evidente tra 4,1 e 4,17:
Ef 4,1: «Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a vivere («peripatéō») in
maniera degna della vocazione [klēsis] con cui siete stati chiamati [«kaléō»],… »;
Ef 4,17: «Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non vivere («peripatéō») più
come vivono («peripatéō») i pagani nella vanità della loro mente,…».
È chiaro in 4,17-24 il contrasto tra due modi di vivere: il cristiano (vv. 20-24) e quello
pagano (vv. 17-19) [tale schema di contrasto era già stato trovato nella lettera: cf. 2,110.11-13.19-22]. Il primo deve essere assunto in tutta la sua intensità; il secondo,
40
abolito di modo definitivo. L’opposizione significa che la vocazione ha avuto sì il potere di rottura con il passato (1Tes 1,9-10), ma che il nuovo modo di vivere può essere
minacciato. Per questo motivo, all’esortazione a vivere «di un modo degno della vocazione con cui siete stati chiamati» (Ef 4,1) segue un veemente monito a non vivere
più «come vivono i pagani» (v. 17), ma «secondo la verità che è in Gesù» (v. 21).
(b) «La Vita Nuova in Cristo» è lo stato risultante dalla radicale rottura col passato.
Il cambiamento viene rappresentato dal contrasto tra due immagini: «spogliarsi
dall’uomo vecchio» (v. 22) e «rivestire l’uomo nuovo» (v. 24). Vediamo più da vicino
i vv. 22-24: il cristiano ha imparato la lezione, vale a dire, ha imparato Cristo (F.F.
BRUCE, «Ephesians», in The Epistles to the Colossians, to Philemon, and to the
Ephesians [NICNT], Grand Rapids 1984, 357), non di un modo falso –conservando
un modo pagano di pensare e di comportarsi (vv. 21-22). Il contenuto dell’insegnamento viene presentato per mezzo di tre infinitivi con valore d’imperativi:
v. 22: «per la quale dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici»;
v. 23: «e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente»;
v. 24: «e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità
vera».
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L’espressione che compendia «la vita in Cristo» è dunque «Uomo Nuovo». Tutto nei
vv. 22-24 è orientato verso questa «novità» e indica, di conseguenza, l’itinerario –il
programma della / nella vita cristiana–: (a) lasciare indietro (= abbandonare) la vita
di prima (l’uomo «vecchio»), essa non ha più futuro, perché è corruzione e peccato;
(b) aprirsi dal profondo della persona e della comunità a ciò che è «nuovo» (cf. Rm
12,2: si tratta di una «metamọrfosi»: senza di essa è impossibile discernere e operare
la volontà di Dio [cf. Rm 12,2]; simile a Ef 4,23): nessun rinnovamento cristiano che
si percepisca esternamente è possibile se non si avvia nell’interiorità (3,17: «Che il
Cristo abiti per la fede nei vostri cuori »): è essa la prima ad essere rinnovata; (c)
rivestirsi dell’uomo nuovo: si lascia uno stile di vita per rivestirsi di un altro; se
l’uomo vecchio ha una veste che lo identifica (vv. 17-19.22; cf. Rm 13,12.14; Col 3,59), anche l’uomo nuovo possiede la sua, secondo la sua nuova condizione (Col 3,10.
12-15). In questa ultima citazione, l’imperativo di rivestirsi dell’Uomo Nuovo viene
seguita dall’imperativo di rivestirsi delle opere buone nella nuova realtà di «eletti»
(«eklektós»).
La più alta caratteristica dell’Uomo Nuovo viene indicata dall’espressione «creato
secondo Dio» (4,24). Perché l’uomo è creazione divina, deve riprodurre –«rivestire»–
nella sua vita il modello divino (cf. 5,1a). Ciò che identifica Dio –giustizia e santità–
(cf. Sal 114,17 LXX; Dt 32,4 LXX; Ap 16,5 testi suggeriti da LINCOLN, Ephesians,
288) appartiene anche al credente in quanto «uomo nuovo»! Poiché esse
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costituiscono «il riassunto delle virtù umane», l’autore indica così la chiave di comprensione di quanto subito dopo presenterà come condotta cristiana (4,25-6,20).
Da Ef 4,17-24 evidenzio tre punti sempre in rapporto al nostro tema:
(b1) Lo spogliarsi dall’uomo vecchio, il rinnovarsi nello spirito della mentalità e il
rivestirsi dell’Uomo Nuovo non sono solo dei fatti –o aspetti di un’unica realtà– accaduti nel passato; la loro tensione si prolunga nel presente: il cambio di vestito è accaduto con il battesimo, ma richiede la fedeltà senza stancarsi. Il ritorno al passato non
corrisponderebbe alla nuova condizione del cristiano (Ef 4,17). É chiamato a rinnovarsi costantemente, a controllare le sue opere e vivere così nella luce e nel fruttare
nella bontà, la giustizia e nella verità (4,24; cf. 5,8-9).
(b2) «La vita nuova in Cristo» non è un falso e pericolo «intimismo»: l’immagine del
vestirsi indica che anche nella parte esterna, il credente deve essere visto ed identificato nella sua veste di «uomo nuovo». L’applicazione pratica che fa la lettera agli Efesini non è casistica esteriore svincolata dal fondamento della fede e della sua necessaria
interiorizzazione. I due aspetti si richiamano a vicenda. Non è diverso da Rom 13,14
–dove l’imperativo («rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo») è preceduto e seguito da aspetti connessi con la condotta cristiana (vv. 13.14b)– e da Col 3,10.12 –mette
in rapporto «rivestirsi dell’Uomo Nuovo» e «rivestirsi» di una degna condotta cristiana.
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(2c) Si tratta adesso del centro stesso del tema vocazionale: del nesso di 4,1 con 4,1721 si può affermare che vivere «di una modo degna della vocazione con cui siete stati
chiamati» (4,1) non è che vivere da rivestiti «dell’Uomo Nuovo, creato secondo Dio
nella giustizia e nella santità vera» (4,24) e perciò «non vivere più come vivono i pagani» (4,17). In questo contesto, la vocazione viene precisata come la chiamata a passare dall’Uomo vecchio all’Uomo Nuovo e a vivere di modo conseguente con la nuova realtà.
(3) Vocazione alla «Vita Nuova» e risposta quotidiana (4,25-5,20)
È buono ricordare alcuni punti che incorniciano quanto segue:
• La parte esortativa della lettera è stata aperta con un solenne invito a vivere di un
modo degno della vocazione cristiana; questa non è indipendente dalla forma di comportarsi da credente (vv. 2-3);
• Il rapporto tra vocazione e vita indica che il credente si spoglia realmente ed effettivamente da uno stile di vita del passato che non gli è più adatto ad esprimere la sua
nuova condizione (vv. 17-24);
• La nuova condizione del cristiano è creazione divina; perciò, quanto opera nella
sua vita quotidiana deve, da una parte, avere le caratteristiche dello stesso Dio: giustizia, santità e verità (v. 24; 5,9); dall’altra, permettere di costatare la dignità oppure
l’indegnità con cui vive la sua vocazione.
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(3.1) Visione d’insieme di 4,25-5,20
Il seguente quadro (si veda il PDF) fa vedere i due modi che può assumere la nostra
esistenza; essi indicano la «dignità» o «indegnità» con cui si vive la nostra vocazione
(cf. Ef 4,1). I diversi aspetti si comprendono più facilmente se ricordiamo quanto ha
già stabilito 4,1-3 e 4,17-24.
(3.2) Presentazione tematica essenziale
Più importante dell’analisi dei singoli aspetti è la formulazione di alcune linee rapportate al tema centrale: «La vita Nuova in Cristo» nella sua dimensione quotidiana.
(a) Rapporto tra vocazione e vita cristiana: il comportamento cristiano nell’esistenza è in diretto rapporto con la vocazione con cui Dio ci ha chiamato. Dalle 8 volte
che Efesini adopera la parola «vivere» (2,2.10; 4,1.17[2x]; 5,2.8.15); 6 volte si trova
nella parte parenetica della carta (caps. 4-6,20), in un tipo di connessione altro che
arbitrario. Vediamo 5 testi:
Ef 4,1: «Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a vivere («peripatéō») in
maniera degna della vocazione [klēsis] con cui siete stati chiamati [«kaléō»],… »;
Ef 4,17: «Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non vivere («peripatéō») più
come vivono («peripatéō») i pagani nella vanità della loro mente,…».
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Ef 5,2: «e vivete («peripatéō») nell’amore, nel modo che anche Cristo vi ha amato
e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore»;
Ef 5,8: «Poiché se in un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore: vivete
(«peripatéō») perciò come figli della luce».
Ef 5,15: «Di conseguenza, vigilate attentamente sul vostro modo di vivere («peripatéō»): non da stolti ma da saggi»
La linea che attraversa questi versetti è del tutto chiara: vivere degnamente la nostra
vocazione (4,1) significa spogliarsi da uno stile di vita che non è cristiano (4,17) ed
entrare in un altro, caratterizzato da tre aspetti molto ben rapportati: (a) vivere nell’amore al modo di Cristo (5,2); (b) vivere come i figli della luce (5,8); (c) vigilare attentamente affinché si viva in modo saggio (5,15). Vediamo adesso gli imperativi di
5,2.8.15, imperativi che realizzano il contenuto dell’esortazione di 4,11.17.
(b) Vivere in modo degno della vocazione significa vivere nell’amore: vivere costantemente nell’amore (5,2) è condizione per essere imitatore di Dio e per mettere in
atto la realtà dell’uomo nuovo (4,25-5,2): lo spogliarsi ed il rivestirsi di determinate
condotte (4,25-32) è possibile soltanto nell’amore. Chi ama, non solo si «con-forma»
a Cristo e alla sua offerta «per noi» (5,2), ma è nella capacità di vivere con amore la
donazione a favore della comunità. Dov’è l’amore, è presente l’interesse per la
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verità, la bontà, la laboriosità, la costruzione della comunità ed il perdono. L’odio e/o
l’indifferenza tra i membri della comunità sono l’origine della menzogna, la distruzione e l’aggressività. Il nesso in 5,2 tra l’amore di Cristo e la sua donazione come
oblazione «a favore nostro» indica: (a) che non c’è amore senza donazione; (b) che
tale consegna è normalmente dolorosa; (c) che la rinuncia ed il sacrificio sono degli
elementi costitutivi della donazione «a favore degli altri». La vita nell’amore (5,2) è
una via eccellente per vivere «in maniera degna della vocazione alla quale siamo stati
chiamati da Dio» (4,1).
(c) Vivere in modo degno della vocazione significa vivere come figli della luce: vivere costantemente come figli della luce (5,8) permette di riprodurre nella nostra vita
le note distintive di Dio (4,24: giustizia, santità, verità, cf. 5,9) e, nel tempo stesso, rifiutare quanto caratterizza la vita nelle tenebre (5,11): nella parte centrale occupa un
posto importante l’opposizione tra tenebre e luce. Il credente, in quanto «figlio della
luce» (v. 8) è esortato a non prendere parte nelle opere delle tenebre (v. 11). In questa
realtà tenebrosa i disordini della vita sessuale vengono messi in rilievo. Sul livello
letterario, la terna «fornicazione, ogni specie d’impurità o cupidigia» (v. 3) è ripresa
nel v. 5, prima d’affermare l’esclusione di tali operatori di peccato dal Regno di Cristo
e di Dio, vale a dire, «dalla vita con Dio» (4,18). La «fornicazione» («porneia») indica
«ogni tipo d’immoralità sessuale, particolarmente l’adulterio ed il rapporto con delle
prostitute» (Lincoln, Ephesians, 321). Tale condotta, fortemente e in modo diverso
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contrastata da Paolo (1Cor 5,1; 6,12-20; 7,2; 10,8; 2Cor 12,21; Gal 5,19; 1Ts 4,3; Col
3,5) viene seguita nel testo da un’altra dello stessa categoria, vale a dire, dall’immoralità di qualsiasi tipo (cf. con 4,19); di sicuro si tratta, anche qui, di peccati contro la
sessualità in diretto rapporto con la «cupidigia». Il motivo per il rifiuto dei disordini
sessuali è solo uno: nessuna condotta impura (v. 3: «akatharsía»; v. 5: «akáthartos»)
«si addice ai santi» (= «hágioi») (v. 3); si tratta, insomma, della negazione della santità di Dio e di una delle qualità etiche che sintetizza la totalità della vita cristiana
dell’Uomo Nuovo (4,24). Perché (a) siamo stati creati («ktízo») da Dio «per le opere
buone» (2,10); (b) l’Uomo Nuovo è stato creato («ktízo») nella santità («hosióthes»)
(4,24); (c) siamo stati «suggellati» da/con lo Spirito Santo («hágios») di Dio (cf. 4,30;
cf. 1,13) e da lui dobbiamo riempirci (5,18), da questi fatti si segue che fa parte della
vocazione cristiana vivere una vita degna, cioè santa, anche nella sua dimensione
sessuale.
