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ifioridelmale
quaderno quadrimestrale
POESIA
CULTURA LETTERARIA E ARTE
anno IX n. 57
gennaio-aprile 2014
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I FIORI DEL MALE
QUADERNO QUADRIMESTRALE DI POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE
Con il Patrocinio della FUIS Federazione Unitaria Italiana Scrittori
I fiori del male è una rivista libera rivolta ai poeti, emarginati o
affermati, che con la forza segreta e profonda della poesia hanno
sostanziato ricerca esistenziale ed espressiva. Una rivista che sia
testimonianza preziosa della nostra tradizione poetica e sia anche
percorso significativo nella ricchezza della poesia e della cultura
contemporanea, espressa nei suoi tracciati differenziati.
Direttore Responsabile: Antonio Coppola
Vice Direttore: Francesco Dell’Apa
Redattori: Paolo Carlucci, Melo Freni, Marzia Spinelli,
Daniela Quieti, Monica Martinelli, Roberto Piperno
Critico d’Arte: Robertomaria Siena
I Fiori del male anno IX n. 57 supplemento al n. 17 di SR, autorizzazione del
Tribunale di Roma n. 488/89
Libri e corrispondenza vanno inviati all’indirizzo della Redazione:
Antonio Coppola - C. P. n. 273 - San Silvestro 00187 ROMA
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prima concordate con la direzione della rivista.
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SOMMARIO
I FIORI DEL MALE QUADERNO QUADRIMESTRALE
DI POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE
N.57 GENNAIO-APRILE 2014
letterature
Robertomaria Siena Intervista a Hieronymus Bosch
Merys Rizzo Appunti
Sabino Caronia Intellettuali e potere…
Domenico Cara Rilettura della poesia di Gilda Trisolini
Paolo Carlucci La poetica di Vittorio Bodini
Francesco Dell’Apa Il peso di “essere” in Giorgio Orelli
Plinio Perilli Tempi D’Europa / Finalmente quelli della poesia
Daniela Quieti La Beat Generation Tra attese e Utopia
Pina Majone Mauro Mito e realtà nella Poesia di Argiroffi
Giorgio Linguaglossa La grande crisi della Poesia italiana
Roberto Pagan Nevia Di Monte sale in Campidoglio
Fausta Genziana Le Piane Colette & Company
Francesco De Napoli Giustino Ferri La Camminante
Ninnj Di Stefano Busà La nullificazione del prodotto poetico
Franco Mosino A chi il Nobel…
Antonio Coppola Il mito del bestseller
Fausta Genziana Le Piane La Poesia di Iole Chessa Olivares
Luigi Celi Il Giorno della Memoria
Carla Zancanaro Icaro (racconto)
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POESIE
Marilla Battilana
Giorgio Barberi Squarotti
67
72
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Luciana Vasile
Raffaele Piazza
Chiara Mutti
Giuliana Lucchini
Lina Furfaro
Davide Cortese
Rita Gatta
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79
81
84
87
89
91
LO SCAFFALE
pp. 93 – 113
Abbiamo recensito libri di: AA.VV. Sandro Angelucci, Renato Greco,
Silvana Baroni, Wilma Vedruccio, Laura Rainieri, Gemma Forti, Mario
Lucrezio Reali, Roberto Pagan, Angela Giannelli, Carlo Cipparrone, Stefano
De Minico, Nino Piccione, Mariacristina Pianta, Marzia Spinelli, Lucia
Occhipinti, Giovanni Pistoia, Lucia Montauro, Paolo Carlucci, Giuliana
Lucchini.
Tavole Fuori Testo: Pier Luigi Berto, Marco Eusebi, Emerico Giachery.
In questo numero hanno collaborato: Robertomaria Siena, Merys Rizzo,
Sabino Caronia, Domenico Cara, Paolo Carlucci, Francesco Dell’Apa, Plinio
Perilli, Daniela Quieti, Pina Majone Mauro, Giorgio Linguaglossa, Roberto
Pagan, Fausta Genziana Le Piane, Francesco De Napoli, Ninny Di Stefano
Busà, Franco Mosino, Antonio Coppola, Luigi Celi, Carla Zancanaro, Mario
Melis, Raffaele Piazza, Monica Martinelli, Pasquale Montalto.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
L’INTERVISTA
Intervista impossibile
a Hieronymus Bosch
di Robertomaria Siena
ROBERTOMARIA SIENA:
Trovarla qui in Paradiso, caro maestro, mi lascia
assai perplesso.
HIERONYMUS BOSCH: Ha ragione; vedrà che però, a momenti, sarò trasferito
là dove, fin dall’inizio, avrei dovuto essere collocato.
R.S.: Lei, pittore degli Inferi, negli Inferi deve abitare.
H.B.: Appunto; la collocazione provvisoria in Paradiso dipende dal fatto che
nelle Alte Sfere hanno recepito la mia estraneità alle tesi del Fräenger.
R.S.: Infatti questo studioso sbaglia a pensare che lei appartenga ai Fratelli del
Libero Spirito; se ciò fosse vero, ad esempio, cambierebbe tutto il senso del
Trittico delle Delizie. A destra Cristo benedirebbe l’unione carnale di Adamo
ed Eva mentre, al centro, si celebrerebbe la gloria del Paradiso Adamitico,
Paradiso del tutto sensuale e peccaminoso.
H.B.: La mia opera deve essere letta in chiave edificante; vedo però che desidera parlare immediatamente dell’autore del lavoro pubblicato nella prima di
copertina di questo numero de I Fiori del Male; proceda pure perché nessuno più di me è interessato alla faccenda.
R.S.: Come lei può vedere, Pier Luigi Berto è un formidabile disegnatore e pittore; nemico giurato dell’azzeramento dell’arte messo in atto dalle
Neoavanguardie, ritiene che l’arte abbia ancora molto da dire. Non a caso,
infatti, Giorgio de Chirico gli ha scritto definendolo una personalità che comprende a fondo la ricerca. Lei non può non amare La Caduta; se vogliamo ci
troviamo dinanzi ad un mostro che vede elementi “arborei” unirsi oniricamente a momenti umani. Lo scarpone in alto e il nudo più in basso si conciliano unicamente sul terreno mirabolante della dissimilitudine. È quindi evidente che l’immaginario si sta scatenando ed adopera il disegno per presentarsi al mondo. La qualità palese del lavoro celebra la bellezza, quella bellezza che dal Dadaismo in poi si è cercato di cancellare e che Berto, invece,
richiama in vita ben sapendo, con Fernando Pessoa, che la vita non basta e
che abbiamo bisogno di una “irrealtà seconda” che è quella dell’arte.
H.B.: Un’arte che, anche quando espone cose terribili, lo fa respingendo il
satanismo vero, quello del banale e del cattivo gusto.
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I Fiori del Male
R.S.: Torniamo ora a noi; la questione mi pare assai intricata; la cacciano dal
Paradiso proprio nel momento in cui si accorgono che la sua arte è ortodossa dal punto di vista cristiano. Come è possibile?
H.B.: Le spiego tutto. Il fatto è che, nelle Alte Sfere, ha preso piede la tesi di
Hans Sedlmayr il quale sostiene che la novità della mia pittura starebbe tutta
nel fatto che il mondo degli Inferi conosce un principio generativo proprio,
una struttura caotica propria. Dunque il mio mondo sarebbe ostile a Dio. Lei
crede che le cose stiano in questo modo?
R.S.: Neanche per sogno; allo studioso ungherese oppongo Mario Bussagli,
un grande storico dell’arte italiano che ha studiato a fondo le sue opere.
Bussagli dice che in lei trionfa l’onnipervadenza del male; questo però non
nel senso del Divino Marchese. Lei muore nel 1516, alla vigilia di Lutero. È
Lutero che già si fa sentire, il teologo che sostiene che il Demonio è il “dio
di questo mondo” e che noi uomini siamo collocati nella sua sacca intestinale. Da questo punto di vista poi il suo personale “surrealismo” non ha niente
a che vedere con il Surrealismo Storico.
H.B.: Breton ha tentato di arruolarmi fra le sue fila.
R.S.: È evidente; non poteva non farlo essendo a caccia degli antenati del suo
gruppo. Le cose però sono assai diverse da come le vede il poeta francese.
H.B.: Lasci a me la parola riguardo a questo; l’alterazione della realtà che
giustamente vi affascina, non deriva, come nei surrealisti, dalla negazione
del mondo. Come ha detto lei, parlo unicamente del cosmo sconvolto dall’opera dell’Avversario il quale tenta instancabilmente di minare alle radici il
creato.
R.S.: Chiediamoci ora del perché del fascino che lei esercita sugli uomini di tutti
i tempi, non escluso il mondo del Ventunesimo Secolo. È presto detto; l’arte
contemporanea ha seppellito definitivamente la mimesi ed è tutta nelle braccia
dell’irrealismo. Dimentico delle ragioni del suo irrealismo, l’uomo contemporaneo la legge come un “pittore dell’immaginario”, un profeta di Fuseli, di
Blake, di Max Ernst, di Magritte, di Dalì e via di seguito. Sta per essere trasferito all’Inferno, come dicevamo; cosa farà una volta giunto presso gli asfodeli?
H.B.: È evidente che prenderò contatto con due signori che attendono con
ansia il mio arrivo: Schopenhauer e Leopardi, il vostro genio di Recanati.
Ora però vorrei concludere rivelandole che l’Ade reale è, in fin dei conti,
assai meno seducente di quello che ho dipinto io.
