IV domenica di Quaresima A (Laetare) 1Sam 16,1-4.6-7.10-13; Sal 22; Ef 5,8-14; Gv 9,1-41 Prima Lettura 1 Sam 16, 1b.4a. 6-7. 10-13a Davide è consacrato con l'unzione re d'Israele. Dal primo libro di Samuele In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato. Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore». Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: «Àlzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi. Seconda Lettura Ef 5, 8-14 Risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà. Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto da [coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto: «Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà». Vangelo Gv 9, 1-41 (forma breve: Gv 9,1.6-9.13-17) Il cieco andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Dal vangelo secondo Giovanni [ In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita ] e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, [ sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». ] Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». Condussero dai farisei 1 quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». ] Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». [ Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. ] Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». La prima lettura (1Sam 16,1-4.6-7.10-13) ci fa considerare le vicende che accompagnarono l'inizio della monarchia in Israele. Saul, definito prestante e bello: non c'era nessuno più bello di lui tra gli Israeliti (1Sam 9,2), unto re a malincuore da Samuele, viene sconfessato e riprovato a causa della sua disobbedienza: Poiché hai rigettato la parola del Signore, egli ti ha rigettato come re (1Sam 15,23). L'esperienza della monarchia inizia e finirà in maniera drammatica. Nonostante tutto, Dio va incontro al suo popolo e ordina a Samuele di recarsi a Betlemme, dove gli indicherà chi dovrà prendere il posto di Saul (Sha'ul 1079-1007 a.C. Il nome significa «richiesto, domandato, desiderato»). 1Sam 16,1b: Il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re» (wayyó'mer hashem elShemu'el malle qarneka shémen welek eshlachaka 'el-Yishay bet-hallachmi ki-ra'íti bevanayw li mélech). - Il Signore disse a Samuele (wayyó'mer hashem el-Shemu'el). Vero protagonista della storia è Dio che affida al profeta la sua parola. Shemu'el, «Samuele» che significa «il Signore ha ascoltato», uno dei Neviìm Rishonim «Profeti anteriori», riceve da Dio il comando di non piangere sulle miserie di Shaul ormai rigettato, ma di preparare il futuro per il suo popolo. Il profeta obbedisce prontamente e fornitosi di shémen «olio» si reca da Yishay bet-hallachmi «Iesse della casa di Betlemme», uomo stimato e padre di una famiglia numerosa. 16,4a: Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato (wayyá'as shemu'el et 'asher dibber hashem). - Samuele fece (wayyá'as shemu'el, lett. «e fece Samuele»). L'obbedienza al davar, dibber «parola, dire» del Signore qualifica ogni autentico profeta (navì). 2 16,6: Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!» (wayehi bevo'am wayyár et-'eli'av wayyó'mer 'ak néged hashem meshicho). - davanti al Signore sta il suo consacrato (néged hashem meshicho). Samuele, trovatosi alla presenza del primogenito di Iesse, Eli-ab «il mio Dio è padre», di bell'aspetto e imponente di statura, pensa che sia lui il mashiach, l'«unto, consacrato» del Signore. L'unzione con olio di oliva da parte del profeta, riconosciuto dalla Torah come la massima autorità dello Stato (cf Dt 18,9-22), rappresentava un atto di consacrazione per re e sacerdoti. Anche il Mashiach, il «Messia» è per definizione l'Unto per eccellenza. 16,7: Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (wayyó'mer hashem 'el-shemu'el 'al-tabbet 'el-mar'éhu we'el-gevoah qomato ki me'astíhu ki lō' 'asher yir'eh ha'adam ki ha'adam yir'eh la'enáyim washem yir'eh lallevav). - l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore (ha'adam yir'eh la'enáyim washem yir'eh lallevav, lett. «l'uomo vede gli occhi, ma il Signore vede il cuore»). Dio dichiara che i suoi criteri di scelta sono ben diversi da quelli in uso presso gli uomini. 8Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. 9Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri (Is 55,8-9). L'umana creatura è sedotta da ciò che si vede: la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò (Gn 3,6). Dio preferisce vedere ciò che non si vede con gli occhi, ma con il cuore. 16,10: Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi» (wayya'aver yishay shiv'at banayw lifne shemu'el; wayyó'mer shemu'el el-yishay, lō'-vachar hashem ba'élleh). - Il Signore non ha scelto nessuno di questi (lō'-vachar hashem ba'élleh, lett. «non ha scelto il Signore in questi»). Dal punto di vista umano, Dio risulta di gusti difficili. In questo senso si può condividere la definizione di Dio come colui che è «Totalmente Altro», già affermato da Is 55,9. Già nel libro dell'Esodo Dio associa il suo Nome a un tetragramma YHWH impronunciabile (Shem hammephoras). Di Lui si può dire solo «Io Sono Colui che sono» (Es 3,14) per indicare l'ineffabilità del suo nome. In questa rivelazione sinaitica i teologi cristiani riconoscevano la natura apofatica di Dio Padre, che può rivelarsi solo tramite il Figlio Gesù. Il «Totalmente Altro» (in tedesco ganz Andere) è un'espressione coniata dallo storico delle religioni e teologo tedesco Rudolf Otto (1869 - 1937) nell'opera: Il sacro. L'irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, 1917, per descrivere il «numinoso» come qualcosa di radicalmente e totalmente diverso da ciò che è umano o anche cosmico. Tale espressione poi è stata ripresa in campo teologico. Un notevole contributo a questo filone di pensiero è derivato da Max Horkheimer (1895-1973, filosofo tedesco di origine ebraica, tra i più importanti esponenti della Scuola di Francoforte). Il suo libro La nostalgia del totalmente Altro, 1970 ha messo in discussione i presunti assoluti di questo mondo. In questo libro scrive: «Il peccato originale consiste propriamente nell’affermazione di se stessi, nella negazione degli altri». In campo teologico si parla di teologia negativa, ben diffusa nell'Oriente cristiano. Il principio cardine consiste nel sostenere che di Dio possiamo affermare con sicurezza solo ciò che non è. Le origini di tale pensiero lo troviamo in Plotino (205 – 270 d.C.), il quale affermò che di Dio possiamo dire soltanto «quello che Egli non è, ma non diciamo quello che è. Diciamo di Lui partendo dalle cose che sono dopo di lui». Tra i primi pensatori cristiani, specialmente Agostino (354 430), Pseudo-Dionigi l'Areopagita (V secolo d.C.) e Giovanni Scoto Eriugena (810 - 880) ripresero il metodo negativo della teologia neoplatonica adattandolo alla concezione cristiana. Agostino, in particolare, è considerato il padre della teologia negativa cristiana. Per sottolineare come Dio non possa essere compreso razionalmente affermava: Melius scitur Deus nesciendo, cioè «Dio si conosce meglio nell'ignoranza»; Si comprehendis non est Deus, «se lo comprendi allora non è Dio», per evidenziare come Dio sia aliud, aliud valde «altra cosa, cosa molto diversa» (Confessioni VII,10.16). L'eredità di Agostino fu raccolta dallo Pseudo-Dionigi, il quale fu il primo a distinguere espressamente la teologia negativa da una teologia affermativa. Anche K. Barth (1886-1968) si riallaccia all'idea del Dio ignoto e sostiene che «Dio è il Dio sconosciuto» e la sua potenza è «il totalmente Altro» (totaliter aliter). 