RIFLESSIONE – Domenica 2 novembre 2014 Oggi la liturgia, ferma il suo cammino legato al Tempo Ordinario A perché, cadendo di domenica, celebra la Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Stiamo bene attenti ai termini: "defunti" e non "morti". C'è una bella differenza che pochi conoscono. Con il termine defunto (part. pass. di defungi), compiere, adempiere, terminare, - vedi l’espressione latina " defunctus iam sum", cioè “ho fatto il mio tempo” non s’indica lo stato del morto, ma l’azione del vivente: è colui che ha compiuto una funzione e che ora è trapassato, cioè è passato da un luogo a un altro, da una dimensione visibile a una invisibile. Il messaggio dei vangeli è che attraverso la morte la persona continua la sua esistenza in una diversa dimensione, in una continua crescita e trasformazione di se stessa verso la piena realizzazione, come recita il Prefazio per la messa dei defunti: “La vita non viene tolta, ma trasformata”. E’ la vita stessa che continua, non un’essenza spirituale dell’individuo (l’anima). La vita, trasformata e arricchita dal patrimonio di bene che l’individuo reca con sé, entra nella pienezza della condizione di Dio, come scrive l’autore dell’Apocalisse: “Beati fin d’ora i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono” (Ap 14,13). Nel brano evangelico di oggi, il suo piano, il suo disegno d’amore è chiamato da Gesù volontà del Padre e su questa volontà insiste, richiamandola ben quattro volte. Qual è? Affidare a lui, alle sue premure l’intera umanità. Questa si accosterà a lui, come il gregge si volge verso il proprio pastore: ogni pecora conosce la sua voce, si fida di lui e si sente chiamata per nome. Gesù non enuncia condizioni per ottenere la salvezza, constata solo un fatto: il destino di tutta la comunità umana è di andare a lui. I cristiani hanno compreso questa meravigliosa realtà, e, partire dal III secolo compare, nelle catacombe, la figura del pastore con la pecora in spalla. È Cristo che prende per mano e stringe fra le sue braccia l’uomo che ha paura di attraversare da solo la valle oscura della morte. Con lui, il Risorto, il discepolo abbandona sereno questa vita, certo che il Pastore al quale ha affidato la propria vita lo condurrà “in prati verdeggianti e verso fonti tranquille” (Salmo 23,2) dove troverà ristoro dopo il lungo e faticoso viaggio nel deserto arido e polveroso di questa terra. La Vita Eterna che Gesù possiede in pienezza e che dona a quanti l’accolgono, si definisce così non nel senso di una "durata illimitata", ma perché assume una nuova qualità: la sua durata senza fine è conseguenza della qualità. La vita eterna non è un premio nel futuro, ma una condizione del presente, e Gesù ne parla sempre al presente “Chi crede ha la vita eterna” (Gv 3,15.16.36). La vita eterna, ma è meglio dire "la Vita dell'Eterno", non è una condizione dopo la morte di chi si è comportato bene, ma una qualità di vita che è a disposizione subito per quanti accettano Gesù e la sua proposta di uomo, e con lui e come lui, collaborano alla trasformazione di questo mondo realizzando il regno di Dio. Gesù dichiara: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,54; Gv 3,36; 5,24; 6,47; 6,54.) Chi, come Gesù, accoglie il suo pane e si fa pane per gli altri, cioè dono di vita, ha come Gesù una vita di una qualità divina, capace di superare la soglia della morte: “se uno osserva la mia parola non vedrà mai la morte” (Gv 8,51). Gesù assicura che chi vive come lui è vissuto, cioè servendo i fratelli, non farà l'esperienza del morire. Gesù a Marta, sorella di Lazzaro: “Io Sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11,25). Gesù non viene a prolungare la vita biologica (βίος bios) che l’uomo possiede, sopprimendo o ritardando la morte, ma a comunicare la pienezza della vita (ζωή Zoe), che egli stesso possiede e che permette all’individuo di oltrepassare indenne la soglia della morte. Gesù può affermare che egli è la risurrezione perché è la vita (Gv 14,6). Questa qualità di vita quando si incontra con la morte, la vince, la supera, perché il Padre non permette che un suo figlio venga annientato. Per Gesù la risurrezione non è relegata in un ipotetico e lontano futuro, poiché Lui, che è LA VITA, è presente, per questo può dichiarare: “Chiunque vive e crede in me, non morrà mai” (Gv 11,26). A quanti vivono e gli hanno dato adesione, Gesù assicura che non faranno l’esperienza della morte. Per questo la Chiesa il 2 novembre non celebra i morti, ma i defunti. Per i morti è finito tutto, non c’è nulla da celebrare. Il Dio di Gesù “non è un Dio di morti ma di viventi, perché tutti vivono per lui” (Lc 20,38; Mt 22,32; Mc 12,27), non risuscita i morti (Dio dei morti) ma comunica la sua stessa vita indistruttibile ai vivi (Dio dei vivi). La morte non è una sconfitta o un annientamento e neanche l’ingresso in uno stato d' attesa, ma un passaggio a una dimensione di pienezza definitiva. I defunti non stanno al cimitero, il luogo dei morti, ma continuano la loro esistenza nella pienezza di Dio, è questo il significato di “Riposeranno dalle loro fatiche” espresso nel libro dell'Apocalisse. Il riposo, al quale allude l’autore, non indica il termine delle attività, ma la condizione divina, come il Creatore che “compì l’opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno” (Gen 2,2). Con la morte biologica e l'ingresso nella vita di Dio, l’individuo viene chiamato a collaborare alla continua azione creatrice di Dio comunicando vita agli uomini. La morte non conduce a un noiosissimo "eterno riposo", una sorta di "ozio divino" interminabile, ma all’attiva e vivificante collaborazione con l’azione del Creatore. In quest’azione creatrice l’amore che il defunto aveva verso i suoi cari non viene affievolito, ma arricchito dalla stessa potenza d’amore del Padre. L’unica realtà che l’uomo porta con sé, attraversando l'ultima dogana, sono le opere compiute nella sua esistenza terrena. Quelle opere d'amore che hanno già anticipato, nell'oggi terreno, ciò che sarà nell'oggi di Dio. a cura di padre Umberto
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