R.S.: Lo so bene; l’altro mondo non è paragonabile al contromondo creato
dagli artisti. Ricorda il vostro Giorgio de Chirico? “Ha valore soltanto ciò
che vedono i miei occhi aperti, e più ancora chiusi”.
H.B.: Giusto, giustissimo; direi perfetto.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
RU B R I C A
Appunti
(a cura) di Merys Rizzo
Thomas Transtromer (1931), poeta svedese, premio Nobel nel 2011
a coscienza del tempo irreversibile toglie il respiro. Eppure la
misteriosa dimensione esistenziale, più cosmica che individuale, in
cui tutti viviamo, è il grande proscenio del mondo, è il ritmo silenzioso e profondo, che ci unisce nel fluire eterno della natura. Ma il
tempo è anche dimensione interna, psichica, che perturba l’aspetto oggettivo
e calendariale. Il tempo passato, comunque, rischia di restare relegato nell’oscuro del non linguaggio, della non rappresentazione se la lingua non gli
dà presenza e nuova, rinnovata esistenza. Il tempo cronologico e quello interiore si integrano nella vivezza del ricordo, del pensiero rivolto all’indietro:
insieme essi chiedono di tornare dal tempo lontano e di essere nominati per
farsi visione, parola, racconto, poesia. Già Saffo nel VI secolo a.C. in una sua
ode ridona consistenza alla lontananza temporale, rimpiangendo nostalgicamente il tempo dell’amore, che l’ha unita all’amica Atthis. La poetica del
ricordo è sempre presente in poesia; essa diviene, però, tema essenziale,
fascinoso, dolce e malinconico nel romanticismo. Lì il ricordo stratifica le
sensazioni e le amplifica, conducendo alla stupefazione davanti all’evento rievocato. La ricordanza nella poesia - in cui è maestro supremo Leopardi aiuta a superare i limiti del presente e a fondere nel tempo della lingua il
tempo naturale, il tempo storico, il tempo interiore. Così una condizione esistenziale diviene condizione letteraria, che fa di ogni testo del ricordo una
cartolina dalla vita, di ogni verso della lontananza un levigato tassello di realtà vissuta e rivissuta attraverso la parola, in cui vibra la prossimità e nel cui
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I Fiori del Male
recinto del dire si rende concreto il tempo. Anche il lettore di poesia - non
solo il lettore - fa un’esperienza straordinaria di libertà nel rinnovarsi dell’evento, nel suo inaugurante riapparire, che rinsalda la fragilità di ciò, che
dispare. Il ricordo in poesia consente di scrivere un libro infinito, di varcare
continuamente i confini del tempo, di incatenare alle sillabe le terre già attraversate dalla gioia e dal dolore e, soprattutto, permette di trasformare la perdita in nuove acquisizioni. Un pensiero, un’immagine quasi evanescente e
subito ricordo e sogno conducono verso labirinti sconosciuti, attraversando il
mondo analogico della poesia. Ciò avviene, ad esempio, nei “ Trente-trois
sonnets composés au secret “ di Jean Cassou, pubblicati nel 1944 con lo
pseudonimo di Jean Noir. Composti nell’isolamento del carcere, patito dall’autore per motivi politici, quelli di Cassou sono versi, che, mediante l’argine fulgente della misura metrica, controllano l’erompere del grido.
Così, l’inafferrabilità del simbolo con le sue infinite sfumature si unisce
alla riconoscibilità del sensibile per contenere insieme vita e morte, tenebra
e luce e mostrare il tessuto profondo della loro intrinseca reciprocità, cancellando ogni limite, ogni confine, ogni chiusura, ogni prigione. Nella traduzione fatta da Roberto Rossi Precerutti si legge: […] slanci inani, ricordi senza
ieri,/ridursi è gioia, lo scopo svanire,/e brucia in loro Psiche, le ali tese./Mi
perdo in picchi innevati che occulta/la mia fronte dentro l’azzurro nero/del
suo labirinto. Non ho altra via,/ramingo sotto l’arco del suo gemito./Errare
in questo intrico e delirare!/Sogni santi di cattività. Mie/prigioni prigioniere: incise in fondo/ai miei specchi si fanno e si disfanno./Così smarrito che
il mio sordo appello/s’ode a stento, straccio appeso all’azzurro./Ma laggiù,
chiara terra del mattino,/nella piana, Ape-Alice, pastorella,/se ti sussurra
una voce:”È tuo padre”,/al monte sali e prendimi per mano./[…] Segni del
ricordo, enigmi mi guidano,/con ogni sole nato a sì gran pena,/all’opera
d’alta e lucida angoscia./ […] Là, sogni certi, terribili, forti/ nel mattutino
azzurro d’un eterno/domani[…]. I ricordi sembrano amputati e ingoiati nella
voragine aperta dai labirinti della prigionia del qui. Inaspettatamente, invece,
le tracce memoriali spalancano finestre sul mattutino azzurro e un orizzonte
nuovo diventa materia stessa della scena.
Varcando la soglia della chiusura, superando l’immediatezza della quotidianità reclusa, le ali si tendono verso nuovi bagliori, il ricordo/sogno non
appartiene più al passato, ma è esso stesso invasione totale, carica di futuro,
è progetto di conoscenza. In Tomas Transtromer il ricordo, invece, appare,
quasi, luogo, che apre ad un nuovo alfabeto; esso è nucleo di tensione, che si
espande in versi trasparenti di inesauribile suggestione e di forte illuminazione lirica. Nella relazione costante e capillare del poeta con il mondo, piena
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
di fughe fantasmatiche nell’universo lucido dell’emozione, i ricordi emergono fra i suoni delle strade o dal fogliame che freme nel bosco. Essi guardano, osservano il profondo che prova e scarta diverse maschere. Respirano e
fremono nel linguaggio, rivelando ad ogni sosta nella visione la trionfale epifania dei simboli. Nel testo “ I ricordi mi vedono” da “La lugubre gondola”
nella traduzione di Maria Cristina Lombardi si legge: Un mattino di giugno,
troppo presto / per svegliarsi, troppo tardi per riprendere sonno. / Devo uscire nel verde gremito / di ricordi, e mi seguono con lo sguardo. / Non si vedono, si fondono totalmente / con lo sfondo, camaleonti perfetti. / Così vicini
che li sento respirare / benchè il canto degli uccelli sia assordante.
Ricordi/camaleonti, pronti a prendere le fattezze della realtà, che tramuta
e, trasmutando, diviene lingua e va oltre la lingua. I ricordi irrompono nel
dormiveglia, quando la poesia può crescere e può mostrare il suo profilo limpido; nell’andirivieni delle metafore essi sono guizzi di verde, fluttuazioni di
nuove presenze, margine di silenzio sospeso sul movimento del pensiero. In
Transtromer ciò che è lontano si confonde camaleonticamente con ciò che è
vicino ed entrambi, confusi, si richiamano nella medesima sinfonia: la
sapienza della lingua risuona del precipitare del tempo con le sue sfumature
e le sue iridescenze di passato e di presente, che si accendono sempre più di
speranza. Ricordo- corpo, lucido di mille riflessi, che invita al balzo dell’immaginazione, del primitivo fiabesco, gioioso e tragico, inattendibile nel suo
incantamento. Alexandra Petrova elabora poeticamente l’idea di un tempo
che brucia anche i ricordi. Infatti, in “Russia, mammina cieca” - traduzione
di Mirella Meringolo - si legge: Sarà consumato dal fuoco tutto ciò che non
poteva bruciare:/le lettere, l’albero, la memoria, Ruth […] “ sembrava che
la memoria fosse più pesante/di una colata di ghisa./Ma la memoria è un
calco, una misura, una cosa,/e tu non sei più lo stesso./Fiamma e vento han
preso tutto /ciò che vi era di più caro. / Dando in cambio sabbia e cenere”.
Così canta l’albero. […]Poter vedere, anche solo in sogno, quell’isola/dove
sono fontane e fiumi. Le tempeste/trascinavano in cortile le finestre/della stanza con il parquet scuro e fresco./In fondo, i dorsi dei libri tremavano per la
luce. / Il ricordo è tanto doloroso che Vedi, qui l’aria è stata bevuta. E persino
le lacrime sono per la sete bramosia. In altri testi della medesima raccolta
tradotti da Roberta De Giorgi leggiamo: […] Il tempo - finché non muore lo chiamano speme, / è così fugace -/ con il disegno dei sorrisi sul polline
infuocato. / Ma il cerchio della duplice essenza/si stringerà attorno al fratello defunto,/ persone e cose passate / si accalcano tra le rughe / sul corpo suo
e sul viso. Ora si soffoca. / Un “ci fu” cavo / sta, diventando più grande di
un “ci sarà”.[…]È tutto un fuoco di parole, di sguardi, di emozioni al limi-
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tare del tempo L’immagine della memoria-calco ha un senso aggiunto di
fascinazione, perché tutta la poesia della Petrova è tesa a dare pienezza al
ricordo e alla sua funzione connettiva, che misteriosamente può resistere al
fuoco della dispersione. Così, i versi sono narrazione di una lontananza, che,
magari soltanto in sogno, vuole palesarsi, farsi annuncio, sospesa nel tempo
e accampata nelle rughe delle cose, di un corpo, di un viso. Il ricordo interroga la profondità di quella distanza e ne indaga i riverberi, gli echi, i coaguli irrisolti, le inquietudini e le armonie. Su tutto prevale la tonalità appassionata della scrittura della Petrova, che permette di rendere visibili su un unica
scena diverse tematiche, liberate, mediante la memoria, da qualsiasi velo di
nostalgia e pronte a rinascere in nuove occasioni, portando sempre con sé le
tracce sotterranee di percorsi ancestrali. La poesia, quindi, si allarga in una
calma pacificante, in cui il ricordo aiuta a definire, moltiplicandosi in un
montaggio di tratti fiabeschi e luminosi. Nei dorsi dei libri che tremavano e
tremano per la luce c’è il riscatto dallo struggimento di giorni lontani, dalla
spina pungente di sconfitte subite, dal buio di suoni ormai spenti. Tutto si
placa, poi, e trasmuta nella lunga tregua della poesia.