16,11: Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, 3 perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui» (wayyó'mer shemu'el 'elyishay hatámmu hanne'arim wayyó'mer 'od sha'ar haqqatan wehinneh ro'eh batzo'n wayyó'mer shemu'el elyishay shilchah weqachénnu ki lō'-nasov 'ad-bo'o foh). - Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge ('od sha'ar haqqatan wehinneh ro'eh batzo'n, «ancora restò il piccolo ed ecco pascolante il gregge»). Tutta la Scrittura testimonia la preferenza di Dio per i più piccoli: Abele, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, David, il Servo, il resto di Israele, il povero, l'umile, Maria di Nazaret, il Figlio dell'uomo, i bambini, ecc… Anche il termine ebraico ra'ah, «pastore» è molto usato nella Scrittura. Dio è chiamato il «Pastore di Israele» e Israele «il gregge del Signore» (Gen 49,24; Sal 23; 80,1; Ger 31,10; Ez 34,1121). Il termine pastore è applicato a Mosè, ai re e ai capi del popolo. Nel Nuovo Testamento la parola greca ποιμήν, poimén è attribuita a Gesù: ὁ ποιμὴν ὁ καλός, «il pastore bello/buono» (Gv 10,11). I presbiteri e gli episcopi sono incaricati a «pascere il gregge», la Chiesa, in nome del solo e vero Pastore, Gesù Cristo (Gv 21,25ss; At 20,28; 1Pt 5,2). 16,12: Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: «Alzati e ungilo: è lui!» (wayyishlach wayevi'éhu wehu' 'admoni 'im-yefeh 'enáyim wetov ró'i; f wayyó'mer hashem qum meshachéhu ki-zeh hu, lett. «E inviò e fece venire lui. E lui rossiccio con bellezza di occhi e buono di visione. E disse il Signore: Sorgi, ungi lui, poiché questo [è] lui»). - Disse il Signore: «Alzati e ungilo: è lui!» (wayyó'mer hashem qum meshachéhu ki-zeh hu, lett. «E disse il Signore: Sorgi, ungi lui, poiché questo [è] lui»). L'ottavo figlio di Yishay, il più piccolo (haqqatan) non convocato alla riunione e lasciato a pascolare il gregge, è proprio il prescelto dal Signore a essere unto (meshachéhu) per diventare re e antenato dell'Unto, il Messia. Ciò che conta poco agli occhi degli uomini è gradito agli occhi di Dio; il più piccolo, gli ultimi sono i preferiti di ha-Shem (cf 1Cor 1,27-29). Il pastore del gregge (ra'ha batzo'n) è reso pastore del popolo (ra'ha am) (cf 2Sam 7,8; Sal 78,70-72). Il più piccolo è fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Il colore rossiccio dei capelli lo rendeva diverso nel suo ambiente, ma anche speciale per Dio, sicché il più piccolo diventa anche il più bello ai suoi occhi. 16,13: Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi (wayyiqqach shemu'el 'et-qéren hashémen wayyimshach 'oto beqérev 'echayw wattitzlach ruach-hashem 'el-dawid mehayyom hahu' wamá'elah; vayyáqom shemu'el, vayyélek haramátah). - lo unse in mezzo ai suoi fratelli (wayyimshach 'oto beqérev 'echayw, lett. «e unse lui in mezzo a fratelli di lui»). Ritorna il verbo mashach «ungere» che prepara la promessa messianica che Dio farà a Davide suo dodì «amato»: dalla sua discendenza nascerà il mashiach, l'Unto, il Messia che renderà stabile per sempre il regno di Davide (2Sam 7,12-16). Dopo l'attuale unzione, avvenuta nell'ambito di una cerimonia familiare e segreta a Betlemme, seguiranno altre due unzioni a Ebron: una da parte della tribù di Giuda (2Sam 2,4), l'altra da parte degli anziani di Israele (2Sam 5,3). Siamo circa nel 1000 a.C. Davide diventerà l'amante di Dio per eccellenza, il compositore di molti salmi, il re modello. Preferirà essere disprezzato dalla moglie Mical (2Sam 6,20-23) e dai suoi figli, pur di rimanere fedele al suo Dio. Il testo precisa che l'unzione regale che viene da Dio non si realizza al di sopra (me'al) dei fratelli, ma in mezzo (beqérev) ai fratelli (achim). Ciò significa che l'autorità autentica mira a salvaguardare, a proteggere la fraternità e non a soffocarla. Il re quindi è chiamato a servire il popolo, a porsi ai suoi piedi e non a dominare con spocchiosa alterigia. Ogni unzione che non viene vissuta secondo il cuore di Dio è dichiarata invalida (cf 1Sam 15,23). La parola di Dio resta l'unico riferimento che permette un sano discernimento. La seconda lettura (Ef 5,8-14) esorta i cristiani a cogliere il significato profondo del battesimo, chiamato anche φωτισμός, «illuminazione», come lo è il vangelo (cf 2Cor 4,4). L'autore invita a destarsi dai morti, a liberarsi dai peccati per risorgere con Cristo. Ef 5,8: Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; (ἦτε γάρ ποτε σκότος, νῦν δὲ φῶς ἐν κυρίῳ• ὡς τέκνα φωτὸς περιπατεῖτε) 4 - Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore (ἦτε γάρ ποτε σκότος, νῦν δὲ φῶς ἐν κυρίῳ). L'antitesi luce/tenebra domina i vv. 8-14: φῶς, «luce» compare cinque volte, σκότος, «tenebra» due volte. La prima coppia antinomica tenebra/luce (v. 8) designa lo statuto del cristiano, mentre la seconda coppia luce/tenebra si riferisce all'agire. Tale antitesi affiora con maggior frequenza nel NT rispetto all'AT (Gen 1,4; Is 42,16; 59,9; Mt4,16; Gv 1,5; 3,19; 8,12; 12,35.46; Rm 13,12; 2Cor 6,14; 1Ts 5,5; 1Pt 2,9; 1Gv 1,5; 2,8). «Prima eravamo non soltanto tenebrosi, ma addirittura «tenebra»: non solo, infatti, noi stessi vivevamo nell'ignoranza e nell'errore, ma portavamo anche altri nella medesima tenebra, e li traviavamo con parole e opere. Per questo dobbiamo ora essere grati a Colui che da tale tenebra ci ha chiamati alla sua mirabile luce (cf 1Pt 2,9) e a «camminare come figli della luce» (Lutero). «L'uomo illuminato, viene posto nella sfera in cui gli si dischiudono salvezza, conoscenza, amore e verità, e sottratto alla sfera in cui dominano perdizione, errore, odio e menzogna. Ora, quando gli uomini sono nella sfera della luce sono nello spazio riempito dallo Spirito: ed è questa, in ultima analisi, la Chiesa» (Gnilka). - figli della luce (τέκνα φωτὸς). È un semitismo che significa «appartenenti alla luce, luminosi, illuminati» (cf Lc 16,8; Gv 12,36; 1Ts 5,5). Questa espressione è frequente negli scritti di Qumran, dove indica uno schieramento che fa guerra ai «figli delle tenebre» (cf Regola della Comunità [1QS] 1,9-10). Ma, mentre a Qumran la contrapposizione tenebra/luce indica il conflitto tra due spiegamenti contrapposti, Efesini invece parla di una trasformazione della persona da un «prima» negativo, a un «ora» illuminato da Cristo. 5,9: ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità (ὁ γὰρ καρπὸς τοῦ φωτὸς ἐν πάσῃ ἀγαθωσύνῃ καὶ δικαιοσύνῃ καὶ ἀληθείᾳ). - ora il frutto della luce (ὁ γὰρ καρπὸς τοῦ φωτὸς). Tale locuzione richiama da vicino Gal 5,22: «il frutto dello Spirito». Non a caso il papiro Chester Beatty II (P46) e i codici del testo bizantino al posto di τοῦ φωτὸς «della luce» hanno τοῦ πνεύματος, «dello Spirito». 5,10-11: Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. 11Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente (δοκιμάζοντες τί ἐστιν εὐάρεστον τῷ κυρίῳ, 11καὶ μὴ συγκοινωνεῖτε τοῖς ἔργοις τοῖς ἀκάρποις τοῦ σκότους, … ἐλέγχετε). - 11Non partecipate alle opere delle tenebre, … condannatele apertamente (μὴ συγκοινωνεῖτε τοῖς ἔργοις … τοῦ σκότους, … ἐλέγχετε, lett. «non partecipate alle opere della tenebra … biasimate[le]»). «Bisogna astenersi da ogni comunione: di consenso, di consiglio, di volontà tacita, o di qualche altro aiuto di qualsiasi genere, poiché in tutti questi modi partecipiamo con i malvagi. Anzi, perché nessuno pensi di aver compiuto il proprio dovere dissimulando o fingendo di non vedere il male, ordina anche espressamente di "riprovare", che è il contrario della dissimulazione» (Calvino). 