Alle sei condotte negative menzionate nei vv. 5,3-4a viene opposta solo una positiva
(!): rendimento di grazie (eucharistía: v.4b). La logica di tale opposizione sta nel
fatto che queste condotte negative indicano che l’uomo fa da se stesso il centro, mentre il rendimento di grazie esprime la centralità di Dio nella vita del credente, poiché
solo egli è il valore supremo. Il «rendimento di grazie» è «il medicinale richiesto» per
abbandonare il suddetto mondo tenebroso.
L’esortazione ai cristiani affinché «vivano come figli della luce», letta positivamente,
significa aprirsi a Dio nel rendimento di grazie (v. 4), produrre frutti di bontà,
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giustizia e verità (v. 9); esaminare ciò che è gradito al Signore (v. 10); condannare
apertamente le opere delle tenebre (v. 11); lasciarsi illuminare da Cristo (v. 14). Letta
negativamente: non permettersi di essere ingannati con vani ragionamenti che favoriscano o giustifichino i comportamenti negativi appena menzionati (v. 6); non avere
niente in comune con coloro che si ribellano contro Dio (vv. 6-7); non partecipare alle
opere delle tenebre, che non portano frutto (v. 11).
(d) Vivere in modo degno della vocazione significa vigilare costantemente sul nostro modo di vivere: vivere di una maniera degna della vocazione cristiana (4,1) implica vigilare costantemente e in modo accurato sul nostro modo di vivere (5,15), vale
a dire: da una parte, riesaminare ed estirpare tutti quei comportamenti carenti di sapienza; dall’altra, comprendere la volontà di Dio per poter camminare nell’esistenza
con sapienza (4,16-17): quanto è stato detto in 4,17-24 e 4,25-5,14 sfocia nell’esortazione conclusiva alla vigilanza continua («di conseguenza, badate sempre!») ed accurata («akribôs» = «con diligenza») sul modo di vivere del cristiano. In che consiste
tale vigilanza? Il parallelismo dei vv. 15 e 17 contiene la chiave della risposta (per lo
schema, si cf. la seguente pagina)
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v. 15: vigilate […] sul vostro vivere:
non
da carenti di sapienza
ma
da saggi
v. 17:
perciò, non diventiate senza uso di ragione
ma
comprendete in che cosa consiste la vo[lontà del Signore.
L’essere carenti di ragione significa non comprendere la volontà del Signore; vivere
da saggi è vivere nella comprensione di tale volontà. Essa costituisce, dunque, la
chiave per arrivare a discernere nella vita tra comportamento senza saggezza –o ciò
che è uguale, senza l’uso della ragione– e comportamento saggio. Non sembra esagerato dire che «la comprensione della volontà del Signore è il cuore della sapienza
(Col 1,9)» (Lincoln, Ephesians, 343). Nella vita cristiana è, perciò, necessario l’uso
della ragione come capacità di penetrare nella conoscenza della volontà del Signore, il
che implica, a sua volta, «esaminare ciò che è gradito al Signore» (5,10): nelle diverse
situazioni in cui si trova il cristiano, deve essere disposto a discernere, non con i suoi
criteri umani ma con il referente nella volontà del Signore (v. 17), ciò che è cristianamente giusto. Ciò lo fa essere diverso dal pagano (cf. 4,17-18; 5,15-.17).
Ef 5,15 è una sintesi molto ben riuscita di quanto è stato detto in 4,1.17: (a) l’«attenta
vigilanza» nella vita cristiana (5,15) porta a vivere in maniera degna della vocazione
con cui siamo stati chiamati (4,1); in questo senso, c’è un profondo nesso tra la
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vita degna della vocazione e la vita saggia che comprende e mette in pratica la volontà di Dio; (b) la trascuratezza nel modo di vivere la vita cristiana –carente di sapienza
e senza l’uso della ragione (5,15)– porta a vivere come i gentili (4,17), di conseguenza, di un modo indegno della vocazione (4,1). Con questo controllo è garantita, dunque, la genuina vita cristiana in risposta alla vocazione.
(e) Vivere in modo degno della vocazione significa vivere la vita nello Spirito: la
vita nello Spirito è certamente indispensabile per comprendere la volontà di Dio e vivere in modo saggio la nostra vocazione: l’ultima contrapposizione presente in 4,255,20 si trova nel v. 5,18: «E non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma
siate riempiti dello Spirito». Il caos, al quale porta l’ubriachezza –riassunto con il termine «libertinaggio (“asôtía”)»– è in linea con la carenza di sapienza, assenza di ragione e vita nelle tenebre. La realtà che funge da contrapposizione, lo Spirito (cf. anche 1,13; 2,18.22; 4,3-4.30; 6,18), con il quale lo spirito deve riempirsi, è in evidente
rapporto con la sapienza, con la capacità di comprendere la volontà del Signore (vv.
5,15-17) e con l’adorazione ed il rendimento di grazie (vv. 19-20). La vita nello Spirito si esprime –ed ha, perciò, come conseguenza– il parlare tra i membri della comunità (con) i salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmodiando «con tutto il vostro
cuore al Signore». In questo modo, la presenza dello Spirito nei credenti rende idonei, con la sua presenza e potere, ad una vita cristiana piena, che trova la sua espressione nella preghiera e, in questo senso, nel degno vivere la vocazione cristiana.
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(4) La vocazione cristiana ed il combattimento spirituale (6,10-20)
Ef 6,10-20 chiude allo stesso tempo sia la parte parenetica della lettera (4,1-6,20) che
della parte principale della lettera come totalità (1,3-6,20). Questi versetti offrono una
tematica non sempre presente nella riflessione cristiana, vale a dire: vivere di un modo
cristiano la vocazione cristiana implica un aspetto di lotta, paragonabile con una battaglia. È la battaglia della vita cristiana!
(4.1) Lo stretto rapporto tra 6,10-20 e 4,1-5,20
(a) Un primo contatto si ha tramite il verbo «rivestire» («endyo») presente in 4,24 e
6,11.14. Vediamo i due primi testi:
Ef 4,24: «[21In lui (= Cristo) siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù],
22per la quale dovete spogliarvi (= deporre), in quanto alla vostra vita precedente,
dell’uomo vecchio […] 24e rivestirsi dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella
giustizia e nella santità della verità».
Ef 6,11: «Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo»
Vivere «di una maniera degna della vocazione» (4,1) impone «non vivere più come
vivono i pagani» (v. 17), cioè «spogliarsi» («apotíthêmi»: deporre, rinunciare) del«l’uomo vecchio» (v. 22) e a «rivestirsi» («endyo»: mettersi addosso) del«l’uomo
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nuovo» (v. 24). In 4,25 si trova di nuovo «spogliarsi» e in 6,11.14 il verbo «rivestire».
Tutta l’unità deve leggersi, dunque, in questa chiave. L’esortazione a «rivestirsi dell’uomo nuovo» presente in 4,24 si corrisponde, funzionalmente parlando, con l’imperativo a «rivestirsi dell’armatura di Dio» (6,11; cf. v. 13).
(b) Un altro termine che unisce 6,10-20 al testo precedente è «Diavolo» (4,27 e 6,11;
cf. «il Maligno» nel v. 16). Si tratta del capo potente di un’organizzazione ugualmente
potente e ampia contro la quale il credente deve lottare e riuscire a mantenersi saldo.
Ciò richiede delle armi del tutto particolari, vale a dire divine, nel duplice senso che
appartengono a Dio e provengono da lui. Il linguaggio figurativo delle insidie (v. 11) e
dei dardi infuocati (v. 16) del demonio sono stati concettualizzati nelle lista precedente, così come viene suggerito dal riferimento al diavolo nella parte iniziale di tale lista:
Ef 4,26-27: «26Nell’adirarsi, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira,
27e non date occasione al diavolo.28Chi é avvezzo a rubare, non…».
La lotta con le armi di Dio è in rapporto al superamento delle diverse situazioni (cf.
4,17-19.22.25-5,20), che in quanto caratteristiche dell’uomo vecchio (4,22), hanno la
sua ultima fonte nel diavolo.
(c) La menzione dello Spirito è importante in ambedue le parti: si parla del«la spada
dello Spirito, che è la Parola di Dio» (6,17) e della preghiera «in ogni occasione nello
Spirito» (6,18); nella prima parte, è stato fatto un duplice riferimento allo Spirito:
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«e non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno
della redenzione» (4,30) e «ma siate ricolmi dello Spirito» (5,18).
(4.2) Il senso del combattimento spirituale in rapporto alla vocazione
(a) È evidente che tutta l’unità (4,1-6,20: l’orientamento nella vita quotidiana) viene
illuminata dal contenuto del versetto d’apertura: «vi esorto dunque […] a vivere in
maniera degna della vocazione con la quale siete stati chiamati» (4,1). Salta alla vista
l’intimo rapporto tra vita degna della vocazione e combattimento spirituale. Se questo
è assente, difficilmente resterà in piedi chi è stato chiamato. Vediamo tale nesso nei
seguenti 4 punti:
(a) Rapporto tra il «vivere in maniera degna della vocazione» e «restare in piedi»: l’inevitabile «combattimento» indica che l’esistenza cristiana in risposta alla vocazione (4,1) è minacciata in modo constante e che, perciò, si rischia il fallimento; tale motivo spiega l’insistenza di 6,10-20 nel nostro «restare in piedi»: per ben 3 volte
compare nel nostro testo il verbo «stare in piedi» (hístêmi):
v.11: «Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter restare in piedi (“hístêmi”: stare
piedi / saldi) di fronte alle insidie del diavolo»;
v. 13: «Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere (“anthístêmi”)
nel giorno malvagio e restare in piedi (“hístêmi”)».
v. 14: «State dunque in piedi / saldi (“hístêmi”) cingendo […] e rivestendo […]»
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Se «stare in piedi / saldi» è la finalità (6,11) del combattimento e perciò anche il suo
risultato (v. 13), s’impone l’imperativo: «state ben fermi!» (v. 14). Non c’è un altra
posizione che caratterizzi il cristiano nel vivere degnamente la sua vocazione. Le diverse sfumature di «hístêmi» (cf. vv. 11.13.14) –stare ben fermi / saldi, mantenere la
propria posizione, resistere, non cedere alle forze del nemico, ma prevalere contro di
lui (cf. Lincoln, Ephesians, 442), indicano un atteggiamento positivo e dinamico presente in tale posizione: sicurezza, fermezza, resistenza alle insidie, iniziativa nella
lotta. In questa posizione, il cristiano si gioca, dunque, la risposta degna della sua vocazione. Stare saldi in piedi non è facile però. Per questo motivo, il testo evidenzia
altri aspetti affinché tale imperativo trovi il suo compimento.
(b) L’impossibilità di «restare in piedi» senza accogliere la forza di Dio: Ef 6,1020 si apre con un imperativo: «cercate di essere fortificati» (v. 10). Non si tratta che il
cristiano grazie alle proprie capacità dia se stesso la forza; egli si impegna nell’ attingere la forza da «una fonte esterna a lui stesso» (Lincoln, Ephesians, 441), cioè «nel
Signore». Dal suo rapporto con il Signore gli viene l’accesso a tale forza e quindi
l’essere reso forte per un agire degno nella sua vita, sebbene le circostanze gli siano
avverse e critiche (cf. 1Sm 30,6; Zc 10,12; anche Gs 1,7; 1Cor 16,13). Il tema ha il
suo posto nella lettera (cf. Ef 1,19-20; 3,6.14-16.20; 6,10). Leggiamo tre testi:
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1,19-20: «18per farvi comprendere a quale […] 19e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza (“dynamis”) verso di noi credenti, secondo l’operosità
(“enérgeia”) della forza (“krátos”) del suo potere (“ischys”), 20che egli operò
(“energéo”) in Cristo, risuscitandolo dai morti e facendolo sedere alla sua destra
nei cieli […]»;
3,20: «A colui che è potente (“tô dynaménô” [viene dal verbo “dynamai”: potere,
essere nella capacità di]) di operare tutte le cose incomparabilmente meglio di
quanto possiamo domandare o pensare, conforme alla potenza (“dynamis”) che
opera (“energéô”) in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù […] ».
6,10: «Per il resto, cercate di essere fortificati (“endynamóô”) nel Signore e nella
forza (“krátos”) del suo potere (“ischys”)».