Jean Cassou ( 1827 - 1906 ), scrittore francese
Thomas Transtromer ( 1931 ), poeta svedese, premio Nobel nel 2011
Alexandra Petrova ( 1964 ), poeta russa
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
L’ALBERO E LA MELA. INTELLETTUALI E POTERE...
di Sabino Caronia
Intellettuali e potere: che cosa è cambiato dal “1984”?
iflettendo sul romanzo mi è capitato di rileggere i saggi di George
Orwell, le considerazioni così attuali di Nel ventre della balena
(«Egli – è detto a proposito di Tropico del cancro di Henry Miller
– ha compiuto l’essenziale atto di Giona: lasciarsi inghiottire,
restando passivo, accettando») e fra queste hanno fermato la mia attenzione
soprattutto quelle contenute nel saggio su Arthur Koestler. In quel saggio
Orwell scrive: «Tra le figure notevoli di questa scuola di scrittori [gli scrittori politici] vi sono Silone, Malraux, Salvemini, Borkenau, Victor Serge e lo
stesso Koestler. Alcuni di questi sono scrittori di fantasia, altri no, ma essi
sono tutti apparentati dal fatto che cercano di scrivere di storia contemporanea, però di una storia non ufficiale, di quel genere, insomma, trascurato dai
manuali ed evitato dai quotidiani. Essi hanno inoltre in comune la caratteristica di essere degli europei del continente». E poi indica chiaramente le
ragioni per cui Fontamara di Ignazio Silone e Buio a mezzogiorno di Arthur
Koestler non avrebbero mai potuto essere scritti da un inglese, così come un
mercante di schiavi non avrebbe mai potuto scrivere La capanna dello zio
Tom. Quindi, dopo aver dichiarato che «la colpa di tutte le persone di sinistra
dal 1933 in avanti è di aver voluto essere antifasciste senza essere antitotalitarie», fa sue le parole di Arthur Koestler che si era definito come un pessimista a breve termine: «L’unica facile via di uscita è quella del credente religioso, che considera questa vita meramente come una preparazione a quella
successiva. Ma poche persone ragionevoli credono di questi tempi alla vita
dopo la morte e il numero di quelle che lo fanno sta probabilmente diminuendo, perciò le chiese cristiane forse non sopravviverebbero solo sui loro meriti se le loro basi economiche fossero distrutte». Il modello di Silone è un
modello particolarmente significativo per la nostra realtà italiana, perché ha
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I Fiori del Male
subito censure, di segno diverso ma di uguale significato, per Fontamara
prima e per Uscita di sicurezza poi. E mi viene da ripensare al bel Ricordo di
Silone contenuto nel volume di Sergio Quinzio La speranza nell’Apocalisse
con il richiamo che lì viene fatto a Quel che rimane, cioè alle pagine premesse da Silone come introduzione all’ Avventura di un povero cristiano:
«Rimane dunque un cristianesimo demitizzato, ridotto alla sua sostanza
morale e, per quello che strada facendo è andato perduto, un grande rispetto
e scarsa nostalgia. Che più? A ben riflettere e proprio per tutto dire, rimane
il Pater Noster. Sul sentimento cristiano della fraternità e un istintivo attaccamento alla povera gente, sopravvive anche, vi ho già accennato, la fedeltà
al socialismo. So bene che questo termine viene ora usato per significare le
cose più strane e opposte; ciò mi costringe ad aggiungere che io l’intendo nel
senso più tradizionale: l’economia al servizio dell’uomo, e non dello Stato o
d’una qualsiasi politica di potenza».
È interessante ricordare che Aldo Moro nel 1945 rivolgeva la sua attenzione al personaggio del frate eretico Gioacchino che predica che Cristo è ancora e sempre in agonia sulla croce per sottolineare in Silone uno spirito cristiano innegabile e vivo, facendo un implicito riferimento alla lettera di San
Paolo ai Colossesi: «Ora io gioisco nelle mie presenti sofferenze e completo
in me quel che resta alla passione di Cristo». Dunque, riflettendo sulla condizione dei personaggi del dramma di Silone, di fronte alla vicenda di quegli
uomini che «vengono da lontano e vanno lontano» con la coscienza che
Cristo è ancora e sempre in agonia sulla croce, che la sofferenza di Cristo
continua in tutti coloro che servono e patiscono l’ingiustizia, Moro si chiedeva cos’altro si potesse desiderare per il nostro tempo se non la misura delle
«distanze» che pone nella nostra vita l’esigenza implacabile dell’infinito.
Mentre mi accingevo a scrivere il mio romanzo L’ultima estate di Moro,
riflettendo sul suo pensiero a partire dagli articoli giovanili su «Studium», mi
sono venuto convincendo che il più significativo punto di convergenza fra
Silone e Moro si debba riconoscere nel riferimento costante alla dignità dell’uomo e al valore della coscienza, nella fondamentale equazione fra coscienza cristiana e coscienza democratica. Così ad esempio nel discorso tenuto il 18
maggio 1974 lo statista democristiano poteva implicitamente richiamare il
Concilio e quell’Enciclica Dignitatis humanae, con cui la Chiesa aveva posto
la dichiarazione sulla libertà religiosa, il diritto della persona umana alla sua
scelta, come un bene in se stesso, un valore che trascende di fatto gli stessi
valori di contenuto, come forma stessa del valore.
Viene alla mente quel passo de La scuola dei dittatori in cui Silone critica
violentemente l’obbedienza civile, l’obbedienza al potere degli uomini di
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
chiesa sottolineando come, per un eccessivo rispetto del precetto evangelico
di dare a Cesare quel che è di Cesare, essi avessero finito molte volte per dare
a Cesare anche quello che era di Dio senza peraltro che tale rinuncia all’eticità dei mezzi avesse portato necessariamente al conseguimento dei fini che
essi si proponevano, come nel caso di Hitler, a proposito del quale sono
richiamate le parole di Montaigne che ha definito il dittatore «colui che fa
abbattere un albero per cogliere una mela».La mia interrogazione qui è anche
una testimonianza in favore di certi scrittori e di un certo «uso politico» della
letteratura, per riprendere un’espressione di Italo Calvino. Che la politica sia
identificata ormai con la misera realtà di un potere fine a se stesso e con le
astuzie per acquistarlo e mantenerlo, è la verità di Machiavelli applicata
all’infimo, quale ce la confermano quotidianamente telegiornali e prime
pagine, ed è bene che non ci facciamo più illusioni che le cose possano essere diverse, come diceva appunto Calvino.
È giusto e doveroso questo «pessimismo a breve termine», ma c’è anche
spazio nei tempi lunghi per la speranza. In proposito mi piace, ricordando la
polemica di Calvino con Asor Rosa, riportare una considerazione di Asor
Rosa, contenuta nel volume L’ultimo paradosso: «Mi limiterò dunque ad
osservare […] che l’arte del governo sembra cadere dalle mani dei politici
essenzialmente per la loro mancanza di «strategia»: ma non c’è grande strategia senza un quoziente di riflessione, di sospensione del giudizio, di cautela e di attesa, di silenzio e di ricerca profonda… Possiamo usare il termine
che ci viene spontaneo: ascetismo? Se le cose stanno così, chissà che non sia
stata una leggerezza aver spinto il politico, anche con eccellenti argomentazioni teoriche, a considerarsi l’uomo esclusivo della storia evenemenziale,
della pura e semplice prassi. La prassi senza pensiero (e intendo precisamente: senza pensiero astratto, pensiero puro, pensiero non orientato) non si
domina. Il politico non può essere il sapiente, ma se non è anche sapiente,
diviene un vero bruto. Questa elementare verità è sotto gli occhi di tutti».In
conclusione vorrei ricordare una dichiarazione di Jorge Luis Borges.Di ritorno dal suo difficile viaggio in Italia nel maggio del 1977 lo scrittore, dolendosi di alcuni sgradevoli incidenti, dichiarava: «Quando sono andato in Italia
i giornali nei loro titoli [si veda A. Savioli Incontro con Borges, in “L’Unità”
10.5.1977: “Intanto un ispanista amico nostro che non nomineremo, ispirato
dall’incontro, scrive in Spagnolo una poesia con un ritornello: Vorrei essere,
signor Borges, il tuo assassino…”] dicevano che era arrivato il fascista
Borges. È evidente che se uno in Italia non è comunista è sicuramente fascista. Non concepiscono altre gradazioni… È una specie di povertà dell’intelligenza. Strano che siano vicini della Svizzera».
