rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 1 ifioridelmale quaderno quadrimestrale POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE anno IX n. 57 gennaio-aprile 2014 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 2 I FIORI DEL MALE QUADERNO QUADRIMESTRALE DI POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE Con il Patrocinio della FUIS Federazione Unitaria Italiana Scrittori I fiori del male è una rivista libera rivolta ai poeti, emarginati o affermati, che con la forza segreta e profonda della poesia hanno sostanziato ricerca esistenziale ed espressiva. Una rivista che sia testimonianza preziosa della nostra tradizione poetica e sia anche percorso significativo nella ricchezza della poesia e della cultura contemporanea, espressa nei suoi tracciati differenziati. Direttore Responsabile: Antonio Coppola Vice Direttore: Francesco Dell’Apa Redattori: Paolo Carlucci, Melo Freni, Marzia Spinelli, Daniela Quieti, Monica Martinelli, Roberto Piperno Critico d’Arte: Robertomaria Siena I Fiori del male anno IX n. 57 supplemento al n. 17 di SR, autorizzazione del Tribunale di Roma n. 488/89 Libri e corrispondenza vanno inviati all’indirizzo della Redazione: Antonio Coppola - C. P. n. 273 - San Silvestro 00187 ROMA cell. 320 0111657 - e-mail:[email protected] oppure ai redattori agli indirizzi e-mail riportati a pag. 40 Condizioni di abbonamento: Ordinario € 30,00 sostenitore € 50,00. Il versamento va effettuato sul conto corrente postale n. 54849815 intestato ad Antonio Coppola C.P. 273 San Silvestro 00187 Roma. La responsabilità di quanto espresso negli articoli firmati è degli autori e non impegna la Direzione. L’ordine di impaginazione e l’uso dei tipi è soggetto ad esigenze tecniche. Manoscritti e fotografie non vengono restituiti né remunerati. Non tutti gli articoli pervenuti saranno pubblicati. Spedizione in proprio. I lavori vanno inviati all’indirizzo e-mail della Redazione o dei redattori, formato Word corpo 12 Times, della lunghezza max di 2-3 cartelle A/4 per gli articoli ed una per le recensioni. Le richieste di riproduzioni di libri, disegni e opere d’arte vanno prima concordate con la direzione della rivista. rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 3 SOMMARIO I FIORI DEL MALE QUADERNO QUADRIMESTRALE DI POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE N.57 GENNAIO-APRILE 2014 letterature Robertomaria Siena Intervista a Hieronymus Bosch Merys Rizzo Appunti Sabino Caronia Intellettuali e potere… Domenico Cara Rilettura della poesia di Gilda Trisolini Paolo Carlucci La poetica di Vittorio Bodini Francesco Dell’Apa Il peso di “essere” in Giorgio Orelli Plinio Perilli Tempi D’Europa / Finalmente quelli della poesia Daniela Quieti La Beat Generation Tra attese e Utopia Pina Majone Mauro Mito e realtà nella Poesia di Argiroffi Giorgio Linguaglossa La grande crisi della Poesia italiana Roberto Pagan Nevia Di Monte sale in Campidoglio Fausta Genziana Le Piane Colette & Company Francesco De Napoli Giustino Ferri La Camminante Ninnj Di Stefano Busà La nullificazione del prodotto poetico Franco Mosino A chi il Nobel… Antonio Coppola Il mito del bestseller Fausta Genziana Le Piane La Poesia di Iole Chessa Olivares Luigi Celi Il Giorno della Memoria Carla Zancanaro Icaro (racconto) pag 5 7 11 14 18 20 22 25 28 31 36 41 44 53 56 57 59 61 65 POESIE Marilla Battilana Giorgio Barberi Squarotti 67 72 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 4 Luciana Vasile Raffaele Piazza Chiara Mutti Giuliana Lucchini Lina Furfaro Davide Cortese Rita Gatta 74 79 81 84 87 89 91 LO SCAFFALE pp. 93 – 113 Abbiamo recensito libri di: AA.VV. Sandro Angelucci, Renato Greco, Silvana Baroni, Wilma Vedruccio, Laura Rainieri, Gemma Forti, Mario Lucrezio Reali, Roberto Pagan, Angela Giannelli, Carlo Cipparrone, Stefano De Minico, Nino Piccione, Mariacristina Pianta, Marzia Spinelli, Lucia Occhipinti, Giovanni Pistoia, Lucia Montauro, Paolo Carlucci, Giuliana Lucchini. Tavole Fuori Testo: Pier Luigi Berto, Marco Eusebi, Emerico Giachery. In questo numero hanno collaborato: Robertomaria Siena, Merys Rizzo, Sabino Caronia, Domenico Cara, Paolo Carlucci, Francesco Dell’Apa, Plinio Perilli, Daniela Quieti, Pina Majone Mauro, Giorgio Linguaglossa, Roberto Pagan, Fausta Genziana Le Piane, Francesco De Napoli, Ninny Di Stefano Busà, Franco Mosino, Antonio Coppola, Luigi Celi, Carla Zancanaro, Mario Melis, Raffaele Piazza, Monica Martinelli, Pasquale Montalto. rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 5 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte L’INTERVISTA Intervista impossibile a Hieronymus Bosch di Robertomaria Siena ROBERTOMARIA SIENA: Trovarla qui in Paradiso, caro maestro, mi lascia assai perplesso. HIERONYMUS BOSCH: Ha ragione; vedrà che però, a momenti, sarò trasferito là dove, fin dall’inizio, avrei dovuto essere collocato. R.S.: Lei, pittore degli Inferi, negli Inferi deve abitare. H.B.: Appunto; la collocazione provvisoria in Paradiso dipende dal fatto che nelle Alte Sfere hanno recepito la mia estraneità alle tesi del Fräenger. R.S.: Infatti questo studioso sbaglia a pensare che lei appartenga ai Fratelli del Libero Spirito; se ciò fosse vero, ad esempio, cambierebbe tutto il senso del Trittico delle Delizie. A destra Cristo benedirebbe l’unione carnale di Adamo ed Eva mentre, al centro, si celebrerebbe la gloria del Paradiso Adamitico, Paradiso del tutto sensuale e peccaminoso. H.B.: La mia opera deve essere letta in chiave edificante; vedo però che desidera parlare immediatamente dell’autore del lavoro pubblicato nella prima di copertina di questo numero de I Fiori del Male; proceda pure perché nessuno più di me è interessato alla faccenda. R.S.: Come lei può vedere, Pier Luigi Berto è un formidabile disegnatore e pittore; nemico giurato dell’azzeramento dell’arte messo in atto dalle Neoavanguardie, ritiene che l’arte abbia ancora molto da dire. Non a caso, infatti, Giorgio de Chirico gli ha scritto definendolo una personalità che comprende a fondo la ricerca. Lei non può non amare La Caduta; se vogliamo ci troviamo dinanzi ad un mostro che vede elementi “arborei” unirsi oniricamente a momenti umani. Lo scarpone in alto e il nudo più in basso si conciliano unicamente sul terreno mirabolante della dissimilitudine. È quindi evidente che l’immaginario si sta scatenando ed adopera il disegno per presentarsi al mondo. La qualità palese del lavoro celebra la bellezza, quella bellezza che dal Dadaismo in poi si è cercato di cancellare e che Berto, invece, richiama in vita ben sapendo, con Fernando Pessoa, che la vita non basta e che abbiamo bisogno di una “irrealtà seconda” che è quella dell’arte. H.B.: Un’arte che, anche quando espone cose terribili, lo fa respingendo il satanismo vero, quello del banale e del cattivo gusto. 5 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 6 I Fiori del Male R.S.: Torniamo ora a noi; la questione mi pare assai intricata; la cacciano dal Paradiso proprio nel momento in cui si accorgono che la sua arte è ortodossa dal punto di vista cristiano. Come è possibile? H.B.: Le spiego tutto. Il fatto è che, nelle Alte Sfere, ha preso piede la tesi di Hans Sedlmayr il quale sostiene che la novità della mia pittura starebbe tutta nel fatto che il mondo degli Inferi conosce un principio generativo proprio, una struttura caotica propria. Dunque il mio mondo sarebbe ostile a Dio. Lei crede che le cose stiano in questo modo? R.S.: Neanche per sogno; allo studioso ungherese oppongo Mario Bussagli, un grande storico dell’arte italiano che ha studiato a fondo le sue opere. Bussagli dice che in lei trionfa l’onnipervadenza del male; questo però non nel senso del Divino Marchese. Lei muore nel 1516, alla vigilia di Lutero. È Lutero che già si fa sentire, il teologo che sostiene che il Demonio è il “dio di questo mondo” e che noi uomini siamo collocati nella sua sacca intestinale. Da questo punto di vista poi il suo personale “surrealismo” non ha niente a che vedere con il Surrealismo Storico. H.B.: Breton ha tentato di arruolarmi fra le sue fila. R.S.: È evidente; non poteva non farlo essendo a caccia degli antenati del suo gruppo. Le cose però sono assai diverse da come le vede il poeta francese. H.B.: Lasci a me la parola riguardo a questo; l’alterazione della realtà che giustamente vi affascina, non deriva, come nei surrealisti, dalla negazione del mondo. Come ha detto lei, parlo unicamente del cosmo sconvolto dall’opera dell’Avversario il quale tenta instancabilmente di minare alle radici il creato. R.S.: Chiediamoci ora del perché del fascino che lei esercita sugli uomini di tutti i tempi, non escluso il mondo del Ventunesimo Secolo. È presto detto; l’arte contemporanea ha seppellito definitivamente la mimesi ed è tutta nelle braccia dell’irrealismo. Dimentico delle ragioni del suo irrealismo, l’uomo contemporaneo la legge come un “pittore dell’immaginario”, un profeta di Fuseli, di Blake, di Max Ernst, di Magritte, di Dalì e via di seguito. Sta per essere trasferito all’Inferno, come dicevamo; cosa farà una volta giunto presso gli asfodeli? H.B.: È evidente che prenderò contatto con due signori che attendono con ansia il mio arrivo: Schopenhauer e Leopardi, il vostro genio di Recanati. Ora però vorrei concludere rivelandole che l’Ade reale è, in fin dei conti, assai meno seducente di quello che ho dipinto io. R.S.: Lo so bene; l’altro mondo non è paragonabile al contromondo creato dagli artisti. Ricorda il vostro Giorgio de Chirico? “Ha valore soltanto ciò che vedono i miei occhi aperti, e più ancora chiusi”. H.B.: Giusto, giustissimo; direi perfetto. 6 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 7 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte RU B R I C A Appunti (a cura) di Merys Rizzo Thomas Transtromer (1931), poeta svedese, premio Nobel nel 2011 a coscienza del tempo irreversibile toglie il respiro. Eppure la misteriosa dimensione esistenziale, più cosmica che individuale, in cui tutti viviamo, è il grande proscenio del mondo, è il ritmo silenzioso e profondo, che ci unisce nel fluire eterno della natura. Ma il tempo è anche dimensione interna, psichica, che perturba l’aspetto oggettivo e calendariale. Il tempo passato, comunque, rischia di restare relegato nell’oscuro del non linguaggio, della non rappresentazione se la lingua non gli dà presenza e nuova, rinnovata esistenza. Il tempo cronologico e quello interiore si integrano nella vivezza del ricordo, del pensiero rivolto all’indietro: insieme essi chiedono di tornare dal tempo lontano e di essere nominati per farsi visione, parola, racconto, poesia. Già Saffo nel VI secolo a.C. in una sua ode ridona consistenza alla lontananza temporale, rimpiangendo nostalgicamente il tempo dell’amore, che l’ha unita all’amica Atthis. La poetica del ricordo è sempre presente in poesia; essa diviene, però, tema essenziale, fascinoso, dolce e malinconico nel romanticismo. Lì il ricordo stratifica le sensazioni e le amplifica, conducendo alla stupefazione davanti all’evento rievocato. La ricordanza nella poesia - in cui è maestro supremo Leopardi aiuta a superare i limiti del presente e a fondere nel tempo della lingua il tempo naturale, il tempo storico, il tempo interiore. Così una condizione esistenziale diviene condizione letteraria, che fa di ogni testo del ricordo una cartolina dalla vita, di ogni verso della lontananza un levigato tassello di realtà vissuta e rivissuta attraverso la parola, in cui vibra la prossimità e nel cui 7 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 8 I Fiori del Male recinto del dire si rende concreto il tempo. Anche il lettore di poesia - non solo il lettore - fa un’esperienza straordinaria di libertà nel rinnovarsi dell’evento, nel suo inaugurante riapparire, che rinsalda la fragilità di ciò, che dispare. Il ricordo in poesia consente di scrivere un libro infinito, di varcare continuamente i confini del tempo, di incatenare alle sillabe le terre già attraversate dalla gioia e dal dolore e, soprattutto, permette di trasformare la perdita in nuove acquisizioni. Un pensiero, un’immagine quasi evanescente e subito ricordo e sogno conducono verso labirinti sconosciuti, attraversando il mondo analogico della poesia. Ciò avviene, ad esempio, nei “ Trente-trois sonnets composés au secret “ di Jean Cassou, pubblicati nel 1944 con lo pseudonimo di Jean Noir. Composti nell’isolamento del carcere, patito dall’autore per motivi politici, quelli di Cassou sono versi, che, mediante l’argine fulgente della misura metrica, controllano l’erompere del grido. Così, l’inafferrabilità del simbolo con le sue infinite sfumature si unisce alla riconoscibilità del sensibile per contenere insieme vita e morte, tenebra e luce e mostrare il tessuto profondo della loro intrinseca reciprocità, cancellando ogni limite, ogni confine, ogni chiusura, ogni prigione. Nella traduzione fatta da Roberto Rossi Precerutti si legge: […] slanci inani, ricordi senza ieri,/ridursi è gioia, lo scopo svanire,/e brucia in loro Psiche, le ali tese./Mi perdo in picchi innevati che occulta/la mia fronte dentro l’azzurro nero/del suo labirinto. Non ho altra via,/ramingo sotto l’arco del suo gemito./Errare in questo intrico e delirare!/Sogni santi di cattività. Mie/prigioni prigioniere: incise in fondo/ai miei specchi si fanno e si disfanno./Così smarrito che il mio sordo appello/s’ode a stento, straccio appeso all’azzurro./Ma laggiù, chiara terra del mattino,/nella piana, Ape-Alice, pastorella,/se ti sussurra una voce:”È tuo padre”,/al monte sali e prendimi per mano./[…] Segni del ricordo, enigmi mi guidano,/con ogni sole nato a sì gran pena,/all’opera d’alta e lucida angoscia./ […] Là, sogni certi, terribili, forti/ nel mattutino azzurro d’un eterno/domani[…]. I ricordi sembrano amputati e ingoiati nella voragine aperta dai labirinti della prigionia del qui. Inaspettatamente, invece, le tracce memoriali spalancano finestre sul mattutino azzurro e un orizzonte nuovo diventa materia stessa della scena. Varcando la soglia della chiusura, superando l’immediatezza della quotidianità reclusa, le ali si tendono verso nuovi bagliori, il ricordo/sogno non appartiene più al passato, ma è esso stesso invasione totale, carica di futuro, è progetto di conoscenza. In Tomas Transtromer il ricordo, invece, appare, quasi, luogo, che apre ad un nuovo alfabeto; esso è nucleo di tensione, che si espande in versi trasparenti di inesauribile suggestione e di forte illuminazione lirica. Nella relazione costante e capillare del poeta con il mondo, piena 8 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 9 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte di fughe fantasmatiche nell’universo lucido dell’emozione, i ricordi emergono fra i suoni delle strade o dal fogliame che freme nel bosco. Essi guardano, osservano il profondo che prova e scarta diverse maschere. Respirano e fremono nel linguaggio, rivelando ad ogni sosta nella visione la trionfale epifania dei simboli. Nel testo “ I ricordi mi vedono” da “La lugubre gondola” nella traduzione di Maria Cristina Lombardi si legge: Un mattino di giugno, troppo presto / per svegliarsi, troppo tardi per riprendere sonno. / Devo uscire nel verde gremito / di ricordi, e mi seguono con lo sguardo. / Non si vedono, si fondono totalmente / con lo sfondo, camaleonti perfetti. / Così vicini che li sento respirare / benchè il canto degli uccelli sia assordante. Ricordi/camaleonti, pronti a prendere le fattezze della realtà, che tramuta e, trasmutando, diviene lingua e va oltre la lingua. I ricordi irrompono nel dormiveglia, quando la poesia può crescere e può mostrare il suo profilo limpido; nell’andirivieni delle metafore essi sono guizzi di verde, fluttuazioni di nuove presenze, margine di silenzio sospeso sul movimento del pensiero. In Transtromer ciò che è lontano si confonde camaleonticamente con ciò che è vicino ed entrambi, confusi, si richiamano nella medesima sinfonia: la sapienza della lingua risuona del precipitare del tempo con le sue sfumature e le sue iridescenze di passato e di presente, che si accendono sempre più di speranza. Ricordo- corpo, lucido di mille riflessi, che invita al balzo dell’immaginazione, del primitivo fiabesco, gioioso e tragico, inattendibile nel suo incantamento. Alexandra Petrova elabora poeticamente l’idea di un tempo che brucia anche i ricordi. Infatti, in “Russia, mammina cieca” - traduzione di Mirella Meringolo - si legge: Sarà consumato dal fuoco tutto ciò che non poteva bruciare:/le lettere, l’albero, la memoria, Ruth […] “ sembrava che la memoria fosse più pesante/di una colata di ghisa./Ma la memoria è un calco, una misura, una cosa,/e tu non sei più lo stesso./Fiamma e vento han preso tutto /ciò che vi era di più caro. / Dando in cambio sabbia e cenere”. Così canta l’albero. […]Poter vedere, anche solo in sogno, quell’isola/dove sono fontane e fiumi. Le tempeste/trascinavano in cortile le finestre/della stanza con il parquet scuro e fresco./In fondo, i dorsi dei libri tremavano per la luce. / Il ricordo è tanto doloroso che Vedi, qui l’aria è stata bevuta. E persino le lacrime sono per la sete bramosia. In altri testi della medesima raccolta tradotti da Roberta De Giorgi leggiamo: […] Il tempo - finché non muore lo chiamano speme, / è così fugace -/ con il disegno dei sorrisi sul polline infuocato. / Ma il cerchio della duplice essenza/si stringerà attorno al fratello defunto,/ persone e cose passate / si accalcano tra le rughe / sul corpo suo e sul viso. Ora si soffoca. / Un “ci fu” cavo / sta, diventando più grande di un “ci sarà”.[…]È tutto un fuoco di parole, di sguardi, di emozioni al limi- 9 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 10 I Fiori del Male tare del tempo L’immagine della memoria-calco ha un senso aggiunto di fascinazione, perché tutta la poesia della Petrova è tesa a dare pienezza al ricordo e alla sua funzione connettiva, che misteriosamente può resistere al fuoco della dispersione. Così, i versi sono narrazione di una lontananza, che, magari soltanto in sogno, vuole palesarsi, farsi annuncio, sospesa nel tempo e accampata nelle rughe delle cose, di un corpo, di un viso. Il ricordo interroga la profondità di quella distanza e ne indaga i riverberi, gli echi, i coaguli irrisolti, le inquietudini e le armonie. Su tutto prevale la tonalità appassionata della scrittura della Petrova, che permette di rendere visibili su un unica scena diverse tematiche, liberate, mediante la memoria, da qualsiasi velo di nostalgia e pronte a rinascere in nuove occasioni, portando sempre con sé le tracce sotterranee di percorsi ancestrali. La poesia, quindi, si allarga in una calma pacificante, in cui il ricordo aiuta a definire, moltiplicandosi in un montaggio di tratti fiabeschi e luminosi. Nei dorsi dei libri che tremavano e tremano per la luce c’è il riscatto dallo struggimento di giorni lontani, dalla spina pungente di sconfitte subite, dal buio di suoni ormai spenti. Tutto si placa, poi, e trasmuta nella lunga tregua della poesia. Jean Cassou ( 1827 - 1906 ), scrittore francese Thomas Transtromer ( 1931 ), poeta svedese, premio Nobel nel 2011 Alexandra Petrova ( 1964 ), poeta russa 10 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 11 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte L’ALBERO E LA MELA. INTELLETTUALI E POTERE... di Sabino Caronia Intellettuali e potere: che cosa è cambiato dal “1984”? iflettendo sul romanzo mi è capitato di rileggere i saggi di George Orwell, le considerazioni così attuali di Nel ventre della balena («Egli – è detto a proposito di Tropico del cancro di Henry Miller – ha compiuto l’essenziale atto di Giona: lasciarsi inghiottire, restando passivo, accettando») e fra queste hanno fermato la mia attenzione soprattutto quelle contenute nel saggio su Arthur Koestler. In quel saggio Orwell scrive: «Tra le figure notevoli di questa scuola di scrittori [gli scrittori politici] vi sono Silone, Malraux, Salvemini, Borkenau, Victor Serge e lo stesso Koestler. Alcuni di questi sono scrittori di fantasia, altri no, ma essi sono tutti apparentati dal fatto che cercano di scrivere di storia contemporanea, però di una storia non ufficiale, di quel genere, insomma, trascurato dai manuali ed evitato dai quotidiani. Essi hanno inoltre in comune la caratteristica di essere degli europei del continente». E poi indica chiaramente le ragioni per cui Fontamara di Ignazio Silone e Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler non avrebbero mai potuto essere scritti da un inglese, così come un mercante di schiavi non avrebbe mai potuto scrivere La capanna dello zio Tom. Quindi, dopo aver dichiarato che «la colpa di tutte le persone di sinistra dal 1933 in avanti è di aver voluto essere antifasciste senza essere antitotalitarie», fa sue le parole di Arthur Koestler che si era definito come un pessimista a breve termine: «L’unica facile via di uscita è quella del credente religioso, che considera questa vita meramente come una preparazione a quella successiva. Ma poche persone ragionevoli credono di questi tempi alla vita dopo la morte e il numero di quelle che lo fanno sta probabilmente diminuendo, perciò le chiese cristiane forse non sopravviverebbero solo sui loro meriti se le loro basi economiche fossero distrutte». Il modello di Silone è un modello particolarmente significativo per la nostra realtà italiana, perché ha 11 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 12 I Fiori del Male subito censure, di segno diverso ma di uguale significato, per Fontamara prima e per Uscita di sicurezza poi. E mi viene da ripensare al bel Ricordo di Silone contenuto nel volume di Sergio Quinzio La speranza nell’Apocalisse con il richiamo che lì viene fatto a Quel che rimane, cioè alle pagine premesse da Silone come introduzione all’ Avventura di un povero cristiano: «Rimane dunque un cristianesimo demitizzato, ridotto alla sua sostanza morale e, per quello che strada facendo è andato perduto, un grande rispetto e scarsa nostalgia. Che più? A ben riflettere e proprio per tutto dire, rimane il Pater Noster. Sul sentimento cristiano della fraternità e un istintivo attaccamento alla povera gente, sopravvive anche, vi ho già accennato, la fedeltà al socialismo. So bene che questo termine viene ora usato per significare le cose più strane e opposte; ciò mi costringe ad aggiungere che io l’intendo nel senso più tradizionale: l’economia al servizio dell’uomo, e non dello Stato o d’una qualsiasi politica di potenza». È interessante ricordare che Aldo Moro nel 1945 rivolgeva la sua attenzione al personaggio del frate eretico Gioacchino che predica che Cristo è ancora e sempre in agonia sulla croce per sottolineare in Silone uno spirito cristiano innegabile e vivo, facendo un implicito riferimento alla lettera di San Paolo ai Colossesi: «Ora io gioisco nelle mie presenti sofferenze e completo in me quel che resta alla passione di Cristo». Dunque, riflettendo sulla condizione dei personaggi del dramma di Silone, di fronte alla vicenda di quegli uomini che «vengono da lontano e vanno lontano» con la coscienza che Cristo è ancora e sempre in agonia sulla croce, che la sofferenza di Cristo continua in tutti coloro che servono e patiscono l’ingiustizia, Moro si chiedeva cos’altro si potesse desiderare per il nostro tempo se non la misura delle «distanze» che pone nella nostra vita l’esigenza implacabile dell’infinito. Mentre mi accingevo a scrivere il mio romanzo L’ultima estate di Moro, riflettendo sul suo pensiero a partire dagli articoli giovanili su «Studium», mi sono venuto convincendo che il più significativo punto di convergenza fra Silone e Moro si debba riconoscere nel riferimento costante alla dignità dell’uomo e al valore della coscienza, nella fondamentale equazione fra coscienza cristiana e coscienza democratica. Così ad esempio nel discorso tenuto il 18 maggio 1974 lo statista democristiano poteva implicitamente richiamare il Concilio e quell’Enciclica Dignitatis humanae, con cui la Chiesa aveva posto la dichiarazione sulla libertà religiosa, il diritto della persona umana alla sua scelta, come un bene in se stesso, un valore che trascende di fatto gli stessi valori di contenuto, come forma stessa del valore. Viene alla mente quel passo de La scuola dei dittatori in cui Silone critica violentemente l’obbedienza civile, l’obbedienza al potere degli uomini di 12 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 13 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte chiesa sottolineando come, per un eccessivo rispetto del precetto evangelico di dare a Cesare quel che è di Cesare, essi avessero finito molte volte per dare a Cesare anche quello che era di Dio senza peraltro che tale rinuncia all’eticità dei mezzi avesse portato necessariamente al conseguimento dei fini che essi si proponevano, come nel caso di Hitler, a proposito del quale sono richiamate le parole di Montaigne che ha definito il dittatore «colui che fa abbattere un albero per cogliere una mela».La mia interrogazione qui è anche una testimonianza in favore di certi scrittori e di un certo «uso politico» della letteratura, per riprendere un’espressione di Italo Calvino. Che la politica sia identificata ormai con la misera realtà di un potere fine a se stesso e con le astuzie per acquistarlo e mantenerlo, è la verità di Machiavelli applicata all’infimo, quale ce la confermano quotidianamente telegiornali e prime pagine, ed è bene che non ci facciamo più illusioni che le cose possano essere diverse, come diceva appunto Calvino. È giusto e doveroso questo «pessimismo a breve termine», ma c’è anche spazio nei tempi lunghi per la speranza. In proposito mi piace, ricordando la polemica di Calvino con Asor Rosa, riportare una considerazione di Asor Rosa, contenuta nel volume L’ultimo paradosso: «Mi limiterò dunque ad osservare […] che l’arte del governo sembra cadere dalle mani dei politici essenzialmente per la loro mancanza di «strategia»: ma non c’è grande strategia senza un quoziente di riflessione, di sospensione del giudizio, di cautela e di attesa, di silenzio e di ricerca profonda… Possiamo usare il termine che ci viene spontaneo: ascetismo? Se le cose stanno così, chissà che non sia stata una leggerezza aver spinto il politico, anche con eccellenti argomentazioni teoriche, a considerarsi l’uomo esclusivo della storia evenemenziale, della pura e semplice prassi. La prassi senza pensiero (e intendo precisamente: senza pensiero astratto, pensiero puro, pensiero non orientato) non si domina. Il politico non può essere il sapiente, ma se non è anche sapiente, diviene un vero bruto. Questa elementare verità è sotto gli occhi di tutti».In conclusione vorrei ricordare una dichiarazione di Jorge Luis Borges.Di ritorno dal suo difficile viaggio in Italia nel maggio del 1977 lo scrittore, dolendosi di alcuni sgradevoli incidenti, dichiarava: «Quando sono andato in Italia i giornali nei loro titoli [si veda A. Savioli Incontro con Borges, in “L’Unità” 10.5.1977: “Intanto un ispanista amico nostro che non nomineremo, ispirato dall’incontro, scrive in Spagnolo una poesia con un ritornello: Vorrei essere, signor Borges, il tuo assassino…”] dicevano che era arrivato il fascista Borges. È evidente che se uno in Italia non è comunista è sicuramente fascista. Non concepiscono altre gradazioni… È una specie di povertà dell’intelligenza. Strano che siano vicini della Svizzera». 