5,12-13: Di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso perfino parlare, 13mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce (τὰ γὰρ κρυφῇ γινόμενα ὑπ' αὐτῶν αἰσχρόν ἐστιν καὶ λέγειν, 13τὰ δὲ πάντα ἐλεγχόμενα ὑπὸ τοῦ φωτὸς φανεροῦται, πᾶν γὰρ τὸ φανερούμενον φῶς ἐστιν). - tutto quello che si manifesta è luce (πᾶν γὰρ τὸ φανερούμενον φῶς ἐστιν, lett. «tutto infatti il manifestato luce è»). L'espressione è un po' enigmatica: non è vero che, se il peccato viene «manifestato» (part. pres. pass. di φανερόω), divenga luce. La si può, allora, comprendere come un aforisma o un epifonema, ossia un'affermazione breve che sintetizza un'intera riflessione. Qui l'idea è che la prassi dei credenti, in contatto con la luce di Cristo (e quindi da lui illuminata), diviene a sua volta luce per gli altri: non tanto nel senso che abbia il dovere di smascherare l'altrui prassi negativa (che rimane comunque tenebra), quanto piuttosto che debba illuminarla con il proprio esempio positivo, ispirando così una condotta diversa. 5,14: Per questo è detto: «Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà» (διὸ λέγει• ἔγειρε, ὁ καθεύδων, καὶ ἀνάστα ἐκ τῶν νεκρῶν, καὶ ἐπιφαύσει σοι ὁ Χριστός). - Per questo è detto (διὸ λέγει, lett. «perciò dice»). Si tratta di una formula di citazione, solitamente riferita a passi dell'AT (cf 4,8). Qui però viene riportato un passo extrabiblico, la cui fonte potrebbe essere o un apocrifo, o uno scritto di Qumran, o un inno legato ai culti misterici, o un testo già condizionato da influssi 5 pregnostici, o, più semplicemente, un inno liturgico cristiano, probabilmente legato al rito del battesimo. Tali ipotesi, però, non superano il puro livello congetturale. - Svégliati, … e Cristo ti illuminerà (ἔγειρε … καὶ ἐπιφαύσει σοι ὁ Χριστός). «Probabilmente si tratta di un detto battesimale o un frammento di canto battesimale, in quanto il battesimo è tanto «risveglio» che «illuminazione». Cristo è la luce, ma per poterla vedere è necessaria la trasformazione. Nella gnosi l'esistenza non destata viene definita sonno, ubriachezza o morte. Colui che non è stato ridestato, «l'uomo vecchio», non sa affatto lo stato di perdizione in cui si trova, ne fa l'esperienza solo nell'attimo in cui viene ridestato. Soltanto allora può comprendere che prima era sprofondato nel sonno da cui è stato salvato. Detto in altri termini: si fa l'esperienza di essere stati peccatori grazie alla parola che ci promette la salvezza» (Conzelmann). «In sostanza, Ef 5,14 invita il cristiano a riattualizzare ogni giorno l'evento fulgido del battesimo» (Penna). Dalla tenebra alla luce. L'esortazione che unisce i capp. 4-5 della Lettera propone ai battezzati di diventare «imitatori di Dio». Il tema dell'imitazione non è presente nell'AT, mentre nei vangeli emerge l'insistenza di essere misericordiosi (cf Lc 6,36), perfetti come il Padre (Mt 5,48). Paolo chiede apertamente che si imiti la sua condotta (1Cor 4,16; Fil 3,17; 2Ts 3,7), perché a sua volta è imitatore di Cristo (1Cor 11,1): infatti, i cristiani sono divenuti μιμηταί, «imitatori» sia di Paolo che del Signore (1Ts 1,6). La richiesta di imitare Dio compare solo in Ef 5,1 e consiste nel riprodurre nella propria vita l'amore misericordioso. Diventa possibile «camminare nell'amore» (5,2: περιπατεῖτε ἐν ἀγάπῃ) perché siamo τέκνα ἀγαπητά, «figli amati» da Dio (5,1), amati da Cristo che ἠγάπησεν ἡμᾶς καὶ παρέδωκεν ἑαυτὸν ὑπὲρ ἡμῶν «ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi» (5,2; cf Gal 2,20). Mediante la tecnica del contrasto, l'autore sintetizza le sue considerazioni mettendo in campo l'antitesi tra la tenebra e la luce, con la quale delinea il passaggio da un passato negativo a un presente positivo. La fecondità di tale antitesi evidenzia la condizione nuova in cui il cristiano si trova grazie al Signore: se prima era talmente ottenebrato tanto da poter essere definito «tenebra», ora, invece, grazie all'illuminazione di Cristo, si ritrova in una condizione radicalmente rovesciata, essendo divenuto «luce» (v. 8). Dall'altra parte l'antitesi ha il pregio di mostrare due condotte irriducibilmente contrarie tra loro: la necessità di «camminare come figli della luce» e di «non partecipare alle opere infruttuose della tenebra» (5,8.11). Come si può notare non siamo lontani dall'antitesi παλαιὸς ἄνθρωπος / καινὸς ἄνθρωπος, «uomo vecchio / uomo nuovo» (cf 4,22-24). La luce, poi, ha il potere di palesare le opere riprovevoli e, infine, di alludere alla risurrezione. La citazione di 5,14 invita il cristiano a risorgere: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà». Non sembra che si tratti di un invito letterale, ma piuttosto di un'espressione metaforica, che esprime una risurrezione etica, in linea con il contesto precedente. Dalla precedente condizione di morte causata dal peccato bisogna passare ora alla nuova condotta di vita, illuminata dal Risorto. Dunque, è un invito rivolto ai neofiti nel giorno del battesimo «a vivere ciò che sono, luce ricevuta dalla luce, il Cristo» (Aletti). Il vangelo (Gv 9,1-41) riferisce il sesto segno (il termine σημεῖον, sēmeĩon però qui non compare) compiuto da Gesù e riportato nel «libro dei segni» (Gv 1-12). Questo «segno» serve a rispondere alla domanda: «Chi è Gesù?». Il contesto in cui avviene la guarigione del cieco nato è la festa ebraica delle Capanne (Sukkot), che cade tra la fine di settembre e la prima metà di ottobre. La festa è contrassegnata dai simboli dell'acqua e della luce. Nell'ultimo giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-39). Gesù nel Tempio difende l’adultera e ai farisei che lo attaccano risponde: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12). Siamo probabilmente nell'anno 29. Il tema della luce, già introdotto nel prologo (1,4-5.9), sarà il tema dominante del capitolo nove. 6 Gv 9,1: [In quel tempo, Gesù] passando, vide un uomo cieco dalla nascita (Καὶ παράγων εἶδεν ἄνθρωπον τυφλὸν ἐκ γενετῆς). - [E] passando (Καὶ παράγων). L'episodio si inserisce nel contesto della festa delle Capanne (Sukkot); Gesù si trova a Gerusalemme nell'area del tempio, come suggerisce la congiunzione καὶ «e» (non tradotta in italiano) all'inizio del racconto. L'indicazione del giorno in cui tutto accade è indicato al v. 14: «era un sabato». Gesù sta uscendo dal Tempio. Il verbo di movimento usato è παράγων (part. pres. di παράγω) che letteralmente significa «colui che passa» (hápax); espressione simile e più nota è: ὁ ἐρχόμενος «colui che viene». - vide un uomo cieco dalla nascita (εἶδεν ἄνθρωπον τυφλὸν ἐκ γενετῆς). Lo sguardo (εἶδεν ind. aor. di ὁράω, «vedo») di Gesù cade su un uomo τυφλὸς ἐκ γενετῆς, «cieco dalla nascita». Questo particolare è messo in evidenza dall'evangelista in tutto il racconto, a motivo della sua portata simbolica: la cecità caratterizza chi non conosce Gesù. Perciò fin dal prologo l'evangelista spiega che i credenti «non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (1,13); «se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (3,5). L'episodio dunque sarà un esempio «tipico» dell'accesso di un uomo alla fede come generato da Dio. Le allusioni battesimali (cf piscina di Sìloe) vanno messe in rapporto con questa verità di fondo. Il dono della vista, della luce e della fede rappresenta per l'uomo una nuova creazione. 