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I Fiori del Male
di Domenico Cara
ai segni mutili o scorie perse nella poesia di Gilda Trisolini,
accolta ne’ La vita divisa(antologia dei suoi versi edita nel 1992
dal Laboratorio delle Arti di Milano a cura del Sottoscritto: pagine 319, dedicata a Carlo Betocchi che da sempre l’ha seguita nel
suo percorso ispirativo). Nel 1962 infatti l’esordio con Le mura cadono che
recano la prefazione del poeta fiorentino (di adozione), la poetessa reggina inizia una favola scritta con parole icastiche e dolci, continuate in connessioni
semantiche affini a vicende esistenziali, inquiete, presenti “la ricerca dell’umiltà”, “screzi sottomessi a punti morti…”, “la pelle che arde” di una fondamentalità di desideri e della ragione, così distante da sentimentalismi e idilli provinciali, “restando nel corso del vento” con un furore tutt’altro che passivo o
dilettante scomposto.
Gilda Trisolini, che ha insegnato instancabilmente nei licei, e ha promosso
soluzioni culturali nella sua città amata e perduta nel 1994, condensa le sue
forze “creative” dentro una serie di armoniose pianificazioni di perentori
eventi individuali. Essi, qua e là, diventano acre diario d’amore, osservazioni di solitudine, voli pensosi e non allegri di un Nulla vissuto tra interrogativi, istanze assidue ed estreme di dubbia consolazione. In una realtà marginale che tradisce gli esseri indifesi; la terra cara identifica la sua densità isolata in una viandanza senza meta, e ciò che muta di essa ripete l’aritmetica
della morte, dove non c’è posto per una qualsiasi felicità. “L’amore / crea
tenebre e i sogni / la fuga che illumina / le distanze di desiderio, / per la morte
ed oltre la morte”. Nel teso fiato che le questioni diffondono nel medesimo
clima, lo sguardo alle cose è freddo, ed è “il disagio della parola” un po’ sfumato e barocco, e datato post-ermetismo che rettifica l’orbita del “male di
vivere” potenzialmente usato ormai come tradizione di un tradimento che
inventa la retorica preferita, la certezza di quello che è pesante tra doppi mari
e rupi bruzie. In questo disegno tematico si arresta ogni possibile ripresa di
confessione e intesa, sia pur informale, di riattualizzare non dico Leopardi,
ma la serie di compagni di strada meno fortunati e naufraghi in viaggio, e per
“riconoscersi” insieme per farsi chiaro in ogni sezione della comune notte,
elegiaca, fra i sostrati senza migliore lume della mente in ombra. Nell’area
mediterranea (e dell’età che cresce) le insinuazioni crepuscolari sono di
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moda, i loro archetipi dipingono un’ossessiva infermità. Il Sud ritorna tra noi
con un raccontare amarezze e pene, anzi si rigenera in tale lamento realistico e rusticano. La rosa non basta per le collettive estasi, e il sangue dei vivi,
coerentemente alle medesime esperienze politiche, si versa in un qualsiasi
dire e documento di una civiltà che male si sopporta, malgrado le mutazioni
apparenti o interdette. Per via di divertiti ossimori parlati o scritti su linguaggio colto, è dettato con la complicità dei classici (a cui la poetessa era intimamente legata) l’uso non aleatorio di circuiti intellettuali, presenti nelle
convenzioni fecondamente rappresentate nell’amata e disamata Regione.
Nel “Provvisorio confine” (1964), “La vita divisa”(1992), GildaTrisolini
non elude la necessità generativa di tutte le analoghe tentazioni e chiama in
causa (mai con qualche alito di fiacca voce, ma in fascinazione personale, su
materia breve) la luce di qualsiasi sconfitta non accettata, la sua psiche non
smarrita, per un “filo ribelle”, senza misericordia o speranza, i tristi spaventi del cuore e scrive: “Non so più cosa da Te mi separi: / o cielo immusonito
/ o mare immane / o solo un appannamento / di sorriso che dell’amore / resta”
(senza rapida fede, né “consistenza” di punti metafisici nella discesa dell’umana palude e limbo).Nel contesto generale: per bagliori audaci e lisci, la
conferma di se stessa si riesplora nelle diverse sillogi, dove gemono aneliti
impietosi, insondabili moventi a tensione filosofica come produzione di
senso, onda costante di una scrittura inversa e morbida (suggestivo il giudizio di Italo Calvino, detto in una lettera a Fortunato Seminara) e, per certi
aspetti linguistici, quelle similitudini così vicine a Lorenzo Calogero: indomabile stella di astrazioni alquanto radicali (e passioni di levità). Anni di
un’esperienza facilmente adottati alla corsiva e dolorosa pazienza (come
sempre per gli isolati davanti alla frontiera) e così duttili all’oblio. Su
“Imitazione della gioia” non esistono logore increspature impressionistiche;
l’amore prende fuoco ad ogni sensazione interessata, non è entità arcaica o
piuttosto brutale, un’infamia del dubbio ma senza spettacolo dilatabile.
Il suo giardino degli odori non ha consistenza fisica nel suo stile; incanti e
disincanti incrociano una “vita divisa” da esilio, la parola-chimera potrebbe
diventare un errore sulla carta, slittare in altre discese, tra frecce usurate e
insorgenze improprie da effigiare un “demone infecondo”, una maschera
infranta, uno spettro tra gelsomini diffusi. Sogni, amore, vivi e morti, l’importanza di essere “madre” era il suo Paradiso rivissuto quotidianamente.
Una poesia quindi tutta pena e dolore, strada tra i monti, nitidi inni al pessimismo della coscienza infelice. “Ora è notte / tu vivi come me / della solitudine di echi. / Nella tua veste le pene riposano / come fuoco accomiatato da
te / per sempre, speri. / Al pallido tuo dolore d’uomo / si scorge una voce
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d’angelo; / il ciglio estremo dei tuoi pensieri / è un cielo caduto allo sguardo, / nella libertà dei morti / cuciti a noi dall’acqua / rinascente, dalla terra
/ rivissuta in sere e mattine / dense dello stesso sangue. / La vita fu uno schermo / agli occhi che legano te alla nube, / al caldo sapore della rosa.” “Vedi,
il mio Dio / è questa pace senza maiuscola, / una lettera appena accennata
/ e già muta. / È finito il tempo / che adoravo ogni specchio / d’una punteggiatura / di sorrisi esausti. / Ora è tempo di cogliere / dal solco un papavero solo / e adornarmene il docile / consentimento di morte”. I versi (non tutte
le poesie) non hanno titolo; il loro ritmo imita il frammento e diventano nell’opera rarefatte azioni, dilatabili moventi per svolgere una gravità degli urti
umorali, razionali, dissensi di argomenti irosi, sintesi di una precisa orma.
Gilda Trisolini pertanto non inciampa nel melodismo, e caratterizza in una
prosa-poetica un idioma del dissenso (non proprio del social spocchioso e
tempestivo sine fine). Il rendiconto ha ormai una passione esperta e naturale
in un linguaggio forbito, forse inchiodato alle sue idee rettilinee, non ventose e/o inaccessibili. I suoi magnetismi sono quindi esemplari, scrive e ascolta con un flauto dolce i rammarichi, i tuffi di guizzi contro una scogliera che
è l’esistere insoddisfatto, e la leggerezza è vestita dal Caso speculare, molto
ordinato ed esperto. È la sua amabile sovversione, una timida e avvolgente
identità, probabilmente tutta segnata dai luoghi del vissuto e indubbiamente
dalla favola negativa del provvisorio, dei travisamenti della certezza, del passaggio non come ospite territoriale, ma da un fittizio fluttuare di sofferenze
e insofferenze: “I pochi amici d’infanzia, / le docili larve della giovinezza, /
il fragore del mare, / ora acquietano in me. / S’è rotto il dialogo inconsapevole / con le poche cose che amai, / o forse l’amore era questo / mio nuovo
perdermi / nel volto di mio figlio / che riscuote da me silenzio”.
In realtà sono i sospetti degli anni alti che trafiggono le ossessioni del
poeta; la professione di diventare “vecchi” consegue le stesse frustrazioni,
quel normale giocare a rimpiattino con “nostra sorella Morte corporale” che
spegnerà la luce d’ogni discorso, e chiude per sempre il bene delle metamorfosi che comunque molto o qualcosa concede a quello che ognuno di noi
avverte, o esibito in qualsiasi forma e valore. “So che non dimentichi. Ma il
tuo ricordo / è continuo stupro / al mio corpo staccato da me / e gli anni più
non appartengono / all’arido vento del silenzio / che incide sul graffito / della
memoria parole / mute di pietà”. L’essersi riannodati a un documento editoriale e critico di venti anni fa, ovviamente giustifica i “tentativi” di quella
“rilettura” che dovrebbe coinvolgere i nuovi intellettuali (non soltanto calabresi) ed evitare quell’insolente oblio che i poeti subiscono intensamente, ed
occulta una sensibilità culturale che questa terra merita di essere consegnata
al tempo e disegno di un impegno individuale necessario, non vanesio come
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altro sospetto accadimento, rispetto a inerti e algide prosopopee, dovute alla
presenza di piccole larve.Il suo Secondo Novecento, Gilda Trisolini (1924)
l’ha trascorso attivo e non le sono mancate testimonianze lodevoli, per esempio di: Alfonso Gatto, Libero De Libero, Antonio Piromalli, Enrico Falqui,
Vincenzo Paladino, Pasquale Tuscano, Luigi Reìna, Antonio Altomonte,
altri. Ma questo non è il posto delle favole, perché la poesia è scelta difficile e adulta, e non va abbandonata come qualsiasi simbolo o amuleto di un
progetto indovinato soltanto per la spuria finitudine: il cosiddetto Dopo!