13 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 14 I Fiori del Male di Domenico Cara ai segni mutili o scorie perse nella poesia di Gilda Trisolini, accolta ne’ La vita divisa(antologia dei suoi versi edita nel 1992 dal Laboratorio delle Arti di Milano a cura del Sottoscritto: pagine 319, dedicata a Carlo Betocchi che da sempre l’ha seguita nel suo percorso ispirativo). Nel 1962 infatti l’esordio con Le mura cadono che recano la prefazione del poeta fiorentino (di adozione), la poetessa reggina inizia una favola scritta con parole icastiche e dolci, continuate in connessioni semantiche affini a vicende esistenziali, inquiete, presenti “la ricerca dell’umiltà”, “screzi sottomessi a punti morti…”, “la pelle che arde” di una fondamentalità di desideri e della ragione, così distante da sentimentalismi e idilli provinciali, “restando nel corso del vento” con un furore tutt’altro che passivo o dilettante scomposto. Gilda Trisolini, che ha insegnato instancabilmente nei licei, e ha promosso soluzioni culturali nella sua città amata e perduta nel 1994, condensa le sue forze “creative” dentro una serie di armoniose pianificazioni di perentori eventi individuali. Essi, qua e là, diventano acre diario d’amore, osservazioni di solitudine, voli pensosi e non allegri di un Nulla vissuto tra interrogativi, istanze assidue ed estreme di dubbia consolazione. In una realtà marginale che tradisce gli esseri indifesi; la terra cara identifica la sua densità isolata in una viandanza senza meta, e ciò che muta di essa ripete l’aritmetica della morte, dove non c’è posto per una qualsiasi felicità. “L’amore / crea tenebre e i sogni / la fuga che illumina / le distanze di desiderio, / per la morte ed oltre la morte”. Nel teso fiato che le questioni diffondono nel medesimo clima, lo sguardo alle cose è freddo, ed è “il disagio della parola” un po’ sfumato e barocco, e datato post-ermetismo che rettifica l’orbita del “male di vivere” potenzialmente usato ormai come tradizione di un tradimento che inventa la retorica preferita, la certezza di quello che è pesante tra doppi mari e rupi bruzie. In questo disegno tematico si arresta ogni possibile ripresa di confessione e intesa, sia pur informale, di riattualizzare non dico Leopardi, ma la serie di compagni di strada meno fortunati e naufraghi in viaggio, e per “riconoscersi” insieme per farsi chiaro in ogni sezione della comune notte, elegiaca, fra i sostrati senza migliore lume della mente in ombra. Nell’area mediterranea (e dell’età che cresce) le insinuazioni crepuscolari sono di 14 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 15 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte moda, i loro archetipi dipingono un’ossessiva infermità. Il Sud ritorna tra noi con un raccontare amarezze e pene, anzi si rigenera in tale lamento realistico e rusticano. La rosa non basta per le collettive estasi, e il sangue dei vivi, coerentemente alle medesime esperienze politiche, si versa in un qualsiasi dire e documento di una civiltà che male si sopporta, malgrado le mutazioni apparenti o interdette. Per via di divertiti ossimori parlati o scritti su linguaggio colto, è dettato con la complicità dei classici (a cui la poetessa era intimamente legata) l’uso non aleatorio di circuiti intellettuali, presenti nelle convenzioni fecondamente rappresentate nell’amata e disamata Regione. Nel “Provvisorio confine” (1964), “La vita divisa”(1992), GildaTrisolini non elude la necessità generativa di tutte le analoghe tentazioni e chiama in causa (mai con qualche alito di fiacca voce, ma in fascinazione personale, su materia breve) la luce di qualsiasi sconfitta non accettata, la sua psiche non smarrita, per un “filo ribelle”, senza misericordia o speranza, i tristi spaventi del cuore e scrive: “Non so più cosa da Te mi separi: / o cielo immusonito / o mare immane / o solo un appannamento / di sorriso che dell’amore / resta” (senza rapida fede, né “consistenza” di punti metafisici nella discesa dell’umana palude e limbo).Nel contesto generale: per bagliori audaci e lisci, la conferma di se stessa si riesplora nelle diverse sillogi, dove gemono aneliti impietosi, insondabili moventi a tensione filosofica come produzione di senso, onda costante di una scrittura inversa e morbida (suggestivo il giudizio di Italo Calvino, detto in una lettera a Fortunato Seminara) e, per certi aspetti linguistici, quelle similitudini così vicine a Lorenzo Calogero: indomabile stella di astrazioni alquanto radicali (e passioni di levità). Anni di un’esperienza facilmente adottati alla corsiva e dolorosa pazienza (come sempre per gli isolati davanti alla frontiera) e così duttili all’oblio. Su “Imitazione della gioia” non esistono logore increspature impressionistiche; l’amore prende fuoco ad ogni sensazione interessata, non è entità arcaica o piuttosto brutale, un’infamia del dubbio ma senza spettacolo dilatabile. Il suo giardino degli odori non ha consistenza fisica nel suo stile; incanti e disincanti incrociano una “vita divisa” da esilio, la parola-chimera potrebbe diventare un errore sulla carta, slittare in altre discese, tra frecce usurate e insorgenze improprie da effigiare un “demone infecondo”, una maschera infranta, uno spettro tra gelsomini diffusi. Sogni, amore, vivi e morti, l’importanza di essere “madre” era il suo Paradiso rivissuto quotidianamente. Una poesia quindi tutta pena e dolore, strada tra i monti, nitidi inni al pessimismo della coscienza infelice. “Ora è notte / tu vivi come me / della solitudine di echi. / Nella tua veste le pene riposano / come fuoco accomiatato da te / per sempre, speri. / Al pallido tuo dolore d’uomo / si scorge una voce 15 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 16 I Fiori del Male d’angelo; / il ciglio estremo dei tuoi pensieri / è un cielo caduto allo sguardo, / nella libertà dei morti / cuciti a noi dall’acqua / rinascente, dalla terra / rivissuta in sere e mattine / dense dello stesso sangue. / La vita fu uno schermo / agli occhi che legano te alla nube, / al caldo sapore della rosa.” “Vedi, il mio Dio / è questa pace senza maiuscola, / una lettera appena accennata / e già muta. / È finito il tempo / che adoravo ogni specchio / d’una punteggiatura / di sorrisi esausti. / Ora è tempo di cogliere / dal solco un papavero solo / e adornarmene il docile / consentimento di morte”. I versi (non tutte le poesie) non hanno titolo; il loro ritmo imita il frammento e diventano nell’opera rarefatte azioni, dilatabili moventi per svolgere una gravità degli urti umorali, razionali, dissensi di argomenti irosi, sintesi di una precisa orma. Gilda Trisolini pertanto non inciampa nel melodismo, e caratterizza in una prosa-poetica un idioma del dissenso (non proprio del social spocchioso e tempestivo sine fine). Il rendiconto ha ormai una passione esperta e naturale in un linguaggio forbito, forse inchiodato alle sue idee rettilinee, non ventose e/o inaccessibili. I suoi magnetismi sono quindi esemplari, scrive e ascolta con un flauto dolce i rammarichi, i tuffi di guizzi contro una scogliera che è l’esistere insoddisfatto, e la leggerezza è vestita dal Caso speculare, molto ordinato ed esperto. È la sua amabile sovversione, una timida e avvolgente identità, probabilmente tutta segnata dai luoghi del vissuto e indubbiamente dalla favola negativa del provvisorio, dei travisamenti della certezza, del passaggio non come ospite territoriale, ma da un fittizio fluttuare di sofferenze e insofferenze: “I pochi amici d’infanzia, / le docili larve della giovinezza, / il fragore del mare, / ora acquietano in me. / S’è rotto il dialogo inconsapevole / con le poche cose che amai, / o forse l’amore era questo / mio nuovo perdermi / nel volto di mio figlio / che riscuote da me silenzio”. In realtà sono i sospetti degli anni alti che trafiggono le ossessioni del poeta; la professione di diventare “vecchi” consegue le stesse frustrazioni, quel normale giocare a rimpiattino con “nostra sorella Morte corporale” che spegnerà la luce d’ogni discorso, e chiude per sempre il bene delle metamorfosi che comunque molto o qualcosa concede a quello che ognuno di noi avverte, o esibito in qualsiasi forma e valore. “So che non dimentichi. Ma il tuo ricordo / è continuo stupro / al mio corpo staccato da me / e gli anni più non appartengono / all’arido vento del silenzio / che incide sul graffito / della memoria parole / mute di pietà”. L’essersi riannodati a un documento editoriale e critico di venti anni fa, ovviamente giustifica i “tentativi” di quella “rilettura” che dovrebbe coinvolgere i nuovi intellettuali (non soltanto calabresi) ed evitare quell’insolente oblio che i poeti subiscono intensamente, ed occulta una sensibilità culturale che questa terra merita di essere consegnata al tempo e disegno di un impegno individuale necessario, non vanesio come 16 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 17 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte altro sospetto accadimento, rispetto a inerti e algide prosopopee, dovute alla presenza di piccole larve.Il suo Secondo Novecento, Gilda Trisolini (1924) l’ha trascorso attivo e non le sono mancate testimonianze lodevoli, per esempio di: Alfonso Gatto, Libero De Libero, Antonio Piromalli, Enrico Falqui, Vincenzo Paladino, Pasquale Tuscano, Luigi Reìna, Antonio Altomonte, altri. Ma questo non è il posto delle favole, perché la poesia è scelta difficile e adulta, e non va abbandonata come qualsiasi simbolo o amuleto di un progetto indovinato soltanto per la spuria finitudine: il cosiddetto Dopo! 17 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 18 I Fiori del Male Sulle pianure del Sud non passa un sogno Nota sulla poetica di Vittorio Bodini di Paolo Carlucci l Salento come metafora di un Sud inteso come scrigno di simboli e insieme lacerato da ataviche ingiustizie è al centro della poetica di Vittorio Bodini (1914-1970). Il poeta, ispanista illustre, traduttore di Lorca, Salinas, Cervantes fu anche un raffinato cultore di arte e di amicizia, come provano i suoi scritti in prosa sul Barocco Vittorio Bodini, (1914-1970) del Sud e i suoi fitti carteggi con Luciano Erba, Oreste Macrì ed altri letterati, mira, sin dagli esordi lirici di Foglie di tabacco (1945) ad inventare un percorso poetico in cui i tratti vivi e calcinati di sole del paesaggio salentino della memoria e del cuore si ammantano di echi metafisici e letterari di una fantasia densa di esiti ermetizzanti e ancestrali, nelle raccolte La Luna dei Borboni (1952) e Dopo la luna(1956). Lo provano immagini varie disperse tra prose e poesie, come nel canto del carrettiere leccese che inquietante si leva sotto una luna sinistra -che- a forza d’esser bianca esplode come avvolta entro stracci neri una pena disperata di vivere, di avere un cuore e non sapere che farsene. Emerge in questo stralcio di prosa tutta la forza barocca, quevediana, diremmo, macchiata di ermetismo novecentesco che anima la cifra medusea del Nostro, artiere di visioni archetipiche di un vuoto e negativo materno che costringe quasi il paesaggio salentino, in analogia pittorica con le stanze castigliane o andaluse dell’anima del poeta, a volersi dissipare nell’aria dietro i propri gridi, posati sui fichi, o ai piedi dei muriccioli di pietre, lacerata sugli spini della neve. Nel simbolismo lunare che domina e affascina la poetica di Bodini si coglie l’identità del duende che gemma di lunarità gli oggetti e le geografie musicali e notturne ispano-salentine, dominanti nelle sillogi e negli scritti del poeta cantore di Finibusterrae e dei suoi fantasmi memoriali. È qui che i salentini dopo morti/ fanno ritorno/ col cappello in testa. Siamo dunque entrati nel cuore della visione del sud metafisico e insieme denso di odori e colori raffinati e popolari in cui coesistono sapide immagini di forte realismo 18 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 19 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte come nei versi in cui fonde religiosità e dramma sociale nelle piaghe del Cristo. i preti di paese / hanno le scarpe sporche / un dente verde e vivono con la nipote / presso cassette vuote d’elemosina / sanguina Cristo in piaghe rosso borboniche …. Sulle ginocchia del municipio / Stanno i disoccupati/ a prender l’oro del sole. E parimenti offre del Sud il magico bestiario salentino, così intriso di sogno e di morte, che s’associa a versi quadro, in cui evoca un dolore epico: “Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud / un tramonto da bestia macellata. / L’aria è piena di sangue e gli ulivi e le foglie del tabacco, / e ancora non s’accende un lume. / Un bisbigliare fitto di mille voci, / s’ode lontano dai vicini cortili: / tutto il paese vuol far sapere / che vive ancora / nell’ombra in cui rientra decapitato// un carrettiere dalle cave. Il buio,/ com’è lungo nel Sud! / Tardi s’accendono le luci delle case e dei fanali /.Le bambine negli orti / ad ogni grido aggiungono una foglia / alla luna e al basilico”. Si tratta di un testo esemplare della poetica di Bodini, del quale non solo si percepisce il valore prezioso della metafisica dell’ombra e dell’archetipo lunare, ma si coglie anche la forza espressiva delle immagini del mondo rurale concentrato nel bisbiglio di voci comprese nella memoria del dramma di una … cronaca di morte annunciata da immagini cruente di chiara ascendenza teatrale lorchiana. Si colgono così la problematicità esistenziale e culturale dei ritorni al mestruo del sud, alla sua anima lunare, da parte di un poeta che, allontanatosi per vita e studi dal suo Salento, lo dilata letterariamente, proprio in virtù di uno straniamento intellettuale attuabile da lontano, spesso dall’Europa, come provano saggi e prose in cui il Nostro affianca agli interessi di studioso della letteratura spagnola, specie i surrealisti, le... surrealtà oniriche di un Sud dove ogni cosa, ogni attimo del passato / somiglia a quei terribili polsi dei morti / che ogni volta rispuntano dalle zolle / compresi perché ti dovevo perdere / qui s’era fatto il mio volto, lontano da te / e il tuo / in altri paesi a cui non posso pensare. Quando tornai al mio paese nel Sud / io mi sentivo morire. Nel quadro della geografia della poesia italiana del Novecento e non solo meridionale, che del lirismo e del canto del paesaggio ha innervato gran parte della sua produzione, l’opera di Vittorio Bodini di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, merita davvero un posto ragguardevole, perché l’oracolo delle sue mani del sud, ruvide di sole, regalino pagina dopo pagina, l’avventura surreale e terragna, a un tempo, dell’incantesimo di palazzi di tufo sulle rive del nulla, insomma il vibrare di un sueno, perché un monaco rissoso vola tra gli alberi. 19 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 20 I Fiori del Male Il peso di “essere” nell’esistenza di Giorgio Orelli di Francesco Dell’ Apa iorgio Orelli è ritenuto dalla critica uno tra i più grandi poeti del secondo Novecento. È nato ad Airolo nel 1921 ed è morto a Bellinzona nel 2013 all’età di 92 anni. Poeta, scrittore, saggista, nonché traduttore dell’opera di Johan Wolfgang Goethe, era svizzero di lingua italiana e sebbene nella sua famiglia ticinese si parlasse il dialetto ebbe un amore particolare per la nostra lingua. Il motivo di questa scelta lo mette in chiaro il linguista Alessio Petralli: “Giorgio Orelli non prediligeva il dialetto in quanto era molto meticoloso nella ricerca del termine giusto, sapeva sviscerare le parole come nessuno anche se riusciva ad essere molto trasgressivo. Ma da un punto di vista linguistico era molto meticoloso.” Gianfranco Contini, che il poeta considerava il più grande filologo italiano ed era stato suo maestro all’Università di Friburgo, lo definì “un toscano nato in Ticino.” Fu annoverato tra i maggiori esponenti del filone della poesia post-ermetica e molto vicino alla “linea lombarda” messa in luce da Luciano Anceschi. I suoi primi passi nella poesia si muovono sulla lezione di Giovanni Pascoli e di Eugenio Montale con profonde e salde radici nella tradizione poetica italiana da Dante ad Alessandro Manzoni. Né bianco né viola ( 1944) è la prima silloge poetica con cui ha esordito, seguiranno altre raccolte di poesia: Prima dell’anno nuovo 1952, Poesie 1953, Nel cerchio familiare ( Scheiviller 1960), L’ora del tempo ( Mondadori 1962), Sinopie ( Mondadori 1977), Il collo dell’anitra (Garzanti 2001); come scrittore ha pubblicato un libro di racconti Un giorno della vita ( Lerici 1960). Numerosi studi critici sono apparsi su riviste Strumenti critici, Paragone e in volumi, se ne citano alcuni: Accertamenti montaliani (Il Mulino1984), Il suono dei sospiri ( Einaudi 1990), La qualità del senso (Casagrande 2012). La poesia di Giorgio Orelli mostra l’attaccamento al suo mondo nei confini della sua terra svizzera e la coerenza a moduli stilistici che nelle ultime pubblicazioni sembrano volgere verso cadenze narrative. È una lirica colta e ricca di valori umani e si accosta alla vita negli aspetti diversi per scoprirne e cogliere il Giorgio Orelli, (1921-2013) 20 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 21 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte significato più profondo. Nella poesia orelliana affiora una quieta sensibilità per la natura; è presente il mondo animale lepri, scoiattoli, una martora che rappresenta nei loro comportamenti e nelle loro abitudini rivelando una spontanea disposizione ad instaurare un rapporto con essi da contadino istruito come era solito dire con autoironia. Un esempio è la poesia Frammento della martora: A quest’ora la martora chi sa / dove fugge con la sua gola d’arancia. / Tra i lampi forse s’arrampica, sta / col muso aguzzo in giù e spia / mentre riscoppia la fucileria. Questo amore per gli animali ricorda Umberto Saba in alcune liriche nel modo in cui il poeta si avvicina a moduli realistici con una disposizione d’animo affettuosa. La poesia di Orelli ha forza e limpidezza espressiva, bellezza eufonica della musicalità per la fluidità del verso e per il livello di scelta delle parole che permettono al poeta uno stretto rapporto tra realtà, quale a lui appare, e il linguaggio così da creare l’armonia e il flusso naturale del suo stato d’animo. Ragni* Da quando? se da giorni e giorni, mesi ormai, mentre riposo li osservo e scordo e non senza stupore riscopro: ombre d’acheni, più piccoli di mezza formichetta smarrita nell’acquaio: sempre lì, lontano quanto basta dalla lampada che ha bruciato l’incauto calabrone, diafani a furia di guardarli, quasi tra i due come se fossero sorvegliati speciali, senza distrarli, è sparito in fretta nel gran bianco, e dunque non li ha visti sincronici calarsi, sostare penzolando nel vuoto dove nemmeno si sognano di cercare un appiglio per una tela: intenti alle filiere troppo presto esaurite e come saggiando il peso d’essere,il mistero, già pronti a risalire divorando filo e distanza: per fingersi di nuovo due punti nei dintorni di me. trascoloranti in rosa: chi sa mai se lo sanno d’essere l’uno a una spanna dall’altro come due nèi su una schiena, inquilini abusivi del soffitto, strani compagni della mia vecchiaia: sempre lì, sempre soli, senza preda, una volta soltanto è arrivato dal Nord un ragno d’altro rango, quasi robusto, nerastro, è passato col fare inquisitorio d’un commissario *Testo inedito di Giorgio Orelli pubblicato su La Lettura I° dicembre 2013, (dall’articolo di Paolo Di Stefano “Orelli e l’esistenza appesa a due fili”.) 21 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 22 I Fiori del Male di Plinio Perilli on scrivo versi di dodici sillabe / Contando sulle dita”… intona, s’impenna Aniela Duval in lingua bretone. È una scheggia d’oro, un frammento imploso e senziente della bella giostra o kermesse poetica (Tempi d’Europa), “La Vita Felice”, (2013) che Lino Angiuli, poeta a noi assai caro, pugliese cittadino del mondo, e Milica Marinković, giovane studiosa serba, francesista e poliglotta, ci hanno preparato e ammannito come miglior dono di e verso un’Europa che finalmente torni ad essere (come magari ai tempi d’un Federico II, o di Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Shakespeare e Marino, Bruno e Campanella, Goethe e Hugo, delle Illuminazioni di Rimbaud e delle Elegie… di Rilke, dei Calligrammi di Apollinaire e dei “fiumi” di Ungaretti, dei Quattro Quartetti di Eliot e delle Occasioni di Montale…) quella inquieta o serena della poesia, delle lingue e non delle divise: ahinoi, né militari, orrifiche, né quelle non meno ignobili e perverse, dei diktat o ricatti monetari… “… tutto arso e succhiato / da un polline che stride come il fuoco…” struggeva Montale ne “La primavera hitleriana”, a rievocare, insieme, la visita di Hitler e Mussolini a Firenze, e l’indimenticabile tragica commistione, forse, della Storia come disegno malefico, dittatura stessa del Male e insieme architettura umanista della Bellezza sognata, perpetrata talvolta, maiuscola… Che bella invece l’esemplarità, la lezione dolente o anche salvifica, di questi percorsi medesimi della lingua come ariose o asfissianti odissee lessicali!, approdi o nèmesi, nòstoi (cioè ritorni) ma anche ripartenze, macerate e spesso definitive: un caso su tutti, quello di Michael Hamburger, nato a Berlino nel 1924 da famiglia ebraica, esule dal 1933 in Inghilterra, a Londra, dove si laureò e, pur cambiando lingua, per tutta la vita insegnò e tradusse dalla lingua materna a quella della sua piccola o grande Storia… Per non parlare del caro amico Ciril Zlobec, sloveno di Ponikve (e innamoratissimo peraltro dell’Italia, che ha visitato spesso), ma che da bambino – in pervicace, goffa e crudele era littoria – fu vergognosamente angariato e vessato, “espulso dal 22 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 23 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte ginnasio perché scrive poesie in madrelingua”… E senza dimenticare le vicende spesso romanzesche e chiaroscurate, il travaglio fertile, certo, ma come un taglio cesareo, una nascita sempre allertata e dolorosa delle povere e assediate minoranze linguistiche, quelle che lottano ogni anno, ogni stagione, per sopravvivere, per esistere e resistere: “Il nostro intento, invece,” – proclamano fra anima e corpo della storia sia Angiuli che la Marinković, verde testimone, quest’ultima (classe 1987), di troppi indegni pretesti etnici, o (ir)religiosi campi di battaglia – “è quello – pasoliniano, se vogliamo – di mostrare come ogni lingua, anche la meno diffusa, sia comunque lingua della poesia; come dire che, a cospetto della poesia, tutte le lingue hanno pari dignità, sia quelle che sanno fare la voce grossa sia quelle nascoste nelle pieghe della storia e della geografia.” Ecco dunque, a parte le altre lingue consacrate e principali, la “parlata” ladina, quella bretone, gallega, corsa, maltese, frisone, euskera, gaelica, occitanica, vallone, grecanica, ad libitum… “Nel secolo breve e nelle loro espressioni più importanti, i dialetti” – chiosa giustamente Amedeo Anelli che è squisito e moderno illuminista – “sono diventati ‘alberi’ ben radicati nel suolo, ma con le chiome che hanno attraversato tutte le intemperie e le astuzie delle grandi tradizioni europee. Possiamo parlare a pieno titolo di poeti europei di lingua tedesca, come di poeti europei in siciliano, ed è questa sola la dimensione che ci interessa.” Il libro è bello e fervoroso, agile e pregno di nomi, di cose, di venti e umori, luci e profumi, fiori e frutti – come appunto un paesaggio di Storia e Natura sorvolato con l’aereo (o l’ippogrifo?!) della poesia, del rito insomma di sangue e parola, fra l’aura ispirata e l’aria spirante delle Quattro stagioni: “Io vengo dall’estate, / è una patria fragile / che qualunque foglia, / cadendo, può annientare…” (Ana Blandiana). Belle anche le collaborazioni fra un poeta e l’altro, fra autore e traduttore, noti spesso entrambi (Carlo Bo per il mitico Lorca, divino sensuale colorista intimo: “Il mio melo / ha già ombra e uccelli”); Roberto Sanesi, evviva!, per Yeats esimio aedo d’ogni lirica magìa: “Sull’acqua traboccante fra le pietre / Cinquantanove cigni stanno”; Franco Loi per l’“Autunno agreste” di Willem van Toorn, Biancamaria Frabotta per la Blandiana, Elio Pecora per Jean Portante, lo stesso Angiuli (con Povol Koprda) per il Nobel ceco Seifert; ma anche Daniela Marcheschi per la Trotzig, Maura Del Serra per Hamburger, Valeria Rossella per Miłosz, Emilio Coco per Xabier Lete (spagnolo di lingua euskera), Mauro Ferrari per il fiammingo Germain Droogenbroodt, Piera Mattei per l’estone Doris Kareva che ci affabula sull’aspra e avara luce nordica: “Slitte trascinate in pesate oscurità, / gufi e lupi che restano all’erta. / Il Mondo digrigna i denti.” Punto essenziale, crocevia, snodo strategico ed emotivo – ripetiamo – il gran- 23 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 24 I Fiori del Male de sogno e bisogno di un’Europa dei poeti più e prima che dei politici (fossero almeno buoni e giusti!), cioè un continente variegato, suffragato di storia e di poesia, di eventi ma anche opere e ideali in progress, declinazioni di un Bello troppo spesso citato, gloriato ma adulterato… “Poesia Europea Vivente” si chiamava del resto la grande collana che affiancando il rimpianto Giacinto Spagnoletti, noi sottoscritti abbiamo per più di un decennio (tutti gli anni’90 fino ai primi del 2000) contribuito a inventare e realizzare presso la Fondazione Piazzolla, con la gioia davvero di lanciare nomi che oggi sono qui appunto ripresi, e per fortuna acquisiti come un dono riconosciuto ed oramai permanente: citiamo almeno la svedese Birgitta Trotzig, l’olandese Van Toorn, il greco Miltos Sachturis, il Nobel polacco Miłosz, l’irlandese Nuala Ní Dhomhnaill, la bulgara Blaga Dimitrova, la tedesca ex D.D.R. Sarah Kirsch, etc. Poeti grandi o meno, illustri o misconosciuti che “non sono solo degli osannatori del proprio ombelico,” – ci ricordano e vieppiù ammoniscono Lino Angiuli e Milica Marinković – “ma anche persone che hanno sfidato la vita (non poche volte la morte), per permettere al ‘battello ebbro’ della poesia di attraccare all’utopia. E quale potrebbe e dovrebbe essere l’utopia europea se non quella di ridimensionare la dura lex dell’economia per rimettere al centro il ruolo dell’uomo e il destino della societas…”? Un testo fervido, baluginante, sicuramente necessario, in cui lievitano, levitano anche le assenze forse più madornali (penso a un poeta strepitoso come Gëzim Hajdari, albanese “italianato” per motivi politici), e in definitiva finiscono per colpire e forse rimettersi in gioco perfino alcune sviste evidenti o strani refusi, più o meno casuali… Penso alla data in verità decisiva de La Bufera e altro, cioè del memorabile terzo libro di Montale, atteso fin dagli anni ardui della guerra, e dai prodromi di “Finisterre” (1956 – non 1965! – che però fu l’anno in cui il futuro autore di Satura maturò definitivamente l’epicedio coniugale degli “Xenia” per la moglie “Mosca”, morta nel ’63). Ma medito soprattutto sull’idea di considerare le poesie della Bachmann scritte “in lingua austriaca” (attenzione, e non tedesca!), il che, certo inopinatamente, per carsici fiumi da subconscio, solleva la vexata questio della poesia austriaca (pensiamo solo a un Trakl, ma anche a Musil o ad Hofmannsthal!) così diversa, indubbiamente, da quella “alemanna”… E proprio così versi della grande Ingeborg Bachmann, amiamo chiudere, riaprire queste pagine così amate e amabili, questo piccolo evangelio laico nel Credo, avrebbe detto Dante, Vate d’Europa e oltre, d’ogni sua – nostra – possibile ars dictandi: “Il grosso carico dell’estate è a bordo, / nel porto è pronta la nave del sole”… 24 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 25 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte La Beat Generation tra attese e utopia di Daniela Quieti a Beat Generation, il movimento artistico, filosofico, letterario e musicale sviluppatosi intorno agli anni ‘50 e ‘60 negli Stati Uniti, modificò non solo la cultura dell’epoca, ma la stessa visione esistenziale di una collettività ferita dal grande conflitto bellico, dagli orrori dell’olocausto, dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, dalla guerra del Vietnam e da quella fredda. Il mondo appariva percorso da molteplici contraddizioni e discriminazioni, minacciato dal rischio di uno scontro nucleare, trainato da un consumismo smodato e da un opprimente conformismo di massa. Mentre la modernità rivelava i suoi aspetti più oscuri, l’uomo desiderava riappropriarsi di libertà e speranza. Tanti giovani scelsero di attraversare l’America con mezzi di fortuna, pochi spiccioli e ideali visionari, estraniandosi in un atteggiamento ispirato all’ascetismo Zen. Lo sviluppo della Beat Generation fu influenzato dal pensiero e dalle esperienze di personaggi emblematici quali Herbert Marcuse, Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, Neal Cassady e Gregory Corso. La nascita dell’espressione avvenne nel 1952 quando sul “New York Times Magazine” furono pubblicati Go di John C. Holmes, considerato il primo racconto beat, e l’intervista This is the Beat generation di Kerouac. I Beats, nella locuzione inglese, erano considerati gli “sconfitti”, in relazione alla loro provvisorietà, all’uso di alcool e droghe, al rifiuto di regole. Invece per Kerouac beat significa beatitudine. Ma beat è anche il ritmo della musica jazz e be-bop di quegli anni, battito che influenzava la cadenza poetica. Fu Fernanda Pivano, traduttrice delle opere di questi autori, a far conoscere la cultura beat nel nostro 25 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 26 I Fiori del Male Paese, precisando che il termine, più che il senso mistico o musicale, indica quello di una sconfitta dell’uomo moderno di fronte alla falsa comunicazione, all’avidità di denaro, alla sete di potere, alla violenza di lotte armate e di una narcotizzante propaganda. Marcuse, riferendosi alla Beat Generation, preferiva definirla Beatnik, da Beat e Sputnik, in quanto il primo satellite sovietico era lontano dalla terra quanto i Beats lo erano idealmente dalla comunità in cui vivevano. Il filosofo considerava positivo il fatto che tanti giovani rifiutassero i dettami dell’establishment, tuttavia riteneva che la loro ricerca di valori tramite l’ausilio di sostanze stupefacenti e alcoliche, con derivanti accuse di reati vari, ne sminuisse il potenziale rivoluzionario. L’elaborazione della teoria critica di Marcuse si compie tra la Scuola di Francoforte, attiva negli anni della Repubblica di Weimar insieme a Theodor Adorno e Max Horkheneimer, e San Diego. Opere quali Ragione e Rivoluzione, L’uomo a una dimensione, Eros e civiltà lo resero il principale ispiratore e simbolo del movimento studentesco del XX secolo. Marcuse intitola La paralisi della critica: la società senza opposizione” la premessa a L’uomo a una dimensione, intendendo che si è compiuto inesorabilmente il processo tecnologico di omologazione e controllo degli individui. Se un cambiamento potrà esserci, esso verrà solo dalla forza libera e sovversiva dell’immaginazione al potere, dalla molteplicità di espressioni capaci di fornire idee nuove e rivoluzionarie in grado di smascherare le contraddizioni del reale. La Bellezza salva il mondo, l’arte incrocia l’utopia, le parole sono frammenti di sogno e la poesia si fa promessa di redenzione, nello spirito di On the road di Jack Kerouac e della sua politica del movimento: “Let’s go. Where are we going man? I don’t know, but we gotta go”1). Kerouac, protagonista di incredibili traversate sulle polverose strade d’America, aveva cercato di trasmettere l’indignazione e la denuncia dinanzi alle ingiustizie, allo sperpero di denaro, al consumismo e alle brutture del mondo. Soprattutto, aveva cercato di comunicare il senso del viaggio quale solitaria e tragica esperienza alla ricerca di una verità “fuori dal tempo in una società costruita sul tempo”, un viaggio interrottosi con la morte dello scrittore nel 1969 all’età di 47 anni. Per Kerouac la Beat Generation traeva spunto dagli hipsters, una generazione di giovani dei primi anni ‘40 appartenenti ai ceti più poveri i quali, insofferenti a ogni regola, vagabondavano dappertutto in autostop, contrapponendo l’originale hip language al lessico tradizionale da essi ritenuto inadeguato. Incisiva è anche la personalità di William Burroughs con il suo boicottaggio dei poteri occulti. Così Kerouac, sotto il nome di Old Bull Lee, descrive l’amico in Sulla strada: “passava tutto il tempo a imparare; le cose che imparava erano quelle che considerava e 26 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 27 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte chiamava ‘i fatti della vita’; le imparava non solo per necessità, ma per scelta. Aveva trascinato quel suo corpo lungo e sottile in giro per tutti gli Stati Uniti, e in gran parte dell’Europa e del Nord-Africa, ai suoi tempi, solo per vedere cosa succedeva… Una volta avevo detto: Cosa ci succederà quando moriremo? E lui aveva risposto: Quando si muore si muore, ecco tutto”. Burroughs utilizzò la tecnica stilistico letteraria del cut-up, già utilizzata nel Dadaismo di Tristan Tzara, consistente nel tagliare un testo scritto lasciando intatte parole o frasi, combinandone poi i frammenti per ricomporre un nuovo testo che, pur senza filo logico e corretta sintassi, manterrà un suo senso. Allen Ginsberg, leader atipico, nelle sue opere tratta i temi ricorrenti del viaggio, del rapporto tra l’individuo e il mondo esterno, della poesia come promessa di redenzione, dell’autoemarginazione e delle filosofie orientali contrapposte ai feticci materialistici. Nell’ottobre del 1955 Ginsberg legge presso la Six Gallery Poetry Reading di San Francisco il suo poema intitolato Urlo, il cui incipit recita: “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa”. Lawrence Ferlinghetti, poeta e fondatore della casa editrice City Lights, pubblica il lavoro di Ginsberg nel 1956. L’anno seguente si verifica un episodio rivelatore della campagna discriminatoria scatenatasi contro gli scrittori beat: Ferlinghetti viene arrestato con l’accusa di aver divulgato un’opera oscena e fuorviante per le giovani coscienze. Il processo si concluse con l’assoluzione e la difesa stabilì che Urlo era una denuncia contro il materialismo e la meccanizzazione che minacciavano l’America ma la stampa dell’epoca continuò a esprimere giudizi negativi contro gli scrittori beat. Neal Cassady, co-protagonista in On the Road sotto il nome di Dean Moriarty, è stato anch’egli uno dei simboli della Beat Generation, sempre alla ricerca di un approdo che non trovava. Del giramondo Gregory Corso, invece, la Pivano disse: “strafottente nella più assoluta imprevedibilità qualunque cosa abbia detto o scritto ha sempre rivelato il dono di non dire mai una sciocchezza”. Dalla scrittura e dalla vita di questi autori emerge in modo prorompente e rivoluzionario un anelito di libertà.Realismo? Utopia? Certo, a ognuno va consentito di orientare il proprio pensiero verso uno schema di vita originale e anticonformista che, per essere rispettato, contenga a sua volta il rispetto. 1) Trad.: “Andiamo, dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare”. 