Il credente viene esortato a cercare nel suo rapporto con il Signore Gesù la forza che
viene da Dio, perché ad egli appartiene (3,20); tale forza arriva al cristiano tramite lo
Spirito (3,16: «di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito»). Come Gesù è stato
messo in piedi per l’azione potente di Dio, quando lo sveglio dai morti (1,19-20), così
il cristiano può restare saldo –in piedi– nel suo combattimento grazie alla stessa forza
potente che Dio mette in azione a suo favore (6,10; cf. 3,20). Senza questa forza divina, non potrà resistere. Quanto viene a continuazione in 6,11-20 deve essere necessariamente messo in rapporto con l’imperativo iniziale «cercate di essere resi forti».
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(c) «L’armatura militare» di chi sta in piedi: del nemico si ha l’identificazione
«precisa»:
6,12: «la nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro
gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti».
Il loro assalto si dà per mezzo delle «insidie» (v. 11:«methodeía»: inganno, insidia,
trappola) e dei «dardi infuocati» (v. 16). Essi indicano le azioni e condotte dell’uomo
vecchio, attraverso le quali agisce il diavolo (cf. 6,11.16 con 4,28). Il problema per il
«soldato credente» sta nel fatto che il suo nemico non è «di sangue e di carne», cioè
non è identificabile con delle persone umane, ma si tratta di un avversario spirituale e
«celeste». Perciò deve essere affrontato non con le armi terrestri che usano gli uomini, ma con le armi adeguate alla natura particolare del nemico. Per questo motivo, in
ambedue le menzioni delle «armi» compare sempre il genitivo «di Dio», nel duplice
senso che sono armi che appartengono a Dio e che egli le dà al credente.
Nella seconda parte del testo (6,14-17), viene descritta l’armatura cristiana. Le armi
sono descritte da angolazioni diverse: da una parte, le difensive e quelle offensive;
dall’altra, le armi che indicano un certo grado di sforzo umano e quelle che sono totale
dono divino.
[La tradizione biblica sull’armatura è presente nell’AT (cf. p.es. Is 59,17 e Sap 5,1720; anche Is 5,11; 52,7); nel NT il testo che in modo più particolareggiato svilup-] 57
pa il tema è precisamente Ef 6,10-20. Cf. anche 1 Ts 5,8; Rm 13,12; 2Cor 6,7; ecc].
Sono sei le armi, ognuna di esse con un suo referente preciso al corpo umano: si
veda lo schema sull’apposito file PDF.
Non entriamo in un’analisi approfondita di ogni elemento dell’armatura; vorrei piuttosto indicare tre aspetti:
(c1) Coinvolgimento del soggetto e dono divino: le azioni rapportate alle quattro prime armi (cingere, rivestire, calzare [i piedi] e assoggettare col braccio) esprimono il
modo che assume chi resta fermo in piedi, vale a dire: «cingendo», «rivestendo», ecc.
La forza purtroppo si perde nella traduzione. In effetti, ciascuno dei quattro verbi
denota un’azione in cui il soggetto è impegnato con tutte le sue energie e capacità; il
tipo d’attività cambia in riferimento alle due ultime armi: si tratta di riceverle. Un
esempio: mentre il soggetto si adopera con la sua attività per allacciarsi bene i sandali
(v. 15), lo stesso soggetto riceve la salvezza e lo Spirito.
(c2) Il valor «aggressivo» della spada: l’unica delle arme menzionate che ha valore
aggressivo è la spada. Essa è, nel contesto della guerra, simbolo di distruzione, punizione e violenza (cf. Gn 34,25-26; Es 15,9; Gs 10,39; Sal 37,14-15; Is 66,16; ecc). Nel
nostro testo (v. 17), s’identifica con «la Parola (“rêma”) di Dio», vale a dire: con la
Buona Notizia (= il «Evangelo») della salvezza (1,13). Il cambiamento è degno di essere osservato: non si tratta più di una spada di condanna e distruzione, ma portatrice
di salvezza. La spada cristiana, il Vangelo, pur affrontando dei nemici nel combatti58
mento, non li annienta; ma diventa annuncio portatore di salvezza. Già una delle arme
aveva introdotto la tematica del Vangelo: la prontezza del credente all’annuncio del
Vangelo della pace (Ef 6,15; cf. Is 52,7; Ef 2,17). Non è forse da escludere un riferimento al secondo canto del Servo di Yhwh in cui Dio ha reso «la mia bocca come
spada affilata» (Is 49,2) ed così porterà «la mia salvezza fino all’estremità della terra»
(v. 6).
(c3) L’importanza dello «scudo della fede»: dell’unica arma di cui si ha una spiegazione precisa è del«lo scudo della fede» (Ef 6,16). «Thyreós» indica uno scudo che
protegge la totalità del corpo della persona e non soltanto una parte. Poiché la fede indica il mezzo tramite il quale si partecipa alla salvezza (2,8), il mezzo di avvicinamento sicuro a Dio (3,12) e il mezzo per il quale Cristo abita in noi (3,17), nel nostro testo,
a causa della spiegazione che l’accompagna («con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del Maligno»), è anche il mezzo salvifico messo da Dio alla portata del
credente per proteggersi e, in questo, essere vincitori nella dura battaglia contro così
aggressivi nemici. Senza la fede, che uno scudo, diventa impossibile resistere alle insidie e a dardi infuocati del Diavolo e dei suoi alleati (cf. 1Pe 5,8-9).
Il rapporto tra l’armatura e la vocazione è chiaro: vivere di maniera degna della vocazione (4,1) significa stare saldo in piedi portando la dovuta veste (6,10-20); si danno simultaneamente e si richiamano a vicenda. Non si può pretendere vivere una vita
degna della vocazione se si vive in posizione e modalità diverse a quelle
59
richieste dai diversi elementi dell’armatura. Può dirsi in modo negativo: nella menzogna, nell’ingiustizia, nell’assenza d’interesse per il vangelo, nell’incredulità, nel rifiuto della salvezza e nella connivenza con le opere delle tenebre, diventa impossibile
stare ben saldi in piedi e, perciò, vivere degnamente la vocazione (cf. 2,10; 4,24.255,10). Di conseguenza, a chi non risponde in «maniera degna della vocazione con la
quale è stato chiamato» (4,1), poiché ha perso la posizione richiesta, risuonano le parole citate un po’ prima nella lettera:
5,14:
«Svegliati, o tu che dormi,
destati dai morti
e Cristo ti illuminerà».
(d) L’ambiente spirituale necessario per stare in piedi nella vocazione: non deve
passare inavvertito un fatto che, a mio parere, è profondamente significativo: lo stesso
tenore di chiusura in 4,25-5,20 e 6,10-20, cioè con la menzione della preghiera (5,1920; 6,18-19). La terza ed ultima parte (vv. 18-20) del nostro testo (6,10-20) evidenzia,
in riferimento alla preghiera e alla vigilanza, la natura spirituale del combattimento
del cristiano affinché resista al nemico.
(d1) Un’occhiata al testo: la preghiera e la vigilanza non sono altre due armi (è l’impressione che si ha della lettura di Bruce, «Ephesians», 411); si tratta, invece, dell’atteggiamento duraturo del soldato rivestito con le armi (uso del tempo presente) per
stare saldamente in piedi [nota: un’osservazione che ci impedisce di prendere la
60
preghiera e la vigilanza come arme e sì come l’atteggiamento che dovrebbe accompagnare sempre il soldato è questa: mentre tutti i participi greci riferiti alle armi ed l’imperativo del v. 17 in riferimento alle armi sono all’aoristo (di probabile valore complessivo), i due participi del v. 18 («orando» e «vigilando») vengono usati al presente,
cioè: s’indicano due condotte che devono essere presenti senza interruzione].
Il v. 6,18 ha una costruzione complessa, degna però di essere considerata: i due punti
centrali sono «orando» e «vigilando»; attorno ad essi si organizzano i diversi elementi:
«Con (o: per mezzo di) ogni sorta di preghiera e petizione, pregando [= pregate]
in ogni momento nello Spirito;
a questo scopo vigilando [= vigilate] con ogni perseveranza e petizione a favore
di tutti i santi»
L’espressione «a questo scopo», con la quale inizia la seconda parte del versetto, fa sì
che la vigilanza sia orientata alla preghiera: la vigilanza è al servizio della preghiera
constante. Il pregare occupa, dunque, il centro logico di tutto il versetto, interpretandosi il resto in funzione di essa.
(d2) Le note distintive della preghiera: vorrei fare riferimento a tre note essenziali:
(a) La preghiera è in diretto rapporto allo Spirito: accade «nello» e «per mezzo
dello Spirito». Non può essere diversamente, poiché la lettera agli Efesini ha dato
61
un posto eminente allo Spirito nella vita del credente: questi è stato suggellato con lo
Spirito (1,13; 4,30); il libero accesso al Padre (2,18), l’unità dei due popoli (2,22; cf.
4,3-4), la rivelazione del mistero (3,5) accadono «nello Spirito»; l’essere fortificati
con potere si dà «tramite lo Spirito di Dio» (3,16; 6,10); il credente non deve rattristarlo (4,30) ma deve riempirsi di lui (5,18). La preghiera è, perciò, nel senso più profondo del termine, «spirituale» (6,18: «pregando in ogni momento nello Spirito»).
(b) La preghiera non viene ridotta alla petizione; questa però è una espressione
importante di quella: il contesto precedente ha presentato ciò che è la preghiera nelle
sue diverse forme: la salmodia, i cantici ispirati, il rendimento di grazie (cf. 5,19-20).
Queste sono ugualmente presenti nella preparazione al combattimento e nel suo svolgersi, ma perché si tratta appunto di situazioni di grossa difficoltà e rischio, la petizione occupa un posto particolare: con essa il combattente (= il credente) riconosce che,
da una parte, per poter «stare ben fermi in piedi» ha bisogno della forza che solo viene
da Dio (v. 18a; cf. 3,14-16) e, dall’altra, che nel combattimento non si trova solo, ma
che appartiene alla comunità dei santi (6,18), con la quale è unito nell’amore (1,15) e
con la preghiera (6,18b). Così stare in piedi e combattere acquisiscono, grazie alla
pre-ghiera di supplica, valore d’intercessione.
(g) Si tratta di pregare in ogni momento (v. 18: incessante e perseverante): quest’
aspetto viene sottolineato in tre modi diversi nel nostro versetto: () attraverso il
tempo presente del participio greco equivalente nello nostre lingue a «pregando»:
62
si tratta di un atteggiamento continuo, cioè non conosce delle interruzioni! () accade
«in ogni momento» (1,16; 5,20), non solo in senso temporale proprio, ma nel senso
delle circostanze che riempiono tale tempo: si prega in rendimento di grazie a causa
della fede dei fratelli (1,15-23), per il loro essere resi forti (3,14-21), per poter vivere
in modo saggio nella comprensione della volontà del Signore (5,15-20) e rimanere
saldi in piedi nel proprio combattimento cristiano (6,18) come in quello che portano
avanti gli altri (6,19-20); () la fermezza e continuità presenti nella «tenacia» del vigilare si trasmettono alla preghiera. Sono necessari lo sforzo e l’autodisciplina nella
preghiera e nella vigilanza: senza di esse è impossibile combattere con esito positivo.
(d3) Il nesso tra vocazione e preghiera: ne indico tre aspetti importanti:
(a) Il vivere la vocazione cristiana non può darsi in modo indipendente dalla preghiera: i diversi aspetti di Ef 4,1-6,20 devono essere letti in funzione della totalità dell’unità esortativa. Ho fissato l’attenzione su quattro parti: 4,1-3; 4,17-20; 4,25-5,20;
6,10-20. Le tre prime con la presenza esplicita del verbo «peripatéô» («camminare»,
«comportarsi», «vivere»); l’ultima, senza questo verbo, ma con dei contatti precisi con
le parti che la precedono, indica il modo di «vivere»: «rimanendo in piedi», portando
addosso «le armi di Dio», in continua e vigilante preghiera.
(b) La preghiera compie una funzione essenziale nella realizzazione della nostra
vocazione: il fatto che 4,1-3 sia l’inizio di tutta l’esortazione e, a sua volta, 6,18-20 sia
la chiusura, non solo di 6,10-20 (il combattimento spirituale) ma di tutta l’esortazione
63
(4,1-6,20), getta un ponte tra vocazione e preghiera. L’esortazione ha in 4,1 la sua
chiave generale di lettura; quanto viene indicato dopo sul vivere (cf. 4,17; 5,2.8.15)
risponde in senso negativo o positivo a 4,1 (cf. 3.2[a]). Se prima era stato affermato il
nesso totale tra vocazione e vita cristiana, così che «il comportamento cristiano nella
vita è in diretto rapporto alla vocazione con cui Dio ci ha chiamato» (4,1), adesso
dobbiamo aggiungere: la preghiera svolge un ruolo essenziale nella realizzazione vocazionale della nostra vita cristiana. Nella lista dei comportamenti ad evitare e a seguire (4,25-5,20), compare due volte la preghiera come aspetto chiave:
() in 5,4b (nel contesto 5,3-7):
5,4: «Lo stesso si dica per la volgarità, insulsaggini, trivialità: cose tutte sconvenienti. Si rendano invece azioni di grazie!».