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Sulle pianure del Sud non passa un sogno
Nota sulla poetica di Vittorio Bodini
di Paolo Carlucci
l Salento come metafora di
un Sud inteso come scrigno di simboli e insieme
lacerato da ataviche ingiustizie è al centro della poetica di
Vittorio Bodini (1914-1970). Il
poeta, ispanista illustre, traduttore di Lorca, Salinas, Cervantes
fu anche un raffinato cultore di
arte e di amicizia, come provano
i suoi scritti in prosa sul Barocco
Vittorio Bodini, (1914-1970)
del Sud e i suoi fitti carteggi con
Luciano Erba, Oreste Macrì ed altri letterati, mira, sin dagli esordi lirici di
Foglie di tabacco (1945) ad inventare un percorso poetico in cui i tratti vivi e
calcinati di sole del paesaggio salentino della memoria e del cuore si ammantano di echi metafisici e letterari di una fantasia densa di esiti ermetizzanti e
ancestrali, nelle raccolte La Luna dei Borboni (1952) e Dopo la luna(1956).
Lo provano immagini varie disperse tra prose e poesie, come nel canto del
carrettiere leccese che inquietante si leva sotto una luna sinistra -che- a forza
d’esser bianca esplode come avvolta entro stracci neri una pena disperata di
vivere, di avere un cuore e non sapere che farsene. Emerge in questo stralcio
di prosa tutta la forza barocca, quevediana, diremmo, macchiata di ermetismo novecentesco che anima la cifra medusea del Nostro, artiere di visioni
archetipiche di un vuoto e negativo materno che costringe quasi il paesaggio salentino, in analogia pittorica con le stanze castigliane o andaluse dell’anima del poeta, a volersi dissipare nell’aria dietro i propri gridi, posati sui
fichi, o ai piedi dei muriccioli di pietre, lacerata sugli spini della neve.
Nel simbolismo lunare che domina e affascina la poetica di Bodini si
coglie l’identità del duende che gemma di lunarità gli oggetti e le geografie
musicali e notturne ispano-salentine, dominanti nelle sillogi e negli scritti
del poeta cantore di Finibusterrae e dei suoi fantasmi memoriali. È qui che
i salentini dopo morti/ fanno ritorno/ col cappello in testa. Siamo dunque
entrati nel cuore della visione del sud metafisico e insieme denso di odori e
colori raffinati e popolari in cui coesistono sapide immagini di forte realismo
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come nei versi in cui fonde religiosità e dramma sociale nelle piaghe del
Cristo. i preti di paese / hanno le scarpe sporche / un dente verde e vivono
con la nipote / presso cassette vuote d’elemosina / sanguina Cristo in piaghe
rosso borboniche …. Sulle ginocchia del municipio / Stanno i disoccupati/ a
prender l’oro del sole. E parimenti offre del Sud il magico bestiario salentino, così intriso di sogno e di morte, che s’associa a versi quadro, in cui evoca
un dolore epico: “Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud / un tramonto da bestia macellata. / L’aria è piena di sangue e gli ulivi e le foglie del
tabacco, / e ancora non s’accende un lume. / Un bisbigliare fitto di mille
voci, / s’ode lontano dai vicini cortili: / tutto il paese vuol far sapere / che
vive ancora / nell’ombra in cui rientra decapitato// un carrettiere dalle cave.
Il buio,/ com’è lungo nel Sud! / Tardi s’accendono le luci delle case e dei
fanali /.Le bambine negli orti / ad ogni grido aggiungono una foglia / alla
luna e al basilico”. Si tratta di un testo esemplare della poetica di Bodini, del
quale non solo si percepisce il valore prezioso della metafisica dell’ombra e
dell’archetipo lunare, ma si coglie anche la forza espressiva delle immagini
del mondo rurale concentrato nel bisbiglio di voci comprese nella memoria
del dramma di una … cronaca di morte annunciata da immagini cruente di
chiara ascendenza teatrale lorchiana.
Si colgono così la problematicità esistenziale e culturale dei ritorni al
mestruo del sud, alla sua anima lunare, da parte di un poeta che, allontanatosi per vita e studi dal suo Salento, lo dilata letterariamente, proprio in virtù
di uno straniamento intellettuale attuabile da lontano, spesso dall’Europa,
come provano saggi e prose in cui il Nostro affianca agli interessi di studioso della letteratura spagnola, specie i surrealisti, le... surrealtà oniriche di un
Sud dove ogni cosa, ogni attimo del passato / somiglia a quei terribili polsi
dei morti / che ogni volta rispuntano dalle zolle / compresi perché ti dovevo
perdere / qui s’era fatto il mio volto, lontano da te / e il tuo / in altri paesi a
cui non posso pensare. Quando tornai al mio paese nel Sud / io mi sentivo
morire. Nel quadro della geografia della poesia italiana del Novecento e non
solo meridionale, che del lirismo e del canto del paesaggio ha innervato gran
parte della sua produzione, l’opera di Vittorio Bodini di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, merita davvero un posto ragguardevole, perché
l’oracolo delle sue mani del sud, ruvide di sole, regalino pagina dopo pagina, l’avventura surreale e terragna, a un tempo, dell’incantesimo di palazzi di
tufo sulle rive del nulla, insomma il vibrare di un sueno, perché un monaco
rissoso vola tra gli alberi.
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Il peso di “essere” nell’esistenza
di Giorgio Orelli
di Francesco Dell’
Apa
iorgio Orelli è ritenuto dalla critica uno tra i più grandi poeti del
secondo Novecento. È nato ad Airolo nel 1921 ed è morto a
Bellinzona nel 2013 all’età di 92 anni. Poeta, scrittore, saggista,
nonché traduttore dell’opera di Johan Wolfgang Goethe, era svizzero di lingua italiana e sebbene nella sua famiglia ticinese si parlasse il dialetto ebbe un amore particolare per la nostra lingua. Il motivo di questa scelta lo mette in chiaro il linguista Alessio Petralli: “Giorgio Orelli non prediligeva il dialetto in quanto era molto meticoloso nella ricerca del termine giusto, sapeva sviscerare le parole come nessuno anche se riusciva ad essere
molto trasgressivo. Ma da un punto di vista linguistico era molto meticoloso.” Gianfranco Contini, che il poeta considerava il più grande filologo italiano ed era stato suo maestro all’Università di Friburgo, lo definì “un toscano nato in Ticino.” Fu annoverato tra i maggiori esponenti del filone della
poesia post-ermetica e molto vicino alla “linea lombarda” messa in luce da
Luciano Anceschi. I suoi primi passi nella poesia si muovono sulla lezione di
Giovanni Pascoli e di Eugenio Montale con profonde e salde radici nella tradizione poetica italiana da Dante ad Alessandro Manzoni. Né bianco né viola
( 1944) è la prima silloge poetica con cui ha esordito, seguiranno altre raccolte di poesia: Prima dell’anno nuovo 1952, Poesie 1953, Nel cerchio familiare ( Scheiviller 1960), L’ora del tempo ( Mondadori 1962), Sinopie (
Mondadori 1977), Il collo dell’anitra (Garzanti 2001); come scrittore ha
pubblicato un libro di racconti Un giorno della vita ( Lerici 1960). Numerosi
studi critici sono apparsi su riviste Strumenti
critici, Paragone e in volumi, se ne citano
alcuni: Accertamenti montaliani (Il
Mulino1984), Il suono dei sospiri ( Einaudi
1990), La qualità del senso (Casagrande
2012). La poesia di Giorgio Orelli mostra l’attaccamento al suo mondo nei confini della sua
terra svizzera e la coerenza a moduli stilistici
che nelle ultime pubblicazioni sembrano volgere verso cadenze narrative. È una lirica colta
e ricca di valori umani e si accosta alla vita
negli aspetti diversi per scoprirne e cogliere il
Giorgio Orelli, (1921-2013)
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significato più profondo. Nella poesia orelliana affiora una quieta sensibilità
per la natura; è presente il mondo animale lepri, scoiattoli, una martora che
rappresenta nei loro comportamenti e nelle loro abitudini rivelando una spontanea disposizione ad instaurare un rapporto con essi da contadino istruito
come era solito dire con autoironia. Un esempio è la poesia Frammento della
martora: A quest’ora la martora chi sa / dove fugge con la sua gola d’arancia. / Tra i lampi forse s’arrampica, sta / col muso aguzzo in giù e spia / mentre riscoppia la fucileria. Questo amore per gli animali ricorda Umberto Saba
in alcune liriche nel modo in cui il poeta si avvicina a moduli realistici con
una disposizione d’animo affettuosa. La poesia di Orelli ha forza e limpidezza espressiva, bellezza eufonica della musicalità per la fluidità del verso e per
il livello di scelta delle parole che permettono al poeta uno stretto rapporto
tra realtà, quale a lui appare, e il linguaggio così da creare l’armonia e il flusso naturale del suo stato d’animo.