9,2-4: e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». 3Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. 4Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire (καὶ ἠρώτησαν αὐτὸν οἱ μαθηταὶ αὐτοῦ λέγοντες ῥαββί, τίς ἥμαρτεν, οὗτος ἢ οἱ γονεῖς αὐτοῦ ἵνα τυφλὸς γεννηθῇ; 3ἀπεκρίθη Ἰησοῦς• οὔτε οὗτος ἥμαρτεν οὔτε οἱ γονεῖς αὐτοῦ ἀλλ' ἵνα φανερωθῇ τὰ ἔργα τοῦ θεοῦ ἐν αὐτῷ. 4ἡμᾶς δεῖ ἐργάζεσθαι τὰ ἔργα τοῦ πέμψαντός με ἕως ἡμέρα ἐστίν• ἔρχεται νὺξ ὅτε οὐδεὶς δύναται ἐργάζεσθαι). - Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori? (ῥαββί, τίς ἥμαρτεν, οὗτος ἢ οἱ γονεῖς αὐτοῦ). Questa domanda dei discepoli riflette la mentalità corrente di allora e spesso anche di oggi: non vi è sofferenza senza colpevolezza. Rimane solo da chiarire se si tratta del peccato del cieco o dei suoi genitori. Questa mentalità «arcaica» o «regressiva» che guarda al passato era già stata contestata da Geremia (31,30: ognuno morirà per la sua propria iniquità) e da Ezechiele (Ez 18). Nonostante questo, i farisei sostengono che l'ex-cieco è «nato tutto nei peccati». Già gli amici di Giobbe erano certi che le sue sventure erano dovute a qualche colpa segreta. Gesù sconfessa tale mentalità anche quando gli riferiscono dei Galilei uccisi da Pilato e dei diciotto uccisi dal crollo della torre di Siloe (Lc 13,1-5). - siano manifestate le opere di Dio (φανερωθῇ τὰ ἔργα τοῦ θεοῦ). Gesù si rifiuta di cercare la causa dell'infermità in un peccato passato dei genitori o del cieco in persona. La «sofferenza» non deriva dal «peccato». Gesù guarda al futuro in maniera positiva, parlando di manifestazione delle opere di Dio in colui che soffre. Gesù si rivela luce del mondo rivelando che Dio opera nella sofferenza. - 4Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato (4ἡμᾶς δεῖ ἐργάζεσθαι τὰ ἔργα τοῦ πέμψαντός με). Associando a sé i discepoli con un ἡμᾶς «noi», Gesù precisa che deve agire «fintanto che fa giorno», cioè fin quando dura il suo itinerario terreno, fino alla notte, cioè fino alla sua morte. Questa risposta riprende la parola: «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero» (5,17); viene così giustificata in anticipo la trasgressione del sabato (cf 9,14). 9,5: Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo (ὅταν ἐν τῷ κόσμῳ ὦ, φῶς εἰμι τοῦ κόσμου, lett. «mentre nel mondo sono, luce sono del mondo»). Il verbo ὦ è cong. pres. di εἰμί. I versetti 8,12 e 9,5 risultano identici nella traduzione italiana, ma nell'originale greco non lo sono. In 9,5 non compare la formula ἐγώ εἰμι, egó eimi, «io sono» presente invece in 8,12. Questa formula di identità è usata in modo generico in riferimento a un essere umano (cf 9,8: sono io), ma a partire da Es 3,14: ehyeh ‘asher ‘ehyeh, «Io Sono colui che sono» è usata anche per definire in qualche modo l'identità di Dio. Il Nome è impronunciabile (Shem hammephoras), in sua vece si dice: Adonay, «mio Signore» o hashem «il Nome». La Qabbalah lo definisce il Shem havayah, il «nome che fonda l’esistenza». «Quando nella Bibbia l’ebreo di allora e di oggi trova quelle famose quattro lettere, che cosa legge? La risposta ce la offrono quei rabbini noti come Masoreti (i tradizionali), ai quali dobbiamo la vocalizzazione del 7 testo consonantico della Bibbia. Essi posero sotto le quattro consonanti JHWH le vocali della parola ‘Adonaj, “mio Signore”, che essi pronunciavano al posto del tetragramma sacro. Le vocali sono e-o-a, e servivano a ricordare al lettore che, giunto a JHWH, doveva dire Adonaj. Nel tardo medioevo i cristiani, non essendo più a conoscenza di questo meccanismo di sostituzione, lessero le quattro lettere JHWH con le vocali e-o-a, creando così quello sgorbio che è Jehowa o Geova, che è durato fino ai nostri giorni» (Ravasi). Ancor più diffuso tutt’oggi tra i cristiani è purtroppo l’uso di Jahweh, che non solo è offensivo per gli ebrei, ma del tutto arbitrario poiché l’esatta vocalizzazione del tetragramma è sconosciuta. Il Papa stesso ha affermato: «Quel Nome, che neppure io voglio pronunciare per rispettare il desiderio del popolo ebraico» (Via crucis, Venerdì santo, 30 marzo 1986) e il catechismo della CEI ribadisce: «La tradizione ebraica considera questo nome impronunciabile e suggerisce di dire in suo luogo “Adonaj”, cioè “Signore” o di pronunciare un altro titolo divino. Per rispetto ai nostri fratelli ebrei questo catechismo invita a far altrettanto» (p. 28). Il IV vangelo usa molto questa formula riferita a Gesù, uomo che nasconde la sua origine divina ma che lascia trapelare la sua trascendenza: Gv 6,35: Io sono il pane della vita; 6,41: Io sono il pane disceso dal cielo; 6,54: Io sono il pane vivo disceso dal cielo; 8,12: Io sono la luce del mondo; 8,24: se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati; 8,28: Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono; 8,58: prima che Abramo fosse, Io Sono; 10,7: io sono la porta delle pecore; 10,11: Io sono il buon pastore; 11,25: Io sono la risurrezione e la vita; 13,19: Ve lo dico fin d’ora, prima che accada [il tradimento di Giuda], perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io Sono; 14,6: Io sono la via, la verità e la vita; 15,1: Io sono la vite vera; 15,5: Io sono la vite, voi i tralci; 18,37: Io sono re. 9,6: Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco (ταῦτα εἰπὼν ἔπτυσεν χαμαὶ καὶ ἐποίησεν πηλὸν ἐκ τοῦ πτύσματος καὶ ἐπέχρισεν αὐτοῦ τὸν πηλὸν ἐπὶ τοὺς ὀφθαλμοὺς). - sputò per terra, fece del fango (ἔπτυσεν χαμαὶ καὶ ἐποίησεν πηλὸν). Questo gesto somiglia a quello descritto da Marco per la guarigione del cieco di Betsàida (Mc 8,23). Si è parlato di gesti magici o di antiche prassi mediche, ma in Gv non è la saliva che opera il miracolo come in Mc; essa serve a Gesù solo per fare un po' di fango con cui spalmare gli occhi del cieco. Secondo l'opinione comune, l'uso del fango ha come obiettivo l'infrazione del sabato che sarà poi denunciata dai farisei. Questo gesto, ricordato ben quattro volte nel corso del racconto (9,6.11.14.15), rimane sorprendente, non solo perché tutti gli altri miracoli di Gesù in Gv vengono compiuti con la sua sola parola, ma anche perché mettere del fango sugli occhi di un cieco significa simbolicamente aggravare la sua infermità; Albert Lagrange (1855-1938, insigne esegeta domenicano) commenta: «cecità su cecità». - saliva (πτύσμα). Il πτύσμα, ptýsma, la «saliva, sputo» era usato come unguento da spalmare sugli occhi di chi ha problemi di vista (cf Mc 8,23; Plinio, Stor. Nat. 28,7; Tacito, Storia 4,81; Svetonio, Vita dei Cesari 8,7.2-3; Dione Cassio 66,8). Il gesto terapeutico di Gesù che fa del fango con la saliva, ricorda il gesto con cui Dio ha creato Adamo (Gen 2,7). Fin dal II secolo Ireneo (130 - 202) ha proposto una comprensione simbolica: il gesto di Gesù significherebbe il perfetto compimento della creazione avvenuta col fango, in vista dell'essere perfetto che è l'uomo credente. Il testo tuttavia insiste sul carattere insolito e inatteso del gesto. 