() all’imperativo sull’attento vigilare al modo di vivere (5,15) segue l’imperativo
che indica il modo saggio di vivere («ma siate ricolmi dello Spirito»), il cui risultato
sono le diverse forme di lode e di azione di grazie:
5,15-20: «15vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, camminando non
da stolti, ma da uomini saggi […] 18e non ubriacatevi di vino […], ma siate ricolmi
dello Spirito, 19intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il cuore, 20rendendo continuamente grazie
per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo».
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(g) La preghiera si rivolge a Colui che ha chiamato: poiché la preghiera rinvia il
credente totalmente a Dio, dal quale dipende [tale dipendenza si manifesta così in
6,10-20: da Dio gli viene la forza; si riveste dell’armatura che appartiene a Dio e proviene da lui; riceve da Dio stesso la salvezza e la sua Parola], con 6,18-19 si chiude il
cerchio apertosi in 4,1. In effetti, il cristiano rivolge la sua preghiera (5,20; 6,18-19)
al Dio che lo ha chiamato [in 4,1 il passivo «siete stati chiamati (“eklêthête”)» è «teologico», vale a dire: il suo soggetto è Dio; la traduzione, dunque, potrebbe rendersi
così: «vi esorto dunque a vivere di una maniera degna della vocazione con la quale
Dio vi ha chiamati»]. Per vivere di maniera degna della vocazione è necessaria la
preghiera, poiché essa esprime ed alimenta la vita di / con Dio e costituisce la modalità dello stare saldi in piedi nella lotta contro ogni forma che minaccia la scelta della
quale siamo stati oggetto per una vita santa, immacolata e filiale (1,4-5). Per mezzo
della preghiera, Dio ci fortifica «potentemente dal suo nell’uomo interiore» (3,16),
affinché possiamo compiere la sua volontà nella realizzazione de quelle «opere buone» (2,10), che esprimono la Vita Nuova in Cristo e costituisce il modo concreto come
si vive della maniera degna della nostra vocazione (4,1).
(5) Riassunto conclusivo
La lettera agli Efesini ci permette di scoprire degli elementi esenziale per il rapporto
tra vocazione cristiana e vita quotidiana. Si comprende perché questa lettera è stata
65
considerata «la corona della teologia paolina». Vediamo adesso cinque punti:
(a) La totalità del discorso parenetico della Lettera (4,1-6,20) ha la sua chiave di
lettura: si tratta dell’esortazione a vivere «in maniera degna della vocazione con la
quale siete stati chiamati [da Dio]» (4,1). Quanto viene detto dopo è soltanto l’illustrazione di questo principio.
(b) C’è una linea tematica esplicita che attraversa buona parte della parenesi: il
nesso già stabilito in 4,1 tra vita e vocazione si prolunga nell’esortazione di 4,17 a
non vivere più «come vivono i pagani» e continua negli imperativi positivi a vivere
nell’amore (5,2), a vivere come figli della luce (5,8) ed a vigilare attentamente sul
nostro modo di vivere (5,15). La formulazione negativa e le tre positive indicano il
modo di procedere nella vita cristiana di «una maniera degna della vocazione con cui
siete stati chiamati». Senza che sia menzionato in 6,10-20 la connessione vitavocazione, i diversi contatti di questo testo con il contesto precedente fanno evidente
che il combattimento spirituale che deve affrontare il cristiano per stare sempre in
piedi fa parte della maniera degna come nella vita si risponde alla vocazione.
(c) Ef 4,17-24 e 4,25-5,20 indicano in che consiste la Vita Nuova in Cristo nella
quotidianità dell’esistenza del cristiano. Costui ha abbandonato l’Uomo Vecchio per
rivestirsi dell’Uomo Nuovo; ha lasciato indietro uno stile di vita (pagano = gentil) per
assumere un altro che corrisponde alla «verità di Gesù» (4,21) e che s’identifica con le
caratteristiche di Dio stesso: «la giustizia e la santità della verità» (4,24; cf. 5,9). La
lunga lista dei comportamenti che devono essere abbandonati e di quelli da
66
assumere non è una inutile casistica del passato; essa indica la condotta pratica del
cristiano affinché risponda al disegno di Dio in noi (1,4-5; 2,10). La «nuova» condizione non ammette né il ritorno al passato né delle ambigüità nel suo comportamento.
(4) Aspetto essenziale della vita del cristiano è il combattimento. Se questo è assente, il credente difficilmente si manterrà in piedi, vale a dire: vivrà con difficoltà –o
semplicemente gli sarà impossibile– camminare del modo degno che richiede la sua
vocazione. Per questa battaglia spirituale ci si vuole essere rinvigorito con la potenza
di Dio, rivestire le armi spirituali che appartengono a Dio e pregare sempre e in modo
vigilante. Il modo come si chiude la sezione parenetica della Lettera indica che la preghiera occupa un posto essenziale nel compimento vocazionale della nostra vita cristiana.
(5) Vocazione cristiana ed integrità della vita cristiana: se il motivo di essere stati
scelti in Cristo «prima della creazione del mondo» ha il suo scopo nell’«essere santi e
immacolati al suo cospetto nell’amore» e nell’«essere figli adottivi» (1,3-4), l’integrità
cristiana della nostra vita quotidiana è, da una parte, la testimonianza del fatto che
abbiamo preso sul serio così alta vocazione e, dall’altra, che è necessario uno sforzo
serio per vivere «come si addice a santi» (5,3) e non a pagani (4,17).
67
DABAR - LOGOS - PAROLA
Lectio divina popolare
LETTERE
PASTORALI
1-2 Timoteo, Tito
Introduzione e commento di
o RSATTI
MAURO
A
.
EDIZIONI
MESSAGGERO
PADOVA
PREFAZIONE
Imprimatur
Padova, 21 ottobre 2006
Danilo Serena, Vie. Ceno
ISBN 978-88-250-1780-9
Copyright © 2007 by P.P.F.M.C.
MESSAGGERO DI SANT'ANTONIO - EDITRICE
Basilica del Santo - Via Orto Botanico, Il - 35123 Padova
www.edizionimessaggero.it
«La parola di Dio non è incatenata» (2Tm 2,9)
grida Paolo, prigioniero nel corpo ma libero nello
spirito. Per diventare anche noi sempre più liberi,
facciamo tesoro di questa parola che illumina la
mente, riscalda il cuore, favorisce l'incontro con Cristo e orienta verso i fratelli.
A guidarci sono le due Lettere a Timoteo e la Lettera a Tito, tre scritti non molto conosciuti e perciò
non dovutamente apprezzati. Il metodo di accostamento è quello della lectio divina: dopo la lettura della Scrittura, dapprima è proposta una breve presentazione del testo per aiutare il lettore a decifrare meglio
il messaggio (interpretazione essenziale); segue il tentativo di applicare la situazione del testo alla propria
vita così da potersi specchiare in esso (attualizzazione); una serie di domande stimola il passaggio dallo
scritto al vissuto personale e comunitario (per la riflessione personale e di gruppo). Il punto culminante è
lasciato totalmente al lettore: si tratta della preghiera
che apre all'azione e alla vita di tutti i giorni.
Il risultato di questo metodo di preghiera dovrebbe manifestarsi in una vita cristiana più impegnata,
favorita dalle accelerazioni impresse dallo Spirito, come auspica anche Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte (n. 39): «L'ascolto della Parola diventi
un incontro vitale, nell'antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta e plasma
l'esistenza». Già il concilio Vaticano II aveva racco5
2Timoteo 4, /-22
DI FRONTE ALLA MORTE
2Timoteo 4, }-22
LETTURA
La lettera si avvicina alla conclusione in un crescendo spirituale e affettivo. Si respira l'aria della fine
anche per Paolo che regala squarci di intimità teologica con espressioni che qualcuno ha raffrontato con
il testamento spirituale di Paolo VI. La preziosità del
testo sta nel fatto che contiene le ultime parole di
Paolo e le sue ultime volontà. All'interno del capitolo
sono ravvisabili cinque unità minori: un accorato appello a Timoteo per l'insegnamento (vv. 1-5), il testamento spirituale di Paolo (vv. 6-8), ultime raccomandazioni con riferimenti anche a persone (vv. 915), sentimenti del prigioniero Paolo (vv. 16-18), saluti e augurio finale (vv. 19-22).
Analizzando il materiale secondo i generi letterari,
distinguiamo una parte esortativa con varie raccomandazioni a Timoteo (vv. 1-5; 9-15), una parte
autobiografica (vv. 6-8; 16-18), la finale epistolare
con saluti e augurio (vv. 19-22).
1Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a
giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo
regno: 2annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con
ogni magnanimità e domina. 3Verrà giorno, infatti, in cui
non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di
udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, 4 rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. 5Tu però vigila attentamente,
sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero.
170
6Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in
libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele.
7Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia
corsa, ho conservato la fede. 8Ora mi resta solo la corona
di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà
in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro
che attendono con amore la sua manifestazione.
9Cerca di venire presto da me, l° perché Dema mi ha
abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per T essalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito
in Dalmazia. Il Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero. 12 Ho
inviato Tìchico a Efeso. 13 Venendo, portami il mantello
che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri,
soprattutto le pergamene. 14Alessandro, il ramaio, mi ha
procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue
opere, 15 guàrdatene anche tu, perché è stato un accanito
avversario della nostra predicazione.
16Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha
assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga
conto contro di loro. 17Il Signore però mi è stato vicino e
mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la
proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i
Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. 18 Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno
eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
19 Saluta Prisca e Aquila e la famiglia di Onesìforo.
2°Eràsto è rimasto a Corinto; Tròfimo l'ho lasciato ammalato a Milèto. 21 Affrettati a venire prima dell'inverno.
Ti salutano Eubùlo, Pudènte, Lino, Claudia e tutti i
fratelli. 22 Il Signore Gesù sia con il tuo spirito. La grazia
sia con voi!
INTERPRETAZIONE ESSENZIALE
• Un accorato appello (w. 1-5)
Le raccomandazioni a Timoteo riempiono tutta la
lettera, ma quelle che giungono ora, all'inizio del ca171
Di fronte alla morte
pitolo, portano il segno della solennità a causa della
formula: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù». L'espressione, già comparsa in 2,14, prende una
forte valenza teologica per l'aggiunta del giudizio finale e della sua manifestazione (in greco «epifania»,
già in 1,10). Perché tanta solennità con richiami teologici di prima grandezza e con la prospettiva lunga
del tempo finale? Lo spiega l'imperativo che segue
immediatamente: «Annunzia la parola» (v. 2). Dovremmo scrivere Parola, con la lettera maiuscola,
per indicare che si tratta del vangelo, che mette a
contatto con Cristo stesso e perciò diventa parola di
salvezza.
L'imperativo «annunzia la parola» apre la serie di
altri otto imperativi. Possiamo leggere buona parte di
essi come una declinazione del primo, una specificazione che aiuta a dare peso e corpo al primo, quello
dell'annuncio. Si tratta di un annuncio di importanza capitale e ciò richiede che sia fatto in ogni circostanza, con insistenza carica di fermezza e pure di
amorevolezza. Commenta sant'Agostino: «Che cosa
vuoI dire smarrirti, che cosa vuoI dire perderti? Ma
io con tanta maggior forza non voglio questo. T e lo
dico chiaramente: voglio essere importuno. Poiché
mi risuonano alla mente le parole dell'Apostolo che
dice: "Annunzia la parola, insisti in ogni occasione
opportuna e non opportuna" (2Tm 4,2). Per chi è
tempo opportuno e per chi è tempo non opportuno?
Certamente è tempo opportuno per chi vuole; è
tempo inopportuno per chi non vuole. Sono proprio
importuno e oso dirtelo: tu vuoi smarrirti, tu vuoi
perderti, io invece non lo voglio. Alla fin fine non lo
vuole colui che mi incute timore. Qualora io lo volessi, ecco che cosa mi direbbe, ecco quale rimprovero mi rivolgerebbe: "Non avete riportato le [pecore]
disperse, non siete andati in cerca delle smarrite"»
(Discorso sui pastorl).
172
2Timoteo 4, 1-22
La comunicazione della verità contempla anche
l'ammonimento, una funzione dell' episcopo, responsabile della comunità, ma anche compito di ciascuno ~he prende sul serio la responsabilità per il fratello. E la correzione fraterna suggerita da Gesù in
Mt 18,15-17.