Ragni*
Da quando? se da giorni
e giorni, mesi ormai,
mentre riposo li osservo
e scordo e non senza stupore
riscopro: ombre d’acheni,
più piccoli di mezza formichetta
smarrita nell’acquaio: sempre lì,
lontano quanto basta dalla lampada
che ha bruciato l’incauto calabrone,
diafani a furia di guardarli, quasi
tra i due come se fossero
sorvegliati speciali,
senza distrarli, è sparito
in fretta nel gran bianco,
e dunque non li ha visti
sincronici calarsi,
sostare penzolando
nel vuoto dove nemmeno si sognano
di cercare un appiglio
per una tela: intenti alle filiere
troppo presto esaurite e come
saggiando il peso d’essere,il mistero,
già pronti a risalire divorando
filo e distanza:
per fingersi di nuovo
due punti nei dintorni
di me.
trascoloranti in rosa:
chi sa mai se lo sanno
d’essere l’uno a una spanna dall’altro
come due nèi su una schiena,
inquilini abusivi del soffitto,
strani compagni della mia vecchiaia:
sempre lì, sempre soli, senza preda,
una volta soltanto
è arrivato dal Nord
un ragno d’altro rango,
quasi robusto, nerastro,
è passato col fare inquisitorio
d’un commissario
*Testo inedito di Giorgio Orelli pubblicato su
La Lettura I° dicembre 2013, (dall’articolo di
Paolo Di Stefano “Orelli e l’esistenza appesa a
due fili”.)
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di Plinio Perilli
on scrivo versi di dodici sillabe / Contando sulle dita”…
intona, s’impenna Aniela Duval in lingua bretone. È una
scheggia d’oro, un frammento imploso e senziente della
bella giostra o kermesse poetica (Tempi d’Europa), “La
Vita Felice”, (2013) che Lino Angiuli, poeta a noi assai caro, pugliese cittadino del mondo, e Milica Marinković, giovane studiosa serba, francesista e
poliglotta, ci hanno preparato e ammannito come miglior dono di e verso
un’Europa che finalmente torni ad essere (come magari ai tempi d’un
Federico II, o di Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Shakespeare e Marino,
Bruno e Campanella, Goethe e Hugo, delle Illuminazioni di Rimbaud e delle
Elegie… di Rilke, dei Calligrammi di Apollinaire e dei “fiumi” di Ungaretti,
dei Quattro Quartetti di Eliot e delle Occasioni di Montale…) quella inquieta o serena della poesia, delle lingue e non delle divise: ahinoi, né militari,
orrifiche, né quelle non meno ignobili e perverse, dei diktat o ricatti monetari…
“… tutto arso e succhiato / da un polline che stride come il fuoco…” struggeva Montale ne “La primavera hitleriana”, a rievocare, insieme, la visita di
Hitler e Mussolini a Firenze, e l’indimenticabile tragica commistione, forse,
della Storia come disegno malefico, dittatura stessa del Male e insieme architettura umanista della Bellezza sognata, perpetrata talvolta, maiuscola… Che
bella invece l’esemplarità, la lezione dolente o anche salvifica, di questi percorsi medesimi della lingua come ariose o asfissianti odissee lessicali!,
approdi o nèmesi, nòstoi (cioè ritorni) ma anche ripartenze, macerate e spesso definitive: un caso su tutti, quello di Michael Hamburger, nato a Berlino
nel 1924 da famiglia ebraica, esule dal 1933 in Inghilterra, a Londra, dove si
laureò e, pur cambiando lingua, per tutta la vita insegnò e tradusse dalla lingua materna a quella della sua piccola o grande Storia… Per non parlare del
caro amico Ciril Zlobec, sloveno di Ponikve (e innamoratissimo peraltro
dell’Italia, che ha visitato spesso), ma che da bambino – in pervicace, goffa
e crudele era littoria – fu vergognosamente angariato e vessato, “espulso dal
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ginnasio perché scrive poesie in madrelingua”… E senza dimenticare le
vicende spesso romanzesche e chiaroscurate, il travaglio fertile, certo, ma
come un taglio cesareo, una nascita sempre allertata e dolorosa delle povere
e assediate minoranze linguistiche, quelle che lottano ogni anno, ogni stagione, per sopravvivere, per esistere e resistere: “Il nostro intento, invece,” –
proclamano fra anima e corpo della storia sia Angiuli che la Marinković,
verde testimone, quest’ultima (classe 1987), di troppi indegni pretesti etnici,
o (ir)religiosi campi di battaglia – “è quello – pasoliniano, se vogliamo – di
mostrare come ogni lingua, anche la meno diffusa, sia comunque lingua
della poesia; come dire che, a cospetto della poesia, tutte le lingue hanno pari
dignità, sia quelle che sanno fare la voce grossa sia quelle nascoste nelle pieghe della storia e della geografia.” Ecco dunque, a parte le altre lingue consacrate e principali, la “parlata” ladina, quella bretone, gallega, corsa, maltese, frisone, euskera, gaelica, occitanica, vallone, grecanica, ad libitum…
“Nel secolo breve e nelle loro espressioni più importanti, i dialetti” – chiosa giustamente Amedeo Anelli che è squisito e moderno illuminista – “sono
diventati ‘alberi’ ben radicati nel suolo, ma con le chiome che hanno attraversato tutte le intemperie e le astuzie delle grandi tradizioni europee.
Possiamo parlare a pieno titolo di poeti europei di lingua tedesca, come di
poeti europei in siciliano, ed è questa sola la dimensione che ci interessa.” Il
libro è bello e fervoroso, agile e pregno di nomi, di cose, di venti e umori,
luci e profumi, fiori e frutti – come appunto un paesaggio di Storia e Natura
sorvolato con l’aereo (o l’ippogrifo?!) della poesia, del rito insomma di sangue e parola, fra l’aura ispirata e l’aria spirante delle Quattro stagioni: “Io
vengo dall’estate, / è una patria fragile / che qualunque foglia, / cadendo, può
annientare…” (Ana Blandiana). Belle anche le collaborazioni fra un poeta e
l’altro, fra autore e traduttore, noti spesso entrambi (Carlo Bo per il mitico
Lorca, divino sensuale colorista intimo: “Il mio melo / ha già ombra e uccelli”); Roberto Sanesi, evviva!, per Yeats esimio aedo d’ogni lirica magìa:
“Sull’acqua traboccante fra le pietre / Cinquantanove cigni stanno”; Franco
Loi per l’“Autunno agreste” di Willem van Toorn, Biancamaria Frabotta per
la Blandiana, Elio Pecora per Jean Portante, lo stesso Angiuli (con Povol
Koprda) per il Nobel ceco Seifert; ma anche Daniela Marcheschi per la
Trotzig, Maura Del Serra per Hamburger, Valeria Rossella per Miłosz,
Emilio Coco per Xabier Lete (spagnolo di lingua euskera), Mauro Ferrari per
il fiammingo Germain Droogenbroodt, Piera Mattei per l’estone Doris
Kareva che ci affabula sull’aspra e avara luce nordica: “Slitte trascinate in
pesate oscurità, / gufi e lupi che restano all’erta. / Il Mondo digrigna i denti.”
Punto essenziale, crocevia, snodo strategico ed emotivo – ripetiamo – il gran-
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de sogno e bisogno di un’Europa dei poeti più e prima che dei politici (fossero almeno buoni e giusti!), cioè un continente variegato, suffragato di storia e di poesia, di eventi ma anche opere e ideali in progress, declinazioni di
un Bello troppo spesso citato, gloriato ma adulterato… “Poesia Europea
Vivente” si chiamava del resto la grande collana che affiancando il rimpianto Giacinto Spagnoletti, noi sottoscritti abbiamo per più di un decennio (tutti
gli anni’90 fino ai primi del 2000) contribuito a inventare e realizzare presso la Fondazione Piazzolla, con la gioia davvero di lanciare nomi che oggi
sono qui appunto ripresi, e per fortuna acquisiti come un dono riconosciuto
ed oramai permanente: citiamo almeno la svedese Birgitta Trotzig, l’olandese Van Toorn, il greco Miltos Sachturis, il Nobel polacco Miłosz, l’irlandese
Nuala Ní Dhomhnaill, la bulgara Blaga Dimitrova, la tedesca ex D.D.R.
Sarah Kirsch, etc. Poeti grandi o meno, illustri o misconosciuti che “non
sono solo degli osannatori del proprio ombelico,” – ci ricordano e vieppiù
ammoniscono Lino Angiuli e Milica Marinković – “ma anche persone che
hanno sfidato la vita (non poche volte la morte), per permettere al ‘battello
ebbro’ della poesia di attraccare all’utopia. E quale potrebbe e dovrebbe essere l’utopia europea se non quella di ridimensionare la dura lex dell’economia
per rimettere al centro il ruolo dell’uomo e il destino della societas…”?