9,7: e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva (καὶ εἶπεν αὐτῷ• ὕπαγε νίψαι εἰς τὴν κολυμβήθραν τοῦ Σιλωάμ ὃ ἑρμηνεύεται ἀπεσταλμένος. ἀπῆλθεν οὖν καὶ ἐνίψατο καὶ ἦλθεν βλέπων). - piscina di Sìloe» – che significa Inviato (κολυμβήθραν τοῦ Σιλωάμ ὃ ἑρμηνεύεται ἀπεσταλμένος). Il greco Σιλωάμ, Silōám, traduce il termine ebraico Siloach (Is 8,6), un nome proprio che indicava innanzitutto il canale che convogliava l'acqua della sorgente intermittente, oggi chiamata Ain Sitti Mariam; questo nome significava di conseguenza qualcosa come «l'inviante», il canale che trasmette l'acqua. Di questo nome profano, Gv ne fa un nome simbolico che significa «l'inviato». Pertanto il verbo ἀπεσταλμένος, apestalménos, part. perf. pass. di ἀποστέλλω, «invio, mando» ha il significato di «Inviato, mandato» per eccellenza (cf 3,17; 4,25; 5,24.30.36), cioè Gesù stesso. Gesù invia dunque il cieco alla piscina che porta il suo nome, dove la sua azione si farà sentire tramite il battesimo. Dopo le dichiarazioni fatte a Nicodemo (3,5ss), non c'è discordanza se si attribuisce questo simbolismo a Gesù stesso. Il cieco obbedisce puntualmente, e acquista la vista. Secondo J. Radermakers, il testo gioca sulle assonanze delle parole Siloach «scolo, uscita» e Shaliach «inviato, missionario». L'ordine di Gesù richiama quello che il profeta Eliseo aveva dato a Naaman il Siro, 8 di andare a immergersi sette volte nel Giordano (2Re 5). La piscina di Siloe, a sud-ovest della città vecchia, si trovava allo sbocco di un tunnel fatto costruire da Ezechia (verso il 704 a.C.) per portare le acque del Ghichon all'interno di Gerusalemme. Durante la festa delle Capanne (Sukkot) il sommo sacerdote guidava una processione fino alla piscina di Siloe, per attingere l'acqua con una brocca d'oro. - Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva (ἀπῆλθεν οὖν καὶ ἐνίψατο καὶ ἦλθεν βλέπων). Lo svolgimento del miracolo è passato sotto silenzio. Il verbo utilizzato per il cieco guarito è βλέπω, blépō, «vedo, guardo». Il verbo νίπτω, níptō, «fare il bagno» non indica l'immersione, ma il gesto di chinarsi per togliersi il fango dagli occhi. È il verbo della lavanda dei piedi: ἤρξατο νίπτειν τοὺς πόδας τῶν μαθητῶν «cominciò a lavare i piedi dei discepoli» (Gv 13,5) e delle abluzioni rituali prima dei pasti (Mc 7,3). S. Agostino (354 - 430) sottolinea la portata battesimale del testo: «Egli lavò i suoi occhi nella piscina, egli fu battezzato nel Cristo» (In Jo 44,2). L'interpretazione di Agostino è analogica, quindi non corrisponde al senso letterale del testo, tuttavia rimane una buona osservazione. Gesù quindi scompare dalla scena fino a 9,35. 9,8-9: Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». 9Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!» (οἱ οὖν γείτονες καὶ οἱ θεωροῦντες αὐτὸν τὸ πρότερον ὅτι προσαίτης ἦν ἔλεγον• οὐχ οὗτός ἐστιν, ὁ καθήμενος καὶ προσαιτῶν; 9ἄλλοι ἔλεγον ὅτι οὗτός ἐστιν, ἄλλοι ἔλεγον• οὐχί, ἀλλὰ ὅμοιος αὐτῷ ἐστιν. ἐκεῖνος ἔλεγεν ὅτι ἐγώ εἰμι). - egli diceva: «Sono io!» (ἐκεῖνος ἔλεγεν ὅτι ἐγώ εἰμι). Alcuni commentatori considerano la risposta del cieco ἐγώ εἰμι, egó eimi, «io sono» come una prima intuizione su chi fosse Gesù. In verità l'ex-cieco conferma solo la sua identità. L'intervento di Gesù ha suscitato pareri disparati che presto sfoceranno in «dissenso» (v. 16). Qui è la gente del posto che non crede ai propri occhi e manifesta opinioni contrastanti. 9,10-11: Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». 11Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista» (ἔλεγον οὖν αὐτῷ• πῶς οὖν ἠνεῴχθησάν σου οἱ ὀφθαλμοί; 11ἀπεκρίθη ἐκεῖνος• ὁ ἄνθρωπος ὁ λεγόμενος Ἰησοῦς πηλὸν ἐποίησεν καὶ ἐπέχρισέν μου τοὺς ὀφθαλμοὺς καὶ εἶπέν μοι ὅτι ὕπαγε εἰς τὸν Σιλωὰμ καὶ νίψαι• ἀπελθὼν οὖν καὶ νιψάμενος ἀνέβλεψα). - L'uomo che si chiama Gesù (ὁ ἄνθρωπος ὁ λεγόμενος Ἰησοῦς, lett. «l'uomo quello detto Gesù»). Si ritrova qui quanto già affermato dalla Samaritana: Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto (4,29: δεῦτε ἴδετε ἄνθρωπον ὃς εἶπέν μοι πάντα ὅσα ἐποίησα). La perifrasi «l'uomo chiamato Gesù» è unica nel vangelo di Gv. Per F. Manns la dichiarazione ὁ ἄνθρωπος è già di tipo messianico, poiché evoca l'uso ebraico di ghever «maschio» o ish «uomo»: ἰδοὺ ὁ ἄνθρωπος, Ecce homo, «Ecco l'uomo!» (Gv 19,5). 9,12-15: Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». 13Condussero dai farisei quello che era stato cieco: 14era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo» (καὶ εἶπαν αὐτῷ• ποῦ ἐστιν ἐκεῖνος; λέγει• οὐκ οἶδα. 13ἄγουσιν αὐτὸν πρὸς τοὺς Φαρισαίους τόν ποτε τυφλόν. 14ἦν δὲ σάββατον ἐν ᾗ ἡμέρᾳ τὸν πηλὸν ἐποίησεν ὁ Ἰησοῦς καὶ ἀνέῳξεν αὐτοῦ τοὺς ὀφθαλμούς. 15πάλιν οὖν ἠρώτων αὐτὸν καὶ οἱ Φαρισαῖοι• πῶς ἀνέβλεψεν. ὁ δὲ εἶπεν αὐτοῖς πηλὸν ἐπέθηκέν μου ἐπὶ τοὺς ὀφθαλμούς καὶ ἐνιψάμην καὶ βλέπω). - Non lo so (οὐκ οἶδα). Il verbo οἶδα «so, conosco, capisco, intendo, ricordo» è usato ben 17 volte nel nostro brano. È il verbo della conoscenza che Gv usa molto nel suo vangelo (85 x) in rapporto all' ἀλήθεια «verità». - come aveva acquistato la vista (πῶς ἀνέβλεψεν). Si pone la domanda del «come» il miracolo è stato compiuto. La molteplice ripetizione del racconto esprime insistenza che provoca nervosismo. Il miracolato non accenna alla saliva di Gesù, ma conferma che la guarigione è avvenuta attraverso il fango spalmato sugli occhi e il lavaggio a Siloe. L'ex-cieco ignora «dov'è costui», ma questa non-conoscenza si traduce in ricerca di «quest'uomo». 9 9,16: Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro (ἔλεγον οὖν ἐκ τῶν Φαρισαίων τινές• οὐκ ἔστιν οὗτος παρὰ θεοῦ ὁ ἄνθρωπος, ὅτι τὸ σάββατον οὐ τηρεῖ. ἄλλοι δὲ ἔλεγον• πῶς δύναται ἄνθρωπος ἁμαρτωλὸς τοιαῦτα σημεῖα ποιεῖν; καὶ σχίσμα ἦν ἐν αὐτοῖς). - E c’era dissenso tra loro (καὶ σχίσμα ἦν ἐν αὐτοῖς). Nelle file dei farisei si registra un disaccordo simile a quello dei «vicini» (v. 8); questa volta però viene usato il termine tecnico σχίσμα, «scisma». Ci troviamo di fronte a una sottolineatura del carattere «umano» di Gesù (ὁ ἄνθρωπος), analoga a quella contenuta nella deposizione del cieco guarito (v. 11). Il plurale σημεῖα, sēmeĩa «segni» indica che si riferiscono anche al miracolo del cap. 5: guarigione del paralitico. Questo ricordare il miracolo precedente sta a significare che «i Giudei» hanno respinto in blocco l'insegnamento contenuto nel discorso di 5,19-47. Dal punto di vista storico J. P. Meier afferma: «Né nelle Scritture ebraiche, né nei libri deuterocanonici, né in Giubilei, né nel Documento di Damasco, né nei frammenti della Grotta 4 di Qumran, né in Filone, né in Flavio Giuseppe, né nell’elenco delle 39 opere di m.Šabbat 7,2, né nel diverso elenco di opere proibite contenuto in m.Betza 5,2, viene proibito il mero atto di guarire una malattia o di curare una deformità fisica nel giorno di sabato. Da questo punto di vista, questi due elenchi mishnaici rientrano nella lunga tradizione di proibizioni sabbatiche risalente al Pentateuco. Quando si riflette sull’ampiezza e la varietà di tutti questi testi ebraici, diventa ancora più sorprendente e sconcertante che l’unica azione di Gesù riportata nei vangeli che si suppone stigmatizzata come violazione del sabato - ossia guarire le malattie e le deformità fisiche - sia totalmente assente da questi testi» (J. P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, 4 Legge e amore (BTC 147), Queriniana 2009, p. 263). 9,17: Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!» (λέγουσιν οὖν τῷ τυφλῷ πάλιν• τί σὺ λέγεις περὶ αὐτοῦ, ὅτι ἠνέῳξέν σου τοὺς ὀφθαλμούς; ὁ δὲ εἶπεν ὅτι προφήτης ἐστίν). - È un profeta (προφήτης ἐστίν). Mentre la testimonianza del cieco guarito progredisce: «è un profeta», le accuse dei farisei si fanno più pesanti. Da un lato c'è una progressiva maturazione della fede, dall'altro un'incredulità sempre più aggressiva. L'episodio assume in tal modo un valore emblematico. 