27 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 28 I Fiori del Male MITO E REALTA’ NELLA POESIA DI EMILIO ARGIROFFI di Pina Majone Mauro “… la vendetta non ha compagni di strada / nel duro inverno d’aspromonte / la pietra rotola rossa / di braci infinite / nel mare viola di stesicoro / che lambisce radici di meli cidoni / e d’uve mantoniche / e quiete onde / tiepide di scirocchi / dove si specchiano / i rami grevi dei frutti / dei grandi olivi grecanici / … casolari / dove si consumarono / infinite generazioni di sofferenze / partenze … per sorde megalopoli di ferro / dalle quali non si torna / … in un presente / figlio bastardo di un passato / abitato da serpenti / la vendetta non ha compagni di strada. A pagina ventinove della straordinaria silloge “Gli usignoli di Botonusa” è incastonata come una gemma rossa di passione e di sangue questa poesia dal titolo inquietante, “Il grido della vendetta”, che può essere considerata la sintesi delle varie tematiche di cui si nutre l’intera opera di Argiroffi: la bellezza aspra e dolce del mitico mare viola di Stesicoro, che accarezza le brune rocce aspromontane come se volesse levigarne le asperità e scoprirne il mistero, i venti del deserto che corrono sulla “sua” piana ricca di ulivi grecanici dove ogni suono è parola che giunge da tempi sconosciuti e remoti dove l’ululato del lupo, il sibilo del serpente incontrano la voce del mare. È così che il Poeta sente e vede la sua terra di adozione, quella che ha scelto per vivere e lavorare, la piccola comunità di Taurianova che guarda al mare degli eroi antichi che vi approdarono e di quelli moderni che per fame e disperazione ne fuggirono. In altro luogo (pag. 295 de “La grotta di Endimione) dirà: “questa Taurianova / risorta su ceneri e suoni millenari / tra fanghi e rovi impigliati di cento miti / di mille melodie di usignoli … signora dell’antico fiume / dove s’immerse oreste il matricida / … dove omero ancora risuona / nelle parole dei vinti / … Taurianova signora della piana / è terra di pallade atena / fu qui ch’ella colpiva il suolo con la lancia / ad ogni colpo sorgeva l’ulivo / il grande ulivo gigante / … qui fu toante / sposo della regina ipsìpile / Emilio Argiroffi (1922-1998) 28 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 29 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte qui visse ifigenia / sacerdotessa di artemide / …”.Siciliano per nascita (Mandanici -ME, 1922 Catania 1998), mitteleuropeo per cultura (ebbe una madre altoatesina che gli trasmise una visione corale e meno campanilistica del mondo e della vita) calabrese per libera scelta, Emilio Argiroffi fu medico politico pittore saggista, senatore della Repubblica per tre legislature, sindaco del suo paese. Ma fu soprattutto poeta. Scrisse pregiatissime sillogi poetiche, tra cui “La grotta di Endimione”, “L’imperatore e la notte”, “Epicedio per la signora che si allontana”, “Le azzurre sorgenti dell’Acheronte” (post.), “Gli usignoli di Botonusa”. Mandato giovanissimo a Taurianova per espletare il tirocinio di medico nel piccolo ospedale della Piana del Tauro, non lasciò più questa terra che lo adottò e i suoi abitanti che lo adottarono. Con essi si sentì compagno di strada e li amò senza riserve e per tutta la vita li servì con quel sentimento di “pietas” laica dal forte impianto socioantropologico. Sono loro i protagonisti della sua vicenda professionale e umana, vicenda che si precisò nella dedizione continua per sublimarsi poi nella poesia. La scelta coraggiosa di restare a Taurianova coincise con una forte presa di coscienza del dolore altrui e dal desiderio di alleviare le sofferenze di quanti abitavano quell’eden di bellezza e di dolore. Come un destino. Come una magia. La professione lo mise a stretto contatto con la povera gente dei campi e soprattutto con le raccoglitrici di olive, sempre con la schiena piegata sulla terra del padrone, e con i loro bambini denutriti e abbandonati di cui curò le piaghe visibili e invisibili. Con spirito di servizio e con la consapevolezza che quel dolore era il retaggio di una atavica povertà culturale morale e materiale. Emilio fu per i calabresi del Metauro “L’Angelo necessario” e loro furono per Emilio gli unici ispiratori della sua vicenda professionale umana e politica, ma soprattutto della sua straordinaria poesia.Farsi carico dei loro patimenti fu per Lui come indossare una corazza che per tutta la vita spartanamente portò per condurre la sua lotta senza quartiere alle sopraffazioni e alle ingiustizie. Le sue liriche non hanno i toni giambici di Archiloco di Paro ma quasi quelli della ballata vibranti tutti di un pathos profondo che dà al verso un andamento spondaico e spesso “colloquiale” nonostante la finalità palese di una accorata denuncia. A pag. 34 de “Gli usignoli di Botonusa” si legge: “figli dell’uomo / lasciate che vi chieda / che ne sarà dei bambini / essi sono muti nel dolore / nessuno è più solo di loro / nel mondo in cui viviamo / nel deserto dei mondi / voi che cosa avete fatto / cosa state facendo / perché il loro cuore / non sia trafitto ancora / essi non chiesero di nascere / non chiesero ad alcuno di morire / tendete la mano a uno di loro / a uno soltanto / vi imploro / a uno soltanto”.Versi di protesta che poi si fa accorata preghiera d’amore … per- 29 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 30 I Fiori del Male ché per il Poeta solo l’amore può salvare gli innocenti, i senza-voce da un futuro di sopraffazione e di aberrazione. Per dire infine che la sorte dei diseredati di Taurianova e di tutto lo “zoccolo aspromontano” non motivò soltanto l’azione politica di questo moderno aedo loricato, immenso come un Aiace forte e leale che non lotta per sè ma per il bene degli altri, ma costituì la fonte primaria della sua poesia, il cui principale merito è di avere effettuato coi suoi splendidi versi la compenetrazione profonda del suo pragmatismo socio-politico nel mondo fantastico mitico e solo apparentemente lontano del dolore umano. Il linguaggio colto, l’alta ispirazione, la potente immaginazione e la finalità umanitaria fanno della poesia di Emilio Argiroffi quanto di meglio sia stato scritto dal decadentismo in poi. 30 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 31 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte di Giorgio Linguaglossa orrei iniziare con un riferimento ad Adorno tratto da Dialettica negativa, e precisamente nel capitolo dove il filosofo tedesco dichiara che dopo Auschwitz un sentire si oppone a ciò che prima del genocidio si esprimeva tramite il senso. E aggiungeva che nessuna parola con tono pontificante, quand’anche parola teologica, ha legittimità dopo Auschwitz. Come sappiamo, il filosofo tedesco assegna al genocidio di massa un valore radicale, e lo cita come rovina del senso. Il senso della storia ci conduce a questo: nel riconoscere che non c’è alcun senso della storia, se diamo al termine il valore di razionalità nella accezione invalsa da Hegel in poi: che «il reale è razionale», che c’è una spiegazione per ogni aspetto del reale, anche per le cose apparentemente insignificanti, minime, che anch’esse rientrano nel disegno di organizzazione universale dello Spirito del mondo e nel disegno razionale. Per il pensiero liberale la Storia ha una sua direzione proiettata verso il futuro nella forma del progresso e della civilizzazione etc., la storia ha una sua direzionalità pregna di senso etc. Ma dopo due guerre mondiali e la guerra fredda non si può più formulare un pensiero come questo. Per Adorno dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia. E invece i fatti hanno dimostrato non solo che dopo Auschwitz si può ancora scrivere poesia ma che anzi oggi assistiamo ad un vero e proprio diluvio di poesia di tutti i tipi, elegiaca, iconica, concettuale, sperimentale, del quotidiano, mitologica, giocosa etc. La storia sembra andare verso l’implosione piuttosto che verso il suo ripiegamento, verso la demoltiplicazione piuttosto che verso il dimidiamento. Ma la Poesia ha coscienza di questa negatività?, la Poesia ha coscienza di questo de-moltiplicatore?. Ma è una negatività senza impiego, senza contraltare, una negatività che permette soltanto la finzione, l’allestimento di un palcoscenico vuoto. Al posto dell’impegno è subentrato il disimpegno, al posto del negativo è subentrato il post-negativo; le ipertrofie, le faglie, le erosioni, le citazioni, i rimandi, i percorsi sotterranei del senso diventano i veri protagonisti della poesia, diciamo, del post-negativo. La poesia ironica e scettico-urbana del post-negativo si muove in questa topografia assiale delle rovine (del linguaggio e del senso); si muove, con eleganza e ironia magari, in questa topografia delle rovine (con una tipografia delle 31 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 32 I Fiori del Male rovina!); si trastulla sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio, esibendo l’abilità del rhetoricoeur, nell’improvvisare paronomasie, omofonie ed anafore, corto circuiti tra suono e senso, tra citazione e citazione; mima un senso plausibile ed effimero per poi subito dopo negarlo e de-negarlo ammiccando alla impossibilità per la poesia di prendere la parola, di parlare facendosi schermo dei famosi versi di Montale: «Solo questo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che non vogliamo». Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza diventando semplice sintagma molecolare; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?. La poesia non ritiene più indispensabile ricreare le coordinate e le condizioni per una poesia che voglia parlare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?); la poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?; il campo, si dice, è disseminato di mine, è un campo minato di rovine; è vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della 32 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 33 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte materia combusta, dei materiali esausti, dei detriti per riutilizzarli in una composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos. C’è una gran confusione, una «dissolvenza» di tutti i concetti «forti», «solidi». Qualcuno dice di preferire ciò che è «liquido», «leggero», che la «leggerezza» è una virtù; qualcun altro dice di adottare il «quotidiano», il «privato»; qualcun altro ha sostenuto di voler adottare il linguaggio della comunicazione, e così via; ho il sospetto che si tratti di comodi alibi per non affrontare di petto quella cosa che abbiamo davanti: la Grande Crisi della poesia italiana. Si dice che non si dà più alcuna certezza, nessuno è così sciocco da investire né sulla «leggerezza», né sulla «pesantezza». E il poeta?. Qualcuno dice che il poeta non ha nessun salvagente cui aggrapparsi, nessuna ancora cui legarsi, nessun punto di vista da difendere, e che è costretto a fare poesia «turistica», da intrattenimento, poesia da bar; appunto, c’è chi difende il turismo intellettuale: la chatpoetry quale parente stretta della videochat; c’è chi prova a fare poesia con il linguaggio dei cellulari. Si va per iniezioni, tentativi inconsulti; e la poesia diventa molto simile ad una attività approssimativa che scimmiotta i linguaggi telemediatici. Oggi va di moda oggi va di moda di porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dal figurato invece che dal letterale. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo Satura (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano(Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stato espulso la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico. Con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico. 33 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 34 I Fiori del Male Riguardo a Pier Luigi Mengaldo ...riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo, scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico. Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di demetaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1971), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo privo però di copertura filosofica. Montale, insomma (pur con tutte le cautele del caso) apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con 34 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 35 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte questo atto non solo compie una legittimazione dei linguaggi dell’impero mediatico che era alle porte, ma legittima una forma-poesia che inglobi la ciarla, la chiacchiera, la cultura dello scetticismo. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia va a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi. Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia come elettrodomestico. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia. 35 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 36 I Fiori del Male Cronache dal Nord-Est Con Nelvia Di Monte la “lingua friulana” sale al Campidoglio di Roberto Pagan uanti poeti in riva al Tagliamento. L’esclamazione mi era venuta alla mente proprio così, con la cadenza dell’endecasillabo. Diventò poi il titolo di un breve regesto (in “pagine”, n. 50, 2007) in cui davo conto della ricca fioritura di poesia dialettale ch’era prosperata, e ancora continua, al di cà e al di là de l’aga; oggi, per la verità, più al di qua del fiume, nella provincia di Pordenone, che dall’altra Nelvia Di Monte parte, nella provincia di Udine. Ne avevo recensito una decina, di poeti, giovani e meno giovani, lasciandomi guidare dalla elegante collana (Piccola Biblioteca di Autori Friulani) curata con grande passione da Ofelia Tassan Caser, direttrice della Biblioteca Civica, e splendidamente decorata in copertina da quel grafico d’eccezione che è Gianni Pignat.Tornavo a Pordenone, dove ero stato giovane insegnante di liceo, dopo un’assenza di decenni e vi avevo trovato, al posto del paesone sgangherato che ricordavo, una città, non dico armoniosa, ma comunque moderna ed efficiente. Lì il “miracolo del nord-est” c’era passato davvero (e magari durasse ancora), e i risultati, sul piano materiale di certo, erano sotto gli occhi di tutti. Ma quello che più mi sorprese favorevolmente era constatare come, per una volta tanto, quella nuova prosperità economica aveva avuto, ad ogni evidenza, anche una ricaduta sul piano culturale. Ne era prova palpabile la bella, ricca rassegna di “Pordenone legge”, che si rinnova, da parecchi anni ormai, ogni settembre. Ma, per tornare ai nostri poeti, il Friuli è, notoriamente, una delle aree più vivaci per la diffusione del filone “neodialettale”, che – dopo l’impulso pasoliniano – ha acquistato uno slancio che non sembra arrestarsi, aprendosi anzi in mille rivoli e toccando le località più sperdute, paesini dimenticati della pedemontana, giù giù fino alle cittadine della Bassa, dove il friulano si ibrida curiosamente di echi e cadenze venete, 36 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 37 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte ritrovando quei sotterranei influssi, in realtà mai perduti del tutto, propri dell’antica Dominante: di cui ancora, sparse qua e là per la campagna, sopravvivono, vestigia illustri del passato splendore, decine e decine di ville patrizie. Siamo ormai, dai tempi della Academiuta di Pasolini, a una terza generazione di poeti che scrivono nelle infinite varianti della mappa linguistica regionale: questo idioma dell’anima, ritrovato più che altro nella memoria genetica, perché spesso nemmeno usato nella comunicazione quotidiana. Talvolta per gli allentati rapporti con le piccole patrie d’origine e non di rado per lo sradicamento dovuto a una lunga vicenda di emigrazione, propria di una terra che ha conosciuto, fino a un passato recente, privazioni e miseria. Di quella perdita di radici certo è restata traccia nella coscienza profonda degli scriventi, con una attitudine diffusa al ripiegamento doloroso: ché le nuove generazioni – uscite dai tempi più drammatici – hanno pagato su altro piano lo scotto di un fin troppo repentino trasformarsi della società con la conseguente dispersione dell’antica civiltà contadina da cui molti di loro provenivano. Sì che un nuovo trauma si è aggiunto all’eredità malinconica della stirpe. Qui è forse anche la causa prima di questo rinnovato amore del dialetto natio, quasi a trovarvi rifugio e salvezza sul piano emotivo ed esistenziale. Ecco così la lingua degli avi che diventa strumento d’arte, di ispirazione ed espressione privilegiata. Ma bella è anche in tale contesto la fitta rete di scambi e rimandi, la capacità di stringere rapporti comuni, di costituire cenacoli e associazioni (ricordiamo almeno il Circolo culturale Menocchio o il Gruppo Majakovskij) in cui discutere e confrontare i risultati del loro lavoro: ciò che indubbiamente ha contribuito ad assicurare ricambio e continuità a questa tradizione. Negli anni la collana della Biblioteca Civica di Pordenone ha allineato altri nomi, dopo quelli degli undici scrittori di cui, nel 2007, avevo potuto dar conto. Nel n. 19, intitolato Tiara di cunfìn, Giacomo Vit e Giuseppe Zoppelli, due specialisti della materia, hanno raccolto una piccola antologia che, oltre a ripercorrere l’opera di poeti già pubblicati (Renato Pauletto, Luigi Manfrin, Sergio Vaccher, Daniela Turchetto), altri ne propone: Fernando Gerometta, Federica Rocco Contin, Luigina Lorenzin, Marco Pauletto, Giorgio Faggin, Giovanni Valentinis. E tanti ancora se ne potrebbero aggiungere, che si sono segnalati più di recente e hanno acquistato fama a livello nazionale: in primis Ida Vallerugo, Gian Mario Villalta, Pierluigi Cappello… L’ultimo volumetto della collana (il n. 21) è dedicato ora a Nelvia Di Monte e alla sua raccolta Sojârs (Soglie): opera che segna indubbiamente la sua piena, intensa maturità poetica. Di questa personalità vorremmo dire qui in particolare: proprio perché in questi ultimi anni Nelvia ha fatto spesso parlare di sé, segnalandosi – nell’ambito della poesia in friulano – come uno dei 37 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 38 I Fiori del Male casi più interessanti. Seguiamo questa rapida successione della sua carriera. Nel 2010 ha vinto il Premio Ischitella–Pietro Giannone con la silloge Dismenteant ogni burlaz; nel 2011 ha pubblicato un’elegante plaquette, mista di poesie in italiano e in friulano, Nelle stanze del tempo, premio speciale alla carriera Elsa Buiese; nel 2013, appunto l’accennato Sojârs, corredato da un’ampia prefazione di Giuseppe Zoppelli, un critico assai competente, in cui si riesamina tutto il percorso della poetessa. Dulcis in fundo – è il caso di dirlo – il 16 gennaio scorso ha ricevuto in Campidoglio il primo premio per la poesia inedita nel concorso, di nuova istituzione, “Salva la tua lingua locale”. Di Nelvia Di Monte già tante cose dunque sono state scritte. A parte l’importante prefazione di Zoppelli appena citata, troviamo la nostra autrice inserita in varie antologie e, con particolare risalto, nella recente rassegna Poeti del Friuli di Anna De Simone, ed. Cofine, Roma 2012. La sua, nel panorama della poesia friulana, è certo singolare caso di fedeltà a una lingua che, di fatto, l’autrice non parla più fin dall’infanzia, quando ha lasciato il paese natio di Pampluna, nei pressi di S. Giorgio di Nogaro, per vivere poi in terra lombarda. In verità Nelvia scrive anche con finezza in italiano (come si vede nella già indicata plaquette Nelle stanze del tempo). Ma il friulano (vicino alla koiné udinese, questa volta) è prediletto in quanto sentito come l’espressione più intima e segreta della sua personalità: benché sia lingua ricuperata a memoria e con studio paziente ricondotta ai testi canonici. È vero peraltro che, della tradizione friulana, molti archetipi le sono congeniali, dai temi alle tonalità, avendone ereditato lo spirito, si direbbe, soprattutto dal padre amatissimo e precocemente perduto. Ché in fondo nei suoi versi confluisce la pena di un doppio sradicamento: quello delle generazioni passate, il dramma dell’emigrazione che è stato oggetto del suo grande libro d’esordio, Cjanz de la Meriche, 1996, e quello del proprio esodo infantile, che ha lasciato tracce d’ombra malinconica nella sua coscienza come nella sua poesia. Il che potrebbe spiegare anche, in via subliminale, sia l’alternarsi (e il sovrapporsi) nel suo percorso creativo di motivi intimistici ed eminentemente lirici e di aperture al sociale con soluzioni epico-narrative; come pure un susseguirsi di venature cupe (come in Ombrenis, Ombre) e di momenti intonati a maggiore serenità (come in Cun pàs lezêr o Dismenteant ogni burlaz). L’ultimo libro, Sojârs, ha un più complesso intreccio, e un gioco di corrispondenze e rispecchiamenti, tematici e tonali, tra le sue quattro parti, calibrato con grande perizia costruttiva. Ma tutto ciò richiederebbe un troppo lungo e approfondito discorso. Certo impossibile in questa sede. Per dare appena una vaga idea di tali interni rimandi che legano, in un rigoroso bilanciamento di simmetrie, parti più anti- 38 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 39 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte che e parti più recenti abilmente confluite in questo libro citeremo a confronto (purtroppo solo in frammenti, non nella loro integrità) due testi: il n. 5 della prima parte (titolo: In tun zûc vueit = In un gioco vuoto) e il n. 5 della seconda parte (titolo del brano: Masse cambiâts = Troppo mutati). In tutti e due i brani (da noi qui contrassegnati A e B) si accenna al padre morto e alla sua fotografia immobile nel sorriso: ma nel primo come in abbozzo, per allusioni sfumate; mentre nel secondo lo stesso tema si dispiega in accorata elegia (la salma ricollocata dopo vent’anni in un piccolo loculo), per aprirsi poi in un vivace flash back (la bambina che corre in bicicletta incontro al padre) e concludersi in un epilogo gnomico: A) Cirîti tal nûl al è un pinsîr / imburît come une clapade / ch’e sbreghe l’ajar frêt di scûr / Il tô ridi di cjarte – simpri chel – / al vongòle oltri il murèt e respîrs / di vecjo a semenin pe tiare / pulvìn e nissune rispueste…(Cercarti tra le nuvole è un pensiero / rapido come una sassata / che taglia l’aria fredda di buio // Il tuo sorriso di carta – sempre uguale – / ondeggia al di là del muretto e respiri / di vecchio spargono per terra / polvere e nessuna risposta…) B) Dopo vinc’ains ti àn gjavât de tiare: / ancje par voaltris al è precari / il puest cajù, o stramudais tal cement, / dentri un pizzul bûs – ce l’impuartal, ormai?...(Dopo vent’anni ti hanno tolto dalla terra: / anche per voi è precario / il posto quaggiù, traslocate nel cemento / dentro un cantuccio – che ti importa, ormai?...) // E tornâ tai nestris lûcs cognossûts, / cuan che tu finìvis di lavorâ? / Par coriti incuintri framjez dai cjamps / di blave e girasol pedalant legre / sul troi daurvie fossai e vencjârs / mintri al revoche il campanèl tai claps (E tornare nei nostri luoghi conosciuti / quando finivi di lavorare? / Per correrti incontro fra i campi di granoturco e girasole pedalando allegra / sulla sterrata lungo fossi e salici / mentre il campanello risuona sui sassi…)…Nus covente / une muse par voltâ i ricuarts / ma di bant la tô foto e cjale compagne: / o sin nô masse cambiâts e i lûcs dulà che, / pôc o tant, insieme o vìn cjaminât…(Abbiamo bisogno / di un viso per orientare i ricordi / ma inutilmente la tua foto guarda identica: / siamo noi troppo cambiati e i luoghi dove, / poco o tanto, insieme abbiamo camminato). Non possiamo certo tacere infine sulla cerimonia capitolina che ha trovato ancora la Di Monte in prima fila tra i premiati di spicco per la poesia inedita. In questa occasione Nelvia ha letto una delicata Ninenane des aganis (Ninnananna delle fate dell’acqua), certo più accattivante per il pubblico della sala. Ma noi vorremmo citare da un altro testo presentato al concorso – che, ancora una volta, siamo costretti a comprimere in frammenti. Il tema è di grande attualità civile, l’integrazione culturale dei nuovi migranti: ma si 39 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 40 I Fiori del Male veda l’estrema discrezione, la leggerezza di tocco con cui l’autrice sa affrontarlo. Il titolo è Gjeometriis (Geometrie): Il cjaf un pôc alzât, a nolis, e i voi / ch’a cjalavin simpri plui in là: creanzôs / bravût, ma la matematiche e jè / une robe precise e la grammatiche, po, / un baràz intorteât al to fevelâ cjalt / come la piel scuride che ploe e nêf / no podevin sclarî (La testa un po’ sollevata, tra le nuvole, e gli occhi / che guardavano sempre più in là: educato, / bravino, ma la matematica è / una cosa precisa e la grammatica, poi, / un rovo attorcigliato al tuo accento caldo / come la pelle abbronzata che pioggia e neve / non potevano schiarire) // Tu olevis capî, tu olevis lâ sù ma / calchi scjalin al vagolave tal vueit… Tre mes di scorsadis e nessun / nol jere restât indaûr dongje di te./ Un mistîr? “Sì, ccerto” e il sium di gnûf al rît:/ pocjis peraulis, tal cantîr, e i tubos / ch’a tirin su plan sore plan ti dan / la strissule di tignî il mont te man: / dilunvie di chê gjeometrie di fiâr / tu giris sigûr, come se ogni bande / s’incjastràs precîse tanche un disèn // Cuilibrist in tun circo, magari, e / tu sarèssis stât bon di svolâ incuintri / a un altri doman (Volevi capire, volevi salire, ma / qualche gradino brancolava nel vuoto…Tre mesi di rincorse, e nessuno / era rimasto indietro, vicino a te / Un mestiere? “Sì, certo” e il sogno di nuovo sorride: / poche parole, nel cantiere, e i tubi / che innalzano piano su piano ti danno / l’ebbrezza di tenere il mondo in mano: / lungo quella geometria di ferro / tu giri sicuro, come se ogni lato / s’incastrasse preciso quasi fosse un disegno // Equilibrista in un circo, magari, e / avresti saputo volare incontro / ad un altro domani).Fosse un segno del destino, al secondo posto, dietro alla Di Monte, si è classificato un altro friulano: Fernando Gerometta. Un altro nome che avevamo incontrato nella collana della Piccola Biblioteca di Pordenone. NOTIZIA Gli Autori che desiderano collaborare possono inviare gli articoli ai redattori (max 3 cartelle A/4), le recensioni (max 1 cartella A/4) e le poesie per un massimo di cinque. I lavori devono pervenire esclusivamente in formato Word, entro il 2 febbraio; 2 maggio; 2 ottobre. Si possono inviare indifferentemente ai redattori della rivista qui di seguito segnati: [email protected] - [email protected] [email protected] - [email protected] [email protected] - [email protected] - [email protected] 40 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 41 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Saint-tropez, Colette & company di Fausta Genziana Le Piane a Costa Azzurra fu un’invenzione degli americani. Negli anni Venti del Novecento, prima Cole Porter, musicista di genio, e poi Gerald e Sara Murphy, miliardari con la passione delle arti e degli artisti, fecero quella che qualcuno definì in seguito «la rivoluzione d’estate».Il primo affittò per l’intera stagione del 1921 lo “Château de La Garooupe” a Cap d’Antibes, i secondi convinsero l’anno dopo il manager del locale “Hôtel du Cap” ad aprire solo per loro da giugno a settembre, con una cuoca e una cameriera per le faccende domestiche. Fino ad allora, «nessuno che fosse qualcuno» come scrisse Elsa Maxwell per rendere meglio il senso di quella rivoluzione, «veniva avvistato nel sud della Francia durante luglio e agosto». Il Mediterraneo era ritenuto un mare interno, caldo perché stagnante, e d’estate la villeggiatura degli aristocratici di sangue e di censo, francese e anglosassone, tedesca e russa, si faceva sulle isole del Canale della Manica o sulle coste dell’Atlantico. In “Lasciami l’ultimo valzer”, Zelda Fitzgerald, la moglie bella e pazza dell’autore de “Il Grande Gatsby”, racconta di come sui transatlantici che collegavano gli Stati Uniti all’Europa, i viaggiatori esperti mettessero sull’avviso i novizi riguardo ai pericoli che li attendevano: «I loro bambini avrebbero preso il colera, gli amici sarebbero stati morsicati a morte dalle zanzare francesi, da mangiare avrebbero avuto solo carne di capra e niente ghiaccio nei liquori». Della Costa Azzurra diventerà il compendio Saint-Tropez, con un uso squisitamente francese. È proprio Signac a scoprire questo luogo nel 1892 a bordo del suo yacht, “L’Olympia”. Sedotto dai luoghi, invita nella sua casa che si chiama “La Hune” numerosi pittori tra i quali Henri Matisse, André Derain, Albert Marquet, Pierre Bonnard, Henri-Edmond Cross. Saint-Tropez diventa un 41 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 42 I Fiori del Male luogo all’avanguardia per quanto riguarda la pittura. Signac, Matisse, Dunayer de Segonzac si ritrovavano al bar dell’ “Hôtel Sube”, dove adesso c’è il “Café de Paris”. Poi è stata la volta della regina dell’operetta Mistinguette, dei registi Julien Duvivier e René Clair. È a “La Ponche”, come quartiere, come luogo e come ritrovo, che nel dopoguerra arrivano da Parigi gli «esistenzialisti»: si chiamano Juliette Gréco, Boris Vian, Daniel Gélin, Pierre Brasseur, attori, musicisti, scrittori, cantanti che lo ribattezzano “Saint-Tropez-des- Prés”, lo trovano magico, come scriverà la Gréco, «per bere, ballare, nuotare, dormire al sole e fare l’amore». È di Vian il suggerimento ai genitori di Simone, di aprire un locale notturno adiacente al bar. Il “Club Saint-Germain-des-Prés La Ponche” apre i battenti nel 1949: Boris suona la tromba, Mouloudji la chitarra, il negro americano Don Byas il sassofono, il gitano Pata le batterie. Ci vanno Eluard, Sartre, Picasso, Annabelle Buffet. Negli anni Cinquanta, come ricorda ancora Simone, che della storia del suo albergo è giustamente fiera, tanto da averci scritto sopra un libro (“Hôtel de La Ponche. Un autre regard sur SaintTropez”, Le Cherche Midi Editore), “La Ponche” e con lei Saint-Trop entrano definitivamente nella leggenda. Succede che, più o meno contemporaneamente, il vecchio bar diviene un albergo. La giovanissima Françoise Sagan (“Il sole, la velocità, la festa e l’allegria” questo era il motto di Françoise Sagan che sbarcava ogni estate a Saint-Tropez, scortata da Jacques Chazot, Juliette Greco e da tutta la sua banda per vivere la dolce vita del posto) si ritrova scrittrice di successo, Roger Vadim gira proprio a «la punta» “Et Dieu créa la femme”, il film che fa di Brigitte Bardot la nuova divinità da adorare, quella stessa Brigitte che pochi anni prima, ancora ragazzina, «veniva al mattino presto, con i genitori, a divorare le tartine di pane abbrustolito di mia madre”. “La Ponche”, l’albergo, è rimasto più o meno lo stesso, pur se Simone lo ha ammodernato e ingrandito, diciotto camere al posto delle otto che lo tennero a battesimo. Alle pareti adesso ci sono i bei quadri di Jacques Cordier, il marito pittore morto troppo giovane in un incidente di macchina, e dalla finestra della camera 19, quella di Françoise Sagan, vedi la stessa piccola spiaggia di mezzo secolo fa, e «lo stesso mare, lo stesso blu, lo stesso rosa, la stessa felicità» che vedeva lei, prima che la vita le presentasse il conto. Nell’agosto del 1926, Colette (Sidonie Gabrielle Colette, 1873-1954) compra vicino a SaintTropez una piccola proprietà di due ettari divisa tra vigna, un bosco di pini, un orto di aranci e un giardino dove troneggia una casetta provenzale molto modesta ben presto battezzata “La Treille Muscate” in virtù della presenza di una vigna di vino moscato “la cui pancia tesa riflette in blu il giorno” e si 42 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 43 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte ostina a coprire il pozzo “con il suo nome ed i suoi tralci“. Colette vi soggiornerà almeno tre mesi fino al 1938: “È stato necessario che, per trovarla, io mi distaccassi dal porticciolo mediterraneo, dalle imbarcazioni per la pesca del tonno, dalle case piatte, dipinte, rosa confetto sbiadito, blu lavanda, verde tiglio, dalle strade dove aleggia l’odore del melone sventrato, del croccante e dei ricci. L’ho trovata sul bordo di una strada temuta dagli automobilisti e dietro il più banale cancello – ma questo cancello è soffocato dagli oleandri, premurosi nel tendere al passante, tra le sbarre, mazzi incipriati di polvere provenzale, bianca come la farina, più fine del polline… Due ettari, vigna, aranceti, alberi di fichi dai frutti verdi, alberi di fichi dai frutti neri; quando avrò detto che l’aglio, il peperoncino e la melanzana riempiono, tra i ceppi, i solchi della vigna, non avrò detto tutto?” (Prisons et Paradis, 1932, traduzione di Fausta Genziana Le Piane). Il suo stabilirsi in Provenza è simbolicamente diverso da tutti gli altri suoi spostamenti: riannoda qui le radici paterne e si confronta anche con un aspetto fino ad ora inesplorato delle proprie origini; non dimentichiamo che il padre era originario di Tolone. È piena di ardore nell’installare la sua “provincia” meridionale, fa costruire una veranda sotto la quale potrà dormire d’estate e si occupa alacremente di abbellire il giardino. Lo rimodella stupendo il giardiniere Etienne più abituato alle bordure di aiole parallele come “griglia per cotolette” e lo consacra volontariamente all’incanto della curva per ottenere “un giardino dove si può raccogliere tutto, mangiare tutto, lasciare tutto e riprendere tutto” Qui invita i suoi amici – il “clan cannebier” -, Francis Carco, Joseph Kessel, Paul Géraldy, che Colette inizia alla degustazione del tè verde, l’attrice Simone Berriau e soprattutto molti pittori Luc-Albert Moreau, André Dunoyer de Ségonzac. POLLO ALLA GRIGLIA DE LA TREILLE MUSCATE “Frutta, legumi, pesce e ogni tanto la metà di un giovane pollo delicatamente innaffiato di olio e grigliato all’aria su braci di finocchio e rosmarino…” (C.A.A. BILLY, Intimités littéraires, 1932) Spaccate due polli da 1,5 kg. Mettete le 4 metà salate e pepate a marinare in un generoso bagno d’olio d’oliva aromatizzato con aglio schiacciato, semi di finocchio, rami di rosmarino e succo di un limone. Sopra una griglia, fate una bella brace di legno l’olivo, finocchio e rosmarino. Mettete il pollo sulla griglia. Non abbandonatelo; rigiratelo e spennellatelo regolarmente, evitando che la brace s’infiammi. Lasciatelo grigliare per 30 minuti. Per accompagnare il pollo, approfittate della brace profumata per grigliare alcuni pomodori succosi dopo averli salati e pepati. 