Un testo fervido, baluginante, sicuramente necessario, in cui lievitano,
levitano anche le assenze forse più madornali (penso a un poeta strepitoso
come Gëzim Hajdari, albanese “italianato” per motivi politici), e in definitiva finiscono per colpire e forse rimettersi in gioco perfino alcune sviste evidenti o strani refusi, più o meno casuali… Penso alla data in verità decisiva
de La Bufera e altro, cioè del memorabile terzo libro di Montale, atteso fin
dagli anni ardui della guerra, e dai prodromi di “Finisterre” (1956 – non
1965! – che però fu l’anno in cui il futuro autore di Satura maturò definitivamente l’epicedio coniugale degli “Xenia” per la moglie “Mosca”, morta
nel ’63). Ma medito soprattutto sull’idea di considerare le poesie della
Bachmann scritte “in lingua austriaca” (attenzione, e non tedesca!), il che,
certo inopinatamente, per carsici fiumi da subconscio, solleva la vexata questio della poesia austriaca (pensiamo solo a un Trakl, ma anche a Musil o ad
Hofmannsthal!) così diversa, indubbiamente, da quella “alemanna”… E proprio così versi della grande Ingeborg Bachmann, amiamo chiudere, riaprire
queste pagine così amate e amabili, questo piccolo evangelio laico nel Credo,
avrebbe detto Dante, Vate d’Europa e oltre, d’ogni sua – nostra – possibile
ars dictandi: “Il grosso carico dell’estate è a bordo, / nel porto è pronta la
nave del sole”…
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
La Beat Generation tra attese e utopia
di Daniela Quieti
a Beat Generation, il movimento artistico, filosofico, letterario e
musicale sviluppatosi intorno agli anni ‘50 e ‘60 negli Stati Uniti,
modificò non solo la cultura dell’epoca, ma la stessa visione esistenziale di una collettività ferita dal grande conflitto bellico, dagli
orrori dell’olocausto, dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki,
dalla guerra del Vietnam e da quella fredda. Il mondo appariva percorso da
molteplici contraddizioni e discriminazioni, minacciato dal rischio di uno
scontro nucleare, trainato da un consumismo smodato e da un opprimente
conformismo di massa. Mentre la modernità rivelava i suoi aspetti più oscuri, l’uomo desiderava riappropriarsi di libertà e speranza. Tanti giovani scelsero di attraversare l’America con mezzi di fortuna, pochi spiccioli e ideali
visionari, estraniandosi in un atteggiamento ispirato all’ascetismo Zen. Lo
sviluppo della Beat Generation fu influenzato dal pensiero e dalle esperienze di personaggi emblematici quali Herbert Marcuse, Jack Kerouac, Allen
Ginsberg, William Burroughs, Neal Cassady e Gregory Corso. La nascita
dell’espressione avvenne nel 1952 quando sul “New York Times Magazine”
furono pubblicati Go di John C. Holmes, considerato il primo racconto beat,
e l’intervista This is the Beat generation di Kerouac. I Beats, nella locuzione
inglese, erano considerati gli “sconfitti”, in relazione alla loro provvisorietà,
all’uso di alcool e droghe, al rifiuto di regole. Invece per Kerouac beat significa beatitudine. Ma beat è anche il ritmo della musica jazz e be-bop di quegli anni, battito che influenzava la cadenza poetica. Fu Fernanda Pivano, traduttrice delle opere di questi autori, a far conoscere la cultura beat nel nostro
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Paese, precisando che il termine, più che il senso mistico o musicale, indica
quello di una sconfitta dell’uomo moderno di fronte alla falsa comunicazione, all’avidità di denaro, alla sete di potere, alla violenza di lotte armate e di
una narcotizzante propaganda. Marcuse, riferendosi alla Beat Generation,
preferiva definirla Beatnik, da Beat e Sputnik, in quanto il primo satellite
sovietico era lontano dalla terra quanto i Beats lo erano idealmente dalla
comunità in cui vivevano. Il filosofo considerava positivo il fatto che tanti
giovani rifiutassero i dettami dell’establishment, tuttavia riteneva che la loro
ricerca di valori tramite l’ausilio di sostanze stupefacenti e alcoliche, con
derivanti accuse di reati vari, ne sminuisse il potenziale rivoluzionario.
L’elaborazione della teoria critica di Marcuse si compie tra la Scuola di
Francoforte, attiva negli anni della Repubblica di Weimar insieme a Theodor
Adorno e Max Horkheneimer, e San Diego. Opere quali Ragione e
Rivoluzione, L’uomo a una dimensione, Eros e civiltà lo resero il principale
ispiratore e simbolo del movimento studentesco del XX secolo. Marcuse intitola La paralisi della critica: la società senza opposizione” la premessa a
L’uomo a una dimensione, intendendo che si è compiuto inesorabilmente il
processo tecnologico di omologazione e controllo degli individui. Se un
cambiamento potrà esserci, esso verrà solo dalla forza libera e sovversiva
dell’immaginazione al potere, dalla molteplicità di espressioni capaci di fornire idee nuove e rivoluzionarie in grado di smascherare le contraddizioni del
reale. La Bellezza salva il mondo, l’arte incrocia l’utopia, le parole sono
frammenti di sogno e la poesia si fa promessa di redenzione, nello spirito di
On the road di Jack Kerouac e della sua politica del movimento: “Let’s
go. Where are we going man? I don’t know, but we gotta go”1). Kerouac, protagonista di incredibili traversate sulle polverose strade d’America, aveva
cercato di trasmettere l’indignazione e la denuncia dinanzi alle ingiustizie,
allo sperpero di denaro, al consumismo e alle brutture del mondo.
Soprattutto, aveva cercato di comunicare il senso del viaggio quale solitaria e tragica esperienza alla ricerca di una verità “fuori dal tempo in una
società costruita sul tempo”, un viaggio interrottosi con la morte dello scrittore nel 1969 all’età di 47 anni. Per Kerouac la Beat Generation traeva spunto dagli hipsters, una generazione di giovani dei primi anni ‘40 appartenenti
ai ceti più poveri i quali, insofferenti a ogni regola, vagabondavano dappertutto in autostop, contrapponendo l’originale hip language al lessico tradizionale da essi ritenuto inadeguato. Incisiva è anche la personalità di William
Burroughs con il suo boicottaggio dei poteri occulti. Così Kerouac, sotto il
nome di Old Bull Lee, descrive l’amico in Sulla strada: “passava tutto il
tempo a imparare; le cose che imparava erano quelle che considerava e
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chiamava ‘i fatti della vita’; le imparava non solo per necessità, ma per scelta. Aveva trascinato quel suo corpo lungo e sottile in giro per tutti gli Stati
Uniti, e in gran parte dell’Europa e del Nord-Africa, ai suoi tempi, solo per
vedere cosa succedeva… Una volta avevo detto: Cosa ci succederà quando
moriremo? E lui aveva risposto: Quando si muore si muore, ecco tutto”.
Burroughs utilizzò la tecnica stilistico letteraria del cut-up, già utilizzata
nel Dadaismo di Tristan Tzara, consistente nel tagliare un testo scritto
lasciando intatte parole o frasi, combinandone poi i frammenti per ricomporre un nuovo testo che, pur senza filo logico e corretta sintassi, manterrà un
suo senso. Allen Ginsberg, leader atipico, nelle sue opere tratta i temi ricorrenti del viaggio, del rapporto tra l’individuo e il mondo esterno, della poesia come promessa di redenzione, dell’autoemarginazione e delle filosofie
orientali contrapposte ai feticci materialistici. Nell’ottobre del 1955 Ginsberg
legge presso la Six Gallery Poetry Reading di San Francisco il suo poema
intitolato Urlo, il cui incipit recita: “Ho visto le menti migliori della mia
generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per
strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa”. Lawrence Ferlinghetti,
poeta e fondatore della casa editrice City Lights, pubblica il lavoro di
Ginsberg nel 1956. L’anno seguente si verifica un episodio rivelatore della
campagna discriminatoria scatenatasi contro gli scrittori beat: Ferlinghetti
viene arrestato con l’accusa di aver divulgato un’opera oscena e fuorviante
per le giovani coscienze. Il processo si concluse con l’assoluzione e la difesa stabilì che Urlo era una denuncia contro il materialismo e la meccanizzazione che minacciavano l’America ma la stampa dell’epoca continuò a esprimere giudizi negativi contro gli scrittori beat.
Neal Cassady, co-protagonista in On the Road sotto il nome di Dean
Moriarty, è stato anch’egli uno dei simboli della Beat Generation, sempre
alla ricerca di un approdo che non trovava. Del giramondo Gregory Corso,
invece, la Pivano disse: “strafottente nella più assoluta imprevedibilità qualunque cosa abbia detto o scritto ha sempre rivelato il dono di non dire mai
una sciocchezza”. Dalla scrittura e dalla vita di questi autori emerge in modo
prorompente e rivoluzionario un anelito di libertà.Realismo? Utopia? Certo,
a ognuno va consentito di orientare il proprio pensiero verso uno schema di
vita originale e anticonformista che, per essere rispettato, contenga a sua
volta il rispetto.
1) Trad.: “Andiamo, dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare”.
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MITO E REALTA’ NELLA POESIA
DI EMILIO ARGIROFFI
di Pina Majone Mauro
“… la vendetta non ha compagni di strada / nel duro inverno d’aspromonte
/ la pietra rotola rossa / di braci infinite / nel mare viola di stesicoro / che
lambisce radici di meli cidoni / e d’uve mantoniche / e quiete onde / tiepide
di scirocchi / dove si specchiano / i rami grevi dei frutti / dei grandi olivi grecanici / … casolari / dove si consumarono / infinite generazioni di sofferenze / partenze … per sorde megalopoli di ferro / dalle quali non si torna / …
in un presente / figlio bastardo di un passato / abitato da serpenti / la vendetta non ha compagni di strada. A pagina ventinove della straordinaria silloge “Gli usignoli di Botonusa” è incastonata come una gemma rossa di passione e di sangue questa poesia dal titolo inquietante, “Il grido della vendetta”, che può essere considerata la sintesi delle varie tematiche di cui si nutre
l’intera opera di Argiroffi: la bellezza aspra e dolce del mitico mare viola di
Stesicoro, che accarezza le brune rocce aspromontane come se volesse levigarne le asperità e scoprirne il mistero, i venti del deserto che corrono sulla
“sua” piana ricca di ulivi grecanici dove ogni suono è parola che giunge da
tempi sconosciuti e remoti dove l’ululato del lupo, il sibilo del serpente
incontrano la voce del mare. È così che il Poeta sente e vede la sua terra di
adozione, quella che ha scelto per vivere e lavorare, la piccola comunità di
Taurianova che guarda al mare degli eroi antichi che vi approdarono e di
quelli moderni che per fame e disperazione ne fuggirono. In altro luogo (pag.