9,18-21: Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». 20I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; 21ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé» (Οὐκ ἐπίστευσαν οὖν οἱ Ἰουδαῖοι περὶ αὐτοῦ ὅτι ἦν τυφλὸς καὶ ἀνέβλεψεν ἕως ὅτου ἐφώνησαν τοὺς γονεῖς αὐτοῦ τοῦ ἀναβλέψαντος 19καὶ ἠρώτησαν αὐτοὺς λέγοντες• οὗτός ἐστιν ὁ υἱὸς ὑμῶν, ὃν ὑμεῖς λέγετε ὅτι τυφλὸς ἐγεννήθη; πῶς οὖν βλέπει ἄρτι; 20ἀπεκρίθησαν οὖν οἱ γονεῖς αὐτοῦ καὶ εἶπαν• οἴδαμεν ὅτι οὗτός ἐστιν ὁ υἱὸς ἡμῶν καὶ ὅτι τυφλὸς ἐγεννήθη• 21πῶς δὲ νῦν βλέπει οὐκ οἴδαμεν ἢ τίς ἤνοιξεν αὐτοῦ τοὺς ὀφθαλμοὺς ἡμεῖς οὐκ οἴδαμεν• αὐτὸν ἐρωτήσατε, ἡλικίαν ἔχει, αὐτὸς περὶ ἑαυτοῦ λαλήσει). 9,22: Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga (ταῦτα εἶπαν οἱ γονεῖς αὐτοῦ ὅτι ἐφοβοῦντο τοὺς Ἰουδαίους• ἤδη γὰρ συνετέθειντο οἱ Ἰουδαῖοι ἵνα ἐάν τις αὐτὸν ὁμολογήσῃ Χριστόν, ἀποσυνάγωγος γένηται). - venisse espulso dalla sinagoga (ἀποσυνάγωγος γένηται, lett. «espulso dalla sinagoga fosse»). L'evangelista indica qui cosa comportava l'essere discepoli di Gesù. La fede in Gesù Messia spesso si associa a un dramma vissuto sia a livello personale e sia a livello comunitario. È stata raccolta tutta una documentazione sul termine ἀποσυνάγωγος, aposynágōgos e sull'assemblea di Javne-Jamnia, a cui verosimilmente allude in maniera implicita questo versetto. Lo stesso termine si ritrova in 12,42 (con γίνομαι) e in 16,2 (con ποιέω). Il termine non chiama in causa la birkat ha-minim (benedizione contro i minim, «eretici») contenuta nella preghiera sinagogale dello Shemoneh-'esreh, le cosiddette Diciotto Benedizioni, che è più tardiva (non prima del 135 d.C.). Non bisogna inasprire il testo nel senso di una «scomunica» del cieco nato da parte dei farisei, 10 né tanto meno nel senso di misure di ritorsione in campo cristiano. Bisogna evitare una lettura in chiave antisemita, ma anche una lettura che attenui la portata del testo, lasciandosi sfuggire la specificità sia del Cristo sia della Chiesa. 9,23: Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!» (διὰ τοῦτο οἱ γονεῖς αὐτοῦ εἶπαν ὅτι ἡλικίαν ἔχει, αὐτὸν ἐπερωτήσατε). - Ha l’età: chiedetelo a lui (ἡλικίαν ἔχει, αὐτὸν ἐπερωτήσατε, lett. «età ha, lui interrogate»). Il verbo ἐπερωτήσατε impt. aor. di ἐπερωτάω, «interrogo, interpello, chiedo con forza, reclamo» è usato dai genitori del cieco per evitare di pronunciarsi sull'identità di Cristo. Probabilmente agli inizi della Chiesa c'erano dei cripto-cristiani che riconoscevano la verità riguardo a Gesù ma non avevano il coraggio di confessare la loro fede; preferivano rimanere nella sicurezza delle tradizioni mosaiche. 9,24: Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore» (ἐφώνησαν οὖν τὸν ἄνθρωπον ἐκ δευτέρου ὃς ἦν τυφλὸς καὶ εἶπαν αὐτῷ• δὸς δόξαν τῷ θεῷ• ἡμεῖς οἴδαμεν ὅτι οὗτος ὁ ἄνθρωπος ἁμαρτωλός ἐστιν). - Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore» (ἡμεῖς οἴδαμεν ὅτι οὗτος ὁ ἄνθρωπος ἁμαρτωλός ἐστιν). Gv presenta i farisei in 1,24 e 4,1 come degli osservatori sospettosi dell'attività del Battista e di Gesù, ma non nella loro totalità, perché Nicodemo è uno di loro (3,1); anzi, dice che molti notabili credettero in Gesù (12,42). A partire da 7,32 essi appaiono come avversari dichiarati e nel c. 9 hanno autorità di escludere dalla Sinagoga. L'intenzione di questi «discepoli di Mosè» è certo quella di onorare Dio; ma Gv li tratteggia come incapaci di intendere un messaggio che non rientra nel sistema teologico su cui essi basano la loro sicurezza. In questo racconto, all'inizio Gv li mostra divisi e nel tentativo di negare il fatto; poi, sempre meno sicuri di sé, trincerati nella loro «verità»; infine, ridotti all'argomento di autorità e all'uso della forza. Ciò facendo, si condannano da sé (9,39-41). L'ironia giovannea emerge nell'uso frequente del verbo «sapere» (οἶδα). Tramite questo termine, si fa sentire una tensione tra la Sinagoga e la Chiesa: la prima, forte delle sue certezze, le ribadisce con la ripetizione del «noi» (9,24.29); l'altra le contrappone un sapere più radicale che non può essere superato. Il cieco guarito chiamando Gesù «profeta» non pensa a un titolo di portata messianica; il termine designa un uomo di Dio fedele alla sua missione. Riconosciamo l'ironia giovannea perché il cieco finirà davvero col dar gloria a Dio nella sua testimonianza data a Gesù. 9,25-26: Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». 26Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?» (ἀπεκρίθη οὖν• ἐκεῖνος εἰ ἁμαρτωλός ἐστιν οὐκ οἶδα• ἓν οἶδα ὅτι τυφλὸς ὢν ἄρτι βλέπω. ἐποίησέν σοι; πῶς ἤνοιξέν σου τοὺς ὀφθαλμούς;). 26 εἶπον οὖν αὐτῷ• τί 9,27: Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?» (ἀπεκρίθη αὐτοῖς εἶπον ὑμῖν ἤδη καὶ οὐκ ἠκούσατε• τί πάλιν θέλετε ἀκούειν; μὴ καὶ ὑμεῖς θέλετε αὐτοῦ μαθηταὶ γενέσθαι;). - Volete forse diventare anche voi suoi discepoli? (μὴ καὶ ὑμεῖς θέλετε αὐτοῦ μαθηταὶ γενέσθαι; lett. «non anche voi volete di lui discepoli diventare?»). Dopo la quarta volta che si chiede come sia avvenuto il miracolo, il cieco cede all'ironia. 9,28-30: Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! 29Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». 30Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi (καὶ ἐλοιδόρησαν αὐτὸν καὶ εἶπον• σὺ μαθητὴς εἶ ἐκείνου, ἡμεῖς δὲ τοῦ Μωϋσέως ἐσμὲν μαθηταί• 29ἡμεῖς οἴδαμεν ὅτι Μωϋσεῖ λελάληκεν ὁ θεός, τοῦτον δὲ οὐκ οἴδαμεν πόθεν ἐστίν. 30ἀπεκρίθη ὁ ἄνθρωπος καὶ εἶπεν αὐτοῖς• ἐν τούτῳ γὰρ τὸ θαυμαστόν ἐστιν, ὅτι ὑμεῖς οὐκ οἴδατε πόθεν ἐστίν καὶ ἤνοιξέν μου τοὺς ὀφθαλμούς). - voi non sapete di dove sia (ὑμεῖς οὐκ οἴδατε πόθεν ἐστίν). Nelle loro precisazioni, gli interlocutori del cieco sono costretti a riconoscere il proprio «non sapere». Insensibilmente veniamo ricondotti alla questione 11 dell'origine di Gesù: «Da dove viene?». La cosa sorprendente per il miracolato non è più il miracolo, ma il fatto che le autorità non sappiano di dove viene Gesù che lo ha compiuto (9,30). 9,31: Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta (οἴδαμεν ὅτι [ἁμαρτωλῶν] ὁ θεὸς (ἁμαρτωλῶν) οὐκ ἀκούει. ἀλλ' ἐάν τις θεοσεβὴς ᾖ καὶ τὸ θέλημα αὐτοῦ ποιῇ τούτου ἀκούει). - Sappiamo (οἴδαμεν). Questa è l'unica volta nel racconto in cui la conoscenza del cieco nato e la conoscenza dei Farisei sono in sintonia. Significativo l'uso frequente del verbo οἶδα, oĩda «sapere»: 6x al negativo (vv. 12.21.21.25.29.30) e 3x al positivo (vv. 24.29.31). 9,32: Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato (ἐκ τοῦ αἰῶνος οὐκ ἠκούσθη ὅτι ἠνέῳξέν τις ὀφθαλμοὺς τυφλοῦ γεγεννημένου). 9,33-34: Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». 34Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori (εἰ μὴ ἦν οὗτος παρὰ θεοῦ οὐκ ἠδύνατο ποιεῖν οὐδέν. 34ἀπεκρίθησαν καὶ εἶπαν αὐτῷ ἐν ἁμαρτίαις σὺ ἐγεννήθης ὅλος καὶ σὺ διδάσκεις ἡμᾶς καὶ ἐξέβαλον αὐτὸν ἔξω). - E lo cacciarono fuori (καὶ ἐξέβαλον αὐτὸν ἔξω). Il verdetto pronunciato sul cieco coincide con quello pronunciato su Gesù al v. 24: Noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore.. Esso traduce una logica di esclusione: «Lo gettarono fuori». Il verbo ἐξέβαλον è ind. aor. di ἐκβάλλω, «getto, scaccio, mando, congedo, faccio uscire». Dietro questa espulsione riconosciamo l'esperienza della comunità giovannea contrastata dalla Sinagoga. 