43 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 44 I Fiori del Male Giustino L. Ferri (1856-1913) Giustino Ferri “La Camminante” di Francesco De Napoli ’anno 2013 ha visto la ristampa, quasi in contemporanea, delle due diverse edizioni del romanzo, divenuto ormai introvabile, “La Camminante” di Giustino L. Ferri nel Centenario della morte (Picinisco, 23 marzo 1856 – Roma, 13 maggio 1913), il grande scrittore ciociaro frequentatore dei maggiori cenacoli letterari dell’epoca ed amico di personalità quali Luigi Capuana, Gabriele D’Annunzio e Luigi Pirandello. Le due ristampe in questione sono: la prima, edita da Eva Edizioni di Venafro (2013, pag. 336) a cura di Gerardo Vacana, che riproduce l’edizione originale della “Nuova Antologia” (Roma, 1908, pag. 355); la seconda, edita da Arbor Sapientiae di Roma (2013, pag. 355) a cura di Floriana Giannetti, che riprende l’edizione di “Apollon” (Roma, 1944, pag. 350). La duplice riedizione - troppa grazia, Sant’Antonio! - è stata accompagnata, per la verità, da qualche polemica, in quanto l’edizione postuma di Apollon 1944 è notoriamente considerata alquanto “rimaneggiata”, ovvero alterata, rispetto all’originale voluto dall’autore. Il volume curato da F. Giannetti presenta, in effetti, il piccolo “neo” di non aver adeguatamente puntualizzato i ritocchi e le varianti dell’edizione a cui ha attinto. In ogni caso, è da ritenere che entrambe le pubblicazioni possano essere utili ai fini d’un esame comparato, onde evidenziare le tipologie e le motivazioni delle “modifiche” apportate da Apollon. Le due edizioni – Eva, come Arbor Sapientiae – risultano essere, del resto, in tirature estremamente limitate, quindi ad esclusivo uso di studiosi e addetti ai lavori, i quali si presume siano già a conoscenza dell’arbitrario lavoro di scrematura operato da Apollon ai danni del testo originale. Per quanto tuttora ignorato sia dalla critica che dai lettori, il romanzo “La Camminante” di Giustino Ferri si presenta come un autentico capolavoro della letteratura italiana dei primi del Novecento, straordinariamente complesso e ricco di spunti stilistici, contenutistici ed esegetici. La vicenda si svolge nell’anno 1905 alle Ramogne, dimora della famiglia Bartoli nei dintorni di Avignano, un borgo senza connotazioni geografiche precise, uno dei tanti della Ciociaria ai confini con l’Abruzzo. È l’oscura ed ibrida zona franca posta tra il dissolto Stato Pontificio e le propaggini settentrionali dell’ex-Regno delle Due Sicilie. Protagonista del romanzo è - almeno fino a quando non compare 44 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 45 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte sulla scena una misteriosa sconosciuta, detta la Camminante - Andrea Bartoli, sfiorito rampollo quarantacinquenne d’una decaduta aristocrazia di provincia, ormai fusa, e confusa, sul piano economico, con l’emergente piccola e media borghesia rurale. Andrea è uno scrittore idealista, non molto affermato ma abbastanza colto e sensibile. Egli possiede una personalità fragile, tanto da essere intimamente combattuto persino riguardo alle proprie capacità letterarie. Appartiene ad una famiglia che, nel difendere con orgoglio l’antico blasone, negli anni della formazione dell’unità d’Italia aveva mantenuto un atteggiamento defilato, simpatizzando - senza scoprirsi troppo - per Garibaldi e, forse, per i Savoia, contro il potere temporale della Chiesa. Il suo amico più caro ed unico confidente è don Angelo Castelloni, un “vecchio e scomunicato garibaldino” che, proprio in apertura del romanzo, racconta ad Andrea le drammatiche peripezie capitate ad un drappello di garibaldini dispersi nei territori papalini, subito dopo lo scioglimento dei Mille a seguito dell’incontro di Teano. Giustino Ferri è molto bravo nel non calcare troppo la mano su spiegazioni superflue. Del resto, ciò che accadde realmente a quel tempo nessuno lo sa, ed ogni episodio fu un caso a sé. Da quanto è dato arguire, la famiglia Bartoli dovette, allora, farsi da parte ed assistere impotente, dopo l’unificazione dell’Italia, al ritorno al potere della “reazione fatta passare per rivoluzione”.Alla restaurazione, concretizzatasi nell’apparente “normalizzazione” dei rapporti tra Regno d’Italia e Papato, era seguita nel Centro-Sud, strisciante ma feroce, la caccia ai miscredenti “rivoluzionari” ritenuti responsabili della fine del Regno dei Borboni e dello stesso Stato Pontificio, mentre contadini bramosi di ricchezza, mercanti e strozzini ordivano nell’ombra fingendo d’ossequiare - in realtà osteggiando - gli antichi “signori”, al solo scopo di sostituirsi ad essi. Così, alla famiglia di Andrea, travolta da una crisi economica su cui gravava il peso degli interessi usurai, non restò che aggrapparsi al suo glorioso passato, senza rendersi conto che proprio quella svuotata aura di nobiltà risibile perché decaduta - era perfettamente congeniale a favorire il subdolo ricambio, il passaggio delle consegne ad altre classi sociali. Con un azzardo interpretativo, potremmo convenire che la vicenda de La Camminante rappresenta, benché scritta circa mezzo secolo prima, il seguito de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ovvero ne costituisce una delle possibili varianti tematiche, fatte salve le difformità stilistiche e di ambientazione: il “clima” che vi si respira è quello, identico, d’una aristocrazia in disgrazia sconfitta dalla storia, alla periferia dell’impero. Non sarebbe neppure errato affermare che l’opera rientra, in tutto o in parte, nei canoni individuati da György Lukács in Teoria del romanzo (1920) e, successivamente, ne Il 45 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 46 I Fiori del Male romanzo storico (1937), laddove lo studioso ungherese aveva definito il romanzo “la forma dell’avventura, del valore proprio dell’interiorità; il suo contenuto è la storia dell’anima, che qui imprende ad autoconoscersi, che delle avventure va in cerca, per trovare, in esse verificandosi, la propria essenzialità”.Pur essendo Andrea il protagonista indubbiamente “passivo” della narrazione, egli si configura, con la sua personalità travagliata - contrassegnata da fin troppo inspiegabili esitazioni -, in un rapporto con l’ambiente circostante assolutamente conflittuale e diverso rispetto all’ideale dell’eroe classico o romantico che la tradizione aveva trasmesso per tutto l’Ottocento, fino al tempo in cui operò Ferri. Nello stesso tempo, il ritratto che di lui dipinge Giustino Ferri appare abbastanza lontano dal ruolo e dal concetto di scrittore (e di scrittura) dominante negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Andrea è, infatti, intellettualmente ben addentrato nelle problematiche letterarie dell’epoca - dalle quali tuttavia si discosta -, quando il naturalismo di Zola e di Maupassant, in Italia appena attenuato dal verismo di Capuana e Verga, la faceva da padrone, scadendo non di rado nel gusto acido e cupo del patologico-fisiologico. Rispecchiandosi in Andrea, Ferri probabilmente s’era sforzato di munire il suo personaggio degli opportuni anticorpi,ossia degli strumenti critici utili per una sana “autoconoscenza” - come la definirà Lukács qualche decennio dopo -, ovvero di quelle nozioni che avrebbero potuto consentirgli di superare le sabbie mobili d’una visione a senso unico (soltanto idealistica, oppure soltanto meccanicistica) della letteratura, come invece si verificava nel panorama letterario del tempo, con le correnti del naturalismo/verismo e del crepuscolarismo/decadentismo che s’andavano intrecciando e accapigliando senza requie, l’una con/tro l’altra. Paola, la misteriosa Camminante risvegliatasi da una lunga perdita di conoscenza dopo che, malata e febbricitante, era stata soccorsa e curata da Andrea e da sua sorella Bettina, rimane ospite nel palazzo della famiglia Bartoli. Ancora convalescente, dopo aver appreso da Andrea della sua attività letteraria, gli chiede di poter leggere qualche sua opera. Dinanzi a tale richiesta, egli rimane come sempre pensieroso e titubante. Paola è una potenziale lettrice – una popolana, per giunta -, sicché le sue perplessità di scrittore riguardano proprio la sua capacità di arrivare al pubblico: “Tutti i suoi volumi erano studi tristi, vivisezioni dell’anima contemporanea: offrirle a una donna ammalata non solo nel corpo, ma forse anche e più gravemente nello spirito uno di quei saggi sanguinanti di anatomia morale poteva nuocere a lei, se la verità era raggiunta, o a lui, se piuttosto, come egli credea, tutto quel pathos letterario doveva impallidire al confronto di una vera sventura. 46 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 47 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Il suo romanzo meno aspro alla infelicità umana era il Libro di Moloch e lo avevano giudicato scandaloso per l’audacia di certe pitture…”È uno dei passaggi che dimostrano come l’“individualità” di Andrea si presenti, a dispetto di altre melliflue velleità, intellettualmente lucida ma “disorganica” alla storia e al periodo storico che gli è dato attraversare: contingenze che egli interpreta in maniera dialetticamente in/compiuta, benché tremendamente significativa. Gli opprimenti “monologhi interiori” di Andrea – che si presentano come flussi di coscienza (diretti o indiretti) - lasciano sì intravedere delle possibili soluzioni (o vie di fuga), ma queste vengono valutate come prese di posizione troppo impegnative, se non irrealizzabili, per un intellettuale di provincia (forse lo stesso Ferri, autore del libro), che, nonostante tutto, giudica se stesso un modesto romanziere dai mezzi limitati, non un critico navigato né un filosofo. Il romanzo abbraccia problematiche molteplici, a cominciare dalle contraddizioni d’un’epoca di trapasso - colta in un determinato momento del suo divenire -, trasferite nella figura d’un uomo di cultura in possesso di caratteristiche assai particolari, che si direbbero confezionate su misura per lui. Anche la scelta degli altri personaggi obbedisce ad esigenze precise: per questo, è lecito dedurre che Ferri intese rappresentare, consapevolmente o no in una a posteriori prospettiva gramsciana -, quella che sarebbe dovuta essere e, almeno fino ad oggi non è stata, la funzione dell’intellettuale all’interno della società. Andrea è sì figlio d’una “baronessa”, ma trattasi d’un tipo di nobiltà decaduta, falcidiata dalle speculazioni e dallo strozzinaggio delle classi arrembanti, tant’è che, per consentirgli di proseguire gli studi fino al conseguimento della laurea, s’era reso necessario vendere l’argenteria di famiglia. Ma a ben vedere, lo stile di vita che egli conduce non è molto dissimile da quello dei cafoni di Ramogne. Il contesto economico-sociale in cui è calato è sostanzialmente povero, la sua stessa famiglia appare sobria e modesta, come dimostra la gravità conferita all’episodio - in effetti, di poco conto - del furto delle pere nel giardino della villa. Andrea si aggira tra i suoi compaesani con fare dimesso, e non solo per via d’una certa accidia di cui è ben consapevole, un “ozio larvato” misto a ipersensibilità spirituale, il che lo rende caratterialmente remissivo e taciturno. A Paola che lo insignisce del titolo di “professore”, così risponde: “Vuol farmi una vera gentilezza? Non mi chiami più professore: l’ho così poco meritato! Chi mi dà questo titolo di cortesia, mi dà anche ragione sulla inutilità del mio mestiere. Questo mestiere, vede, non ha titolo, perché non risponde a nessuna funzione necessaria alla vita sociale.”Il fatto di condurre un’esistenza proba e misurata, pur coltivando senza ripensamenti la propria 47 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 48 I Fiori del Male vocazione letteraria, ha reso Andrea particolarmente attento alla dimensione umana – insieme, psicologica e sociale – dell’esistenza. E dentro i suoi amletici ed irrisolti tentennamenti, ci pare di ritrovare avvinghiato - in toto Giustino Ferri. Lo Scrittore di Picinisco fa dire a don Angelo Castelloni: “Moralità o immoralità (…): a questo mondo nulla di assoluto”. È lampante come Ferri abbia proiettato nella figura di Andrea il proprio intimo dibattersi, lo strenuo confrontarsi con opposte concezioni della vita e della letteratura. A livello intellettuale - con lucida capacità intuitiva -, egli sembra perseguire (e/o prefigurare) le istanze specifiche del romanzo storico, come già Alessandro Manzoni ne I promessi sposi: far coincidere circostanze particolari ed oggettive - reputate inessenziali e transeunti - con situazioni di più ampio respiro e cariche di significati paradigmatici, onde trasformare l’intero contesto in modelli assoluti, pregni d’insegnamenti anche morali. Tuttavia, la forma mentis ed il bagaglio culturale - per quanto ricco ed ampio - erano quelli del suo tempo. La sua stessa biografia parla chiaro: Giustino Ferri fu amico di Capuana, ma anche di D’Annunzio e di Pirandello; fu vicino alla Scapigliatura come pure al Verismo e al Decadentismo. Grazie a cotante frequentazioni, ebbe la capacità d’estrinsecare, rendendole meno latenti pur senza risolverle artisticamente, le proprie contraddizioni di scrittore. Ad un certo punto, e con i limiti dovuti al fatto di non aver potuto sciogliere quei nodi, egli si decise per la scelta più saggia: far leva sull’indistinto rapporto uomo/mondo, convinto d’aver trovato, a ragione, il suo uovo di Colombo. Andrea è, dunque, un personaggio dalla “disordinata e vagabonda cultura di cui egli soltanto sapeva tutte le incredibili lacune”. È una figura che attrae, ci giunge interessante e convincente perché simboleggia, riproducendoli in maniera quasi perfetta, le medesime antinomie dell’autore del romanzo, che poi, su più vasta scala, erano quelle degli inizi del XX Secolo. Dubbi, incertezze, ripensamenti che il binomio Giustino/Andrea così confessa: “Aveva tanto dubitato e dubitava sempre tanto di sé e delle sue forze che non aveva osato misurarsi con quei temi semplici e immensi che racchiudono in un piccolo nucleo le realtà analitiche della vita quotidiana e la verità sintetica dell’idea che domina le circostanze. Sogni di ragazzo ambizioso che facevano tristemente sorridere l’uomo arrivato alla maturità; ma quella sarebbe stata la via! Altro che le stentate e timide teorie delle relazioni fatali fra l’ambiente storico e l’arte! L’opera dell’artista vero e grande è più alta e più larga dalle condizioni empiriche; perciò sopravvive alle fasi della civiltà che la vide nascere.” Come si vede, la ricognizione oscilla, alquanto scientemente, tra ricerca della totalità e autocompiacimento soggettivo e psicologico, con talu- 48 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 49 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte ne locuzioni ed espressioni che combaciano incredibilmente con il noto linguaggio degli scritti (ancora di là da venire) di Lukács. Gerardo Vacana, in un saggio esemplare dedicato a Giustino Ferri, scrisse che questi “non si lasciò imprigionare dentro i confini di un movimento o di una scuola. Fu un eclettico per vocazione e per convinzione” (da “Giustino Ferri: giornalista e scrittore”, Centro Studi Letterari “Val Comino”, Alvito, 1997). Aggiungerei che Ferri fu un eclettico soprattutto per necessità, ovvero per limitazioni contingenti ed obbiettive. Pur non lasciandosi ingabbiare, non gli riuscì di districarsi a dovere; nondimeno, seppe trarne vantaggio per la propria arte - se vogliamo, genialmente -, prendendo spunto da una tale condizione di disagio e di stallo. I riferimenti autobiografici divengono scoperti quando Andrea (come Giustino, laureato in giurisprudenza), affetto da insonnia, in uno dei suoi frequenti “dormiveglia tormentosi” rievoca gli anni romani dell’università trascorsi, specie nelle ore notturne, “nella seconda e terza sala del Caffè Aragno” (il Caffè Bussi di Ferri), tra donne eleganti, “merletti e intimità fragranti, pellicce e passeggiate in carrozza”. In una sorta di lucido delirio, Andrea ripercorre le avventure vissute nel corso della giovinezza - da Firenze a Budapest a Monaco di Baviera -, esperienze talmente effimere che i volti di quelle signore ora si confondono nella sua mente. In Andrea, pericolosamente in bilico “alla soglia del mondo subliminale”, il raffronto tra quelle allegre donnine e l’immagine - affascinante perché impenetrabile - di Paola si fa sempre più incalzante, dirompente. La Camminante viene idealizzata, trasfigurata “in una impura e demoniaca sacerdotessa di eresie nefande”. Andrea s’addentra nei meandri libidinosi ma virtuali del sogno allucinatorio, e comincia a “vivere nel cuore dell’irrealtà”, come ebbe a scrivere Walter Benjamin di Charles Baudelaire. Nel frattempo, la notizia della sconosciuta aveva fatto “scandalo” e s’era sparsa per le vallate ed i paesi circostanti. Paola non era altro che una miserabile intrusa osteggiata da tutti - specie dai villani -, “solidali contro la povera donna che non si sapeva chi fosse”. La narrazione alterna, a periodi intensi e profondi momenti d’una certa inconsistenza nelle descrizioni e nei dialoghi - a volte banali ed enfatici, anche perché datati -, rasentando stereotipi da feuilleton (in effetti, La Camminante uscì a puntate, in prima edizione, sulla “Nuova Antologia”, nel 1908), ma s’avvale comunque di credibili colpi di scena che contribuiscono a creare un crescente clima d’attesa, mantenendo viva l’attenzione del lettore. Alla vicenda principale se ne intrecciano altre, tra cui quella di Ascensa, la “serva” (così ripetutamente etichettata) di casa Bartoli. Costei è accusata da Bettina di negligenza nelle faccende domestiche, a causa del suo feeling, neanche tanto segreto, con un carabiniere. 49 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 50 I Fiori del Male Minacciata di licenziamento, la cameriera confessa la verità: il Governo è sulle tracce d’una donna, “una di quelle che fanno la rivoluzione”, la quale s’aggirerebbe per quelle contrade. Credendo d’aver individuato la rivoltosa nella Camminante, le autorità hanno imposto al carabiniere di raccogliere tutte le informazioni necessarie, tramite la fidanzata Ascensa - divenuta confidente -, sul conto di Paola. Si scoprirà più tardi che non è Paola la “rivoluzionaria” cercata dalla polizia, anche se mai conosceremo la vera identità della Camminante. Ciò rappresenta, a ben vedere, un punto di forza del romanzo: se fosse dato venirne a capo, l’intera trama perderebbe il fascino enigmatico su cui poggia l’attendibilità del ruolo - altrimenti assolutamente scialbo - svolto dagli altri personaggi, con i loro squallidi sospetti e frustrazioni. Ferri stabilisce, tra se stesso ed i protagonisti della vicenda, un colloquio costante che è, al tempo stesso, una sorta di “gioco” e di curiosa “complicità”, non nel cercare semplicemente di scoprire chi sia e da dove venga l’indecifrabile donna di strada. È plausibile ritenere che, fino all’ultimo, Ferri fosse indeciso su quale svolta imprimere alla trama e se svelare o meno l’identità della fuggitiva: è un dato che si desume, tra l’altro, dall’impennata finale del romanzo, che si esaurisce nel giro di poche pagine rispetto alla lunga preparazione iniziale. Sta di fatto che la Camminante, sin dal suo ritrovamento alle Ramogne, più morta che viva nel suo stato d’incoscienza, e specie dopo la sua guarigione, catalizza su di sé l’attenzione d’un ambiente indolente e infido, fermo da secoli in una condizione di malsano letargo. Dotata “più d’ingegno, forse, che di cultura”, Paola diviene la vera dominatrice della scena, con la sua sensibilità inusuale, capace d’esprimere in maniera aggraziata giudizi controcorrente, netti e taglienti: “La pietà è un inganno per i disgraziati”. Ferri ne tratteggia a più riprese i caratteri:“L’originalità del temperamento di Paola balzava dalle sue espressioni vaghe, intime, profonde. Tanto più profonde quanto più vaghe.” Ogni cosa ella osservava e tutto confidava, tranne che i “fatti della sua vita”, sui quali aleggiava come un’eco, uno “strascico morale (…) impresso nella sua intelligenza” che rendeva le sue parole “orlate di nero”. Non sappiamo se, deliberatamente o meno, l’autore si proponesse di smuovere in qualche modo lo stagnante perbenismo delle coscienze - ci riferiamo ai lettori del romanzo -, suscitando interrogativi più “alti”. Esistono, infatti, nel romanzo sottilissime motivazioni di natura - direi - figurata ed allegorica. Paola, la Camminante, è la “Storia” che s’insinua tacitamente – anzi, viene letteralmente “trasportata” - nei piccoli eventi della quotidianità, è la “Storia” che “passa” – indugiando sonnolenta o sorniona –, senza mai fermarsi. È la “Storia” malata che, per poter curare, ha bisogno 50 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 51 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte d’essere curata. È la “Storia” che tutto avvolge con il suo vorticoso mantello, su ciascuno imponendo le sue leggi. È la “Storia” con le sue ferite di donna soggetta alle barbare prevaricazioni degli uomini. È la “Storia” che non impone dogmi e non pretende attenzione, perché essa si realizza autonomamente, con il suo incessante divenire. È la “Storia” al cui passaggio nulla più resterà come prima, anche se - e proprio perché - gli uomini s’illuderanno che il loro piccolo mondo ne sia rimasto indenne. È, infine, la “Storia” in carne ed ossa, perché la Storia, quella vera, siamo tutti noi. Un evento accidentale - una bufera notturna, di quelle usuali tra i monti d’Abruzzo - fa sì che tra Andrea e Paola scocchi la scintilla tenuta soffocata: l’uomo s’accorge d’amare - da lei ricambiato - quella forestiera vagabonda, che sembra correre “leggera sulla cresta delle colline”. La rivelazione, anziché far sbocciare una felice storia d’amore, porrà gli “amanti” di fronte ad ulteriori difficoltà, secondo la migliore tradizione del romanzo d’appendice. Le ossessioni notturne di Andrea diverranno incubi: la presenza scomoda e scandalosa della Camminante, ai suoi occhi di velleitario scrittore meschinamente irresoluto - per il quale, in effetti, conta più la letteratura che la vita reale -, gli impone ora una chiara presa di posizione. Paola non è più una semplice “ospite” della casa, non è neppure la ragazza cordiale con cui intrattenersi per conversare di letteratura. È divenuta la sua amante, donna attraente e sensuale che assume, di volta in volta, le fattezze più strane: Menade, Furia, Erinni… Andrea si sente un Edipo impotente, incapace di prendere una qualsiasi decisione: sposare Paola trattenendola alle Ramogne, fuggire con lei o, infine, respingerla? Sulla sua scelta incombe tra l’altro, come una minacciosa spada di Damocle, la presenza della sorella Bettina, che nutre nei confronti di Paola un ambivalente atteggiamento oscillante tra pietà e rivalità. Di Andrea s’impadronisce un’angoscia malsana - ingiustificata per chi ama davvero, sapendo oltretutto d’essere riamato -, che lo rende, come lui stesso riconosce, “sciocco e maligno per paura di far l’ingenuo”. Più che il “darwinismo sociale” di Capuana e Verga e il “narcisismo estetico” di D’Annunzio, è possibile riscontrare in Giustino Ferri spunti diversi e notevoli, degni di autori come Ippolito Nievo, Federico De Roberto, Federico Tozzi e, forse, Italo Svevo, che spaziano dalla dimensione privata a quella pubblica e collettiva. C’è, soprattutto, una certa affinità con Alfredo Oriani, lodato da Antonio Gramsci per la volontà, sottaciuta e immediata, d’evidenziare l’arretratezza e i ritardi della classe egemone italiana, sempre capace di rigenerare se stessa per mantenere inalterati gli antichi privilegi di casta, da allargare ai gruppi sociali emergenti che è impossibile contrastare. In Ferri “cova- 51 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:09 Pagina 52 I Fiori del Male no”, gramscianamente, gli insegnamenti che già il cassinate Antonio Labriola andava teorizzando da qualche decennio. L’attenzione dello scrittore della Val Comino è rivolto, in sostanza, al ceto intellettuale, che avrebbe il compito di “guidare” le classi lavoratrici e popolari. Epperò, Ferri si rende conto, in una sfuggente e traumatica consapevolezza - sfuggente perché traumatica, e viceversa - che tale auspicata affinità non esiste, non c’è alcuna corrispondenza tra intellettuali e popolo. L’intellettuale e scrittore Andrea, a causa della sua “fanciullaggine” che poggia grottescamente sull’“automatismo del mestiere”, non sarà in grado di conquistare, di fermare la Camminante, la Storia. Infine, egli trarrà consiglio dall’impenetrabile don Angelo, e neanche per propria iniziativa ma su suggerimento della sorella Bettina. Dal “grande vecchio” garibaldino, ripiegato ormai su se stesso e sui propri ricordi - del quale Andrea sembra destinato a seguire l’esempio - gli giungerà l’input definitivo per scrivere l’ennesimo romanzo, invero già mille volte abbozzato, dedicato a Paola. Andrea continuerà ad inseguire - consapevolmente e senza più illusioni - il patetico “bizzarro parallelismo” tra esistenza reale e romanzo, mai destinati ad incontrarsi. 52 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 53 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte di Ninnj Di Stefano Busà n discorso sulla Poesia torna opportuno oggi più che mai...visto che la stessa si muove incerta per difficili sentieri, impedita da lassismi libertari e fuorvianti, mode e linguaggi sconclusionati, culture e capricci della moda votati a portare avanti la parte più deteriore e rivoluzionaria del prodotto linguistico, quella che risente di forme più o meno imbarbarite o troppo progressiste: come informatica, rampe satellitari, video games, che distolgono l’attenzione dalla poesia, divenuta obsoleta e fuori tempo. Questa mia nota, altro non è che una proposta, un invito a pensare, a discutere, a promuovere iniziative atte a diffondere la Poesia e portarla tra i giovani: la poesia può appartenere a chiunque la ami. L’evoluzione delle forme poetiche nella storia della cultura è stata continua e costante. Anche nei periodi bui di stagnazione e di regressione o in altri di avanguardia o di pseudoavanguardismo estremo, di rinnovamento forzato, quasi traumatico perché sotto dettatura di impellenti bisogni scardinatori della lingua, ha mantenuto (per fortuna) alcune categorie universalizzanti che fanno della parola poetica una realtà necessaria, non del tutto superflua per l’uomo e la sua specie. Oggi il mondo dell’arte subisce i contraccolpi di quasi due secoli di rivoluzioni e controrivoluzioni ed è travagliato e stritolato dalla pretesa del tutto moderna di un giovanilismo rinnovatore quanto anarcoide che scambia l’arte col capriccio e l’arbitrio, la libertà di scelta e d’ispirazione nel momento creativo, con una sorta di soggettivismo-individuale impazzito, di relativismo assolutizzato, quanto esasperato, che rifiuta non solo ogni canone esterno, ma anche ogni più elementare regola derivante da un fondamentale sentire estetico, che viene non solo negato, ma forzato, ripudiato e violentato da mode più libertarie. Diciamolo, subito, che non esistono due linguaggi: uno per la Poesia surreale, magico, ermetico, inaccessibile ai molti, e uno feriale, per i comuni mortali. La poesia può vibrare ovunque in maniera del tutto naturale, anche nelle lasse di un’espressione lontana dalla ipertrofia delle metafore o dalle ambiguità emergenti dall’inconscio, dagli assurdi e dagli arbitrii delle avanguardie ad ogni costo. E “per ogni costo” s’intenda anche quello di inquinare il linguaggio, impoverirlo e strumentalizzarlo in modo 53 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 54 I Fiori del Male deleterio e anarcoide. D’altra parte bisogna riconoscere che il linguaggio comune non è certo meno efficace di quello colto, o immaginifico, che anzi il suo fondo realistico-logico, sentimentale può essere ben compreso, ma notevolmente più apprezzato, ammettiamolo, sarà il linguaggio ricco di ambivalenze, di metafore, di tensioni allusive proprie di una discorsività che ha varianti emozionali ricercate e volutamente sensazionali. È necessario avvertire chi mi legge che la nostra epoca è dominata dalla pianificazione, dagli orologi, dai computers, dalle costrizioni collettive, dai network, dai condizionamenti psicologici, dai modi ambigui, dalle persuasioni occulte e, pertanto, la Poesia non può porsi in funzione di antidoto e di corroborante della personalità, nello stesso tempo in cui esprime lo sdegno per un mondo nel quale l’industria e la tecnologia hanno fatto il loro guasto, riducendo l’uomo a realtà “minima”, a manovratore di pulsanti, a robot senz’anima né coscienza, registratore meccanico di impulsi e pulsioni interni ed esterni, frammenti ormai di un “essere” decapitato e privato dalla dignità di pensiero e di coscienza. Si devono altresì tener presenti le condizioni nelle quali la poesia si è trovata ad operare, all’interno della realtà sociale creata dall’industria e dalla massificazione intellettuale della cultura, che ha livellato gli strati meno abbienti dell’intellettualità, riducendoli a meri contenitori privati di pensiero. L’industrializzazione ha finito per colpire e dissolvere le strutture, i canoni, gli schemi e le categorie estetiche di un sapere logico, massificandone gli strati di una società in sviluppo che non si è trovata alla pari con l’evoluzione dei tempi tecnologici. Così mentre le forme storiche della vita pratica, politica, economica tendevano alla pluralizzazione di codici diversificati, la cultura artistica (soprattutto poetica) s’incamminava verso un destino nebuloso e asfittico. La comunicazione si orientava ad una sorta di omogeneizzazione o omologazione monodica, in netto contrasto con la varietà dei canoni estetici, delle forme poetiche e dei generi letterari che s’ispirarono ad un modulo linguistico meno sofisticato, più totalizzante e massificato, fondato quasi esclusivamente sull’informazione nuda e cruda, in contrasto con gli elementi pedagogici che avevano costituito i poli della comunicazione del passato. La comunicazione di oggi appare un modello standardizzato con una fondamentale tendenza a tradurre in evasione pura e in libertà arbitraria quello che prima era la comunicazione, il linguaggio tra le genti. Inoltre si deve denunciare il divorzio che nel frattempo si è andato consumando tra Poesia e Scuola. Tale divorzio ha provocato un lassismo linguistico, una sproporzionata condizione di arbitrio lessicale e di costumi, un allontanamento dal “bel parlare”. La proposta della letteratura finisce col percorrere un sentiero ste- 54 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 55 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte rile, inadeguato e non in linea con le esigenze spirituali dell’individuo che, nel suo dispiegamento anarcoide, rifiuta volentieri la domanda culturale (in particolare la Poesia) per intraprendere sentieri tortuosi di un linguismo più depauperato, banalizzato e frustrato che non dà nulla in termini di elevazione culturale. Questo -consuntivo- oggi non ha la pretesa di essere “il vangelo”. Si presenta con l’intraprendenza e il rischio di un tentativo di storicizzare la produzione meritevole di essere trasferita alla pagina della Storia della Letteratura, sintetizzare, (magari in modo opinabile) un referente storico che intende essere un censimento dei poeti dell’ultimo ventennio, una sperimentazione “in limine” una sorta di indicazione che pone il fattore lirico a livelli di Storia e di percorsi epocali, includendo le varianti, gl’innegabili riferimenti sul piano ricostruttivo delle neoavanguardie linguistiche fino ai ns. giorni. Nell’introduzione di questo copioso documento storico ho avuto l’opportunità di proporre e indicare alcune tra le massime espressioni dell’oggetto poetico, e questa mi appare una generosa offerta di quanto la realtà del momento può disporre. 