Attivazione, stress e performance di Matteo Minnozzi* In ambito sportivo una delle teorie fondamentali per analizzare la performance, spiega quale sia il rapporto tra “stress buono”, il cosiddetto eutress e “stress cattivo”, il cosiddetto distress a cui comunemente facciamo riferimento quando parliamo di stress con connotazione negativa. La stessa teoria si applica a tutti i campi della nostra vita, professionale e personale. Se pensiamo ad una situazione stressante della nostra vita, probabilmente penseremo ad una situazione in cui ci siamo sentiti sotto pressione, affaticati, messi alla prova dalle situazioni. Un compito lavorativo particolarmente impegnativo, una situazione personale o familiare difficile da gestire, una prova sportiva molto, forse troppo, ambiziosa. Lo stress è ciò che percepiamo ogni qualvolta siamo chiamati ad un adattamento repentino rispetto a degli “stressor”, ossia delle sollecitazioni. Ma questo non è negativo di per sé, anzi! Ciò che in realtà ci consuma in un periodo prolungato di stress, è la nostra capacità di gestire le situazioni stressanti. La gestione dello stress è una competenza che si può allenare, alzando sempre un po’ di più il limite per noi accettabile di sollecitazione prima di esaurirci. Il medico austriaco Hans Selye identificò quella che lui stesso definì “sindrome generale di adattamento”, il processo messo in atto dall’organismo per fronteggiare un’esposizione prolungata agli stressor, quali stimoli fisici, mentali, sociali o ambientali. L’evoluzione della sindrome, secondo Selye, avviene in tre fasi: - - fase di allarme, in cui l’organismo cerca di fronteggiare le sollecitazioni: aumento del battito cardiaco, frequenza respiratoria, pressione sanguigna, tono muscolare e arousal (attivazione); fase di resistenza: l’organismo mette in campo una delle sue armi più potenti per contrastare le sollecitazioni prolungate attivando il sistema endocrino e dando vita a risposte ormonali anche importanti; fase di esaurimento: l’organismo non riesce a contrastare le sollecitazioni, che possono produrre effetti importanti sulla struttura psichica e somatica. Le ricerche nel campo della psicologia dello sport hanno evidenziato come per un atleta sia fondamentale lavorare sulla gestione dell’attivazione, per poterne sfruttare gli effetti positivi senza restarne vittima. Secondo la Teoria di Yerkes e Dodson, la relazione tra attivazione e prestazione può essere rappresentata da una curva a forma di U rovesciata, in cui nell’asse X viene rappresentato il livello di attivazione (o stress) e nell’asse Y il livello della performance. A bassi livelli di attivazione si scivola verso l’apatia, la reattività è molto bassa, ci si distrae facilmente. E’ ciò che accade quando, dal punto di vista sportivo, vediamo un atleta che non entra mai veramente in gara, scarico, molle. L’aumento dell’attivazione produce effetti benefici sulla performance, fino ad una soglia massima rappresentata dal raggiungimento del cosiddetto stato di flow, quella condizione “magica” per l’atleta in cui tutto funziona a meraviglia e in cui sperimenta la totale assenza di pensieri. Da qui al crollo della performance, però, il passo è relativamente breve. All’aumentare dell’attivazione si scivola verso la parte discendente della curva, in cui la prestazione peggiora, ci si trova in affanno fisico, si perde lucidità e anche le cose più semplici diventano le più difficili. Un parametro che influisce decisamente sulla curva della performance è la competenza: maggiore è la competenza nel compito richiesto, maggiore sarà la facilità di gestione dello stress e più elevati saranno i picchi di performance. Nel preparare la gara è fondamentale arrivare al momento di inizio in un corretto stato di attivazione, in un punto piuttosto alto della U rovesciata, ma abbastanza distante dallo stato di picco da permettere una performance di durata. Se l’atleta è iperattivato, sarà fuori giri fin dall’inizio e si esaurirà troppo velocemente; se l’atleta non è sufficientemente attivato, condurrà la gara apatica. Esistono svariati strumenti a cui un atleta può ricorrere per gestire l’attivazione e la preparazione mentale alla gara, così come ognuno di noi per affrontare le situazioni stressanti della vita quotidiana: il training autogeno di Shultz e il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson per gestire l’ansia attraverso il rilassamento psicofisico; le tecniche di visualizzazione (imagery) per governare l’ansia, migliorare il gesto atletico, aumentare l’attenzione e la concentrazione, gestire il dolore cronico, rafforzare la propria autostima. Non esiste livello agonistico minimo, non esiste età minima, non esiste obiettivo minimo: la preparazione mentale è importante quanto la preparazione atletica, tecnica e tattica. I migliori risultati si ottengono fondendo insieme tutti gli aspetti dell’allenamento. Per uno scambio di opinioni o per chiedere un parere, potete scrivermi a [email protected]. *Matteo Minnozzi è coach, mental trainer e personal trainer; si occupa di sport coaching, life coaching e business coaching. Si è formato presso la scuola di coaching dei Dott. Lorenzo Manfredini, Dott. Daniele Trevisani, Cr.Armando Lombardi, vere autorità nel campo della psicologia, del counseling e del coaching Contribuisce come autore al sito www.coachingplaza.it. Bibliografia: Hans Selye (1936), A Syndrome Produced by Diverse Nocuous Agents. Articolo pubblicato su The journal of neuropsychiatry and clinical neurosciences. J. H. Schultz, Il Training Autogeno – Il Training autogeno metodo di autodistensione da concentrazione psichica, Feltrinelli.
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