Mancano verbi che interessino la sfera della decisione e del discernimento. Sapendo che altrove il
concetto è presente (cf. 1Tm 5,22), il fatto che qui
non sia riferito lascia supporre che nella comunità di
Timoteo forse non sono da prendere tante decisioni
perché è una comunità ancora poco organizzata pastoralmente.
Compito della guida è piuttosto quello di vigilare
sulla genuinità del messaggio che rischia di essere inquinato da falsi maestri. Il problema è accennato ai
vv. 3-4 dove si parla di «verrà un giorno», purtroppo
già presente, quando saranno accolti e seguiti pensieri
stravaganti e dannosi. Paolo fa ricorso a un vocabolo
stranissimo, anzi unico in tutto il NT, tradotto con
«per il prurito»: esprime la voglia passionale di ricercare qualcosa che faccia piacere, che sia secondo i propri desideri. La verità non deve essere asservita a niente e a nessuno, non può essere un gingillo da usare a
piacimento. Si comprende allora il vigore della serie
di imperativi che seguono: «Tu però vigila, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi al tuo ministero». Gli imperativi finali si riallacciano a quello iniziale. Il compito
di Timoteo, il suo ministero o servizio (in greco diakonìa «diaconia»), consiste proprio nel far giungere
alla comunità la verità del vangelo in tutta la sua genuinità. Se inquinata, manomessa, adattata, non è
più verità evangelica; se non mette al centro il Cristo
morto e risorto, è un altro vangelo o, meglio, non è
più vangelo. Paolo ebbe modo di affermarlo con vigore polemizzando con i galati (cf. Gal 1,6-9).
173
Di fronte alla morte
• Il testamento spirituale di Paolo (w. 6-8)
Il «quanto a me» che apre il v. 6 mostra il passaggio a una nuova tematica e contiene un alto tasso
autobiografico. Paolo passa a parlare della sua morte
imminente. Il pensiero della fine lo accompagna costantemente e appare in diversi testi (cf. 2Cor II,23;
5,1-4.10; Fil 2,17). A questo momento della sua vita
e a questo punto della lettera diventa il tema principale, trattato con densità, con intensità e con originalità.
Numerose e variopinte sono le immagini che illustrano il pensiero. Lo si vede già con la scelta del primo verbo «sangue sparso in libagione», una sola parola in greco, che ha un ricco retrot~rra bibli.co: La
libagione è versare vino o acqua o olio sulla vittima.
L'allusione è ai sacrifici della Bibbia (cf. Es 29,3841), ma anche i pagani potevano comprendere questo linguaggio. Traducendo un poco l'immagine, diciamo che Cristo è l'agnello immolato, la vittima che
si offre per amore, e Paolo considera la sua morte
come una partecipazione a tale offerta. Egli dà alla
sua morte un valore sacrificale. Tutta la vita è una
liturgia che raggiunge il suo culmine con la morte.
Il suo pensiero era già comparso in Fil 2,17 dove si
trova lo stesso verbo, e in ColI ,24 dove c'è una partecipazione alle sofferenze di Cristo. Paolo descrive la
morte col linguaggio della liturgia sacrificale. La
morte è così elevata a una dignità altissima.
Una seconda immagine è espressa con la parola
«sciogliere le vele», un unico sostantivo in greco che
indica l'inizio o la fine di un viaggio in mare, come
pure l'arrotolamento di una tenda, alla fine del c~m­
mino o alla fine della notte. Secondo la prospettIva,
può indicare la fine o l'inizio e Paolo lo usa per mostrare come intende la sua morte.
La terza immagine, «ho combattuto la buona bat174
2Timoteo 4, )-22
taglia», attiene maggiormente al mondo sportivo c~e
a quello militare. Paolo aveva già raccon:andato a TImoteo di combattere la buona battaglia con fede e
buona coscienza (cf. 1T mI, 18-19), ora attesta che
lui stesso ha resistito nella fatica, senza cedere. Il termine greco agon, tradotto con «battaglia»~ esprime lo
sforzo, la lotta per non farsi squalificare. E un serio e
faticoso impegno. La lingua it~ia?-a utilizz~ il.term~­
ne sportivo «agonismo)~, «agonIstic?» pe~ m~Icare Il
grande impegno e spinto comba~tivo dI cUI danno
prova atleti e squadre nello svolgImento della gara.
Dalla stessa radice greca viene anche la parola «agonia» per indicare la fase che precede immediata~ente
la morte, vissuta come una lotta per la soprawlvenza
o contro la morte.
La nuova immagine «ho terminato la .mia corsa)~
continua e completa la preceden~e: se p~lII~a non ~I
sono stati cedimenti o abbandonI, ora SI dIce che Il
traguardo è stato raggiunto. Paolo pensa alla mor~e
come al raggiungimento di una meta a lungo deSIderata.
L'immagine successiva rimanda a un patrimonio
custodito e valorizzato: «ho conservato la fede». La
fede è il legame amoroso con Cristo, il ~iconosci­
mento deI primato di Dio e della sua grazIa; questo
bene, ricevuto in dono, è stato conservato con fedeltà e amore.
Con il v. 8 Paolo guarda al di là della morte e delinea una stupenda prospettiva di vita c?e esprim~
con «corona di giustizia». La corona era Il segno del
vincitori, degli uomi~i che si distin~ue~an~ per p.ar~
ticolari meriti. Qui e la «corona di gIUStiZIa» Cloe
quella che può dare solo il Signore, chiamato appunto «giusto giudice». A eliminare una c~rta pretesa
meritocratica sta il fatto che tale corona e donata dal
Signore e non è un'appropriazione. A del~gittimare
una certa pretesa elitaria sta il fatto che tutti possono
175
Di fronte alla morte
essere dei vittoriosi, a condizione che attendano «con
amore la sua manifestazione». Sono i cristiani che
aspettano la venuta (<<manifestazione», come già in
1, 1 e 4,1) del loro Signore, vivendo nell'impegno
operoso e nella fedeltà amorosa.
Paolo lascia un eccellente testamento spirituale.
Parla della morte con serenità, leggendola nel contesto della risurrezione di Gesù e nell'attesa della sua
ultima venuta. Crea un ponte tra tempo ed eternità,
prende sereno commiato da questa vita, si sente legato a una comunione vitale con Cristo, ha vissuto la
vita come un'offerta, conosce una dimensione comunitaria di comunione perché tutti possono vivere
la sua esperienza. Paolo ci regala una stupenda prospettiva della morte, intesa come conclusione di un
viaggio, per approdare alle sponde dell'eternità in un
contesto di comunione con Cristo e con i fratelli.
°
• Ultime raccomandazioni (vv. 9 -15)
Terminato un momento di pura lirica teologica
con acuti di mistica, il discorso ritorna nella familiarità delle cose quotidiane, con riferimenti personali e
anche spiccioli, e con giudizi molto realistici.
La richiesta a Timoteo di venire subito (v. 9) spiega la solitudine in cui si trova Paolo. Qualcuno l'ha
abbandonato, come Dema, qualcuno è dovuto partire per impegni missionari. Crescente, di cui non sappiamo altro, è partito per la «Galazia» che molti
autori identificano con la Gallia (Francia), Tito per
la Dalmazia. Solo Luca è rimasto. Poi dà alcune disposizioni. Già ha mandato ad Efeso Tìchico, il latore della Lettera ai Colossesi (Col 4,7), ora chiede a
Timoteo di portare Marco che gli «sarà utile per il
ministero». Si tratta con tutta probabilità di colui al
quale è attribuito il Vangelo secondo Marco; doveva
essere dotato di particolare abilità catechetica, un ve176
2Timoteo 4, /-22
ro carisma, che gli viene riconosciuto pubblicamente. Dal desiderio di Paolo di averlo presso di sé, deduciamo che è stato ricucito lo strappo verificatosi al
tempo del secondo viaggio apostolico, quando Paolo
si rifiutò di portarlo con sé perché aveva defezionato
nel primo viaggio. Marco con il cugino Barnaba si
divisero da Paolo e presero la via di Cipro (cf. At
15,36-39). Dalle parole di Paolo deduciamo che ora
«pace è fatta».
Le richieste di Paolo a Timoteo entrano nelle minuzie di portargli il mantello dimenticato, insieme ai
libri e alle pergamene.
Da ultimo, arriva un avviso di pericolo. È fatto il
nome di Alessandro il ramaio, da cui Timoteo deve
guardarsi perché ha già danneggiato Paolo ed è «accanito avversario della nostra predicazione» (v. 15).
Ci mancano riferimenti storici per individuare il
contenuto e il tenore dell'opposizione. Non sembra
opportuno identificarlo con quello citato in 1Tm
1,20, perché nel nostro passo è qualificato con la
professione di «ramaio», e, inoltre, non si accenna al
provvedimento disciplinare che era stato preso nei
suoi confronti.
• Sentimenti del prigioniero Paolo (vv. 16-18)
Le ultime raccomandazioni a Timoteo sono arricchite da questo corollario dai ricchi toni autobiografici. Paolo ci fa sapere di essere rimasto solo durante
la sua prima difesa in tribunale. Lo dice con sofferenza perché ha sperimentato la solitudine, ma non con
risentimento, perché aggiunge: «non se ne tenga
conto contro di loro». A fronte di una latitanza degli
uomini sta una dolce presenp del Signore a cui Paolo pensa con gratitudine. E stata una presenza di
consolazione e pure di forza, che ha consentito di
continuare la sua missione presso i pagani e di sfug177
Di fronte
0110
2Timoteo 4, )-22
morte
gire alla «bocca del leone», espressione che potrebbe
fare riferimento a una persona, forse l'imperatore,
ma anche a Satana. Al di là delle ipotetiche identificazioni sta il fatto che Paolo ha sperimentato la provvida presenza del Signore al quale innalza una preghiera celebrativa al v. 18.
Il messaggio è chiaro: anche se gli uomini ti abbandonano, c'è sempre il Signore. Perciò la fiducia
in lui deve essere grande, assoluta.
parare a sua volta anche queste cose, apparentemente
insignificanti, eppure di valore perché rivelano l'animo paterno e la vera sensibilità apostolica.
Il saluto e augurio finale sono formulati secondo
lo stile noto. Dapprima c'è l'augurio per Timoteo:
«Il Signore Gesù sia con il tuo spirito» e poi «la grazia
sia con voi», un plurale che conferisce alla lettera una
valenza comunitaria e non strettamente personale.
• Saluti e augurio finale (vv. 19-22)
ATTUALIZZAZIONE
Secondo lo stile epistolare, alla fine si trovano i
saluti e l'augurio conclusivo. Tra le persone da salutare, al primo posto sta la coppia Prisca e Aquila, due
tra i più stretti collaboratori di Paolo. Erano giudeocristiani di origine romana, cacciati da Roma nel 49
in seguito all'editto dell'imperatore Claudio e trasferitisi a Corinto dove incontrarono l'Apostolo (cf. At
18,1). Segue il saluto per Onesìforo, di cui aveva già
parlato con ammirata gratitudine in 1,16-18. Ci sono informazioni per i collaboratori Eràsto e T ròfimo,
conosciuti anche in altri passi (cf. At 19,22; 20,4).
Ritorna la richiesta a Timoteo di venire in fretta
(cf. già al v. 9), probabilmente perché la stagione invernale era alle porte. Da metà novembre fino a metà
marzo, l'Adriatico diventava, come dicevano i latini,
mare c!ausum, era cioè proibita la navigazione per i
comprensibili pericoli dovuti alla stagione.
Infine Paolo manda i saluti dei cristiani romani:
quattro sono citati per nome e gli altri racchiusi complessivamente in «tutti i fratelli». Secondo la testimonianza che risale a sant'Ireneo, uno dei citati, Lino,
sarebbe stato il primo successore di Pietro nella sede
di Roma. La serie dei nomi dimostra il vivo interesse
di Paolo e il suo legame con le persone. Egli non è il
funzionario, il burocrate che comanda, ma il pastore
che conosce e guida la comunità. Timoteo deve im178
«In faccia alla morte l'enigma della condizione
umana diventa sommo» esordisce il n. 18 del documento conciliare Gaudium et speso Veramente un
senso di smarrimento coglie ogni uomo davanti alla
illogicità della morte. Perché vive in noi un anelito di
infinito e di eternità, se poi siamo costretti alla morte? Con essa, si giunge al «tutto finito», oppure essa è
passaggio verso un'altra realtà?
Le domande si possono moltiplicare all'infinito.
Stiamo toccando un ganglio degli interrogativi esistenziali dell'uomo. Il Signore Gesù ha dato la risposta completa e definitiva con la sua morte e risurreZIOne.
N el condividere con tutti gli uomini e con ogni
uomo questi grandi interrogativi, proponiamo alcune frasi, raccolte da esperienze molto diverse, lasciand.o lettore di allungare all'infinito la lista delle cita-
a!
ZIOlll.