55 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 56 I Fiori del Male A chi il Nobel? Cerchiamo di capire… di Franco Mosino o Statuto del Premio Nobel per la letteratura, al paragrafo 2, afferma che gli scrittori di saggi sono ammessi come candidati, se presentati da un docente universitario o da una accademia importante. Però dal 1901 fino a oggi questa norma è stata rispettata soltanto due volte, quando furono premiati Mommsen (1902) e Bergson (1926)… Perché ? Come mai ? Lo Statuto parla chiaro, ma l’Accademia svedese di Stoccolma lo viola sempre, dico sempre. E ciò è un fatto di rilevante gravità sotto il profilo giuridico e morale. Gli Svedesi si devono ricordare di essere un popolo germanico, e, quando dico germanico, mi riferisco a Kant, che affermava: dentro di me la legge morale, sopra di me il cielo stellato! Pertanto invitiamo l’Accademia Svedese al rispetto dello Statuto… 56 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 57 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte IL MITO DEI BESTSELLER E LA CRISI DELLA LETTURa di Antonio Coppola i possono ancora fare previsioni nel campo della comunicazione del libro e contro l’insofferenza alla lettura divenuta sistemica in un contesto come quello del mercato editoriale preso da calcoli di profitto che vanno a minare il già minato emporio librario? In una lettera aperta agli editori, Antonio Scurati parla di “collasso bulimico” (cfr: Tutto libri,4 gennaio 2014) quello che sta investendo tutto il mercato dei libri. Non si può andare avanti cosi con editori piragna (medi, piccoli e piccolissimi) che hanno interesse di fare circolare una sproporzionata quantità di libri da intasare le presse dei maceri. Basta entrare in qualsiasi libreria per venire spostati dall’onda d’urto di centinaia di scaffali: un’imponente macelleria dove c’è di tutto, dalle interiora ai diverticoli sviscerati dai coltelli di Sandokan. Bene, le librerie d’oggi, danno l’impressione di essere, enormi mercati generali dove arriva di tutto, pronto a diventare il più imponente serbatoio di discarica merceologica. Impudenza sistematica dove si pubblica di tutto e si riversano quintali di libri da intasare gli scaffali di volenterosi librai. Nel 2013, secondo i dati ISTAT, gli italiani che leggono un libro all’anno si riducono al 46 % ma questo conta o non conta? Che significato ha infuocare le presse con 60.000 titoli? Insomma siamo ad un orgia ributtante e nessuno ne parla in difesa di questi pochi lettori. Il buco nero assume strada facendo una flessione del 5% nelle copie e del 6,5 per cento nel fatturato complessivo. Si è coscienti o no: cui prodest nascondere del tutto questi dati? Oltre la metà dei tito- 57 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 58 I Fiori del Male li sono prime edizioni ed è comprensibilissimo che gli editori puntano alle novità ossia sulla ciliegina nella torta del best seller più che su long seller. Insomma la fortuna del titolo, quando fa centro, può durare al massimo quattro o cinque settimane dall’uscita nel caso di aver fatto centro come best seller. Questo spermatozoo resiste dentro l’utero della libreria tanto e non di più, poi si costata la morte spontanea commerciale. Non è comprensibile sfornare a getto continuo libri quando i lettori diminuiscono. Le case editrici, piccole, piccolissime, medie o robuste non sanno dare una risposta. Cercatela voi. Noi pensiamo che la maggior parte degli editorini, (si fa per dire) lavorano in buona o cattiva sorte con la esplicita complicità degli autori paganti (sic.) che rosi dal tarlo dell’essere oggi numero tra i numeri sperano di avere lustro e, solo in pochi, si accorgono dell’enorme stupro, perpetrato su di essi. Questo karakiri va avanti da anni, anche con la crisi del mercato che va attestandosi al 9 o 10 %. Bene, siamo oggi pure in una crisi culturale galoppante. Tanto per non scendere troppo in basso sul “pubblicato” possiamo incontrare di tutto nelle librerie in questo enorme “regno dell’indistinto” o anche punto senza arrivo. (Perciò se tutto questo fa parte del pane quotidiano allora si capisce perché la gente non si sfama più, ha perduto l’orientamento, l’ago della bussola va all’impazzata). Un’eruzione di titoli che dilaga e seppellisce i pochi lettori che sopravvivono a questa “abbuffata” Cena di Trimalcione. A latere è in movimento una galassia di più manuali fai da te, auto pubblicazioni, self-publishing, blog, opere online e case editrici di dubbia catalogazione che ora, prima e dopo vivono ancorati e/o alimentati con questa furia scrittoria. Come si può giustificare il diminuito amore per i libri e, di converso, la smania pubblicandi? Gli editor sono sovraccarichi (ci riferiamo agli editori di calibro e, anche, ai meno dotati) che ricevono in media dai 30 ai 40 manoscritti al giorno. Un editore di prim’ordine ascoltato da Roberta Scorranese (cfr: La Lettura, 5.1. 2014) ha esaminato circa mille manoscritti tra italiani e stranieri nel 2013, ne ha indicato appena trenta per la pubblicazione. Lascio a voi immaginare un editor di piccolo calibro cosa gli arriva sulla scrivania. Pochi o è il giusto? Questi sono dati eloquenti, la produzione risulta alterata nella quantità; cosa è lecito proporre per disincentivare i troppi aspiranti autori? C’è bisogno di un freno, una moratoria nell’arrembaggio agli editor, oramai il danno è fatto! Si salvano solo i titoli fortunati, titoli “bomba” -pochissimi davvero- che arrivano alla regalità del best seller, gli altri sono carta straccia da smaltire. Oggi quali misure servono per dire, una volta per tutti agli editori-imprenditori, pubblicate meno e leggeteli i libri da editare per non creare questo grande sacrario di carta inutile dove vengono seppelliti milioni di titoli, depauperando la natura e creando il caos. Quei pochi, isolati lettori, sono l’unica speranza che legge, non forzate la mano benemeriti editori: dum excusare credis, accusas. 58 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 59 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte “Nuda passeggio sulla lastra del cielo” Lo spirito dell’altrove nella poesia di Iole Chessa Olivares di Fausta Genziana Le Piane o spirito dell’altrove è fortemente radicato nella poesia di Iole Chessa Olivares con varie sfaccettature ed illumina la sua visione esistenziale. Soprattutto è il desiderio, l’aspirazione al dopo terreno, all’oltre (titolo anche di una lirica della raccolta In piena sulla conchiglia) dove perdiamo consistenza d’ombra e vive l’amore dell’Eterno, il Seminatore del mondo. È il cosmo, le ignote quinte dell’universo dove brillano stelle e armonie sconosciute agli uomini: “E la vera festa? / Non è qui. (In piena sulla conchiglia,( 2002), Sono quei pochi passi… p. 31). Più lontano è la vera melodia. Ma è anche l’Azzurro”, il sogno, l’ideale cantato da Mallarmé – barlume, lucina, virgola stregata, radice Iole Chessa Olivares viva - che sperde la Poetessa in un laggiù lontano agognato. Irresistibilmente attirata dall’azzurro, Iole Chessa Olivares si sente incapace di raggiungere la perfezione poetica che sogna. Talvolta l’attrazione diventa ossessione. Invano tenta di sottrarsi, ogni fuga è inutile, il richiamo dell’azzurro” resta il più forte: “L’Azzurro trionfa, lo sento che canta / nelle campane, anima, che si fa voce / e più ci spaventa con la sua cruda vittoria, / ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!” (Stéphane Mallarmé, Poesie,(1991), L’Azzurro, pp. 36-37. E non è fuga dalla realtà, bensì desiderio di non provvisorio, di assoluto e di permanenza. Di un senso alla vita che non naufraghi: “Intatto sul lago solitario / ancora una volta t’inoltri / complice il sogno / e anche se il corpo a corpo / con l’attimo apre all’imboscata, / io dallo schianto ti riparo/e mano, nella mano, / da Re ti accolgo nell’antica radura / densa di fruscii d’ala, / anche se l’estate è fuggita, / appostata spia l’autunno, / congeda gli uccelli (…) (cit., Anche 59 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 60 I Fiori del Male se…(all’ideale), p. 54). Il sogno – scomposto -, è speranza viva: “Oltre il sipario / solo la reliquia del sogno / attraversa e indora l’edera” (cit., Oltre il sipario, p. 47). Altre volte è la scrittura, la parola stremata ma salvifica, variegata che è tensione, sollievo, bisogno impellente e ricerca inesausta sempre pronta alle scoperte; è la parola nascente (“attendo parole”): “Ancora non dice, / sibila / la parola nascente. / Deraglia dalla bocca/di un fiore/non sa dove andare, / un passo più in là/dal silenzio /sbanda, come risalire? / In abbandono / prende il largo, / prova a significare / quello che può / anche se tutta l’aria / montante non basta / a dare al sibilo / sapiente misura di voce” (La buccia del grido,cit. La parola nascente, p. 53) laddove per “significare” s’intende dare un senso al mondo, esprimerlo, palesarlo, comunicarlo. È insomma la poesia: “In pura perdita / scrivo per imparare / a scrivere / e…mi apro alla deriva” (op. cit., In pura perdita, p. 19) e “Spesso la poesia / non mette galloni sulla giacca, / intinta negli acidi del dolore, / respira alta e allo scrutinio finale, / emerge, illesa dal tempo (In piena sulla conchiglia,cit. Illesa dal tempo, p. 117). Ecco allora, però, che la scrittura consente il viaggio, fa sua la meta: “Arriva dalla bruma / la parola screziata / soccorre l’osso in cordoglio, / l’orma stellata del passero /e…cambia pelle / mentre ondeggia sul labbro / ormai maturo, / mentre balla tra denti consunti / svenata di turgore, erosa, / ma con l’ala aperta a nuovi voli / nella solitudine egemone / dell’oltre” (La buccia del grido,cit. La parola screziata, p. 38). Può essere ancora è la Sardegna, esilio ritornante, luogo di nascita della Poetessa: “Nell’aria di questa terra / improvviso un fragore di radici, / un nascere e morire ancora / nell’imprevisto come nell’altrove “ (Quel tanto di rosso, Terre Sommerse, 2007, Nell’aria di questa terra, p. 5). Senso dell’altrove duplicato, perché la Sardegna è lontana - “leggeva anche il cammino / degli astri, e, tra le palpebre, / sulla cancellata,oltre il mirto, / oltre un cadente pigolio di piume / puntava il dito nascosto su una stella / inerme, arresa all’aurora” (In piena sulla conchiglia, (2002), Il richiamo, all’isola della Maddalena, p. 80).Questa continua tensione, necessità, navigare inquieto dello sguardo, questo cammino incessante si concretizzano nel lessico che esprime questo continuo ondeggiare dal qui al lontano: disfarsi e ricomporsi, salire e scendere, andare, tornare, nascere, crescere e morire, perdersi e ritrovarsi accompagnati dai termini di confine, limite, riva, sponda, argine, margine a dire le contraddizioni e la complessità dell’esistenza e che il cammino – andare, andare -, la strada sono interrotti. Mai il canto della Poetessa è disperato bensì ha un “supplemento di speranza”. 60 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 61 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte di Luigi Celi o tra le mani la raccolta Mi ricordo, ogni giorno, ogni ora, come se fosse ora, pubblicata dal “Centro Ebraico Italiano - Il Pitigliani”, degli intensi testi della Maratona di Poesia del 27 gennaio 2013, curata dai promotori Francesca Farina e Roberto Piperno. L’evento della rammemorazione dei tragici eventi della Shoah – “un tuffo nell’abisso/orrore e stupore mescidati” - è dal 2007 reiterato e ha visto, da quell’anno, la partecipazione commossa di circa settanta poeti di diversa estrazione ideologica e religiosa. I poeti sono tutti qualificati e si farebbe torto a molti se ne nominassimo solo alcuni. Non citeremo i nomi, considereremo l’opera come testo collettivo. Elena Loewenthal ultimamente si è dichiarata indisponibile a partecipare a manifestazioni per una mera commemorazione della “memoria”, avanzava il sospetto che quest’ultima potesse essere declinata in maniera retorica, mentre i sopravvissuti allo sterminio impietosamente spariscono. Non è facile per chi non ha sofferto quei tragici eventi mantenere atteggiamenti di sincera partecipazione. Si tratta di pensare fino in fondo la tragedia vissuta dagli ebrei da quel famigerato 20/01/1942, quando a Wansee i gerarchi nazisti deliberarono la “Soluzione finale” (Endlösung): il “rastrellamento e l’internamento in campi di concentramento” (campi di sterminio) di tutti gli ebrei. Anche i vecchi e i neonati sono caricati – scrive uno dei nostri poeti - su “camion militari diretti/ verso un confine ignoto/ per l’irrinunciabile colpa di essere nati ebrei”. Elie Wisel, in una intervista rilasciata a New York per il Corriere della Sera ad Alessandra Farkas, a proposito di una possibile scrittura non partecipe, dichiara: - “La mia legge morale mi vieta di scrivere un libro di fiction su questa immensa tragedia. – e aggiunge – “Come disse Theodor Adorno: ‘Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro’ ”… E uno dei poeti di questa antologia ripete: “ma dopo tanto male e tanta morte/ forse è barbarie pure la poesia”. Sappiamo del paradosso di Adorno e come possa essere paragonato all’altra tesi estrema di Primo Levi, che sosteneva che dopo Auschwitz non sarebbe più possibile credere in Dio. Ho riproposto tale questione, nel N. 49 del 2011 de “I fiori del male”, in un articolo dedicato alla “Conversazione sulla montagna” di Paul Celan, in cui il poeta, il “pic- 61 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 62 I Fiori del Male colo Jud”, paragona la poesia a un bastone con cui battere la montagna. Celan è in posizione problematica - sia pure con rispetto - verso la tesi sostenuta dal “grande Jud”, il filosofo Adorno. Il bastone che batte la pietra è la poesia che interroga, ma chi, cosa potrà mai rispondere? La poesia interroga il Verde (la Natura), il Bianco (la Lingua - il Gespräch), Dio, che non appare agli ebrei più come un Egli, ma come un Esso. Tuttavia per Celan è possibile poetare, e se si può poetare, direi, si può riaprirsi alla fiducia in quel Dio che sta oltre ogni nostra aberrazione. La guarigione viene dal non confondere Dio col diavolo. Diceva Tommaso d’Aquino, “Dio non è responsabile del male né direttamente, né indirettamente”; la malvagità è difetto, squilibrio, è un aspetto che ripugna all’essenza di un Dio infinitamente perfetto. Quindi il problema è: da dove viene il male? Pur tra molte cose condivisibili Elie Wisel dà però anche una discutibile risposta all’intervistatrice, che gli ricorda come nella liturgia ebraica, “a Rosh HaShana (Nuovo Anno) e a Yom Kippur è sigillato chi vivrà e chi morirà, chi perirà per l’acqua, chi per il fuoco”; ella chiedeva se avesse “mai pensato che Dio possa aver deciso lo sterminio della sua famiglia”. Wisel risponde con una tesi per me cristiano inaccettabile: “I veri credenti lo pensano, perché Dio per loro e dietro a tutto, dall’inizio alla fine”. Questa pseudo-spiegazione fa ricadere la responsabilità del male su Dio, ignora la totale libertà umana nella storia che apre all’incontro tra pensiero laico e religioso, ed è causa della bestemmia e del rifiuto della religione dei padri da parte di molti ebrei. Sostiene Wisel: “Molti di noi che erano religiosi hanno smesso di esserlo, mentre tanti atei hanno trovato la fede”. Certo il male estremo ti priva della tua identità. In Se questo è un uomo, Primo Levi descrive il suo ingresso in Auschwitz: “Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede; sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogni, dimentico di dignità e discernimento, perché accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere se stesso”. In un altro testo dell’Antologia troviamo: “leggevo il tuo Se questo è un uomo e rispondevo: ‘No, questo non è un uomo’, il nazista, e ‘No, questo non è un uomo, il perseguitato, / macellato,scuoiato, disossato”.“Giorno della memoria”, sì, dunque, da opporre alle tenebre, alla “banalità del male”. Leggo nella nostra Antologia: “E come per una banalità / (…) / può l’essere Eichmann esistere, Può / e per simmetria subalterna essere Stato / efficiente, funzionale, sistematico. / Lui (…) apparve felice tra i numeri,%, statistiche, / destinazioni, trasporti ferroviari, tempi totalitari. / Soprattutto senza colpa. / Parve così felice d’essere, Herr Eichmann /…” Il rischio che, scomparsi gli 62 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 63 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte ultimi testimoni, i negazionisti possano imporre un punto di vista che renda possibile la ripetizione delle persecuzioni mi sembra improbabile, ma non del tutto se ci si affida soltanto alle rammemorazioni sia pure a livello planetario. Wisel ci ricorda che “Nessun’altra tragedia della storia è stata documentata più dell’Olocausto, con decine di migliaia di testimonianze scritte e orali”, e aggiungeva: “chi vuole la verità sa dove trovarla”.Occorre ritornare con forza alle radici della propria appartenenza spirituale. Mi sembra essenziale per gli ebrei ricordarsi dell’“elezione”, per quanto il termine possa indurre a falsi sentimenti di superiorità. L’esperienza della Shoah, con tutto il suo carico di orrore, potrebbe servire da paradigma per escludere qualunque condotta discriminante e di violenza nei confronti di altri popoli, culture, individui. Questa posizione andrebbe opposta con radicalità al fanatismo religioso e alle logiche di profitto: “Hanno abbandonato il Signore / hanno disprezzato il Santo d’Israele / si sono voltati indietro …”(Is. 1,4); “Smettete di presentare offerte inutili, / l’incenso è un abominio per me;/ noviluni, sabati, assemblee sacre, / non posso sopportare delitto e solennità” (Is. 1,13); “… togliete il male dalle vostre azioni (…) / imparate a fare il bene, / ricercate la giustizia, / soccorrete l’oppresso, / rendete giustizia all’orfano, / difendete la causa della vedova.” (Is. 1,16-17). Non è solo il ritorno alla terra d’origine, ma un altro Ritorno rimette il popolo nella posizione di “elezione”. Quando si tratta di ebrei difficilmente si riesce a sfuggire a categorie religiose, ma dopo la Shoah queste spesso vengono impegnate per un’accusa a Dio, altre volte con un senso di interiorizzata pietas. Tra i nostri poeti c’è chi parla con acribia di “cosmico altare affrescato, col sangue/perenne encausto, civile salmo marchiato, trascritto a fuoco”.Certo il male è il “mistero dell’iniquità” di cui scrive Paolo di Tarso. Nella tragedia della Shoah qualcuno coglie il destinale dolore del popolo personificato, con Isaia 53, segno messianico che i cristiani riferiscono a Gesù, sulla stessa linea di un Giobbe quando, in quel misterioso libro, è scritto che il Signore consegnò a Satana il suo “eletto”. Come recuperare l’identità, dopo una prova che sembra comprometterla in essenza? Essa sta nell’Oltre? La memoria ci porta indietro, la preghiera che apre umilmente l’intelligenza alla domanda, nella consapevolezza dell’abissale distanza che intercorre tra l’uomo e Dio, ci spinge in avanti. La violenza, l’odio razziale, etnico, di classe, una religiosità male intesa sono sempre in agguato. Di fatto, occorre ricordarlo, nel mondo contemporaneo ci sono stati e sono in atto altri olocausti e genocidi, non ultimo quello dei migranti annegati nel mediterraneo. Ritornando alla nostra raccolta, gli aspetti da considerare sono duplici, i primi propri della poesia, anche se non mi sento di entrare nel merito di questioni formali - 63 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 64 I Fiori del Male infatti in questi casi di estrema drammaticità la poesia civile vale per i suoi contenuti, anche se poi il linguaggio rimane centrale, in un’ambivalenza insormontabile -. Dirò solo che molti di questi testi sono sentiti e sofferti, commuovono, quindi meritano di essere letti e ricordati. Altri aspetti sono più legati all’oggetto, alla Shoah … Perciò queste poesie forniscono contributi imprescindibili alla giustizia e alla pace; al bisogno di guardare anche al presente e al futuro e di andare al di là della materiale ricostruzione storica di eventi che hanno minacciato l’esistenza stessa del popolo ebraico (e non soltanto), ben oltre – come è scritto in un’altra poesia di questa raccolta - “il disastro osceno dell’incredibile”. 64 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 65 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte RACCONTO ICARO di Carla Zancanaro ra stato dimesso quella mattina. Sulla cartella clinica poche parole: soggetto borderline, tendenzialmente schizofrenico, da seguire in terapia domiciliare, non pericoloso ne per sé, ne per gli altri. L’aria frizzante in quel primo giorno di libertà ebbe un effetto stimolante sul passo ancora incerto della convalescenza, le facce delle persone che lo sfioravano, oscene maschere di cartapesta, assordante ed impietoso il rumore del traffico. In clinica tutto era diverso, il ritmo delle ore regolamentato dalle sue fedeli amiche pillole che lui chiamava “oasi”.Oasi rosse, levigate, al mattino prima della colazione, verdastre, oblunghe, al pranzo, ed infine le più soddisfacenti, trasparenti, di un color giallo, alla sera prima di coricarsi. Quando in lui subentrava l’affannosa disperazione nell’urlo che riecheggiava da parete a parete, bastava una di loro per calmarlo, giungeva un totale rilassamento che addormentava la bestia che da tempo con lui conviveva. In quel torpore anche la dimensione luogo cambiava: ora si trovava nel deserto: il perfetto.Sdraiato sulla sabbia in quell’illimitato vuoto incominciava il delirante gioco:UNO DUE TRE QUATTRO… ARIA ACQUA TERRA FUOCO… All’infinito si ripeteva il rituale di primordialità della perfezione che solo a lui era stato concesso. All’improvviso tutto si inglobava in una sarabanda di nume- 65 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 66 I Fiori del Male ri impazziti e lui ripiombava nella costrizione del laccio ai polsi doloranti. Altre volte, nel suo peregrinare, saliva verso un azzurro sempre più lontano, aveva grandi ali di sparviero in gara contro il vento. Lo seduceva il solo, radioso, splendente richiamo di un cielo dove regnava amore. Improvvisamente si frapponeva tra lui e l’astro una nuvola di nero fumo, si scatenava violenta la pioggia… si inzuppavano le ali di fango e cenere e lui precipitava nel fondo di un abisso. Continuò a camminare, una greve stanchezza lo colse, le membra rattrappite per l’indolenza vissuta nella clinica. Si fermò al rosso di un semaforo, al lato una freccia indicava: per la periferia. Deviò per trovarsi fuori dalla folla, i palazzi tornarono nell’ombra, il verde dei prati brillava oltre la muraglia di cemento. Ora si sentiva meglio. Inaspettatamente un bambino gli fu davanti, poteva avere sette/otto anni, immensi occhi color del mare, uno zainetto, troppo carico, per l’esilità delle spalle. Lo guardava incuriosito, forse per quel suo deambulare a scatti.- “Ciao” esordì il bimbo “come ti chiami?”. Senza attendere risposta gli prese la mano.- “Vuoi accompagnarmi alla scuola? Tutti i miei compagni hanno qualcuno che li porta, io nessuno”.S’incamminarono, il piccolo lo guidava, ricominciò a parlare:- “Mi chiamo Giovanni, mia madre è morta e mio padre lavora giorno e notte in fabbrica…”. Non vi era dolore in quelle parole, solo una pacata rassegnazione. Una fitta lancinante gli perforò il cuore, si rivide piccolo, solo, quando i primi incubi sostavano nelle sue lunghe notti insonni, il prepotente bisogno di avere ancora sua madre che l’aveva lasciato in una piovosa giornata di primavera (non se ne era mai fatto una ragione, non si poteva morire di primavera quando esplodono i mandorli e le ragazze denudano la pelle…) e poi il lottare di suo padre sfinito dai turni alla catena di montaggio, i giorni passati rasente ai bianchi muri urlando di rabbia e di dolore, infine il suo silenzio irreversibile. Erano arrivati davanti alla scuola, Giovanni, senza guardarlo, staccò la mano dalla sua:- “Ciao, a domani”. Lo vide allontanarsi, un nero antro lo inghiottì. Era spossato, una nascosta nostalgia della clinica lo aggredì. In quel luogo dove la vita scorreva lenta e fluiva come limpida acqua, i giorni erano inconfessabili peccati senza possibilità di redenzione. La notte fu tormentata, vuota di sogni, il bimbo era sempre nei suoi occhi. Alle prime luci dell’alba si alzò. L’ultima luna impallidiva sul viottolo di sassi. Lo vide da lontano, procedeva a piccoli passi, la testa reclinata sul petto, gli arti afflosciati come una marionetta a cui hanno tagliato i fili. Prima o poi la clinica lo avrebbe inghiottito, era solo una questione di tempo… Oh no, pietoso Iddio, oh no, lui no! Lentamente estrasse dalla tasca il piccolo coltello a serramanico: un solo colpo mirato al cuore. Si fece azzurrissimo il cielo sgombro di nuvole, Giovanni cercò la sua mano e insieme spiccarono il volo. 66 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 67 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte POESIE Marilla Battilana Poesia a Rima e dispetto (da La corona d’oro e altre pagine) Per un amante imperfetto (alla maniera di Mariella Bettarini)* Nevio che cosa è successo di quell’amore (di quella pira l’orrendo fuoco tutte le fibre m’arse e bruciò) un amore che si è ammalato come dice la mia amica Mariella, un amore che ha il mal di testa starnuta gocciola tossisce deve fare le lastre prendere le medicine riguardarsi mettersi la maglia e la sciarpa usare il cappello un amore che si è distratto (fra le mani di un’esperta massaggiatrice) e ora dopo avermi detto se c’è un altro non posso, so che non devo pretendere, torni (si usava dire) alla carica: c’è il congresso di semioecologia a Pavia, prenota la stanza che ho già pre-occupato la mia. Che cosa è successo nevio, posso scrivere 67 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 68 I Fiori del Male il tuo nome con la minuscola che hai detto? sì ti dedico una poesia e ho una gran voglia di una tua lettera, se fossi incinta nascerebbe un figlio con una voglia bianca tutta dattiloscritta. Verrò non verrò a Parigi a Palermo a Pavia nevio c’è anche casa mia, senza il tuo cognome sulla porta un indirizzo segreto un’abitazione negata una bugia confermata per il postino di casa tua e per la distinta signora. Ottobre 1983 *I versi in corsivo sono presi da una poesia di M. Bettarini Data Medica Ho cambiato indirizzo -tota foemina in uteroora risiedo quindi per l’antica misoginìa nelle ceneri settiche di un ospedale. Là venitemi a cercare. Millantata sofferenza: intorno si muovevano angeli come amici, amici come angeli. Oh, troppo diversa sorella fiorentina PAZIENTE DECEDUTA – TRENTUNO 68 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 69 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte INQUISITI Attraverso degenze in due cliniche si ipotizza l’abbandono di persona incapace: piaghe da decubito riscontrate sul corpo, dermatite emorragica in zona vulvare catetere vescicale con ampio manicotto di pus Morte da sepsi per distacco di endoprotesi. Falso ideologico in cartelle cliniche. Non angeli amici pietà sorella fiorentina dal femore sbreccato. Sorella Sorella Sorella sola sprovveduta crocifissa per te straccio le vesti donatemi di salvezza appena indossata cospargendomi il capo di cenere urlo la mia lamentazione di pacato nero e disteso bianco che il debito non salderà. Anagrafe …Milano dove sono nata – ma in trasferta – mio padre era là per lavoro e mia madre anche lei veneta mi ci scodellò senza il medico ma con la levatrice, in casa come allora usava. Metropoli sempre in vetta (o è stata superata la Torre Velasca? Forse non sono 69 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 70 I Fiori del Male aggiornata) Milano all’orlo di tutto, modernità e abiezione. Veleggia l’uomo-sandwich abbigliato di stracci indiani per le strettoie intorno alla cattedrale, mentre corre l’affarista in tassì verso un insicuro miliardo. Il metrò non esclude il Naviglio che lento corteggia via Lodovico il Moro portandole da Tornavento millenarie acque dove nevicano navigano milioni di pappi piumosi nella brezza di maggio: calmi navigano inconsapevoli dell’ora e dell’eterno sul filo d’una corrente intensamente verde, rendono magico il paesaggio. A Porta Ticinese non più lavandaie. Rivedo con l’occhio della mente le ultime al lavoro – camicie e gonne tinta can-che-fugge, fazzoletti in testa azzurri, gialli e scarlatti – chine su lastroni di un grigio sepolcrale: nella mia infanzia timorosa sarei finita così, mi chiedevo, nel parapiglia esistenziale? Invece sono un pregevole pezzo di antiquariato – oltre i cinquanta l’oggetto è da antiquario- che dipinge e scrive e ogni tanto ritorna a Milano, al Ca’ Bianca, club privato che piaceva a Listz. Era altrove la mia maledizione. E più sottile. 