9,35: Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?» (ἤκουσεν Ἰησοῦς ὅτι ἐξέβαλον αὐτὸν ἔξω καὶ εὑρὼν αὐτὸν εἶπεν• σὺ πιστεύεις εἰς τὸν υἱὸν τοῦ ἀνθρώπου;). - Tu, credi nel Figlio dell’uomo? (σὺ πιστεύεις εἰς τὸν υἱὸν τοῦ ἀνθρώπου;). Il titolo «Figlio dell'uomo» segnala il carattere culminante di questo ultimo incontro tra Gesù e il cieco guarito. Gesù si esprime con l'autorità di un «giudice», perché «Il Padre non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio» (5,22; cf 5,27.30), ma la sua specifica prerogativa di giudice consiste nel non giudicare. Gesù è «luce del mondo» in quanto non condanna. Credendo o non credendo nel Figlio dell'uomo, chiunque si giudica da sé. 9,36-38: Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». 37Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». 38Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui (ἀπεκρίθη ἐκεῖνος καὶ εἶπεν• καὶ τίς ἐστιν, κύριε, ἵνα πιστεύσω εἰς αὐτόν; 37εἶπεν αὐτῷ ὁ Ἰησοῦς• καὶ ἑώρακας αὐτὸν καὶ ὁ λαλῶν μετὰ σοῦ ἐκεῖνός ἐστιν. 38ὁ δὲ ἔφη• πιστεύω, κύριε• καὶ προσεκύνησεν αὐτῷ). - è colui che parla con te (ὁ λαλῶν μετὰ σοῦ ἐκεῖνός ἐστιν, lett. «il parlante con te quello è»). C'è una stretta somiglianza tra 9,37 e l'autorivelazione di Gesù alla Samaritana in 4,26: Ἐγώ εἰμι, ὁ λαλῶν σοι. «Io Sono, colui che parla con te». Il cieco-nato, divenuto vedente, percepisce il Signore nella sua fede: πιστεύω, κύριε, «Credo, Signore!» (9,38) senz'altra precisazione, ma compie un gesto con cui rende gloria a Dio, diversamente da quello che richiedevano i farisei (9,24). - E si prostrò dinanzi a lui (καὶ προσεκύνησεν αὐτῷ). Il verbo προσκυνέω, «mi prostro» (hapax in Gv) acquista il senso forte di adorare quando ha per oggetto Dio stesso, come nel dialogo con la Samaritana (4,20-23); negli altri casi esprime un profondo rispetto. Qui tuttavia esso implica un senso più ricco: colui che è oggetto del gesto non è forse il nuovo Tempio della Presenza? Il cieco-nato, mostratosi anch'egli un «Israelita senza falsità» (1,47) e «trovato» da Gesù, diviene modello del credente. Egli è la pecora che ascolta la voce del Pastore per essere condotta al Padre, come si dirà nel c. 10. 9,39-41: Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». 40Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». 41Gesù 12 rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (καὶ εἶπεν ὁ Ἰησοῦς• εἰς κρίμα ἐγὼ εἰς τὸν κόσμον τοῦτον ἦλθον, ἵνα οἱ μὴ βλέποντες βλέπωσιν καὶ οἱ βλέποντες τυφλοὶ γένωνται. 40ἤκουσαν ἐκ τῶν Φαρισαίων ταῦτα οἱ μετ' αὐτοῦ ὄντες καὶ εἶπον αὐτῷ• μὴ καὶ ἡμεῖς τυφλοί ἐσμεν; 41εἶπεν αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς• εἰ τυφλοὶ ἦτε, οὐκ ἂν εἴχετε ἁμαρτίαν• νῦν δὲ λέγετε ὅτι βλέπομεν, ἡ ἁμαρτία ὑμῶν μένει). - È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo (εἰς κρίμα ἐγὼ εἰς τὸν κόσμον τοῦτον ἦλθον). I termini κρίσις «giudizio, processo, giustizia» (Gv 7,24) e κρίμα «giudizio, sentenza, condanna, decisione, discriminazione» (D. Mollat) sono accuratamente distinti dall'evangelista. Gesù non fa che registrare la posizione che le persone assumono nei suoi confronti. Un giudizio di rivelazione, un discernimento si spiega nel modo migliore con riferimento alla figura danielica del Figlio dell'uomo. Tale contesto apocalittico include tutto ciò che rientra nel campo del discernimento sapienziale. Il veggente è un sapiente. Il Servo del libro di Isaia e il Figlio dell'uomo del libro di Daniele hanno un carattere sia personale che collettivo. Il Figlio dell'uomo, il Sapiente, il Servo, impegnati con tutta la loro persona nel rapporto con Dio, sono solidali con il popolo, di cui sono responsabili davanti a Dio. Il cieco diventa un «saggio che insegna» agli insensati che presumono di sapere: i farisei. Le sorti si capovolgono grazie all'«ironia giovannea», anch'essa di carattere sapienziale. - siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane (νῦν δὲ λέγετε ὅτι βλέπομεν, ἡ ἁμαρτία ὑμῶν μένει, lett. «ora invece dite: Vediamo, il peccato di voi rimane»). Il versetto conclusivo non sancisce una cecità definitiva. Molto duro nei termini del suo verdetto, ancora una volta Gesù indica nella conversione la strada della vita. Dicendo queste cose, Gesù provoca non solo σχίσμα «dissenso, divisione, lacerazione» (9,16), ma anche κρίμα, «discriminazione» tra gli uomini. Essendo la luce, egli svela il fondo dei cuori (cf Lc 2,35), denuncia le opere malvagie (3,19s) e la ricerca della propria gloria (5,40-44). L'evangelista Giovanni non conosce altro peccato che il rifiuto della luce. Gesù non condanna i farisei, li avverte affinché prendano coscienza del rischio cui si trovano di fronte, ora che è apparsa la luce dall'alto, per la salvezza di tutti. Il racconto del cieco nato è riconosciuto come uno dei capolavori della narrativa giovannea. Gesù e i discepoli (vv. 1-5). Gesù vede un uomo che non sa cosa sia la vista né la luce (v. 1). Sulla base del principio biblico che il male che accade all'uomo non può essere attribuito a Dio (cf Es 20,5; Nm 14,18; Dt 5,9; Tb 3,3-4), i discepoli pongono una domanda logica: chi è responsabile del male che affligge quest'uomo: i genitori che hanno peccato, oppure il bambino che ha peccato mentre era ancora nel grembo materno (v. 2)? I discepoli sollevano la questione della responsabilità umana e si rivolgono a Gesù nella sua veste di «Rabbì», ma Gesù elude la questione. Risponde ai discepoli che tale situazione esiste «perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (v. 3). Finora egli ha dichiarato che non compie nessuna opera di propria iniziativa (cf 3,11-21. 31-36; 5,19-30). Adesso coinvolge anche i suoi discepoli nella sua opera: «Bisogna che compiamo le opere di colui che mi ha mandato» (v. 4a). Gesù e l'uomo cieco dalla nascita (vv. 6-7). Gesù si adegua a una credenza popolare che riconosceva alla saliva mista a polvere proprietà terapeutiche (v. 6). Quindi ordina: «Va' a lavarti nella piscina di Siloe (che significa "Inviato")» (v. 7a). L'obbedienza alla parola di Gesù consente il miracolo. La rivendicazione di Gesù di essere l'acqua viva (7,37) e la luce del mondo (8,12) viene confermata. Gesù, la luce del mondo (9,5), l'Inviato (9,7), ha dato la vista a un uomo che non ha mai visto la luce. Il cieco e i suoi vicini (vv. 8-12). L'intervento di Gesù più che portare a lodare Dio provoca discussioni. Il cieco, quando viene interrogato dai vicini, non sa spiegare come e perché gli siano accadute queste cose, può soltanto esporre i fatti materiali. Per quanto riguarda chi l'abbia guarito, il cieco è in grado di rispondere soltanto che è stato «l'uomo che si chiama Gesù». Quando gli chiedono dove sia quell'uomo, il cieco risponde: «Non lo so» (v. 12). Il cieco ammette la propria ignoranza. 