«Un uomo che non si ponga il problema della morte e non ne avverta il dramma, ha urgente bisogno
di essere curato» (C. G. Jung).
«Tutta la nostra vita deve essere una riflessione
sulla morte e un allenamento per affrontarla» (Socrate).
179
2Timoteo 4, )-22
Di fronte alla morte
«Ed è il pensiero della morte che, alla fine, aiuta a
vivere» (U. Saba).
«La morte dei giovani è un naufragio, quella dei
vecchi un approdare al porto» (Plutarco).
«Dimenticare la morte e i morti significa rendere
un pessimo servizio alla vita e ai vivi» (Ph. Ariès).
«Vivere, è nascere in continuazione. La morte non
è altro che un'ultima nascita» (M. Jouhandeau).
«Laudato si', mi' Signore, per sora nostra morte
corporale, da la quale nullo homo pà skappare»
(san Francesco).
«È la scoperta della morte a far entrare popoli e
individui nella maturità spirituale» (M. de Unamuno).
«La vita è stata data per cercare Dio, la morte per
trovarlo, l'eternità per possederlo» (A. Nouet).
«Quando termina questa cosa struggente e abbacinante che è la vita terrena... s'è concluso soltanto
quel che noi conosciamo; non si conclude l'ignoto» (S. Bellow).
«È bello tramontare al mondo per risorgere nell'aurora di Dio» (sant'Ignazio di Antiochia).
«Contro la morte c'è un rimedio sicuro: condurre
a ogni istante una vita immortale» (A. Sertillage).
Concludiamo con parole cariche di fede e di speranza, suggerite da questa preghiera di san Gregorio
N azianzeno: «Accogli fra le tue braccia, o Signore, il
mio fratello maggiore che ci ha lasciati. A suo tempo
accogli anche noi, dopo che ci avrai guidati lungo il
pellegrinaggio terreno fino alla meta da te stabilita.
Fa' che ci presentiamo a te ben preparati e sereni,
non sconvolti dal timore, non in stato di inimicizia
verso di te, almeno nell'ultimo giorno, quello della
nostra dipartita. Fa' che non ci sentiamo come strappati e sradicati per forza dal mondo e dalla vita e non
ci mettiamo quindi contro voglia in cammino. Fa'
180
invece che veniamo sereni e ben disposti, come chi
parte per la vita felice che non finisce mai, per quella
vita che è in Cristo Gesù, Signore nostro, al quale sia
gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Discorso 1 per il
fratello Cesare).
PER LA RIFLESSIONE PERSONALE E DI GRUPPO
o Paolo cita molte persone, alcune amiche altre meno. Ha parole rispettose e, se necessario, veraci. Sono
capace anch'io di relazionarmi con tutti? Sono pronto a dire la verità anche se poco gradita? La dico con
rispetto? Sono capace di gratificare le persone e di
essere riconoscente?
o Mi rispecchio nelle parole del concilio: «In faccia
alla morte l'enigma della condizione umana diventa
sommo» (GS 18)? Penso alla morte? Con quali sentimenti?
o Quali pensieri e sentimenti mi accompagnano in
occasione di visite a defunti o di partecipazione ai
funerali? Rifletto anche sulla mia morte, oppure allontano il pensiero? Sono convinto che pensare alla
morte aiuta a vivere meglio?
Se dovessi stilare oggi il mio testamento spirituale,
potrei prendere a modello quello di Paolo? Che cosa
potrei scrivere di bello? Quali valori potrei citare che
restano al di là della morte?
O
181
DABAR - LOGOS - PAROLA
Lectio divina popolare
I
LETTERA
AGLI EBREI
Un'omelia per cristiani adulti
Introduzione e commento di
FRANCO MANZI
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É
EDIZIONI
MESSAGGERO
PADOVA
0.2.02. . .2c08
lo OD
I
PREMESSA
I
A mio padre e a mia madre,
che per primi mi hanno annunziato la Parola di Dio
e mi hanno insegnato ad accostarmi con fiducia
alla grazia misericordiosa di Dio
Imprimatur
Padova, 13 ottobre 2001
D. Serena, Vie. Ceno
ISBN 88-250-1009-5
Copyright © 2001 by P.P.F.M.C.
MESSAGGERO DI SANT'ANTONIO - EDITRICE
Basilica del Santo - Via Orto Botanico, li - 35123 Padova
«L'eloquenza sacra - sentenziava con sarcasmo
Voltaire - è come la spada di Carlo Magno, lunga e
piatta!». Dobbiamo riconoscere che l'illuminista
francese in molti casi non aveva tutti i torti. Di certo,
però, questo giudizio non tocca per nulla la splendida omelia della Chiesa primitiva tradizionalmente
denominata Lettera agli Ebrei. In realtà, la cosiddetta
«Lettera di san Paolo apostolo agli Ebrei» non è una
lettera, non è stata scritta da Paolo e non è stata indirizzata a Ebrei. Si tratta piuttosto di un grande «discorso di esortazione» (cf. 13,22), cioè di una predica
accuratamente strutturata in cinque parti disposte in
modo concentrico. Il suo nucleo tematico è la mediazione salvifica portata a termine in maniera unica
e definitiva da Gesù Cristo in quanto sommo sacerdote della nuova alleanza tra Dio e gli uomini. Il predicatore rimane ignoto, anche se è verosimile che facesse parte del gruppo missionario di Paolo. Anzi,
probabilmente è stato proprio l'apostolo che, in un
secondo tempo, ha aggiunto all'omelia (1,1-13.
18.20-21) un biglietto epistolare d'accompagnamento (19,19.22-25), cosÌ che essa venisse accolta in comunità diverse da quella degli ascoltatori iniziali. In
origine, questa predica è stata verosimilmente proclamata in una celebrazione liturgica di una comunità, già cristiana da una o due generazioni, che, negli
anni immediatamente precedenti lo scoppio della
guerra giudaica contro i Romani (66-70 d.C.), sperimentava l'acuta problematicità dei rapporti della fede cristiana con il giudaismo e, in particolare, con le
sue istituzioni sacerdotali e cultuali.
5
Ebrei 3, 1-5, lO
Cristo sommo sacerdote affidabile e misericordioso
In questa specie di decapitazione, la spada della
parola di Dio è descritta in modo realistico nell'atto
di far uscire il midollo della spina dorsale dal rivestimento ossaceo delle «giunture». Anzi, questa spada
immaginaria penetra addirittura negli elementi essenziali dell'essere umano: l' «anima» e lo «spirito».
D'altronde, anche il giudizio (cf. Eb 4,12; Gv 12,
48) precedente all'esecuzione capitale è molto severo. Tant'è vero che non si limita all'ambito degli atti
esterni. Ad essere sottoposti a giudizio sono persino
gli aspetti più intimi della persona, come le disposizioni e i pensieri del «cuore».
Infine, nella fase inquisitoria (cf. Eb 4,13), l'uomo
risulta incapace di nascondersi dalla parola di Dio
(cf. Sal 139 [138],7). Non è possibile sottrarsi al suo
giudizio, accampando la scusa che non «ci» riguarda,
perché siamo proprio <<noi» i chiamati in causa. Va
notato che qui il sostantivo greco logos, che indica la
«parola» di Dio, è maschile. Per di più, la parola di
Dio è raffigurata come se avesse degli «occhi» (Eb 4,
13). In questo modo, la p~rola di Dio finisce per
coincidere con Dio stesso. E a lui, quindi, che i cristiani devono rendere conto.
n predicatore giunge cosÌ alla fine della prima sezione (3,1-4,14) della seconda parte dell'omelia (3,15,10) e conclude:
Dunque, dato che abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, il Figlio di Dio,
manteniamo ferma la confessione di fede.
In qualità di «sommo sacerdote» (4,14), di «pioniere della salvezza» (2,10) e di nostro emissario (cf.
3,1), Cristo è già entrato nel suo «riposo» (4,10),
cioè nella comunione gloriosa con Dio. Ha già aperto - per cosÌ dire - la strada attraverso «i cieli» (v.
14), verso cui anche i cristiani sono chiamati (cf.
3,1). Senza dubbio, i cristiani partecipano già a Cri70
sto (cf. 3,6.14). Ma potranno entrare nella sua gloria
(cf. 2,10) solo se avranno perseverato nella fede «sino
alla fine» (3,14).
La misericordia di Cristo e l'accoglienza
cristiana della misericordia divina (4, 15-5, 1O)
Per svolgere pienamente la sua mediazione tra Dio
e gli uomini, Gesù dev'essere non solo affidabile al
cospetto di Dio, ma anche misericordioso nei confronti degli altri esseri umani. Se un sacerdote non
f~s~e accreditato .presso Dio, risulterebbe incapace
dI Invocare da lUI la salvezza a favore degli uomini.
Ma se un sacerdote fosse in comunione soltanto con
Dio e non f~sse solidale con gli altri esseri umani,
no~ ~a!ebbe In grado. di. comunicare loro gli effetti
P?SItlV~ della ~ua medIaZIOne salvifica. Per questa ragIOne, Il predIcatore prima ha istituito un confronto
tra l'affidabilità di Mosè e quella di Cristo glorificato
(cf: 3, ~ -6) e, adesso, fa .un secondo paragone tra la
s~l,Idaneta sacerdo~ale dI Aronne e quella di Cristo.
PlU esattamente, In 4,15-5,10, il predicatore confronta Cristo, che è diventato «sommo sacerdote secondo la classificazione di Melchisedeh (5,5-10),
con «ogni sommo sacerdote» (vv. 1-4). Lo scopo di
questa equiparazione è mettere in rilievo alcune somiglianze di fondo tra i due tipi di sacerdozio.
•
Invito all'accoglienza cristiana
deLla misericordia divina (4,15-16)
. .P.er il~us~r~re la solidarietà di Cristo, il predicatore
InlZla a mdlvlduarne in 4,15 la causa: a rendere solidale Cristo con gli uomini sono state le prove che ha
sopportato nella sua esistenza terrena. Per dimostrarlo, il predicatore inizia a escludere con enfasi che
«[...] non abbiamo un sommo sacerdote che non possa provare compassione per le nostre debolezze [... ]»
71
Cristo sommo sacerdote affidabile e misericordioso
(4,15). L'impressione è che il predicatore voglia
smentire in anticipo un'obiezione che potrebbe sorgere nel suo uditorio:
Un sommo sacerdote così, «che ha attraversato i cieli»
(v. 14), sarà capace di comprendere gli uomini peccatori
e di attuare veramente una mediazione salvifìca a loro
favore presso Dio?
Il predicatore lo afferma con forza, ricordando che
la capacità di Cristo glorificato di provare compassione per quelli che si trovano nella prova o nella tentazione deriva dal fatto che anch'egli ha fatto in passato
un'esperienza simile (cf. 4,15). L'unica eccezione all'interno di questa rassomiglianza di Cristo con gli
uomini è il «peccato» (v. 15). Anche Cristo ha affrontato la prova ed è stato tentato di prendere le distanze dal desiderio salvifico del Padre. Eppure, non
ha mai ceduto a questa tentazione e non ha fatto mai
alcun peccato (cf. 7,26; 9,14). Non è stato complice
dei peccatori. Ma è stato - ed è ancora - solidale con
loro. Proprio per questo, ha potuto liberarli dalla
schiavitù del peccato (cf. 2,14-15.17-18).
Con questa consapevolezza, il predicatore trae le
conseguenze per la loro vita di fede: i cristiani possono accostarsi fiduciosamente (4,16; cf. 10,22) allo
stesso «trono» di Dio (cf. Is 6,1-5). Non c'è da temere, perché esso è caratterizzato dalla «grazia» e dalla
«misericordia» (cf. Eb 4,16). Lo aveva ben compreso
quel pellegrino del Medioevo, che, passando per il
cosiddetto «caravanserraglio del Buon Samaritano»,
che si trova sulla strada che scende da Gerusalemme
a Gerico, ha lasciato scritto (in latino):
Se persino sacerdoti e leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che il Cristo è il buon samaritano, che avrà
sempre compassione di te e nell'ora della tua morte ti
porterà alla locanda eterna.
72
Ebrei 3,1-5, lO
•
La misericordia di Cristo sofferente (5,1-10)
Per mostrare la compassione misericordiosa di
Gesù in quanto sommo sacerdote, il predicatore individua alcuni tratti di solidarietà che egli ha in comune con ogni sommo sacerdote. Come Aronne,
anche Cristo è stato nominato sommo sacerdote da
Dio ed è in grado di comprendere le nostre debolezze. Anzi, è proprio per questa solidarietà che Cristo
ha offerto la sua vita nella passione ed è stato così
portato al «perfezionamento» sacerdotale.