13.5.1998 70 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 71 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Gli aratori A Mirella Bentivoglio Tu che mi hai lasciato la frasca di ulivo sulla mensola della madia a sedare la burrasca che chiamano mia vita e tante piccole cose – caffè latte biscotti (una donna non è mai solo mistica!) per rendere più felici i miei giorni romani, devi allora sapere che la frasca ha fatto il suo dovere. E così il resto. Né è rimasto inosservato l’altorilievo rotondo dinanzi alla porta d’entrata il quale mi ha ricordato imperiosamente il dovere di tirare l’aratro. 18.4.1998 Marilla Battilana già docente di anglistica a Ca’ Foscari e poi di letteratura americana all’Università di Padova, è autrice di svariati saggi brevi o in volume, in particolare su Henry James, sulla narrativa americana del Novecento, su Ezra Pound. In ambito poetico: L’erba rompe le pietre (1960); Valore Zero Valore (1968); inoltre telefonare al boss (1979) e Occhiodiamante (1989) Due cartelle di poesia visiva: Yo, el Rey (sei serigrafie in 60 esemplari (1982) e la più recente, U.S.A (otto litografie in 100 esemplari, (2001), nonché le sue pagine di narratrice: Racconti d’America e d’Italia (1991) e il romanzo breve Viaggio a St. Louis (1994). Collaboratrice di riviste, fra cui Il Caffè (Roma), Poesia (Milano) I fiori del male (Roma), Vernice (Torino), Forum italicum (New York). Ha pubblicato un poderoso romanzo Danny Boy (2012) riconosciuto dalla critica come un’opera sorprendente per allestimento scenico e poetico. Lasciata la cattedra di Padova nel 1996, si dedica a pittura e poesia visiva, da lei coltivate fin dagli anni ’60. 71 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 72 I Fiori del Male Giorgio Bárberi Squarotti L’amante inglese ( inedito) L’inglese, che l’altr’anno si era presa la più grossa cascina a San Luigi, arrivava, correndo, dal sentiero sassoso e ombroso, che discende ripido dal cimitero antico, unico bianco fra il tanto verde di vigneti e pioppi, alla piscina, ansando si buttava nella panca del bar, a voce bassa chiedeva alla barista la bottiglia di wisky, senza bere la teneva in mano, con affetto, sorridendo e guardandosi intorno, e troppo attento e insistente, ammiccava e salutava le ragazze più imbarazzate e pudiche (lui, così buffo, i pantaloni rossi o a riquadri viola e gialli, a righe variopinte la maglia, diagonali oppure orizzontali, come vidi gli atleti e gli acrobati del circo nelle fotografie dell’ottocento, quando scopersi l’album del bisnonno che vinse a Londra i diecimile ed ebbe una medaglia d’oro e due boccali grandi, bianchi, per la birra). Sai, ah, io sono curiosa, forse troppo, e poi nel mio liceo studio tutte le lingue o quasi dell’Europa. Pronta, decisa, venni davanti a lui, nuda completamente o quasi. “il mio nome è Alice, e ben conosco delle Langhe tutte le meraviglie: boschi, lepri, rittani, caprioli, sciami d’api d’oro prezioso, cinghiali feroci, il saggio calzolaio pensionato, che per regine e laureande vergini 72 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 73 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte faceva scarpe di cristallo o argento, l’eroe novantenne che da solo tenne a bada sull’ultima collina di Alba tutta la brigata nera nei favolosi secoli dei secoli”. Gli parlavo inglese, naturalmente. A lungo mi scrutò, poi mi rispose con uno strano accento fiorentino; e usava le parole antiche, quelle che io lessi a scuola, forse Dante, forse Boccaccio, forse qualche rimatore che mi parve osceno, e ho dimenticato; ed erano dolcissime ed asprigne, misteriose e felici. Lo seguì. Guardami bene, adesso: ti assicuro, ho provato con lui tutto il piacere noto dai libri e dalla giovinezza, e l’altro, quello non immaginabile, perché è quello dell’ombra, non di carne, ma dell’anima.- Mi mostrava i segni trasversali, profondi, rossi, delle frustate sulle natiche e le cosce, contratti a forza i rosei capezzoli e il clitoride, ancora umido il volto e il seno delle lacrime felici, il pube depilato, dolcemente e con sapienza ilare straziato. -E dopo?, con pietà chiesi ed anche con rimpianto, perché è più bella, adesso, e mortale. Monforte d’Alba, 7 luglio 2013 Giorgio Barberi Squarotti Critico letterario (Torino 1929), e poeta italiano di notevole spessore. Titolare di cattedra di letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Torino. Studioso fervidissimo, spazia tra Machiavelli e Tasso senza tralasciare il sommo Dante. Innumerevoli sono i suoi contributi di critica letteraria. L’interesse di Squarotti è volto al rinnovamento delle forme poetiche compreso le avanguardie europee e agli sviluppi della letteratura italiana dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri. 73 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 74 I Fiori del Male Luciana Vasile Se, mai Se mai riavessi il mio volto levigato di fanciulla il bello aspetto, il muscolo scattante non vorrei indietro di quella età timori e colpe, angosce e insicurezze che hanno ritmato lacerato i giorni degli anni – spensierati? – dell’età – più bella? – A volte sciupati torturati passati ad ubbidire e a subire ad ingaggiar doveri a celare nei silenzi frustrazioni inadeguata ai compiti assegnati a vergognarmi di non saper – chi sono – Se mai riavessi quella amata perché sofferta gioventù direi – No, grazie – voto per questa età quella dai trenta in su, e poi più su che mi riporta giù, a calpestar sentieri cercando luce nell’intricata giungla a camminare in basso a testa alta ora che vado orgogliosa di quanto sia sapiente aver coraggio: accettare con pietà la mia pochezza Solo Solo sei quando la vita ti prende Nel grido di pianto si intende 74 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 75 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte la tua ignara paura di vivere Cammini, Corri e Insegui Cerchi, Elemosini e Chiedi Solo se monca è la mano che tendi al fratello Solo se arida è la bocca ansiosa di baci Solo se muto batte il cuore sordo all’ascolto Ma quando con pale d’Amore riempi quel vuoto glaciale scopri e gioisci d’incanto che Solo nel mondo non sei Solo sei quando la vita ti lascia Nella tua ultima umana battaglia di morire hai cosciente paura Là nelle piazze le folle condannano, le folle plaudono Uomo sei Solo se ti fai buio Uomo sei Solo se ti fai luce Senza gridare e senza piangere Solo il Silenzio ti onorerà L’uomo nuovo Non ho più bisogno di chiedere il consenso che mi cinge di alloro il rispetto che da solo mi devo e l’amore 75 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 76 I Fiori del Male che vive di sé Né il denaro che riempie le tasche ma ruba nel cuore o il potere che incurante calpesta l’indifeso altro da me Già ho subito le schiaccianti sconfitte il dolore, la sofferenza di chi ha preteso rincorso pregato pensando che su ogni tavola avrei poi trovato una fetta di felicità Ho girato la roulette dell’anima sordo un colpo dal profondo è partito ha colpito, ha ucciso il questuante dentro di me Non più schiavo dei lacci del chiedere Libero intono una nuova canzone Solo ho bisogno di dare, unica azione nella quale fondare il mio credo la leggera voglia di andare trovando ristoro alla sete dell’unica vera felicità Per vivere Per vivere bisogna non aver paura di morire Lontana divisa separata si rintana nell’antro putrido dell’Io sola sorda cieca la paura Reagisce con violenza Si priva del contatto Si esclude dalla gioia Affoga nel dolore 76 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 77 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Incede nell’aria aperta e profumata con passi lunghi e indomiti il coraggio È liquido di lacrime non pensa a trattenerle, brillano con lui né mai se ne vergogna Di esse nutre l’animo commosso Nel desiderio ardito, avvicinarsi Nella curiosità vivida, raggiungersi Nella felicità più intensa, finalmente unirsi Sul cerchio verticale della vita arrampicare con mani piedi denti le salite precipitare rotolando le discese permettersi più volte di morire E rinnovati, non arrestarsi mai sicuri di voler rinascere per vivere Stai qui Si arresta per storie incomplete il peregrinare Si intersecano e si attraversano le membra riempiendo le voragini dell’Io Non trova albergo qui la solitudine Navigano due libertà in un sol corpo Stai qui Non guardarmi ora negli occhi Bisbiglia farfalle d’anima all’orecchio Rifugiati nella piega del mio seno Spremi l’umore caldo del mio cuore 77 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 78 I Fiori del Male confuso alla ricchezza del tuo succo quel succo di cui parli quando doni Non già per possedersi ma insieme ex-sistere Stai qui Dita alle dita e palmo nel tuo palmo chiusi nel pugno a fondere la pelle Inanellati i tuoi capelli cedono e si distendono al passaggio che l’ingordigia della mano inventa Stai qui Carezzo il viso tuo reso bambino la barba a verso, morbida, disegno Passo e ripasso moltiplicando il tempo dell’esserci specchiati in un eterno Ma solo ora uniti, ritrovati Stai qui Luciana Vasile, Nata a Roma è architetto. Nel 2002, nella sua esperienza di aiuto volontario nel terzo mondo per la costruzione di case per gli ultimi e che dura da dodici anni, ha scoperto il piacere di scrivere. È fondatrice e presidente della HO UNA CASA-Onlus. Esordiente nei Concorsi Letterari nel 2004, ha conseguito numerosi premi (oltre centotrenta) nella prosa e nella poesia. I suoi testi figurano in diverse antologie e riviste culturali “Per il verso del pelo” suo primo romanzo, (2006), ha ottenuto riconoscimenti in otto Premi Letterari. Del romanzo si sono occupate le pagine culturali di alcuni quotidiani nazionali e riviste. Numerose le recensioni.“Lo sguardo senza volto” 11 poeti del disincanto, (2008) volume antologico, curatore Donato Di Stasi.“Danzadelsé” - Ho ballato per Paparone e altre storie, (2012) pubblicato come opera vincitrice al concorso di narrativa per inediti Interrete, “è una specie di diario interiore che si affaccia appunto nel sé… sul filo dell’autenticità, si avverte il percorso verace di un’anima” (dalla prefazione di Marcello Veneziani). Vincitore Premio Internazionale Lago Gerundo e altri tre premi. Numerose le recensioni. Di prossima pubblicazione la raccolta di poesie “Libertà attraverso”. [email protected]; www.lucianavasile.it 78 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 79 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Raffaele Piazza Ad Alessia Dedica Ascoltami, Alessia, nell’aria inazzurrata dal volo di cieli a sovrapporsi, carta velina o pagine di un libro di poesia avviene ancora vita, se era esistere nuotando, saetta o freccia, tu adolescente nei jeans stretti sdruciti al punto giusto, e la maglia rosa fucsia che ancora ti accompagna nel suo afrore per mattini di gioia al bar con Giovanni dopo liquidità di bacio. Stupore a poco a poco presentito, nel vibrare di un tempo altro, vacanza a Ischia nel 2010 se tra pagine archiviate di diari, con pastello rosso carico o incerta grafia, uscisti dove ci sono le stelle a respirare l’aria carica di fiori: da nominare, non ne conosci la classificazione: allo specchio ti guardi sei bella e tutto il mondo fuori, grano dei capelli, azzurro limpido occhi che a poco a poco nel disanimarsi delle forze nella sera ritrovano intensità, come se dopo l’esame di italiano-due superato fosse accaduta una storia da raccontare bella: trenta e lode e viaggio ad Assisi con l’amato. Alessia, colei che protegge, ascoltami nel dedicarti il mio 79 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 80 I Fiori del Male tempo migliore, a dire di te poi in presagi di gioia ti penso nella festa a casa dell’amica farsi parola. Alessia e il libro di poesia Scrive con vaga grafia, Alessia, nell’aria disadorna senza fiato, inchiostro rosapesca come l’estate o l’inoltrata primavera. Scatta il volo di un gabbiano e trasale Alessia azzurrovestita nell’aria vegetale della consecutiva attesa. Sulla scrivania I fiori del male, sua lezione per la vita e la scrittura accade dalle mani affilate come un attimo disadorno come un bagliore Alessia alla trentesima poesia del suo libro per la vita, pioggia a cadere esteriore sulle cose senza tempo in segno di vittoria. A destra il mare a sinistra una nube bluastra gioca a farsi ragazza o cavallo. Epifanie del nulla, a poco a poco tutto si ricompone, ecco lo squillo del telefono, la voce di Giovanni. È il 1984 attesa sgretolata ecco il primo appuntamento ci sono il parco, la panchina e le labbra da baciare. Raffaele Piazza- Napoli 22/12/1963- Ha pubblicato Luoghi visibili (1993)- La sete della favola (1996) Sul bordo della rosa (1998) e Del sognato, 2009. Ha vinto numerosi premi in concorsi di poesia. È redattore di Vico Acitillo 124 Poetry Wave.. È collaboratore esterno del Il Mattino di Napoli alla cultura. Ha pubblicato su numerose riviste letterarie, tra le quali Anterem, Gradiva, Fermenti, La Mosca di Milano, Tam tam, Hyria Tracce, Arenaria, I fiori del male, Grafie; è inserito in molte antologie. È curatore dell’antologia Parole in circuito (2010). Ha partecipato a letture di poesia a Napoli. 80 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 81 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Chiara Mutti Costellazioni Inedita I Eravamo sulle labbra della luna un soffio di polvere bianca, lische di salmoni dorati risaliti alla corrente. Il coro d’inermi fanciulli emise qualche nota stonata, un’uggia di rauchi conati. Duro il sangue pulsò corrompendo ogni desiderio sacro: tracciavamo i punti della celeste cometa una domanda, una domanda, una domanda nascevamo sopraggiungendo al giorno tutto il resto sembrava sera e la notte era già il tempo del dopo. II Dall’emisfero boreale il vento soffiava gelido di ghiaccio, pavidi e tremanti riparammo sotto l’apparenza seguendo traiettorie perpendicolari al nulla immobile, piombando il sonno suggeriva sistemi in divenire, non sapevamo che il nostro era solo un girovagare in tondo? Un suono di sirena fissa accanto all’ultima luce. Il futuro è rimasto irrivelato come pianeta dissolto . III Prima che piede ci spingesse al passo 81 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 82 I Fiori del Male milioni di zampette confuse segnarono orme di galassia, solo ali di libellula astrale ci liberarono dall’orda distinguendoci l’uno all’altro, vennero a portarci nuova forma di confine. Il margine era acqua e non era finito, oltre la sostanza, che potesse quietare l’ansia del crescere pure il ventre così vuoto e scarno sembrava ora tendersi al tutto mani d’ossa tintinnanti musicarono il vuoto. IV Perché mai questa scia di detriti alla deriva? Questo nulla che ci attrae più dell’atomo scomposto? Cambierò la tua fede in un carro, un pavone, un cavallo, una capra bianca. Puoi frenare il volo del cigno? Incalzare la risposta del corvo? Domani, domani. Forse la materia è madre strappata agli abissi, per questo siamo nati. Forse non siamo che forma. V Oh! come tutto muove e muta e segue solo noi sembriamo sempre in atto di finire sempre con vani occhi 82 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 83 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte ci appressiamo alla vista pure un giorno dura, ogni sole, un giorno e una notte, una notte basta per tutte le stelle. Spleen E del perché della domanda, sempre quella, che non ha risposta porto nelle mie palme il vuoto universale contorto ramo secco ancora assorbo l’umidità del sangue versato sulla terra e ancora mi rivolto nella cenere che il fuoco ha condannato al rogo. Uomo sacro, cranio, nascosto simulacro che il mio viso offusca, porti, nell’orbita scoperta del mio essere di ossa (da “La fanciulla muta” ( 2012) Chiara Mutti Nata a Roma, lavora presso l’archivio fotografico della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. Appassionata di fotografia, letteratura, archeologia e antropologia. Ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie “La fanciulla muta”(2012).Tra i premi quello della Critica al Concorso di Poesia “Il saggio città di Eboli” 2009 e della Giuria al Don Luigi di Liegro 2012; I premio al concorso di poesia a Pier Paolo Pasolini, “Autori di vita”, 2010 e al Premio Enrico Folci 2010, II premio di poesia “Giorgio Belli”, 2011. Le sue fotografie sono state esposte alla Galleria il Marzocco di Roma e al Lavatoio Contumaciale. 83 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 84 I Fiori del Male Giuliana Lucchini CAINO FIORE DEL MALE Nel silenzio felpato lui tace e sale carica l’aria d’attesa il muscolo contratto e il fuoco nel cervello rossa la luce rosso il caldo tocco del legno su per la scala nero freddo determinato muro di odio “Lei mi appartiene” non la doveva guardare non la poteva toccare non le doveva parlare lui non doveva violare l’ordinamento Scivolare sul corpo del serpente abbracciarlo come fianchi di montagna formica inquietante inavvertitamente aderisce la mente al geroglifico del sentiero ondoso stampato fra gli alberi nel bosco sacro della follia dove la linea a curva si muove percorre chissà quale cammino dal passato all’eterno indica traccia e comando T’infilzerò dai mille artigli unghiuto tentacolare mostro spremuto mi striscerai lungo le linee della mano eraddrizzato e rosso. 84 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 85 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Rovente dell’arsura il sangue la falce chiama che il pugno stringe sicura nella notte brilla serpente-gelo di luna di lama Il passo cauto la porta gradino per gradino in cima alla scala È l’ora di modulare il sibilo incantatore canto incantesimo incantato mutevole e raro si insinua il gesto al richiamo si muove il gesso del capo si abbruna si scioglie timidamente la pietra sull’orlo del collo eretto sul piatto busto – capo – erma (ferma) – cippo s’avviva (secchi d’acqua sul viso a sciogliervi l’ardore!) Sul letto la coppia, dipinta, immobile d’attesa, la prigioniera a mezzo liberata. Vendetta la difende ora o l’immola? Incredulo lui disteso di fronte al destino : sangue di fratello nutrito dello stesso respiro la nostra alleanza campo di solidarietà mensa di complicità 85 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 86 I Fiori del Male unicità di movimento a gruppo ora sovvertimento dei valori caos primario. Dove sono finiti gli spazi risolti della guerriglia su cui stormi di uccelli libravano voli? “Macerie le città senza ali il cielo senza pesci il mare tutti gli animali fuggiti” .. - un poeta all’orecchio. Sterminio! Fuori gli ebrei! Abbasso gli Asburgo, fuori i Romanoff, fuori i gays, fuori gli Armeni! Crudele è bello (“ageing in my face”). Indurisciti cuore. Silenzio immobilità spostamento, ravvicinamento dell’immagine, brivido : primo piano cautela (due mani a clava) – varano ingoia il cobra sputatore – un gesto esplosione uragano Di rosso cinabro la falce trancia collo busto mano braccio dita piede gamba coscia testicoli scroto urla la donna e vomita colpo dopo colpo lacerati gli occhi alla vista stravolta eredità nei profondi meandri della coscienza di un marchio malattia nome Caino da “Vivere il Due”, 1983 86 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 87 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Lina Furfaro Mari del Sud Lo sguardo si perde distratto cullato dalla lenta risacca nel dolce mare profondo che bagna la magica costa: aspre radure insabbiate ed arse ignare dissetano erbe e fusti. Il luccichio dorato esplode tremulo su le piccole onde azzurre aggrottate acceca la mente che mai altrove sfugge se non là, oltre l’orizzonte infinito e l’avanzano in sensazioni libere tra il planare di uccelli e un’aura salmastra l’avvolgono annullando realtà la trascinano e immergono nell’antica amante terra greca, acquietandola. Madre Il distacco avanza freddo, impassibile verso ogni inutile essenza terrena latente affetto risveglia legami illumina tenue rughe solcate e strappa ancora al volto folate di serenità anelata. Quel remoto sguardo vigile e attento, il giovane viso dall'alto del suo portamento incorniciato dal fazzoletto che al freddo si annodava sotto il mento 87 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 88 I Fiori del Male ad ogni incontro sono altresì spenti. Piegata in due affievolisce i pensieri i perduti e immediati ricordi, nascosta in intimo, pregiato candore flebile la ragione vaga deserta. Avvolta nella coltre nulla pare quel tempo donato già teso a fine certa. Flussi oceanici Istrione, riottoso o docile lento, brulicante o solitario trascina serpeggiando celandosi al contatto della sabbia ardente. Qui, dimora d'amore nell'animo è l'intesa presto rinfresca le membra nell'onda rapido uno sguardo travolge e limpida divora la giovinezza ormai travolta da spuma. Al largo l'immensa distesa misteriosa e increspata tace: agita il vento l'intimo affetto fluttua tra voli di gabbiani abbaglia nel riflesso dell'aurora culla nei meriggi annega nel fondale della notte per ricominciare la sua alba. Lina Furfaro nata a Locri ( R.C.), laureata in Scienze dell’Educazione all’Università degli Studi di Messina, è docente. Fa il suo esordio negli anni ’80 con le prime poesie. Ha ricevuto diversi riconoscimenti tra cui il Premio “ Montesacro” 1986 e il Premio Concorso Nazionale Ladispoli 2001. Ha pubblicato la monografia Gerace, e il libro Il monastero di Sant’Anna. Nel 2006 ha pubblicato la silloge poetica Gocce e nel 2009 La maestra Tita, romanzo storico. Ha riscosso una straordinaria risonanza il romanzo storico Giuditta Levato, la contadina di Calabria. Collabora con Riviste ed è impegnata in attività culturali. 88 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 89 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Davide Cortese Tu mi aspetti in silenzio Poesie inedite Tu mi aspetti in silenzio, dietro l’angolo, dietro l’albero, scrutandomi, segreta. Mai mi dimentichi. Anche quando sorrido, anche quando sono io a dimenticarti. Tu mi aspetti in silenzio, come una bambina che mi sbircia dall’angolo. Getti una rete d’ombra sulla mia gioia che un istante guizza e la fai tua ancora lucente. La tua pesca miracolosa. Tristezza, sono i miei sorrisi. Eldorado Baratterei la casa bianca tra i girasoli con la baracca di cartone nel fango se dentro vi fossi tu e lo spazio per un abbraccio. Non c’è altro posto dove vorrei essere se non lì dove tu sei ora. Dove tu sei lì è Eldorado. Aria Respiro la parola dolce di Tagore. Respiro Klimt in spirali d’oro. Respiro Mozart in volute di suono. Privandomi della bellezza, soffochi un uomo. 89 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 90 I Fiori del Male Una pace Una pace c’è che posso dirti. Ce n’è una qui che tu puoi dirmi. La sa il tuo sorriso. La sa il mio. Ti prendo la mano. La mano tua mi prende. Andiamo in un silenzio nostro con lentezza di nuvola bambina. In tutti questi istanti In tutti questi istanti di tutte queste ore, in tutte queste ore di tutti questi giorni, in tutti questi giorni di tutti questi anni io non ho fatto altro che cercare di salvarlo. Salvarlo. Salvarlo. Ancora e sempre. Salvarlo, io non ho fatto che salvarlo. È tutto ciò che mi resta. Ed è ancora niente. Ma posso stringerlo al petto e sorridere. Perché è ancora qui con me, vivo, il mio sogno invincibile di gioia. Davide Cortese è nato nell' isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all'Università degli Studi di Messina con una tesi sulle "Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane". Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata "ES", alla quale sono seguite le sillogi: "Babylon Guest House"(2004), "Storie del bimbo ciliegia" (un’autoproduzione del 2008), “ANUDA” (2011), “OSSARIO” (2012) e “MADREPERLA” (2013). I suoi versi sono inclusi in diverse antologie e in varie riviste cartacee e on line, tra cui “Poeti e Poesia”. Le poesie di Davide Cortese nel 2004 sono state protagoniste del "Poetry Arcade" di Post Alley, a Seattle. Davide Cortese è anche autore di una raccolta di racconti, "Ikebana degli attimi" (2005) e di un cortometraggio, “Mahara”(2004), che è stato premiato dal Maestro Ettore Scola alla prima edizione di Eolie in video video e al Lagofilmfest di Bracciano nel 2013. 90 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 91 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Rita Gatta Tracce d’amore Vibra nell’aria eco senza suono oltrepassa invisibili confini e torna indietro boomerang di sensazioni indefinite dolore e inquietudine profumo nell’aria familiare essenza di un battito senza tempo: lo sguardo si ferma su un incerto pensiero lacerante il dubbio tremano le visceri brucia l’addome di uno straziante dolore: angoscia mancanza di certezze dubbi si affastellano divengono scoscese pareti e inutile il tentativo di respirare in quell’aria, venefico volatile veleno. sempre più forte si fa il richiamo del sangue si bussa alle porte in un impensabile istante granitica diviene la certezza poche gocce di sangue. Canto È la poesia il linguaggio più diretto dell’anima. 91 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 92 I Fiori del Male Trasmette allo spirito in ascolto le vibrazioni più intense e profonde cariche di emozioni. Fissa per sempre, le più intime percezioni, composite miniature fatte d’attimi appena percettibili e fuori dal tempo. Regala coi versi a chi sa ascoltare un magico canto di tenera confidenza. Sei tu Dolce malinconia tenero rimpianto innocenza sfuggita rapita in un istante Ambrosia lucente il ricordo si accende profumo di pane di dolci confetti Morbido abbraccio tenero lo sguardo soffice sicuro approdo Un raggio di sole s’accende al pensiero sei tu, non è vero? Rita Gatta è nata a Rocca di Papa ( RM). Laureata in sociologia presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Ha pubblicato nel 2004 “Avventure nel “Castello dello spazio”. Nel 2001 ha vinto il primo premio al Concorso Letterario Città di Ladispoli con la poesia “ Ombra Chiara”. Nel 2010 ha pubblicato “Svrìnguli Svrànguli” raccolta di brani e sonetti in italiano e rocchegiano. Partecipa attivamente a convegni sul Dialetto. Collabora con riviste locali, quali Castelli Romani, Controluce e il Grillo pubblicando brani, sonetti in vernacolo e brevi articoli di attualità e cronaca. 92 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 93 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte AA. VV. Antologia del decennale 2003-2013, Hammerle, editori 2013 In occasione dei suoi primi dieci anni di vita il Pen di Trieste, presieduto da Antonio Della Rocca, ha realizzato una antologia collettiva di prose e poesie, volta a documentare non solo il pregio culturale dei suoi membri, ma anche a illuminare i valori ispiratori dell’organizzazione, attiva nel capoluogo giuliano. Come si evince dal Manifesto di Bled del comitato degli scrittori per la pace, adottato al 79°congresso mondiale a Reykjaavik nel settembre del 2013, il Pen è un’organizzazione mondiale di scrittori che promuove una cultura di pace basata sulla libertà di espressione, sul dialogo e sullo scambio. Ha tra i compiti principali quello di vegliare sulla diversità linguistica e culturale e sulla vitalità delle culture e delle lingue che siano parlate da molte o poche persone. In questo spirito di terra di confine Trieste si pone non solo in potenza, ma in atto, come laboratorio di un modello fruttuoso di scambi ed incontri, sulla scia della sua ricca tradizione mitteleuropea e di transiti di linguaggi, di commerci e di idee. L’antologia, cui hanno dato contributi notevoli, autori come Marilla Battilana, Ezio Berti, Lina Morselli, Ana Cecilia Prenz ed altri, vuole essere il volto letterario di quella complessa rete di finalità ed intenti che il Presidente Della Rocca spiega nella densa premessa al volume. Nello spirito cantieristico di un’opera volta ad integrare passato e futuro si colgono nell’antologia numerosi spunti e suggestioni che documentano l’apertura e la sensibilità dei soci scrittori, di cui si è notevolmente ampliata la compagine per età ed interessi, ai temi sì della pace e della libertà, ma colti sempre nella ricchezza specifica di sensibilità creatrici di emozioni e di storie. Lo provano racconti, versi e riflessioni, in particolare quella sulla traduzione e il tempo, a cura di Elvira Dolores Maison. Interessanti infine tra le poesie, i testi in originale spagnolo del poeta argentino juan Octavio Prenz, tradotti a piè di pagina, capaci di evocare timori e speranze attraverso la musica delle parole immagini. Paolo Carlucci 93 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 94 I Fiori del Male Sandro Angelucci - Rescigno il racconto infinito- Blu di Prussia editrice, Piacenza 2014 Gianni Rescigno, poeta versatile e inesauribile, con i versi tramati di pensiero e con la libertà di parola si muove su vari livelli lirici e offre una visione ampia e dolente della realtà nel suo percorso umano e poetico. La sua opera mostra sensibilità antropologica, dimensione metafisica, il dramma della quotidianità, la riflessione tra visibile e invisibile, tra essere e non essere. Sandro Angelucci ha scritto un saggio sul poeta, impresa che richiede una lettura attenta e analitica della vasta produzione letteraria per potere avere un quadro esatto attraverso una prospettiva diacronica dell’evolversi della poetica. Di Rescigno il racconto infinito, titolo bene appropriato, richiama il divenire dell’esistenza tanto che la poesia Non sei silenzio tempo messa in esergo a modo di epigrafe del libro esprime bene l’idea: Far finta / che tu non esista non si può / e ti ritrovo ogni giorno / a camminare sul mio volto. Angelucci ripercorre con adesione totale della ratio e del sentimento le tappe del lungo e straordinario viaggio poetico di Rescigno cogliendone con chiaro acume la molteplicità e la varietà del reale nei particolari più minuti, la navigazione interiore del poeta, il valore e l’intensità della sua opera. Questo scritto dettagliato e illuminante sorretto da una espressione colta e limpida si colloca in modo particolare su due livelli in cui viene messo in chiara evidenza: l’umanesimo, cioè l’Humanitas nel significato terenziano: homo sum nihil a me alienum puto bene sottolineata nelle pagine e la poetica delle numerose sillogi. Il critico è arrivato a scandagliare sul mondo interiore ed esterno che anima la poesia di Rescigno nel quale vita e poesia vivono in simbiosi. Ne sottolinea la terrestrità della sua condizione umana, il modo schietto di attingere ai precetti del Vangelo nella ricerca di Dio e quindi la consapevolezza dell’oltre, l’amore per la natura, gli affetti familiari, in breve un universo composito dove la voce del poeta con la parola alata trasporta il lettore nell’iperuranio. Questa monografia si fa apprezzare per l’apporto ermeneutico perché induce a conoscere e approfondire l’opera del poeta. Una divisione cronologica, però, dell’opera e apporti critici diversi avrebbero condotto il lettore a una maggiore comprensione. Il critico nondimeno ha fatto un buon lavoro di cernita indicando un percorso per ulteriori studi su tutti gli scritti di Rescigno. Francesco Dell’Apa Renato Greco, La parola continua , Sentieri Meridiani Edizioni, Foggia 2013 Èvero: la parola continua e continuerà con Renato Greco. Questo recentissimo volume La parola continua Poesie inedite 1998-2001- rappresentano un altro spaccato dell’inesauribile vena di Greco. Qualcuno si domanda perché scrive Greco con questa fre- 94 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 95 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte quenza disarmante, inappuntabile, temporale? Greco scrive, diciamo noi, un’interpretazione di sé e degli altri, per sopire gli spiriti interiori per quel bisogno inestinguibile di fare e comunicare. È assolto dalla mitomania del rappresentato, i critici mallevadori o no vorrebbero farlo tacere. La poesia non si imbriglia, non ha muri sotterranei, ma vive dove s’insedia un poeta. Non volete recensirlo e va bene, ne avete facoltà; però ascoltatelo egli è un cantore seduto su un sasso a declamare le sue poesie, un liberatore della parola, un navarca di questo secolo, prigioniero ma non vinto dell’altrui famelica rabbia di dire a chi non dice. Lasciamo penetrare tra “fiume di scagli / ognuno è nudo / più che fosse la data / della nascita / e muoiono anche / gli angeli custodi..”