13 Il cieco e i Farisei (vv. 13-17). I vicini e i conoscenti conducono l'uomo dai Farisei e solo adesso il narratore precisa che quel giorno era sabato (v. 14). I Farisei non si dimostrano interessati alla persona di Gesù ma alla violazione del riposo sabbatico. Qui si parla apertamente di σχίσμα, schísma, di dissenso (v. 16) provocato da Gesù con questa guarigione. Alcuni Farisei sono convinti che Gesù non può venire da Dio, poiché non osserva il sabato (v. 16a), mentre altri vedono nei segni compiuti da Gesù una dimostrazione che egli non può essere un peccatore (v. 16b). Ritorna la discussione sulle origini di Gesù (cf 7,27). Ma il cieco, che prima aveva definito Gesù semplicemente «l'uomo» (v. 11), ora confessa: «È un profeta!» (v. 17). I Farisei e i genitori del cieco (vv. 18-23). Mentre il cieco fa progressi verso la fede (vv. 7.11.17), i Farisei si muovono in direzione opposta. «Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista» (v. 18a). Il credere è oltre la loro portata; hanno bisogno di fatti. Così adesso cercano di dimostrare che un uomo cieco dalla nascita non può avere acquistato la vista, e a questo scopo interpellano coloro che sono meglio qualificati per poter testimoniare: i genitori (v. 18b). I Farisei cercano di confutare che la luce del mondo (v. 5) possa aver ridato la vista (v. 7); ma i loro tentativi falliscono. Sottopongono i genitori a una sottile forma di insulto insinuando che hanno sempre mentito riguardo alla cecità del loro figlio. L'interrogatorio de «i Giudei» presuppone che l'uomo non sia nato cieco e che i genitori non devono presentarlo come tale (v. 19a). I genitori ribadiscono che il figlio è nato cieco (v. 20) e si ritirano dalla discussione (v. 21). La fede in Gesù non è basata su questi fatti, ma sull'identità del Cristo, luce del mondo e Inviato di Dio, che ora viene processato in contumacia. I genitori del cieco hanno paura de «i Giudei» perché questi hanno già deciso che se qualcuno confessa che Gesù è il Cristo verrà espulso dalla sinagoga (v. 22). Per questo motivo i genitori cercano di evitare qualsiasi discussione cristologica e rinviano «i Giudei» al figlio, che è capace di parlare da se stesso (vv. 21.23). I Farisei e il cieco (vv. 24-34). L'uomo guarito viene di nuovo interpellato. Prima aveva detto di «non sapere» dove fosse Gesù (v. 12), ma «i Giudei» si mostrano certi della loro «conoscenza». Ricorrendo a una formula di giuramento normalmente usata prima di ascoltare una testimonianza o una confessione di colpa (m. Sanh. 6,2), ingiungono all'uomo di dare gloria (dóxa) a Dio. Ma si tratta di un Dio pensato da loro e non confermato dall'Inviato, perché essi «sanno» che Gesù è un peccatore. Il cieco guarito non è disposto ad accettare la «conoscenza» dei Farisei, dato che egli «non sa», non è così sicuro che Gesù sia un peccatore. Al centro della discussione si ripropone ancora la questione del come anziché del chi. Il cieco si chiede perché mai vogliano sentire la storia un'altra volta. Evidentemente essi finora non hanno «ascoltato». Sono forse interessati a diventare discepoli di Gesù? (v. 27). La domanda non è priva di una certa ironia, ma il cieco non intende offendere «i Giudei». Ma «i Giudei» dichiarano il loro attaccamento a Mosè, perché sanno che Dio ha parlato per mezzo di lui (v. 29a). Una cosa che invece non sanno riguarda le origini di Gesù: «Costui non sappiamo di dove sia» (v. 29b). Proprio qui si trova la radice dell'incapacità de «i Giudei» di accettare Gesù. Essi sono ancorati all'antico dono di Dio dato per mezzo di Mosè e rifiutano il perfezionamento che viene per mezzo di Gesù Cristo (cf 1,17-18), perché non riescono ad accettare l'idea che egli viene «da Dio». Ma il cieco guarito incalza: «Se costui non venisse da Dio (parà theoũ), non avrebbe potuto far nulla» (v. 33). La reazione de «i Giudei» è immediata e violenta. Insultano l'uomo accusandolo di essere nato nel peccato (v. 34a; cf Sal 51,7), rispondendo in tal modo alla domanda fatta dai discepoli nel v. 3 e lasciata cadere da Gesù nel v. 4 perché irrilevante. Quest'uomo «peccatore» si comporta da ignorante e da arrogante col suo mettere in dubbio la conoscenza de «i Giudei». Sta cercando di insegnare loro che il concetto che hanno di Dio e di colui per mezzo del quale Dio ha parlato è sbagliato (v. 34b). Per questo non possono fare altro che buttarlo fuori (v. 34: exébalon autòn éxo) in malo modo. Gesù è interrogato dai Farisei ed egli li condanna per la loro arroganza (vv. 39-41). Gesù non è venuto in questo mondo per giudicare (cf 3,17; 5,24; 8,15), ma il giudizio ha luogo ugualmente in virtù della sua presenza nel mondo (cf 5,27). La luce del mondo (8,12; 9,5) è giunta eis kríma (v. 39: «per un giudizio»), che consiste nella distinzione tra coloro che sono disposti a credere e coloro che non sono disposti a farlo. Gesù quindi descrive in cosa consiste il suo giudizio: coloro che non vedono possano vedere e coloro che vedono vadano verso la cecità. L'insistenza del cieco dalla nascita sul fatto che egli non sa e la sua ricerca del Figlio dell'uomo per poter credere in lui (v. 36) sono in netto contrasto con l'arrogante affermazione de «i Giudei» circa la loro conoscenza. Questa li porta a concludere che Gesù è un peccatore, una persona le cui 14 origini sono sconosciute (vv. 24.29). Si ritengono soddisfatti della conoscenza che Dio ha parlato a Mosè, nella loro autosufficienza sono diventati ciechi e Gesù dice loro che così facendo hanno attirato su di sé il giudizio (v. 39). L'arroganza continua mentre si chiedono con quale diritto Gesù possa insinuare che sono ciechi (v. 40). La risposta di Gesù chiude questo argomento e avvia il discorso del pastore con ciò che ne segue (10,1-21). Se fossero stati disposti ad ammettere di aver bisogno della luce, non avrebbero nessuna colpa, ma poiché si vantano di avere la piena conoscenza (v. 41: blépomen) non c'è spazio per la rivelazione della luce che viene attraverso Gesù. Per questo sono sotto giudizio. Al centro della quarta domenica di Quaresima pertanto vi è il tema dell'illuminazione, del passaggio dalle tenebre alla luce. Le tre letture pongono il problema del discernimento. Per Samuele è difficile comprendere colui che Dio ha eletto tra i figli di Iesse. Per discernere occorre guardare come Dio stesso guarda, con la coscienza che «l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1Sam 16,7), o, come traduce l'antica versione siriaca: «l'uomo guarda con gli occhi, il Signore guarda con il cuore». Nella seconda lettura (Ef 5,8-14) il discernimento è richiesto al battezzato che, nella situazione in cui è «luce nel Signore» (v. 8), è chiamato a discernere ciò che è gradito a Dio (Ef 5,10-11). Il brano evangelico si apre con il diverso sguardo di Gesù e dei discepoli su un cieco, e prosegue con il percorso che porta il cieco guarito a discernere la vera qualità di Gesù e a confessare la fede in lui, mentre altri protagonisti dell'episodio si chiudono a tale discernimento e restano nella cecità spirituale. Lo sguardo colpevolizzante dei discepoli si oppone allo sguardo di solidarietà di Gesù. Il racconto si presenta come una iniziazione in cui l'uomo che era cieco ottiene la vista e giunge alla conoscenza dell'identità profonda di Gesù, una conoscenza che è anche una rinascita, espressa dalla lapidaria confessione di fede: «Io credo, Signore» (9,38). Divenire credenti non esime dal divenire uomini. Anzi, lo esige. Nella storia di questa guarigione, Giovanni ci offre una storia di conversione che riguarda tutti. Noi, che siamo tutti infermi, abbiamo ricevuto la vita mediante l’acqua del battesimo. Ma affinché questa grazia non venga banalizzata, Gesù ci invita a recarci al pozzo di Giacobbe, alla piscina di Siloe dalle acque tranquille. È la Parola la sorgente della nostra purificazione quotidiana e della nostra guarigione. Senza di essa rimaniamo ciechi in un mondo capace solo di abbagliare e sedurre gli sprovveduti. Abbiamo bisogno di vincere la nostra ignoranza su chi ci ha guariti, ritornando nel Tempio e scoprendo chi è davvero Gesù. A tale scopo s. Paolo ci esorta: Comportatevi come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità (Ef 5,8-9). 15
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