Qui, il predicatore non riprende la prospettiva anticotestamentaria in cui il sacerdote era consacrato «a
Dio» e «per Dio» (cf. Es 28,1.3; 29,1). Al contrario,
sottolinea che il sommo sacerdote è solidale con gli
uomini, anzitutto perché è un essere umano e, poi,
perché è a beneficio degli uomini che egli eleva sacrifici a Dio (cf. 5,1). Anzi, anche il sommo sacerdote,
in quanto uomo (5,1), era impregnato del peccato
del popolo e, per rimettere questo peccato, doveva
continuare a offrire sacrifici a Dio (cf. Lv 4,1-5,26;
16,3-34), anzitutto per se stesso (5,2.3; cf. Lv 4,3).
Da questo punto di vista, è significativo che nella solenne liturgia dell'espiazione dei peccati, finalizzata a
purificare tutti gli Israeliti dalle colpe commesse in
quell'anno, il primo sacrificio era sempre offerto per
la remissione dei peccati del sommo sacerdote e della
sua famiglia (cf. Lv 16,6.11). In realtà, negli scritti
anticotestamentari l'interpretazione maggioritaria
della relazione tra il sommo sacerdote e Israele andava in senso sostanzialmente contrario rispetto a quella elaborata qui da Eb: fin dalle sue origini, l'apparato sacerdotale era fondato nella sua interezza su una
logica «piramidale» e ascendente di separazioni successive. In quanto popolo di Dio, Israele era cosciente di essere stato separato dalle altre nazioni della terra (Es 19,5-6; cf. Dt 7,6). All' interno delle dodici
73
Cristo sommo sacerdote affidabile e misericordioso
tribù d'Israele, esclusivamente la tribù di Levi era stata scelta per essere riservata al culto di Dio (cf. Nm
3,12; 8,5-22). Nell'ambito dei leviti, poi, soltanto
alla famiglia di Aronne spettavano le funzioni specificamente sacerdotali (cf. Es 28,1; Nm 16-17). Ma
in questa famiglia, unicamente un uomo poteva essere nominato sommo sacerdote. A questo scopo, veniva separato dal profano, per essere consacrato totalmente a Dio. Si vede bene come l'apparato cultuale
dell'AT era animato da una concezione sacrale della
santità (cf. Lv Il,44). Ma la santità era intesa come
integrità fisica e come dissociazione dal profano e
dall'impuro (cf. Lv 21). Per questa ragione, il sistema
cultuale anticotestamentario consentiva di entrare al
cospetto del Dio «santo» (cf. Is 6,3) mediante complesse norme di carattere rituale. In quest'ottica, si
capisce perché le prerogative sacerdotali della tribù
di Levi si fondavano su un'opposizione ai peccatori,
che giungeva perfino al misconoscimento dei legami
di sangue (cf. Dt 33,9; e anche Es 32,26-29; Nm
25,6-14; 1Mac 2,26). Queste norme di separazione
raggiungevano il loro vertice nel rito di consacrazione del sommo sacerdote, che prevedeva: un bagno
rituale, un'unzione, una vestizione e vari sacrifici
animali (cf. Es 29).
L'ovvia conseguenza di questo complesso sistema
di separazioni soprattutto rituali era un'insuperabile
esaltazione della dignità del sommo sacerdote (cf. Es
28,2; Sir 45,6-13; 50,5-11). Ma, per Eb, l'esito di
questo apparato cultuale era, paradossalmente, la dissoluzione della finalità originaria per cui il sacerdozio
era sorto. Il sacerdozio era sorto per mediare la salvezza divina al popolo. Ma, di fatto, non era capace
di svolgere questo compito, perché, da una parte, il
sommo sacerdote era indegno di accedere realmente
a Dio, dato che non era affatto senza peccati; dall'altra, finiva per cedere all'ambizione (cf. 2Mac 4,774
Ebrei 3, 1-5, lO
8.23-25.34) e all'esaltazione di sé, per cui non era
affatto solidale con gli altri uomini. Perciò, dal punto
di vista della salvezza, il sistema sacerdotale dell'AT
aveva un'utilità soltanto simbolica: esprimeva - ma
senza mai poterlo soddisfare - il desiderio d'Israele
di entrare in comunione trascendente con Dio.
Ben differente è la situazione di Cristo, anche se in
Eb 5,1-10 sono individuati i tratti comuni che egli
condivide con ogni sommo sacerdote dell'AT. Anzitutto, nel paragone di Cristo con Aronne (5,4), scelto da Dio per essere suo sacerdote (cf. Es 28,1), l'accento non cade sulla dignità di Cristo di essere nominato sacerdote. Al contrario, il predicatore sottolinea
che il sommo sacerdozio di Cristo ha la sua origine
esclusivamente nell'iniziativa di Dio. Di conseguenza, sul versante di Cristo, è messa in rilievo l'umiltà
con cui ha accolto la nomina sacerdotale. Questa
umiltà trova una sua attuazione particolare nella sua
obbedienza riverente a Dio (5,7-8). Per soddisfare il
desiderio salvifico di Dio (cf. 2, lO), Cristo sceglie di
essere pienamente solidale con gli altri uomini. Indubbiamente, questo suo legame con loro è solo in
parte simile a quello dei sacerdoti dell'AT (cf. 5,2):
nel caso di Cristo, si tratta di solidarietà nella debolezza (cf. vv. 7.8) e nelle prove (cf. 2,18; 4,15), ma
non di complicità nel peccato (cf. 4,15; 7,26; 9,14).
Comunque, è proprio questa solidarietà che ha spinto Cristo ad assumere la fragilità della «carne» umana
(5,7) e a sperimentare la sofferenza (v. 8).
In quest'ordine d'idee, Eb fa memoria della passione e della morte di Gesù. Mette cosÌ in luce che
la preghiera di Cristo in quel momento ha assunto i
tratti di un'offerta sacerdotale, capace di essere esaudita da Dio (v. 7). Appare paradossale, però, la modalità di questo esaudimento: in che senso Cristo è
stato esaudito da Dio, se di fatto è mono crocifisso
(cf. 6,6; 12,2)? Di per sé, il predicatore non ha deter75
Cristo sommo sacerdote affidabile e misericordioso
minato il fine a cui era diretta la preghiera di Cristo.
Ha lasciato intendere cosÌ che in Cristo, grazie alla
preghiera, si è attuato un completo accordo con il
desiderio salvifico di Dio, qualunque esso fosse. Nella passione, la preghiera di Cristo è sgorgata nella totale disponibilità ad accogliere la volontà divina su di
lui (cf. 10,7.9). In Cristo l'anelito a essere liberato
dalla morte si è purificato nella preghiera (cf. Mt
26,39 e paralleli; Cv 12,27). CosÌ, Cristo è giunto,
alla fine, ad accettare che la decisione sulla modalità
concreta di realizzazione della salvezza spettasse a
Dio (cf. 5,7): «Padre mio, se questo calice non può
passare via senza che io lo beva, sia (atta la tua volontà» (Mt 26,42; cf. Cv 12,27-28). E proprio questa
«buona accettazione» (eulabeia, Eb 5,7) della volontà
salvifica di Dio (cf. 2,10) che ha portato Cristo a fare
un'oblazione della propria volontà e che ha attuato
in lui la salvezza. CosÌ, la sofferenza di Cristo, proveniente soprattutto da una morte vergognosa (cf.
11,26; 12,2), si è trasformata nell'apprendimento
dell'obbedienza radicale al Padre (cf. 5,8).
Ma esattamente la conformazione totale della volontà del Figlio al desiderio redentore del Padre ha
spinto Dio a esaudirne l'invocazione con un intervento salvifico definitivo (v. 7), dato che Dio «appaga il desiderio di coloro che lo temono; egli ascolta il
loro grido e li salva» (Sal 145[l44J,19). Del tutto paradossale, però, resta la modalità di questo esaudimento divino: si è trattato sÌ della salvezza di Cristo
dalla morte; ma questa salvezza si è realizzata proprio
mediante la sua sofferenza e la sua morte (cf. Eb 2,
10.14). Il paradosso appare tanto più acuto, quanto
più si considera la singolarità di Cristo rispetto agli
altri uomini. Certo, «anch'egli è divenuto partecipe
[...] del sangue e della carne» degli uomini (2,14),
cioè della fragilità insita nell'esperienza umana, assunta da lui integralmente (cf. v. 17; 4,15). Per com76
Ebrei 3, 1-5, lO
passione (cf. 4,15) solidale verso gli altri uomini, egli
ha assunto «una condizione umana simile a quella
del peccato» (Rm 8,3). Tuttavia, Cristo non ha mai
disobbedito a Dio (cf. 4,15; 7,26; 9,14). Eppure, Eb
precisa che Cristo, «pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patÌ» (5,8). Per comprendere
maggiormente l'esperienza singolare di Cristo da
questo punto di vista, è utile, anzitutto, anticipare
qui la convinzione che il predicatore esplicita più
avanti, cercando di consolare i suoi ascoltatori che
stavano vivendo un periodo di prova:
[...] Come con dei figli, Dio si comporta con voi. Qual
è, infatti, il figlio che il padre non corregge? E se siete
senza correzione, di cui sono partecipi tutti, allora siete
illegittimi, e non figli (12,7-8).
D'altra parte, va tenuto conto della sfumatura
concessiva di 5,8 (<<puressendo Figlio»). Questa concessiva lascia intuire che, in realtà, Cristo, proprio a
motivo della sua identità di Figlio di Dio (cf. 4,14;
6,6; 7,3; 10,29), non aveva bisogno di una dolorosa
educazione divina all'obbedienza filiale (cf. 12,5-8),
se non per pura solidarietà con gli altri uomini (cf.
2,9.14-18; 4,15; 5,7-9). Perciò, si potrebbe dire che
nella sua passione Cristo ha acquisito una «sovrabbondanza» di obbedienza a Dio, perché ha accettato
delle sofferenze di cui non aveva personalmente bisogno per essere accolto da lui come figlio (cf. 12,6),
dato che lo era già. Questi patimenti, quindi, sono
stati affrontati da lui per eliminare i peccati degli altri
uomini (cf. 2,17; 9,26.28), in conformità al desiderio del Padre di salvare l'intera umanità (cf. 2,10). In
questo senso, Eb può sostenere che anche il Figlio ha
imparato a obbedire a Dio (cf. 5,8) e che, di conseguenza, è stato «perfezionato» nella sua umanità e
nella sua capacità relazionale con gli altri uomini (v.
9). D'altra parte, l'affermazione di questa sua trasfor77
Ebrei 3,1-5, lO
Cristo sommo sacerdote affidabile e misericordioso
mazione positiva non contraddice il fatto che Gesù
abbia obbedito al Padre anche prima della passione
(cf. 4,15; e anche 7,26; 9,14).
Inoltre, va osservato che, per definire la trasformazione positiva avvenuta in Gesù, il predicatore afferma che costui è «stato perfezionato» (teleiotheis). Ritorna qui un termine tecnico anticotestamentario
per indicare la consacrazione sacerdotale, già utilizzato in 2,10. In 5,9, però, si puntualizza che, nel caso
di Cristo, la consacrazione sacerdotale non è avvenuta mediante un rito sacrificale, ma attraverso un processo di radicale maturazione personale e relazionale.
Già si intravede qui la diversità del sommo sacerdozio di Cristo rispetto a quello di Aronne, perché
non si accenna per Cristo agli innumerevoli sacrifici
successivi al sacrificio della consacrazione sacerdotale. Per lui, la singolare consacrazione della passione è
già l'unico vero sacrificio, sufficiente a salvare tutti
gli uomini. In effetti, il legame di solidarietà che unisce Cristo agli altri uomini (cf. 2,9.14-18; 4,15; 5,79) gli permette di comunicare loro i benefici della
sua obbedienza a Dio. Di conseguenza, chi obbedisce a Cristo, è salvo (cf. 5,9), perché partecipa (cf.
3,14), nello Spirito Santo (cf. 6,4), alla stessa obbedienza al Padre vissuta dal Figlio (cf. 5,8; 10,7.9). La
singolare obbedienza filiale di Cristo al Padre e, di
conseguenza, la sua solidarietà radicale con l'umanità
fanno sÌ che la trasformazione operata da Dio sull'umanità di Cristo provochi effetti altrettanto benefici
su tutti i cristiani. In questo senso Cristo è stato proclamato da Dio «sommo sacerdote secondo la classificazione di Melchisedeb (5,10). Certo, in 4,155,10, il predicatore sottolinea i punti in comune tra
il sommo sacerdozio di Cristo e il sommo sacerdozio
dell'AT. Ma non puntualizza ancora le caratteristiche originali della «classificazione» di Melchisedek.
secondo cui Cristo risorto è proclamato sommo sa78
cerdote da Dio. È evidente fin d'ora, però, che, nonostante le somiglianze emerse dal confronto del sacerdozio di Cristo con quello di Aronne, Cristo non
è sacerdote secondo la classificazione aronnitica, ma
secondo un'altra classificazione, prefigurata da Melchisedek.