. Queste poesie racchiuse in La Parola continua rappresentano il viatico di un uomo che ha fatto una scelta sconvolgente. La scelta di non abdicare al suo mandato di poeta. Crede, ha creduto che il suo dire è senza limite, perciò, profeti del nulla, lasciatelo scorazzare dove vuole e, un giorno, la sua poesia possa “incenerire i miscredenti”. Dunque Greco è uno che guarda con occhi giovani alla vita senza tenere in bocca “lame di coltelli”. Ancora un poco la sua rinnovellata vena poetica ci darà l’orientamento per poter barcamenarci in questa traversata della vita così aspra e persino amara. Antonio Coppola Renato Greco, La lunga via, da ieri fino a dove, Edizioni del Sud, Modugno (BA) Un lavoro, quello di Greco, La Lunga via, da ieri fino a dove (vol.III) affacciato tra storia, archeologia e mito. Un profondo documento dentro la storia di millenni che ci giunge da un poeta poco conosciuto ma assolutamente importante per la trasbordante opera che ci lascia. Questa La Lunga via con un apparato di note ai testi, è davvero voluminosa; forse la più compiuta manualità architettonica e poetica quanto l’ipotetico Ponte sullo Stretto di Messina, mai realizzato ai nostri tempi. Greco passa in rassegna le Civiltà mediterranee di duemila anni greco-latino e padroneggia dal Grande Re di Assur alle fertili pianure di Olimpia ad Achab, re di Israele. Insomma Renato Greco da Modugno ci riserva questa imponente lezione di Storia. Fosse l’ultima? Non è così, l’uomo, guru del verso libero ha riversato in pubblicazioni milioni di idee, di immagini. Questa epopea umana La lunga via ci sovrasta per le rutilanti vie dell’universo, tra storia, mito e una ricerca certosina da scriba indefettibile. Antonio Coppola Silvana Baroni, Criptomagrittazioni, Onyx editrice, Roma 2013 Felicità critica è il viaggio che ordina, nell’opera di un autore, le soglie diverse di creatività, rivelandone la cifra, nell’aritmia di scrittura. L’opera di Silvana Baroni, in virtù del suo essere prismatica e vitale, concede tale sortilegio. Asciugata al sole etico 95 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 96 I Fiori del Male e fulminante dell’aforisma, di cui ha dato prove notevoli nelle sue ultime pubblicazioni, la scrittura dell’autrice si accosta al velame dell’arte di Renè Magritte per trarne la luce violenta degli oggetti e i palpiti interiori di lacerate realtà umane, solitudini di cappelli sul fiume, nerofumo di coscienze, senza celestiali annunciazioni. Attraverso un mirato e capillare studio delle carte scritte e pittoriche dell’artista belga, la Baroni sommuove sì forze archetipiche nelle visioni del corpo, del sacro, del viaggio nel sottosuolo di oggetti e stati di coscienza epifanici di un malessere lucido e spinoso, ma attraverso le sue criptomagrittazioni dà appunto voce alle opere, chiarisce come la risposta di Magritte sia geometrica e denotativa, priva ad esempio dell’infanzia notturna delle fiere-giocattolo di Dalì, autore simbolo e quasi convenzionale del surrealismo d’abord, anzi è antitetica al surrealismo del pittore iberico. È una riflessione, un coltello che governa il buio, quell’arte amletica di questioni di essere, capaci di evocare il mistero, non di regalarlo all’occhio di superficie. E la meraviglia agra del sogno è lì … nella mela, nel cappello, nel trono vuoto, nella foglia, nella candela accesa; insomma è nel fasto grigio delle cose il sogno. Il francobollo d’esistenza è sorriso che spaventa. Sono stati i sorrisi a spaventare il successo, i guizzi al crocevia, le verità a sperpero, le astrazioni a chiave di musica,il goloso pallore dell’alba. Uno dei punti nevralgici del libro è certo il testo La mia sediola sul tuo scranno? che si lega all’immagine de la Lègende de siècles, sconvolgente e drammatico esempio di rovesciamento Oh mio Dio! Davvero un posto a capotavola tutto per me?.. davvero io a presentire uragani sul picco dell’infinita arsura? / io sul trono primordiale, nella luce intermittente tua verde ramarro,… io Adamo, la cavia / a far prove per altri che verranno / a testare lo spazio del vivere. Un concentrato di filosofia per l’uomo di ogni epoca, Icaro ebbro…. Opera ricca di sinestesie culturali, densa di richiami alla filosofia e all’arte in ogni pagina uno specchio che attraverso occasioni di vita ci stupisce come l’orfano di sessant’anni di spalle al sipario / in attesa…., pare stia, persi gli occhi nel diluvio dell’ora lento a sgualcire il resoconto dei fatti, a contemplare la foto che resta nella tasca di un uomo / ormai giunta a chiarezza la sorte / , perché sempre.. ferita aperta è l’evidenza, anche di una foglia, della pioggia che si fa ruggine. Paolo Carlucci Wilma Vedruccio, La casa del sale - Storie di un altro Salento, Edizioni Kurumuny 2013 Poco importa che ognuna delle protagoniste della sezione “Ritratti” del recentissimo libro di Wilma Vedruccio edito da Kurumuny, 2013, proponga un aspetto del Salento: la carnalità di Carmela, “I capelli biondi di Carmela”; il barocco del putto della Pala di Santa Lucia di Lorenzo Lotto, “Il bimbo di Lotto”; la seduzione, la malizia e la vanità della protagonista de “La casa del Sale”; l’archetipicità di Maria (Maria); la punta di follia di Cocettina; la gioiosità e l’ingenuità della ragazza di 96 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 97 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte copertina…Tutte sfaccettature della femminilità e del Salento che restano indelebili nella memoria. Poco importa che “Naturalia” ci rinfreschi gli inimitabili panorami – anche dell’anima - del Salento contadino vissuto attraverso ricordi arcaici, ritmi e abitudini di tempi antichi, lunghi e silenziosi (“Orti”, p. 70): “A far bello il Salento, orti e ortolani (…) In primavera la terra, lavorata da mani di antica sapienza, diventa grassa, umida, promettente e le giovani piantine, allineate in filari con grande precisione, incoraggiate da poche gocce d’acqua, crescono in poche settimane, si spandono sul terreno, s’arrampicano a sostegni di fortuna, brillano col loro verde nuovo al sole, promettono frutti e maturano ortaggi e legumi già ai primi giorni dell’estate”. È che in verità in questa ultima raccolta di racconti, il Salento – terra amatissima dalla scrittrice dove è nata, dove vive e dove si “agita”, come lei stessa afferma - è vissuto e amato attraverso un’esplosione dei sensi, di tutti i sensi. Si legga, per esempio, il racconto intitolato “La domenica di un laico solitario” in cui il rapporto con il mondo esterno è ritmato dai sensi: il protagonista va in bicicletta a sentire l’odore della terra dopo la pioggia, a vedere le piantine appesantite dalle gocce d’acqua che dondolano piano di benessere (…) Poi c’è la radio che offre la sua migliore programmazione proprio nel mattino domenicale, bisognerebbe stare col fiato sospeso senza far nulla, per ascoltare (…) Come è buono l’odore della roba lavata, sa di nuovo, sa di leggero come un corpo rinfrancato. Come un’anima nuova” (p. 22). Ancora, in “Delle colombe il non volo”: “La magnificenza di Dio si sarebbe rivelata ai loro occhi, alle loro ali, in tutti gli odori, nella varietà dei sapori, nella varietà delle forme” (p. 41). Nei racconti si avverte una tensione continua, una volontà, un desiderio, un impegno alla perfezione, alla Bellezza, all’assoluto. È così anche per Dio – “Il divino pittore”, p. 44 - nella sua Creazione: “Sulla tavolozza i soliti colori base, erano le sfumature il suo esercizio preferito su cui si ostinava da tempo alla ricerca della pennellata pura per cui poter dire: “Ecco, era proprio questo che cercavo di fare” (p. 44). È così per il cane fedele al padrone che non lo vuole più perché è fedele a se stesso (“Randagio”, p. 34). È così per la stessa Wilma impegnata, tesa fino alla ultima fibra del suo corpo anche attraverso Facebook a difendere la sua bella terra e a smascherarne abusi e brutture. Infine, questa raccolta è sotto il segno del sole presente non solo nei titoli (“Prima del sole”) ma che è protagonista di ogni racconto. Sole, manifestazione della divinità che ha benedetto questa terra. Sole, energia illuminante, fonte di luce, di calore, di vita. Fausta Genziana Le Piane Laura Rainieri La bassa piana e le fontanelle, Tiellecci 2013 A prima lettura “La bassa piana e le fontanelle“ di Laura Rainieri figurerebbe un testo composito, l’occasionale assemblaggio di una sezione dei versi, delle note esplicative a prevalente carattere storico e di un apparato iconografico con funzione esor- 97 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 98 I Fiori del Male nativa: per l’esito scontato di un’operazione nostalgia. Invece l’obiettivo è più sottile e complesso, riassumibile nel confronto – verifica da sottoporre al vaglio del lettore tra un momento lirico e l’oggettivo degli altri due, dove le parti interagiscono, nella prospettiva della restituzione totale di un territorio e della sua gente, secondo un’inedita formula narrativa, dichiarata nel sottotitolo “Racconto in versi”.Lo conferma anche nella stessa sezione dei versi, ad esempio, l’accostamento alla lirica “La Rocca al mio ricordo” di due prose sotto il titolo “Il castello di S. Secondo” a firma di due storici. Va da sé che l’oggettività è solo parziale, perché i personaggi e le situazioni delle supposte note e dei versi sono quelli cari all’autrice e le immagini riproducono i suoi luoghi. Anche il rimando esperito nella “Introduzione” di Plinio Perilli, fatte le debite proporzioni, tra la Rainieri e Bertolucci, solo motivato all’insegna comune della provincia parmense, risulta improprio: diverso il paesaggio, e il paesaggio si sa fa l’opera, in prevalenza montano nel poeta de “La camera da letto” e qui invece della Bassa padana. Diversa anche la concezione del tempo, che innerva strutturalmente le opere, secondo una costruzione nastriforme dei versi in Bertolucci, dove implicito trascorre il flusso dei giorni; al contrario nella Rainieri una sistemazione quasi scolastica della materia sotto le rubriche “Le origini” “Storie di duchi e duchesse”, “Le magnifiche sorti e progressive”, (di memoria leopardiana) ecc..., e al loro interno, con tanto di titoli a tema, i singoli componimenti. In “Fontanelle” il tempo è spazializzato e compare agli occhi come panorama, un presente che contiene sedimentati i monumenti lasciti della storia, a tal punto che nella memoria antica di oppressi e oppressori, la Rainieri, pur parteggiando per i primi, non rifiuta l’eredità degli altri, riconoscendoli parte della propria identità di paesaggio. Così l’esperienza della storia e del privato coincidono.A definire la connotazione erotica di quest’opera soccorre un rilievo contenuto nel testo di una raccolta postuma di saggi di Andrea Zanzotto, intitolato “Il paesaggio come eros della terra”. Riandando alle parole della donna di Mantinea, Diotima, in Platone, il poeta di Pieve di Soligo ricorda come Eros “ha qualche cosa che viene da Poros (ricchezza) e Penia (povertà) ed ha a che fare con lo scambio“, poiché tra i due c’è “il senso di un’infinita perdita che esige un infinito compenso”.Il legame è nell’ontologia sottesa al paesaggio, la quale accomuna uomini e cose nel senso della Natura, perché le terre della Bassa parmense sono tutt’uno con l’acqua dei suoi fiumi, innanzi tutto il Po, e di quella sostanza è composto in prevalenza anche l’uomo (una verità scientifica) in una compenetrazione, rilevata nella breve “Prefazione” di Egidio Bandini in una semplice frase attribuita a Verdi, che vale un intero discorso critico: ”La terra simile a sé abitator produce”. Ma la continuità della storia è incerta, forse impossibile: se è auspicata ne “La chiusa”, l’ultima poesia della sezione dei versi, incombono i “Gamberi killer” “sgusciati dall’oriente”, metafora della omologazione di un mondo globalizzato, “a divorare i nostri”.Da qui il ricorso amorevole all’enumerata nominazione, che nella pronuncia cancella la 98 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 99 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte distanza e restituisce i luoghi: “Albereto / albero, Busseto / bossi, Noceto / noci, Saliceto / salici Canneto / canne”, ecc., ad esempio nella poesia “I nomi”, dove i toponimi, come gli agglomerati urbani, sono ricondotti al loro nesso naturale. In una silloge precedente “E serbi il sasso un nome”, per un richiamo necessario a comprenderne l’itinerario di ricerca, la Rainieri aveva reso omaggio alla madre morta, che diviene la Madre-Terra.Contemporaneo a “La Bassa” è poi un testo, “Badante sissignora” che, complice la sensibilità sociale dell’autrice, è stato per lo più valutato nel risvolto sociologico. Si tratta di un romanzo, dove l’io narrante, fattosi personaggio, si confronta con l’umanità di quelle figure provenienti in larga parte dai paesi dell’Est, che ripetono nello sradicamento le vicende della nostra civiltà contadina. Con un’attenzione, sempre rivolta al presente, torna il passato, ma ancora si smentisce ogni proposito di operazione nostalgia. Resta prima e ultima la questione della lingua, per la quale a taluno sarebbe parsa più confacente la scelta del dialetto, considerata la materia e le numerose prove fornite dalla Rainieri, problema non secondario in tempi di fervida neodialettalità poetica. Ma scontato l’ovvio rilievo che ogni poesia prevede un idioletto e che lingua e dialetto hanno, pertanto, pari dignità, a convincere per la prima deve essere stata la garanzia di un più ampio raggio di comunicazione, per testimoniare uomini e luoghi già così “naturalmente votati all’oblio”. Una lingua tuttavia dal dissimulato sostrato dialettale, per un’ulteriore adesione a una terra. Mario Melis Gemma Forti, Il pollice smaltato(Poesie 2007 -2012) Fermenti Editrice, Roma 2013 Gemma Forti, poetessa e scrittrice, vive a Roma dove è nata; ha pubblicato numerose raccolte di poesia e romanzi. Il pollice smaltato, che presenta un’introduzione di Gualtiero De Santi e che è illustrato da immagini policrome di Bruno Conte è un testo scandito in sei sezioni: When, A mezzanotte, La teoria dei quel, Mala tempora, Down e Sera obliqua. Nel suo complesso il libro è bene articolato architettonicamente. L’opera presenta un carattere del tutto antilirico e antielegiaco, inquadrandosi, nell’ambito della poesia italiana contemporanea, in un ambito che potrebbe essere quello della poesia civile, anche se non mancano, in qualche componimento, subitanee accensioni liriche, che presentano anche un carattere giocoso. Infatti, come scrive il prefatore, quella della poeta è una scrittura…che vuol investire e anzi aggredire il presente. Sono molte le tematiche affrontate, che si collegano, soprattutto, alla sfera delle problematiche del campo politico, di quello economico e di quello sociale, avendo per oggetto anche aspetti deteriori della società contemporanea, tra i quali la corruzione e la violenza e anche il tema ecologico, come in La monnezza sale, poesia che 99 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 100 I Fiori del Male si inserisce nella sezione Mala tempora. Molte sono i testi in cui è detta l’Italia, con tutte le sue contraddizioni. Il genere di poesia praticato potrebbe essere vagamente considerato come visuale, per il modo in cui i sintagmi sono disposti sulla pagina; i versi presentano grandezze dei caratteri eterogenee e alcuni di essi sono delineati in corsivo o in neretto. Spesso la poeta gioca con le parole e, non a caso, De Santi, nell’introduzione, parla di un neo cubofuturismo, italiano e femminile/ista e afferma che la scrittura, in questo libro, ha scomposto la realtà e i suoi falsi segni. Si constata, nell’opera una quasi totale assenza di punteggiatura e tutte le composizioni presentano la forma centrata sulla pagina, che dà un tono di vaghezza ai componimenti e, anche per questo, la poetica della Forti si potrebbe considerare come sperimentale, per le scelte e le tecniche utilizzate. Le strofe sono irregolari nella loro estensione e, a volte, si assiste ad una ripetizione dei sintagmi, che crea ridondanza. Nel contesto complessivo emergono anche spunti naturalistici trasfigurati ed idilliaci e lo stile è molto elegante e curato. I versi sono luminosi e icastici e, senza ombra di dubbio, si può constatare che una grande originalità caratterizza questa scrittura. Raffaele Piazza L’UOMO A QUANTI Fisica e Storia, Arte e Destino – atroce o fulgido – nel “quantismo” lirico di Mario Lucrezio Reali Tradotte da Irene Marchegiani e prefate da Paolo Lagazzi, queste poesie di Mario Lucrezio Reali che giungono dalla nostra vecchia Europa sino alla costa atlantica, e da lì a tutti gli States, col loro estro profondo e la briosa necessità del loro lirico antidoto contro la deriva stessa del reale (e della Storia), sono una sorpresa davvero lieta, un appuntamento, un rendez-vous magnanimo e garbato che come sempre il Sentimento dà all’Intelligenza… “Siamo essenze ambigue / Abbiamo radici e ali / Seguimmo sogni mostruosi / Infine tornammo mortali”. Poeta per sua e nostra fortuna totalmente sui generis, nel panorama poco più che asfittico dell’attuale nuova poesia – che modaiola vuol essere ma si sente assolutamente moderna – Reali, toscano di Valdichiana che ha girato il mondo e si vanta cittadino europeo, è un chimico provetto e alto dirigente di quei colossi multinazionali del settore energia che, al contempo, ci salvano e ci spaventano… È insomma un umanista di forte tempra e stampo scientista (metà bruniano, passionato e alchemico, metà galileiano, cioè a dire lucido e metodico?…), che giunge sì alla poesia ma né per vezzo né per digressioni (epocali o generazionali, fa lo stesso): “Ogni mattino cupo di letto / salgo sulla bilancia della / realtà Affido ogni malfatta / all’intelletto Vesto un giubbotto / d’ironia ed esco altro sulla via / Rido distratto portando / in ogni evento irrealtà”. Ha ragione Lagazzi, 100 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 101 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte suffragandolo e postillandolo da par suo, a scomodare e rivendicare anche per l’orizzonte ultimo della nostra malcerta poesia, e soprattutto per quella di Mario Lucrezio, il cosiddetto principio d’indeterminazione di Heisenberg (secondocui non è possibile effettuare la misura delle grandezze fisiche senza alterare lo stato del fenomeno misurato…): “Anche nella poesia di Reali è impossibile isolare dei nuclei stabili di senso, afferrare le parole al volo e spremerne la sostanza: tutto si muove, ogni forma balena e scompare, ogni immagine ondeggia, ogni pensiero scivola su chine sdrucciolevoli”… E in questo senso è forse proprio “L’uomo a quanti” la sua vera scommessa lirica e ben rara professione di poetica! La riportiamo per intero, come a ringraziarlo d’essere ancora riuscito (e non è cosa facile) a far ragionare la poesia con le sacrosante ragioni del cuore, e a redimere verso a verso il cuore, incredibile dictu, con le virtù più sane e riposte, le smerigliate o infrante geometrie, i frattali misterici come un pulviscolo divino, insomma i logaritmi segreti e certo inconfessati della nostra nuda mente, profonda e sprofondata di chiarità: “Ho scoperto a Mosca una sera / azzurrata dal fuoco delle nevi / la vita a intermittenze Quando / l’abete oscilla lieve il silenzio / alle finestre e un passante alterna / la luna Dell’umana ventura nel / banale variato ho trovato / certezza Essere ad onde / oggi matrice oggi una sillaba sola / Sono uomo a quanti / che a luce aperta vanta la sintesi / smarrita all’universo”. Plinio Perilli Mario Lucrezio Reali, A Tired Angel (Selected Poems), Stony Brook New York, Gradiva Publications 2011 “N°… (funzionario tartaro) – Dio che non esisti / io ti cerco / E voi che credete / trovate un dio che vada / nella foresta di Sandormoch / a consolare i morti / Troverete anche me che mi aggiro / leggero tra gli alberi / senza toccare le loro mani / abbracciato al buio”… Questo splendido libro di dolore e lacerazione, questa rosa insanguinata nel cimitero più negletto della Storia, meriterebbe ben più che una breve nota. Valga però intanto questa pausa, insieme recensoria e monitoria, a dar conto del fervore di pietas con cui Reali (poeta di cui da anni apprezziamo il talento, e la scelta etica della scrittura, dal Tramonto in Europa a L’anima corrotta o L’uomo a quanti) rievoca a mo’ di nuova – ben più atroce – Spoon River, la maledizione staliniana dei Gulag e dunque queste sfinite, sfiatate Elegie del terrore che egli attribuisce alle ossa, alle grida o ai silenzi ancora in tormento di quelle povere vittime, martirizzate a milioni: “I fatti del libro sono autentici, da me annotati durante alcuni decenni in Unione Sovietica e poi in Russia interrogando persone che con immenso pudore e dolore hanno testimoniato quella tragedia. Ho cercato di addolcire la parola per quanto il racconto del Male me lo abbia permesso.” Mario Lucrezio dedica questo libro 101 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 102 I Fiori del Male “al martoriato popolo russo”, e alla memoria di sua moglie Natalia Nikolaevna Verderevskaia, che sempre lo esortò a scrivere questi versi, come a salvarne quelle tante, povere anime riflesse, in un’aura di redenzione umbratile e assoluta, capace di onorare questa memoria rimossa, negletta, calpestata – ma ora almeno ripensata, rimeritata come cenere dispersa al vento, dannata al gelo del silenzio, che in questi versi almeno trova ricetto: una zolla, una pausa, radice di luce, goccia o pioggia di parole, l’epicedio dei nomi, già pulsanti, vitali, e secchi ora come intrico di vene, crepe svuotate del grande Corpo in travaglio della Storia, fecondato e sfinito di Vita, per morte cadenzata, ininterrotta. Plinio Perilli Roberto Pagan, Robe de no creder, Edizioni Cofine Roma 2013 Una prova di grande impegno questa Robe de no creder di Roberto Pagan, potente periscopio dentro un dotto intercalare sulle abitudini di un recente passato rimasto alla gola di Pagan e recuperato con questi versi variopinti in dialetto triestino. Leggere i versi di questo immaginifico teatro di figuranti, quanto meno esistiti e nutriti dalla fantasia del poeta, rappresentano lo spoglio di un dinamico lungometraggio girato nelle aree non solo triestine ma in tutte le latitudine del globo terracqueo. C’entra la storia, buffa e surreale, c’entra a maggior ragione la partita giocata da Pagan dentro una dissolvente, aurorale centralità di episodi turgidi che fanno epoca nel glossario fiammeggiante del poeta. Si nota una concentrazione teatrale, mossa qua e là, da uno straordinario direttore d’orchestra. Sì, un’opera riversata nei versi, senza nascondimenti, creata per squadernare gli “assetti marmorei” di un sociale che si ripresenta come un valzer impazzito di forme biffate in un’ironia voluta. Un libro di sostanza scritto da un inguaribile “disturbatore” della quiete, del passatismo mummificato secolo per secolo; questi versi (e non sono neanche i primi, con traduzione a fronte) rappresentano un piano di lavoro diagnostico e linguistico creati per legittima difesa e/o sedotti da una concretezza realistica; qui vige una duplice sostanza: la realtà destrutturata e scardinante dal riscatto di un “re nudo” molle metafora di Robe de no creder oppure qui si vive assaltando pensieri e fantasie che hanno significanti ad oltranza mai statici o riflettenti. Una prova onerosa, subitanea come “le vedove di guerra / dei pipistrelli di Strauss e dei violini” invenzioni poetiche rutilanti e infiorate di humour. Antonio Coppola Angela Giannelli, La via della sete/a (parte II) Giulinao Landolfi editore, Borgomanero (NO) 2013 Angela Giannelli fa tutto un discorso ermeneutico sulla parola con dotta caparbietà. Dice di amare le narrazioni “cosmogoniche” e le scoperte scientifiche. Tutto 102 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 103 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte giusto per lo spirito e per fortificare la parola; in questa Via della sete/a in nome dell’Eros e dell’amore in generale si costruisce il “fatto poetico” che viaggia quasi sospeso, tra un tempo ritrovato e un amore pure ritrovato, fuggevole, stremato. Giannelli aziona una capacità rafforzativa del verso e lo manipola, lo invera, lo riversa in un fiato lungo, nel solco di una parossistica ricerca. “…Eterni quasi quanto il tempo / ora che un intero cargo di memorie / nelle nostra anime dimora…”: questo flusso vorace di parole giunge stremato ad ogni bivio, quale storia la Giannelli può raccontare se no dell’Universo che si muove, che la parola vince ogni ritrosia, ogni svelamento? Se la poesia s’invischia in questa rete rimane poco di essa, ogni forza (anche la più titanica) si scioglie in una declamante, ossessiva “Terza via”. Si perpetua un inganno ed ecco affiorare prepotente in ogni pagina il mistero, la riprova di un universo mutato che neppure la poesia può accogliere i suoi resti. Antonio Coppola Carlo Cipparrone, Il poeta è un clandestino, Di Felice Edizioni, Teramo 2013 Scrivere è un atto di pace o di guerra, / d’amore o d’odio?.. la penna è un bisturi, un coltello, / una pistola rivolta verso gli altri / o da accostare alla propria tempia, / anche se manca il coraggio di premere il grilletto. È un’arma sottile / al servizio del bene e del male: lama affilata di rasoio / che ogni mattina fa la barba al mondo. Con questa pungente dichiarazione di poetica Cipparrone ci offre nella sua ultima raccolta poetica lo stato dell’arte suo e del sentimento di crisi del pianeta poetico contemporaneo, a cui guarda con occhio di clandestino, spietato e talora epigrammatico, quasi nuovo Giovenale, di chi vuole opporsi alla pedanteria di quanti hanno ucciso il significato, amano la pagina esangue, la frase, zeppa d’oscure metafore. La strategia d’attacco è chiara. All’unisono, verso dopo verso, polemica e costruttiva vis di una sagace opposizione si palesano in impietosi diari di bordo di convegni ed eventi dedicati alla critica poetica. Qui il poetichese del cotè accademico è posto con coraggio alla berlina in opposizione al fare del poeta che non va in cerca d’editori, non vende, né esporta versi. Diverte ed inquieta la rabies satirica di descrizione di un convegno. Il poeta lo vede come un simposio trionfante di -ismi logorroici, dove conventicole di leziosi filologi e critici, anche di chiara fama, sono visti come cerimoniosi becchini della Poesia. Il poeta è un clandestino dunque un borderline disilluso e selvatico ai più che tuttavia scrive sperando che la semplicità torni ad essere stile, auspicando che dove oggi un poeta annemico e servile sparge delebile inchiostro di menzogne / vi sarà domani un ragazzo / innamorato della verità. La corrosiva pars destruens di questa indagine in versi conduce però il nostro alla convinzione forte che scrivere è opporsi, che per lui scrivere è dar voce a pensieri, visioni, sogni lontane 103 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 104 I Fiori del Male memorie, insomma all’arsenale di emozioni che attraverso le parole paion dare barlumi di sole, parole, spesso però infeconde, a giorni grigi, tetri o sereni. Scrivo dimenticandomene, senz’attesa, né speranza di messi, dice di se stesso il poeta che sigla qui e altrove la propria distanza dal circo mediatico, attua come un poeta antico la recusatio, denunziando i propri limiti per meglio colpire i vizi del disordine delle parole del fare poesia oggi diffuso e da molti praticato, verso i quali non risparmia strali d’invettive, un ‘intera sezione. L’autore cerca così nella sua poesia di stringere a sè quel bagaglio di senso, di contenuti in armonie di forma, insomma di ritrovare spunti di quella poesia onesta, di cui parlava già Saba, come compito precipuo del vero poeta che deve mettere cuore e non solo arte nel suo dire di vita. Toccante il ricordo di Betocchi, conosciuto in occasione di un suo passaggio in Calabria e fonte di riflessioni su poeti e poetiche, al maestro fiorentino di poesia, Cipparrone dedica l’ultima sezione, La comune strada; egli così si sente sodale specie ne l’amaro sconforto e nella delusione del poeta inappagato che, nondimeno, tra cantieri e memorie s’affina e trae ispirazione, come è avvenuto per tanti.. tecnici animati da vis poetica, ad esempio i casi di Quasimodo, Gadda, Sinisgalli, Bargellini.. Paolo Carlucci Stefano De Minico, L’ultima zattera, Bonaccorso editore, Verona 2009 La raccolta di poesie L’ultima zattera introdotta dalla puntuale e sapiente prefazione di Alfredo Bonazzi fa da prodromo all’esordio di un giovane poeta. La silloge abbraccia un ampio arco di tempo in cui si può notare nel divenire l’evoluzione poetica verso forme più mature di pensiero. Nelle prime poesie giovanili si evidenziano in nuce quelli che saranno i temi negli anni successivi. Emerge nei suoi primi passi poetici un compiaciuto crogiolarsi dell’io lirico in una sorta di poesia chiusa nella vicenda autobiografica dove giunge l’eco di uno sturm und drang di spirito foscoliano e una patetica visione lucreziana e leopardiana del mondo. Tutta la poesia di Stefano De Minico è pervasa da una linfa inquieta: Questa vita è come il vento Che spira tra le mie mani e la sua anima sbanda in ogni spigolo irrisolto della ragione. Il poeta rovista in se stesso, si ausculta, rivendica un ruolo orfico della poesia e cerca di dare una risposta a tutti i dubbi, i perché, le ansie che assillano il suo animo. È una lirica che nella rappresentazione del conflitto interiore tra l’io psichico e la realtà tende a sottrarsi al grigiore della vita, prigione che tarpa le ali alla speranza, con la forza estrema di lottare nel mare tempestoso per sottrarsi al naufragio. L’incalzare ricorrente di temi sulla inquieta e dura esistenza rivelano una forte ansia di evasione; nella plaquette vi è una densa rete di contenuti, di figure, di interrogativi e riflessioni che denotano una scrittura ricca di impegno e di intensità tesa all’introspezione e 104 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 105 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte all’analisi di sé. I sentimenti che animano la