ATTUALIZZAZIONE
Questa seconda parte della predica risulta molto
ricca sotto il profilo spirituale anche per il lettore
odierno.
L'ascolto quotidiano della parola di Dio
J
Un primo spunto di attualizzazione non fa che
proseguire l'esortazione di Eb 3,7-4,14. Il predicatore prende le mosse dal fatto che il Salmo 94[95],
ispirato dallo Spirito Santo, parla di un «oggi», per
applicarne l'esortazione ai suoi ascoltatori. Ma il processo di attualizzazione può e deve continuare anche
per noi, che leggiamo ancora «oggi» la Lettera agli
Ebrei. Certo, il richiamo di Eb 3,7-4,14 era indirizzato in origine ai cristiani del I secolo d.C. (cf. 3,14),
che già da anni (cf. 5,12; 13,7) erano stati battezzati
(6,4-5) e che dovevano essere rinsaldati nella loro fede (cf. 2,3-4; 3,1; 4,14; 10,19-25; 12,22-25; 13,78). Ma anche nel nostro «oggi», la scelta fondamentale tra la permanenza coerente nella fede e l'incredulità si ripropone a coloro che, da anni ormai, hanno
ricevuto i sacramenti dell'iniziazione cristiana (cf.
4,2). Anche i cristiani di oggi sono invitati, giorno
dopo giorno, ad ascoltare la voce del Signore. Il Signore continua, in molti modi (cf. 2,3-4), a parlare
loro dal cielo (cf. 12,25). Grazie all'opera di Cristo,
che è il «pioniere della salvezza» (2,10; cf. 6,20;
79
Ebrei 3,1-5, IO
Cristo sommo sacerdote affidabile e misericordioso
12,2), ormai si è fatta vicina (cf. 10,25.37) la meta
gloriosa (cf. 2, lO) verso cui procede il cammino della
Chiesa. Ma un po' sempre i cristiani possono lasciarsi andare alla tentazione degli antichi Israeliti. In altri
termini: pure i cristiani possono impostare le scelte
quotidiane secondo delle logiche lontane dalla fede
nella comunione celeste con Dio (cf. 12,22-24; e anche 11,10; 13,14).
La conseguenza di questa crisi di fede è un'esistenza «desertica» (cf. 3,8.17), in cui, a causa del peccato
(cf. 3,13.17), ci si distacca progressivamente dal Dio
vivente (3,12), dimenticando tanti suoi doni.
Chi sono quelli che soccombono in una vita «desertica»?
- Potrebbe domandare, ai nostri giorni, l'autore di Eb
(cf. 3,16-18) -. Non sono, forse, quelli che sono stati
battezzati, che hanno ricevuto la prima comunione e la
cresima? Non sono, forse, quelli che si sono sposati nel
Signore? Eppure, proprio costoro se ne vanno errando
sempre più lontano da Dio (cf. 3,10.13) e finiranno,
forse, per perdere la vita (cf. 6,8; 10,26-31; 12,25). Eppure, persino a queste persone ripeto: «Oggi, se udite la
voce del Signore, non indurite i vostri cuori!» (3,7-8.15;
4,7).
Di fronte a questo invito di Eb, ritorna alla mente
l'interrogativo tutt'altro che tranquillizzante della
poetessa ebrea Nelly Sachs (1891-1970), nella lirica
Le stelle si oscurano:
Se i profeti irrompessero per le porte della notte,
incidendo ferite di parole nei campi della consuetudine,
se i profeti irrompessero per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria,
orecchio degli uomini ostruito d'ortica,
sapresti ascoltare? [...]
Se i profeti si levassero nella notte degli uomini
come amanti in cerca dell'amato,
notte degli uomini, avresti un cuore da donare?
80
L'efficace vitalità della parola di Dio
l
l
Anche a motivo di questo rischio della «sordità»
spirituale, fa bene alla nostra fede lasciarsi inquietare
dal ritratto piuttosto «aggre~sivo» della parola di Dio
schizzato da Eb 4,12-13. E fruttuoso per la nostra
fede fare memoria dell'efficacia e della vitalità della
parola divina, che è capace di illuminare e di modellare la coscienza (cf. Sal 119[118],98-100.104-105.
130), anche nei suoi labirinti più nascosti. Forse, più
andiamo avanti nella vita e più aumenta il rischio
dell'indifferenza nei confronti di determinate parole
della Sacra Scrittura (cf. Ger 6,10). Alcune ci colpiscono ancora, certo; ma altre non ci toccano più.
Sanno di già sentito o, addirittura, non sanno più di
niente. Perciò, quando ci capita di risentirle, ci annoiano e ci viene spontaneo «staccare l'audio» (cf.
Ger 8,9; 29,19). Perciò, finiamo per assumere nei
confronti della Sacra Scrittura quell'atteggiamento
che Paul Claudel (1868-1955) ha ironicamente definito come «grande rispetto»:
I cattolici [scriveva il poeta francese nel 1946] nutrono
un grande rispetto per la Bibbia. E questo rispetto lo
mostrano con lo starsene il più possibile lontani.
Invece, la Bibbia dovrebbe diventare per noi cristiani quello che Franz Kafka (1883-1924) esigeva
da un buon libro:
Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un
pugno che ci martelli sul cranio, perché dunque leggiamo? Buon Dio [...] un libro dev'essere una picozza per
rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi.
Qualcosa del genere dovrebbe essere la Sacra
Scrittura per noi, una specie di «martello che spacca
la roccia» (Ger 23,29) della nostra sonnolenza spirituale! Invece, forse, ci siamo così assuefatti alla parola
81
Cristo sommo sacerdote aFFidabile e misericordioso
di Dio, che non ci lasciamo più mettere in questione
da essa, almeno su determinati punti della nostra vita. Ecco, allora, il richiamo - ruvido, ma anche consolante - di Eb 4,12-13: al di là delle nostre impressioni soggettive, è la stessa parola di Dio che prende
l'iniziativa di penetrare in noi, per aiutarci nel nostro
discernimento quotidiano (cf. 5, 14).
Il fascino del Dio alleato
Un terzo suggerimento spirituale è di lasciarsi affascinare, soprattutto meditando Eb 4,15-5,10, dal
volto del Dio alleato, che il predicatore traqeggia
qui, facendo memoria della passione di Gesù. E Dio
che ha fatto il primo passo per nominare suo Figlio
sommo sacerdote (5,5.10), cioè mediatore tra se stesso e gli uomini (cf. 8,6; 9,15; 12,24). Il cristiano può
così reagire alla tentazione dell'indifferenza religiosa
della società contemporanea. Senza dubbio, oggi, la
tendenza maggioritaria non è quella di negare espressamente Dio. Si preferisce piuttosto relegarlo al di
fuori della vita concreta (cf. Sir 10,12; Sof 1,12).
Ma, meditando su Eb 4,15-5,10, possiamo rinsaldare la nostra fede in un Dio che non è separato
dall'umanità (cf. 12,20); non è lontano dalla vita
«profana», come può apparire da vari passi dell'AT
(cf. Lv 10,10; Ez 22,26; ecc.). Il Dio di Gesù Cristo
è il Dio dell'alleanza con il suo popolo (cf. Eb 7,22;
8,6.8-13; 9,15; 10,16-17; 12,24); è il Dio della comunione con gli uomini (cf. 1Gv 1,3.6); è il Dio che
«non ha vergogna di essere chiamato loro Dio» (Eb
11,16).
Con la sua riflessione, il predicatore conferma la
consapevolezza dei cristiani di ieri e di oggi a riguardo del desiderio di Dio di entrare in comunione con
gli uomini, un desiderio che si è concretizzato nell'attività mediatrice attuata dal Figlio. Certamente, è
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Ebrei 3, 1-5, IO
i:
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rl
Cristo che è diventato la «causa della salvezza eterna»
dell'umanità (5,9). Ma la sua capacità salvifica è stata
resa possibile dal «perfezionamento» (v. 9; cf. 7,28)
compiuto in lui da Dio stesso (cf. 2, lO). In fondo, il
Figlio è diventato capace di comunicare agli uomini
la salvezza (5,9), da lui stesso ricevuta in dono come
liberazione definitiva dalla morte (v. 7; 7,16; 13,20),
perché si è lasciato «perfezionare» da Dio attraverso
la «pedagogia» della passione (5,8; cf. anche 12,5-8).
Da questa certezza di fede, sorge in noi la speranza.
Perciò, anche noi - come i cristiani a cui si rivolgeva
il predicatore - «abbiamo un forte incoraggiamento
a tenere ferma la speranza presente» (6,18; cf. 3,6;
6,11; 7,19; 10,23).
La preghiera di Cristo come criterio
di autenticità della preghiera dei cristiani
All'interno di questa concezione del Dio alleato va
compreso anche il senso della preghiera cristiana. Secondo Eb 5,7-10, Cristo è stato proclamato sommo
sacerdote da Dio, il quale, in maniera umanamente
imprevedibile, ha esaudito così le «preghiere» e le
«suppliche» di suo Figlio sofferente. Da questa affermazione possiamo trarre un ultimo suggerimento
spirituale: è precisamente a partire dal modo di pregare di Cristo che i fedeli di ieri e di oggi sono invitati a comprendere il senso della preghiera cristiana,
soprattutto nei momenti «crocifiggenti» della loro vita. Forse, alcune nostre difficoltà con Dio sono dovute al fatto che siamo stati educati con un'idea semplicistica della provvidenza divina. Può capitare di
immaginare la provvidenza come una specie di «bacchetta magica», sempre pronta a entrare in azione,
non appena domandiamo a Dio qualcosa che ci sta
a cuore. Non è un caso, allora, che questa idea sia
messa in questione, nel momento in cui, dopo aver
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Cristo sommo sacerdote aFFidabile e misericordioso
intensamente pregato, non constatiamo l'esaudimento sperato.
Che cosa non ha funzionato? - Chiediamo a noi stessi
con amarezza -. Ho pregato male? La richiesta era sbagliata? Ho peccato contro Dio? Oppure ho fatto del male a qualcuno, per cui la preghiera non può essere gradita a Dio? Ma sarà proprio vero che Dio guida la storia
umana?
Così, si rischia di passare da una visione semplicistica della provvidenza di Dio a un atteggiamento di
protesta contro di lui e, alla fin fine, a un certo scetticismo sulla sua signoria storica o sulla sua buona
volontà nei nostri confronti.
Tenuto conto di questo rischio, può essere utile
fare memoria della preghiera di Gesù durante la sua
passione e il testo di Eb 5,7-10 è in grado di suscitare
in noi qualche interrogativo salutare. Anzitutto, a riguardo del nostro modo di intendere la provvidenza
di Dio, non è che la nostra fede dovrebbe maturare
un po' di più (cf. 5,11-6,3)? Non è che dovremmo
pervenire a una fede più adulta in un Dio «invisibile»
(11,27), che certamente è Signore della storia (cf.
1,1-2; Il,16), ma nella modalità di chi la trascende
(cf. Il AO)?
Ebrei 3, 1-5, IO
qualche nostro interrogativo venato di scetticismo
(cf. 3,12.14.19; e anche 12,16) o di scoraggiamento
(cf. 12,3)? Il nostro Dio ha davvero il volto del Padre
di Gesù Cristo (cf. 1,5; 12,7.9; e anche 4,16)? Il nostro ritratto di Dio corrisponde al Dio che si prende
cura di noi (cf. 2,16) suoi figli (cf. 2,10.14; 12,5-8),
secondo quanto ci ha rivelato Gesù Cristo, soprattutto attraverso la sua passione (cf. Mc 14,36) e la sua
croce (cf. Lc 23,34.46)?
Insomma, il criterio che Eb ci offre implicitamente per verificare 1'autenticità della nostra preghiera è
quello di contemplare la modalità in cui Gesù ha rivolto a Dio la sua richiesta di essere salvato e il modo
in cui il Padre ha esaudito il desiderio del Figlio
(5,7). In questo senso, si comprende la profonda intuizione del pastore e teologo protestante Dietrich
Bonhoeffer (1906-1945):
Dio è impotente e debole nel mondo e soltanto così
rimane con noi e ci aiuta. Cristo non ci aiuta in virtù
della sua onnipotenza ma della sua sofferenza.
I miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore -.
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri (Is 55,8-9).
D'altra parte, dopo aver coltivato nel nostro cuore
la «riverenza» e il «timore» (12,28; cf. 5,7; Il,7) nei
confronti del «mistero» del nostro Dio (cf. Is 45,15;
1Cor 2,7), possiamo domandare a noi stessi: quali
sono i tratti del volto misteroso del Dio in cui crediamo? Qual è l'immagine di Dio che si cela dietro
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