lirica: la malinconia, lo stupore, il senso di solitudine, il pensiero dell’oltre: Penso alla vita dopo di questa, sono la cifra dei suoi versi che illuminano con squarci di luce la mente e il cuore. Un aspetto certamente non secondario nella poesia di Stefano De Minico è l’Eros che canta in diversi componimenti. È un eros che non stimola vertigini da Cantico dei cantici, a volte squassa l’animo come vento impetuoso altre volte domina una sottile tenerezza : Il mio desiderio si fa tutt’uno con la parola e stringe a sé un tenero cuore che chiede ancora di poterti abbracciare (A Chiara). Il volumetto alterna offerte in versi, per la maggior parte, e in prosa. L’autore segue una lunga tradizione da Baudelaire ad oggi e in entrambi i casi non viene meno la vena poetica. Questa silloge mostra maturità di pensiero e profondità di sentimento che il poeta esprime con un linguaggio talora ricercato ma sempre incisivo e moderno volto ad uscire dal guscio dell’essere e a ritrovare se stesso attraverso la poesia. Francesco Dell’Apa Nino Piccione, L’odore della tonaca, Bibliotheca Edizioni - Città del Sole, Reggio Calabria 2012 Kierkegaard nelle sue opere parla delle varie possibilità dell’esistenza e delle scelte che può fare l’uomo, oltre quella “per cui vivere e morire”. Nella scelta dell’esistenza religiosa l’uomo etico può vivere in modo “dialettico” o secondo regole morali stabilite. Questa premessa sul filosofo danese per introdurre l’originale romanzo dello scrittore giornalista Nino Piccione “L’odore della tonaca”, con prefazione di Dante Maffia. Più che un romanzo religioso, è la storia di vita e la formazione del protagonista narrante – un sacerdote - che contiene un universo di valori profondi e un percorso di spiritualità attraverso il mondo che è stato e che ci aspetta. Un inventario degli ultimi decenni di esperienze, sofferenze e solitudini, una sorta epopea di un’umanità spesso straziata dalla vita, senza mai perdere la fiducia in Dio e nel trascendente. È la storia, narrata in prima persona, di un sacerdote (del quale l’autore non svela il nome, come se si spogliasse di un “io” ingombrante per indossare solo una tonaca e potersi meglio identificare in ognuno di “noi”) colto, erudito, divoratore di libri e di conoscenza mai fine a sé stessa bensì in funzione della fede e della ricerca della verità, in attesa del suo dies natalis, che per i cristiani è il giorno della morte. Attraverso un caleidoscopio di ricordi ripercorre la sua vita, dalla cruda e violenta realtà contadina di un’infanzia vissuta in campagna, all’angoscia dei bombardamenti e degli orrori della seconda guerra mondiale, alle memorie di guerra tracciate nel diario del padre durante la sua prigionia al tempo della Grande guerra, alla perdita dei genitori. Dagli esercizi spirituali all’apprendistato e alla pratica sacerdotale, dall’Azione Cattolica, alla tesi di dottorato e all’insegnamento ai giovani, ma soprat- 105 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 106 I Fiori del Male tutto è la storia di un uomo e di tutte le spesso tragiche vicissitudini umane. L’autore gestisce sapientemente il protagonista, i suoi stati d’animo, i suoi tormenti, gli incontri con chi lascerà un segno indelebile nella sua memoria (“..ci sono incontri che entrano nell’anima…diventano squarci di vita”). L’abilità stilistica e narrativa dell’autore consiste nel muoversi a suo agio all’interno di un vasto assortimento di scrittori, santi, teologi, filosofi greci, citazioni latine ed evangeliche, senza per questo far calare l’attenzione del lettore sul destino del sacerdote che si intreccia a quello delle sue stesse vicende familiari e delle tante disgraziate anime presenti nel suo percorso. Riesce così a coniugare il messaggio evangelico ad uno spaccato storico e sociale lontano da qualsiasi tipo di paternalismo bigotto e moralistico. Newman e Sant’Agostino, suoi padri spirituali, suoi compagni di via e di vita, insieme a tanti altri, Seneca, Empedocle, Giobbe, Sant’Ambrogio, San Tommaso, Dante, Pascal, Dostoevskij lo guidano e lo incoraggiano nei momenti di offuscamento e di incertezza; ad affrontare e giustificare il dolore e la morte (come nel dialogo col professore che afferma: “Vedo il dolore, ma soprattutto la morte, come il compimento e la ragione dell’avventura dell’uomo sulla terra..”), il richiamo dei sensi e la mortificazione della carne, a comprendere il significato della croce e del Cristo che ha cambiato la storia dell’umanità, ma anche a spiegare l’armonia tra fede e ragione. Ci sono dei momenti di forte lirismo nel romanzo (“Abbiamo bisogno di isole di silenzio dentro e attorno a noi..”, “Ho sempre pensato che ciascuno di noi è un’isola dalla rapida apparizione…sbriciolata dalle mareggiate”) che si alternano a considerazioni teoretico-teologiche esemplari di un incessante e crescente spinta escatologica del protagonista: “La preghiera è un discorso con le cose invisibili, cioè con il mistero... ”; “Il problema del male resta un osso duro…anche se spesso è attraverso la sofferenza che l’uomo entra nella dimensione spirituale della vita…”.Questo libro ha rappresentato certamente una necessità emotiva, oltre che narrativa, per Nino Piccione per descrivere la moltitudine di esseri umani immersi nel loro calvario quotidiano, per giungere a quel senso di eternità e infinitezza a cui tutti sono destinati, stelle che brillano in un cielo di speranza. Monica Martinelli Mariacristina Pianta, Ardesie e seracchi, Mimesis (Milano-Udine) 2013 Mariacristina Pianta, redattrice della rivista “Il Monte Analogo”, è nota sulla scena milanese per il suo impegno a vasto raggio nel dialogo tra le varie arti, anche tramite il marito Emilio Palaz, insegnante presso l’Accademia e pittore ben affermato. In particolare si è fatta promotrice del ricupero di una figura insolita come Maria Cumani Quasimodo, moglie del poeta, danzatrice e poetessa, curandone l’opera assieme ad Alessandro Quasimodo (si vedano O forse tutto non è stato, del 2003 e Il fuoco tra le dita, del 2011). In un suo autonomo percorso poetico ha pubblicato a tutt’oggi otto raccolte di versi. Tutte nel segno di un’assorta introspezione che muove però da un’indagine attenta e 106 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 107 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte sottile dei dati della realtà naturale ed umana. Al limite – si direbbe – di quell’arduo discrimine che separa i moti psicologici ed emotivi, insomma quanto attiene a ciò che chiamiamo coscienza, dal nostro coinvolgimento organico nel flusso dell’esistente. Una sensibilità dunque assai mobile e inquieta porta la nostra autrice a inseguire le labili forme fenomeniche con una scrittura che fa della concentrazione e della sobrietà di parole il suo punto di forza. Tutta tesa a fermare sulla carta l’attimo transeunte e volubile dell’accadere, aduna sulla pagina immagini e impressioni quasi allo stato nascente con una immediatezza di sillabe lasciate a vibrare nel loro puro valore evocativo: astenendosi da ogni tentazione di abbellimento retorico, metaforico o ritmico, e lontana da ogni espediente virtuosistico o sperimentalismo verbale. Ne vengono testi scarni, paghi di una evocazione asciutta di cose ed oggetti, visioni o ricordi, spesso raccolti in esili strofe dove una rarefatta dizione induce piuttosto alla ricerca di risonanze segrete capaci di aprirci un varco nel perenne mutare e contraddirsi delle impalpabili apparenze in cui siamo immersi. Così ancora in quest’ultima silloge dal titolo in fondo enigmatico, Ardesie e seracchi: che suggerisce, fin dalla dimensione elementare della materia – la nera porosità della pietra, la lucentezza cangiante del ghiaccio – quasi una impossibile endiadi, una separatezza, una mancanza di nessi. In fondo, è l’inquieto riproporsi della frustrante ricerca di un senso, di un legame che metta in contatto le cose nel tempo e il nostro pensiero con la sfuggente metamorfosi a cui nulla sembra sottrarsi. Ecco allora una meta (La meta, p.13) che appena s’intravede tra aspri sterpi, ma subito la nebbia sembra inghiottirla, e il sentiero è ormai vago ricordo, si smarriscono le voci, e tace ogni risposta. A un segnale positivo sembra immediatamente contrapporsi una contrarietà. In Intreccio, a p. 14, s’intrecciano lente / tracce d’azzurro / alla lunga corsa / del tempo: troppo lente, dunque, per compensare la lunghezza del tempo? E, subito dopo, se un fiume scorre limpido lungo la riva, è vero poi che deve aprirsi un varco tra cupe forre. Analogo segno di contraddizione nella pagina seguente (Fragili sponde, p.15), dove limpide acque scorrono sì, ma tra fragili sponde che si sfaldano…tra cumuli di terre rosse. E allora questi aggettivi nudi, essenziali, cui ci affidiamo così spesso nelle nostre valutazioni – lento, breve, lungo – appaiono irrilevanti in un fluire che non ha misure. E la strofetta conclusiva di I giochi del cielo (p. 17) ammette infatti desolata: Ti trovi a misurare / lunghe distanze, senza / più abbracciare il vento / smarrito per via. Persino il vento dunque si smarrisce per via. Lo spaesamento si rinnova dinanzi all’apparizione fugace della Locomotiva (p.18), soggetto tipico di tanto impressionismo, ma noi pensiamo anche allo straordinario Turner: il fumo bianco dietro la curva, l’acuto richiamo che si spegne tra l’ampia valle / e il ripido greto…Che relazione hanno questi dati di natura a noi così familiari con la mostruosa corsa della macchina di ferro? Altrettanto assurda ci appare la scenetta di caserma (La caserma, p.19) – un impiegato che cita versi latini a ogni sigaretta, un capitano che disperde inutili ordini tra polvere e regi- 107 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 108 I Fiori del Male stri –: essa rivela la sua insanabile eccentricità se accostata, come fanno qui bruscamente i versi conclusivi, alla vita della natura: un volo basso / di fagiani colorava / l’ampia baraggia. Non di rado queste paginette parsimoniose di parole, così spaziate tra margini bianchi, possono indurre l’impressione di quel tanto di metafisico che aleggia sulla sazia immobilità di certi haiku di tradizione orientale. Ma lì la fissità discende dalla composta saggezza dello spirito zen. Qui abbiamo piuttosto la sottile ansia della frustrazione in agguato: qualcosa di molto occidentale. Non ancora, nella pacatezza contemplativa di Mariacristina Pianta, una condizione drammatica; ma, appunto, l’irrisolto “disagio della civiltà”. Roberto Pagan Marzia Spinelli, Nelle tue stanze, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2012 Il rapporto tra poesia e dolore è intessuto a doppio filo, come quello tra la poesia e la perdita, a cui consegue necessariamente dolore. Se poi la perdita è quella della propria madre - che rappresenta la Perdita, il distacco da quel cordone ombelicale che ci ha donato la vita - il dolore è ancora più grande, ed è un dolore unico, particolare, che ci accomuna tutti: “A dimenticare la voce / ci vogliono anni, mi dicono. / Parlano come sapessero / tutto dei morti. Hanno pena sincera di me,/straniera approdata. / Stesso dolore, stesso cuore pesto..” “Nelle tue stanze”, seconda opera di Marzia Spinelli dopo la silloge poetica “Fare e disfare” (2009), è un libro dedicato alla madre a seguito della sua scomparsa pubblicato dall’editore romano Progetto Cultura nella collana di poesie “Le Gemme” curata da Cinzia Marulli, con una preziosa introduzione di Alberto Toni. In questi versi è possibile specchiarsi e riconoscersi per riflettere non solo sul senso della morte, delle emozioni generate e sull'elaborazione del lutto, ma anche sul concetto dell'inesorabilità del tempo che la poesia riesce a fermare e a rendere perennemente presente e vivido proprio attraverso la memoria: “L’amo della memoria / è una corda pendula, il gancio / su un’attesa da riempire..”. Il gancio dei ricordi appeso all’anima. Ecco altri versi ricchi di metafore sulla vita e sull’oltre, sulla frantumazione del tempo e dei ricordi che, come le foglie, si insinuano quasi a non volerci lasciare mentre altri, ancora troppo freschi, troppo leggeri, si alzano in volo e ci abbandonano senza traccia: “Le foglie rosse nella tua stanza, / inutile raccolta, insostenibile il vuoto / affacciato su questo nulla…le più frantumate s’insinuano negli angoli / del parquet divelto, / non avvertono, non lasciano traccia / le più leggere che volano via.”La sensitività, che è al tempo stesso sensibilità, emotiva dell’autrice è un asse portante nella sua poetica. L’empatia percorre il libro, e se da un lato la scrittura diventa un’operazione catartica per l’autrice, una modalità per lenire la sofferenza e magari anche il senso di colpa che una figlia fragile può provare dopo la scomparsa di un genitore pensando di aver “mancato” in affetto, in premure o comunque in qualcosa, dall’altro rappresenta un soccorso alla vita di chi resta, di chi legge e di chi 108 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 109 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte prova lo “stesso dolore”, un compatire insieme, generando un mosaico di altre possibili o reali madri e figlie che si sovrappongono all’immagine di sé e di sua madre, come nella poesia ‘Negozio di pietre’: “Tace il pianto / sigillato tra le pietre / dove la figlia padrona fuma e vende quarzi, / dice buongiorno come te / la madre quando arriva”. Effetti della nostalgia…Illustri e noti poeti hanno dedicato poesie alla propria madre, tra cui Pasolini nella “Supplica alla madre” (citata in esergo), Alberto Bevilacqua in “Poesie alla madre”, ma quella che più mi sovviene leggendo i testi del libro di Marzia è la “Lettera alla madre” di Quasimodo: “Ah, gentile morte, / non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro / tutta la mia infanzia è passata sullo smalto / del suo quadrante, su quei fiori dipinti: / non toccare le mani, il cuore dei vecchi.” Così anche la nostra poetessa parla di un orologio: “Se è il giorno o la notte fa lo stesso, / l’autunno di adesso m’ha fermata / alla tua ultima estate / fisso a quel nulla il tuo orologio / continua a chiedermi che ora è”, e quell’orologio non è solo una misura del tempo e dell’affetto filiale, ma di tutte le cose.Questo libro non è un diario autobiografico e lamentevole, ma la descrizione della verità della realtà e del dolore. Lo stile è chiaro, pacato ma evocativo, mai eccessivo o forzato, non ci sono sbavature, ogni verso è al giusto posto. Una struttura liricamente ritmica e solida, versi asciutti, limpidi e densi: “Chiuse come urna nella tua stanza / le nostre verità, coltivavano tutte / spighe di grano, ciliegie che divoravi, / tra rami secchi d’ulivo benedetto, / e fiori, / di quelli almeno non ho mancato”. E un congedo dolcissimo e struggente lascia l’amarezza del ricordo, l’ultimo: “L’ultima stanza é l’ultimo giorno, / il più lungo, poi ti portano via”. Monica Martinelli Lucia Occhipinti, Verso la luce, Edizioni Lo Faro Roma Per una strana coincidenza d’amicizie sono venuta in possesso del libro di poesie della poetessa Lucia Occhipinti. Devo dire che, con altrettanta sorpresa, ho trovato la bella presentazione al libro di Antonio Coppola. Ho letto con molto interesse le liriche che rispecchiano un animo gentile e sensibile al servizio della Poesia. La Nostra si accosta al verso in punta di piedi, con una capacità descrittiva forgiata dagli impulsi del cuore. Sono liriche ricche di sentimenti nobili: l’amore, l’amicizia, il rispetto per tutto ciò che la circonda. Il verso è libero ma Lucia ci fa anche dono di una sua lirica in perfetto endecasillabo che ci tengo a riportare: “Solo una fonte d’acqua cristallina / raminga come me, di tanto in tanto / con voce dolce mi sussurra “Vieni / a spegner la tua sete, a non morire. Se qualche volta a te mi trovo accanto / ed al tuo sguardo chiedo una carezza / sappi che vivo solo di questo istante / di questo poco di tenerezza”. Poesia crepuscolare, elegiaca, di grande valore semantico. Carla Zancanaro 109 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 110 I Fiori del Male Pistoia Giovanni (a cura di), La letteratura per l’infanzia e la figura di Carmine De Luca, Atti del Convegno, editi dalla Fondazione De Luca di Corigliano Calabro (CS), 2004 A volte, passeggiando sulle strade insolite della cultura, si fanno degli incontri eccezionali, preziosi e significativi, che fanno entrare profondamente in contatto con l’umanità e l’innocenza di uomini e temi, che albergano esclusivamente i luoghi dell’anima, per come espresso e portato avanti dagli amanti e artisti della poesia e della letteratura per l’infanzia. Una letteratura che ha dovuto e continua a dover molto faticare per vedersi riconosciuti i propri autonomi spazi d’espressione, e poter entrare a pieno titolo nell’ufficialità della critica e della storia letteraria, sottraendosi all’influenza negativa di una certa stampa di tendenza, che vorrebbe fare e della letteratura per l’infanzia e della poesia, generi subalterni e con visibilità zero, comunque, mai di primo piano. Grazie alla dedizione e all’amorevole lavoro di studiosi del calibro di Carmine De Luca, calabrese di nascita e romano di adozione, la storia culturale ci dice invece che il genere letterario dedicato all’infanzia, prima fra tutti la fiaba, il racconto popolare e la poetica esistenziale, hanno potuto imporsi e acquisire un proprio spazio di genuina espressione educativa e culturale. Nato a Corigliano Calabro (CS), Carmine De Luca, come tanti altri calabresi emigrati per necessità di lavoro in Italia e all’Estero, si è fatto apprezzare, attraverso il lavoro della sua mente creativa e per l’originalità letteraria e giornalistica, da studiosi e docenti universitari di primo piano, come Tullio De Mauro, Pino Boero, Franco Frabboni, Ermanno Detti e tanti altri. Riguardo al fortunato volume dedicato a La letteratura per l’infanzia, che ha come primario artefice De Luca e scritto in collaborazione con P. Boero (Editori Laterza, Bari-Roma,1995),“non è necessario essere critici letterari o psicologi per mettersi in sintonia con l’immaginario dei bambini”, dice nell’intervento del convegno Mario Di Rienzo, e poi continua “per far uscire la letteratura per l’infanzia dal suo stato di minorità, non c’è che una strada da battere: affidarla allo studioso di letteratura”(pg.87). La letteratura per l’infanzia, è questo il messaggio che mi preme passare e sul quale insisto, ha una sua autonomia di spirito e di svolgimento, con caratteristiche di genere letterario a sé stante, come d’altronde anche la poesia, ed è giusto che insieme percorrano la loro magica strada, di inedito sentiero evolutivo, potendo raccogliere il frutto educativo antropologico di un divenire umano che nell’infanzia trova molte giustificazioni primarie, proprio in quell’immaginario visionario che il bambino custodisce come atto di fiducia verso l’adulto a lui prossimo, e per un mondo futuro, auguriamocelo, capace di portarne avanti i valori e svilupparne le trame esistenziali, in piena libertà di linguaggio e con metodologie e strumenti propri e specifici del suo genere. Pasquale Montalto 110 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 111 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte Lucia Montauro, L’insonnia della psiche, Genesi Editrice, Torino 2014 Senza pubblico fervore, ma persistente e priva di sofismi, Lucia Montauro pubblica, dopo “Le costole del sonno”(2007) e “L’ebbrezza transitoria” (2011) (Laboratorio delle Arti, Milano), L’insonnia della psiche adottate in ogni suo verso, che in effetti trasmette interrogativi, identità individuali, quasi in un soliloquio stilistico tanto vicino al “poema”, e dando continuità alla propria ricerca culturale, oscillante e, qua e là, etica della sua poetica acre, disposta a farsi aspetto di una visione personale e morsa del respiro. Le soluzioni, mai sconnesse, fondano repliche consecutive e ormai l’inconscio motiva le pratiche notturne e diurne dei suoi conflitti legati a tale sensibile performance espressiva, direttamente adibita a più costellazioni emozionali, locus di un sottosuolo in cui l’ombra avverte i destini di sè stessa e quelli del mondo, per più effetti e misure a recitativi affatto sgualciti o soltanto soggettivi. Ed ecco un primo azzardo di codesto genere di spiritualità per ridarsi vita in ciò che si dissolve dei collettivi desideri e volontà: “Nelle notti d’estate / cercavo e ancora cerco / stelle inesplorate / ma l’affanno continua / a possedermi. / So che le mutazioni / accompagnano la vita / con ombre da sconfiggere / e vaghe percezioni di saggezza. / La pioggia si rigenera / in fiocchi, piume e cristalli / di neve / sui fiori che profumano / di terra”(p.14); o qui, nei dettati della medesima materia: “Nel mistero del dubbio / minuetti, duetti / concertati dal tempo. / L’illusione genera / elisir di vita: / le varianti non cambiano. / A volte la luna / ha gli occhi dell’oblio / che oscura pagine / scritte con l’inchiostro verde / ancora palpitanti di parole // prima di inciampare / sulle pietre dell’altrove.” (p.22). E infatti Lucia Montauro ripropone essenze di risaputa coerenza immutabile, a esito non incerto: “Nessuna gioia / quando l’ombra si prolunga / annullando sentieri / per pensieri nuovi. / L’erranza è avventura / che i prescelti vivono / nell’atmosfera universale / niente allegria per l’esilio / degli assenti // l’anima vigile accarezza il cuore. / In questo dove / non resta che accettare / l’amplesso con la sera / senza naufragare.”(p.48). I monoloqui continuano a privilegiare le funzioni dell’insonnia non astratta, né ironica; la rotta eguale e diseguale dei testi scarni ed evoluti promuove i desideri, in effetti vitali all’esistenza e alla scrittura (quanti dicono poco e si ritrovano “travolgenti” per certi recensori!). E intanto questi sono gli aneliti necessari e intuiti nella morfologia dei disincanti “opacizzati” non dal pessimismo o dal neo-crepuscolaristico movimento di afflizione, ma da incubi senza sonno. Questo si svolge in brevità non sospette per via di ritmiche intese, direi disciplinate da un rapporto palpabile diffuso.Lucia Montauro è giunta da Messina a Milano molti anni or sono. È autrice di otto sillogi affatto trascurabili: premiate, antologizzate, lette dagli amici con un fato assai analogo ai molti scrittori di versi, e in ogni caso riesplora -per intime confessioni- un’incalzante e sofferta voce, a bagliori persuasivi, non sospetti di ripieghi al quotidiano, alle narrazioni di cronache cruciali 111 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 112 I Fiori del Male e/o corrose.Il suo nitore è anche il merletto di un io che, comunque, non evita ben dislocate immagini e ideazioni, inerenti alla contemporaneità e al centrale rigore, presenza-assenza tutt’altro che vanesia o nascosta: sua faticosa verità! Domenico Cara Paolo Carlucci Strade di versi, editrice L’aura, Roma 2012 Scene di nuove odissee e geografie d’asfalto, sillabe amorose e altre solitudini, “isole d’umanità spaesata” ed “esuli melodie” si fanno “sussurro dell’universo” nel “grigio della vita” urbana. Paolo Carlucci, consapevolmente “refrattario alla modernità”, nelle liriche della silloge Strade di versi cerca “la scheggia di luce che resta” quale contrappunto alla noia della banalità o al “carnevale della flessibilità”, ai “crisantemi dell’etere” o agli “amari bocconi”.Se la vita ferisce e il male incalza, tuttavia una prospettiva di rinascita si cela “tra i bilancieri delle cose”. Un “peso del silenzio / ritrovato / tra tonnellate di voci” misura “pochi grammi / in più / d’Assoluto” e permea “sulla lastra del giorno / l’attimo di luce / il fiore che redime forse”.Queste composizioni non temono, non eccedono, esse osservano gli accadimenti introspettivi e circostanti tra chiese di periferia e gravezze d’infinito, “tra insegne di negozi / e sale di videogiochi sempre aperti, / come stelle comete metropolitane di città vuote / dove solo, pecca il fedele, utente virtuale / anima SKY tra infiniti “spot” esegeti “del silenzio della parola”.Le tante belle poesie di questa raccolta, strutturate in significative parti dai titoli emblematici, mettono a fuoco il viaggio meditativo riguardo a una sommatoria di esperienze le cui “strade di versi” sono battute da un presente di venti stranieri, d'amore, di “scrigni d’ombra / azzurra d’eterna luce” o “di matrici di speranza / nel pianto nero / dei lumini”. Nel senso più ampio, la poesia di Carlucci, a mio avviso, sintetizza la metafora di “un oceano di memorie disperso” in un tempo in cui “le icone di profeti antichi” si confondono tra le tenebre dell’inconscio o tra i “giochi di fauni decadenti”, sotto “un cielo di latta”. La forma e lo schema di rime, talora epigrammatiche, donano ulteriore intensità al linguaggio che scandaglia le esperienze e i riferimenti di un viaggio conoscitivo verso un approdo di senso in una nuova e al contempo originaria patria. “Un rifugiato extra comunitario / solo le ceneri dalle ceneri ha salvato / della memoria […] Si chiamava Enea, / fu il primo / il più antico clandestino, / uno di noi”: dal passato scaturisce “un prossimo lontano futuro”. Vetuste e attuali geometrie di bellezze o lontananze macchiate di storia “diffondono / belve gentili a pagamento, / la parabola di prati di luce, / di erba bio agitata dal vento / in una specchiera di cielo, / dove le rondini non volano”. Ma anche quando il tono diventa più aspro, il poeta mantiene una cifra stilistica d’intensa liricità e obiettività critica. Come un moderno Ulisse, Carlucci interpreta il desiderio ancestrale dell’uomo di trovare un approdo certo alla burrascosa navigazione fra gli allegorici mostri 112 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 113 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte quotidiani che popolano “l’atomo opaco del Male”. Prendendo semmai, quale ultima risorsa d’intrepida ironia, “il telecomando” per salvarsi “zapping facendo”. Daniela Quieti Giuliana Lucchini, L’Ombra gestuale L. C. poesia – Roma L’Ombra gestuale è scandito in tre sezioni: ai bambini di casa (1999), alle signore morte che ritornano e a chi va.I componimenti che compongono il testo potrebbero essere letti vagamente come degli haiku. Nelle poesie si constata una quasi totale assenza di punteggiatura. Elemento fondante nell’ordine del discorso di Giuliana Lucchini è quello di un ritmo incalzante, che, tramite musicalità, produce senso. I versi, tutti brevissimi e costituiti da pochi sintagmi, sono precisi e scattanti. Iniziano tutti con la lettera minuscola e questo elemento conferisce loro l’aura di un’arcana provenienza. Tutte le composizioni sono delle terzine irregolari e libere. Ogni poesia si può considerare un’epifania concentratissima e ogni segmento è senza titolo. Attraverso la lettura delle tre sezioni, connotate da una forte compattezza, si può avere l’idea di un genere di poesia che potrebbe essere considerato come un poemetto, per la coesione delle parti e l’andamento calibrato. Ognuna dei tre movimenti de L’Ombra gestuale è preceduta da un’immagine in nero e in varie tonalità di grigi. Le suddette figure rendono intriganti la lettura. Le strofe sono disposte asimmetricamente sulla pagina e questo elemento dà l’idea di un gioco di poesia visuale. Si assiste, attraverso le parole, all’estrinsecarsi di una polifonia d’immagini diversificate tra loro in una grande varietà espressiva. Si può affermare che ogni testo è disposto sulla pagina come elemento di una partitura musicale asimmetrica. Tutti i componimenti tendono ad una certa linearità dell’incanto, raggiunta attraverso magia e sospensione. Prevale il carattere di una grande chiarezza, anche se il tessuto linguistico, luminoso e icastico, è permeato da una forte densità metaforica e sinestesica.Tra i temi affrontati quelli di una natura vegetale e animale, intesa con leggerezza e vaghezza. Molto spesso vengono dette la corporeità, la fisicità, che si fanno parola. La poetica della Lucchini, in questo testo che, per la forma si differenzia dagli altri, può essere intesa in un certo senso come neolirica. Un lavoro originale, un esercizio di conoscenza nel quale, dall’ombra del non detto, si passa al gesto delle immagini delineate. Raffaele Piazza Stai leggendo “I FIORI DEL MALE” Abbonarsi è partecipare € 30,00 ordinario € 50,00 sostenitore da inviare sul C/C n. 54849815 A: I Fiori del male C.P. n. 273 S. Silvestro 00187 R O M A 113 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 114 I Fiori del Male Libri Ricevuti Emerico Giachery, Per Montale , aracne editrice, Roma 2013 pp. 134 € 10,00 Roberto Pagan, Robe de no creder, Versi in dialetto triestino, Edizioni Cofine, Roma 2013 pp.174 € 15,00 Giuseppe Aziz Spadaro, Baccanale privato, Edizioni Studio Tesi Roma 2013 pp.110 € 18,00 Stefano De Minico, L’ultima zattera, Bonaccorso editore, Verona 2013, pp.94 € 8,00 Carlo Cipparrone, Il poeta è un clandestino, Di Felice Edizioni, Martinsicuro (TE) pp.118 € 12,00 Nino Piccione, L’odore della tonaca, In coedizione Biblioteca edizioni e Città del sole, (Roma) e Reggio Calabria, 2012 pp. 167 € 14,00 AA. VV. Antologia del Decennale, I Libri del Pen, Hammerle editori, Trieste, pp. 200 s.i.p. Sandro Angelucci, di Rescigno il racconto infinito, Blu di Prussia, Piacenza 2014, pp. 90 €12,00 Robertomaria Siena, Nel cerchio del mito (Flavio Pitocchi, Lorenzo Romani e Piero Fornai Tevini, Marte editrice 2013 Colonnella (TE) 2013 pp.22 € 10,00 Mariacristina Pianta, Ardesie e seracchi, Mimesis Edizioni (MilanoUdine) 2013 pp.70 € 12,00 Riviste ricevute Capoverso – Rivista di scritture poetiche n.26 luglio-dicembre 2013 semestrale (CS) Redazione: C. Cipparrone, P. Corbo, F. Dionesalvi e L. Mandoliti. L’area di Broca, semestrale di letteratura e conoscenza, n. 96-97 luglio 2012 giugno 2013, (FI) direttore responsabile: Mariella Bettarini. La Vallisa, quadrimestrale di letteratura ed altro, n. 94 aprile 2013 (BA) direttore responsabile: Daniele Giancane Calabria Sconosciuta n. 137/138 gennaio -giugno 2013, trimestrale (RC) direttore responsabile: Carmelina Sicari 114 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 115 Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte 115 rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 116 I Fiori del Male Pier Luigi Berto, è l’autore della 1a di copertina, La Caduta, inchiostro su carta, 2005. Sono anche suoi la 3a di copertina e le opere all’interno della rivista. Allievo della scultrice russa Lidia Trenin Franchetti discepola di Despiau frequenta sin da giovanissimo l’atelier di Carlo Levi sempre a Villa Strohl-Fern. Per un breve ma intenso periodo dipinge nell’atelier di Riccardo Tommasi Ferroni alla fine degli anni 70. Espone alla “Margherita” di Calzetti a Roma e da “Cortina” a Milano. Insegna dal 1988 all’Accademia di Belle Arti di Roma. Hanno scritto di lui, tra gli altri: Berenice, Renzo Bertoni, Dario Micacchi, Jolanda Nigro Covre, Giuseppe Selvaggi, Vito Apuleo, Costanzo Costantini, Marco Di Capua, Robertomaria Siena, Marco Nocca. Marco Eusebi è l’autore della 2a di copertina. Nato ad Anzio nel 1991. Studente dell’Accademia di Belle Arti di Roma, è alla vigilia della laurea in Pittura. Personalità artistica già delineata e promettente, ha al suo attivo diverse collettive. Terrà la sua prima personale nel maggio del 2014. Finito di stampare in Roma - Marzo 2014 Stampa: Arti Grafiche De Martino snc 116
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