295 de “La grotta di Endimione) dirà:
“questa Taurianova / risorta su ceneri
e suoni millenari / tra fanghi e rovi
impigliati di cento miti / di mille melodie di usignoli … signora dell’antico
fiume / dove s’immerse oreste il matricida / … dove omero ancora risuona /
nelle parole dei vinti / … Taurianova
signora della piana / è terra di pallade
atena / fu qui ch’ella colpiva il suolo
con la lancia / ad ogni colpo sorgeva
l’ulivo / il grande ulivo gigante / … qui
fu toante / sposo della regina ipsìpile /
Emilio Argiroffi (1922-1998)
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qui visse ifigenia / sacerdotessa di artemide / …”.Siciliano per nascita
(Mandanici -ME, 1922 Catania 1998), mitteleuropeo per cultura (ebbe una
madre altoatesina che gli trasmise una visione corale e meno campanilistica
del mondo e della vita) calabrese per libera scelta, Emilio Argiroffi fu medico politico pittore saggista, senatore della Repubblica per tre legislature, sindaco del suo paese. Ma fu soprattutto poeta. Scrisse pregiatissime sillogi poetiche, tra cui “La grotta di Endimione”, “L’imperatore e la notte”, “Epicedio
per la signora che si allontana”, “Le azzurre sorgenti dell’Acheronte” (post.),
“Gli usignoli di Botonusa”. Mandato giovanissimo a Taurianova per espletare il tirocinio di medico nel piccolo ospedale della Piana del Tauro, non
lasciò più questa terra che lo adottò e i suoi abitanti che lo adottarono.
Con essi si sentì compagno di strada e li amò senza riserve e per tutta la
vita li servì con quel sentimento di “pietas” laica dal forte impianto socioantropologico. Sono loro i protagonisti della sua vicenda professionale e
umana, vicenda che si precisò nella dedizione continua per sublimarsi poi
nella poesia. La scelta coraggiosa di restare a Taurianova coincise con una
forte presa di coscienza del dolore altrui e dal desiderio di alleviare le sofferenze di quanti abitavano quell’eden di bellezza e di dolore. Come un destino. Come una magia. La professione lo mise a stretto contatto con la povera
gente dei campi e soprattutto con le raccoglitrici di olive, sempre con la
schiena piegata sulla terra del padrone, e con i loro bambini denutriti e
abbandonati di cui curò le piaghe visibili e invisibili. Con spirito di servizio
e con la consapevolezza che quel dolore era il retaggio di una atavica povertà culturale morale e materiale. Emilio fu per i calabresi del Metauro
“L’Angelo necessario” e loro furono per Emilio gli unici ispiratori della sua
vicenda professionale umana e politica, ma soprattutto della sua straordinaria poesia.Farsi carico dei loro patimenti fu per Lui come indossare una
corazza che per tutta la vita spartanamente portò per condurre la sua lotta
senza quartiere alle sopraffazioni e alle ingiustizie. Le sue liriche non hanno
i toni giambici di Archiloco di Paro ma quasi quelli della ballata vibranti tutti
di un pathos profondo che dà al verso un andamento spondaico e spesso “colloquiale” nonostante la finalità palese di una accorata denuncia.
A pag. 34 de “Gli usignoli di Botonusa” si legge: “figli dell’uomo / lasciate che vi chieda / che ne sarà dei bambini / essi sono muti nel dolore / nessuno è più solo di loro / nel mondo in cui viviamo / nel deserto dei mondi /
voi che cosa avete fatto / cosa state facendo / perché il loro cuore / non sia
trafitto ancora / essi non chiesero di nascere / non chiesero ad alcuno di
morire / tendete la mano a uno di loro / a uno soltanto / vi imploro / a uno
soltanto”.Versi di protesta che poi si fa accorata preghiera d’amore … per-
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ché per il Poeta solo l’amore può salvare gli innocenti, i senza-voce da un
futuro di sopraffazione e di aberrazione. Per dire infine che la sorte dei diseredati di Taurianova e di tutto lo “zoccolo aspromontano” non motivò soltanto l’azione politica di questo moderno aedo loricato, immenso come un Aiace
forte e leale che non lotta per sè ma per il bene degli altri, ma costituì la fonte
primaria della sua poesia, il cui principale merito è di avere effettuato coi
suoi splendidi versi la compenetrazione profonda del suo pragmatismo
socio-politico nel mondo fantastico mitico e solo apparentemente lontano del
dolore umano. Il linguaggio colto, l’alta ispirazione, la potente immaginazione e la finalità umanitaria fanno della poesia di Emilio Argiroffi quanto di
meglio sia stato scritto dal decadentismo in poi.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
di Giorgio Linguaglossa
orrei iniziare con un riferimento ad Adorno tratto da Dialettica
negativa, e precisamente nel capitolo dove il filosofo tedesco
dichiara che dopo Auschwitz un sentire si oppone a ciò che prima
del genocidio si esprimeva tramite il senso. E aggiungeva che
nessuna parola con tono pontificante, quand’anche parola teologica, ha legittimità dopo Auschwitz. Come sappiamo, il filosofo tedesco assegna al genocidio di massa un valore radicale, e lo cita come rovina del senso. Il senso
della storia ci conduce a questo: nel riconoscere che non c’è alcun senso della
storia, se diamo al termine il valore di razionalità nella accezione invalsa da
Hegel in poi: che «il reale è razionale», che c’è una spiegazione per ogni
aspetto del reale, anche per le cose apparentemente insignificanti, minime,
che anch’esse rientrano nel disegno di organizzazione universale dello
Spirito del mondo e nel disegno razionale. Per il pensiero liberale la Storia
ha una sua direzione proiettata verso il futuro nella forma del progresso e
della civilizzazione etc., la storia ha una sua direzionalità pregna di senso etc.
Ma dopo due guerre mondiali e la guerra fredda non si può più formulare un
pensiero come questo.
Per Adorno dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia. E invece i fatti
hanno dimostrato non solo che dopo Auschwitz si può ancora scrivere poesia ma che anzi oggi assistiamo ad un vero e proprio diluvio di poesia di tutti
i tipi, elegiaca, iconica, concettuale, sperimentale, del quotidiano, mitologica, giocosa etc. La storia sembra andare verso l’implosione piuttosto che
verso il suo ripiegamento, verso la demoltiplicazione piuttosto che verso il
dimidiamento. Ma la Poesia ha coscienza di questa negatività?, la Poesia ha
coscienza di questo de-moltiplicatore?. Ma è una negatività senza impiego,
senza contraltare, una negatività che permette soltanto la finzione, l’allestimento di un palcoscenico vuoto. Al posto dell’impegno è subentrato il disimpegno, al posto del negativo è subentrato il post-negativo; le ipertrofie, le
faglie, le erosioni, le citazioni, i rimandi, i percorsi sotterranei del senso
diventano i veri protagonisti della poesia, diciamo, del post-negativo. La
poesia ironica e scettico-urbana del post-negativo si muove in questa topografia assiale delle rovine (del linguaggio e del senso); si muove, con eleganza e ironia magari, in questa topografia delle rovine (con una tipografia delle
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rovina!); si trastulla sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio, esibendo l’abilità del rhetoricoeur, nell’improvvisare paronomasie, omofonie ed
anafore, corto circuiti tra suono e senso, tra citazione e citazione; mima un
senso plausibile ed effimero per poi subito dopo negarlo e de-negarlo ammiccando alla impossibilità per la poesia di prendere la parola, di parlare facendosi schermo dei famosi versi di Montale: «Solo questo oggi possiamo dirti
/ ciò che non siamo ciò che non vogliamo». Dopo Composita solvantur
(1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si
democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e
si polverizza diventando semplice sintagma molecolare; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed
effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di
lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il
«vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato
l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose
la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e
«valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria
dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi
che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro
concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa
si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e
dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate,
traumatizzate e tranquillizzanti?.
La poesia non ritiene più indispensabile ricreare le coordinate e le condizioni per una poesia che voglia parlare con parole «nuove» al pubblico (e
poi: quali parole?, quale vocabolario?); la poesia parla del non-senso?, del
senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?. Ma qui siamo
ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo
Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la
poesia come battuta di spirito?; il campo, si dice, è disseminato di mine, è un
campo minato di rovine; è vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci
hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un
medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
materia combusta, dei materiali esausti, dei detriti per riutilizzarli in una
composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo
destino. È questo il suo télos. C’è una gran confusione, una «dissolvenza» di
tutti i concetti «forti», «solidi». Qualcuno dice di preferire ciò che è «liquido», «leggero», che la «leggerezza» è una virtù; qualcun altro dice di adottare il «quotidiano», il «privato»; qualcun altro ha sostenuto di voler adottare
il linguaggio della comunicazione, e così via; ho il sospetto che si tratti di
comodi alibi per non affrontare di petto quella cosa che abbiamo davanti: la
Grande Crisi della poesia italiana. Si dice che non si dà più alcuna certezza,
nessuno è così sciocco da investire né sulla «leggerezza», né sulla «pesantezza». E il poeta?. Qualcuno dice che il poeta non ha nessun salvagente cui
aggrapparsi, nessuna ancora cui legarsi, nessun punto di vista da difendere, e
che è costretto a fare poesia «turistica», da intrattenimento, poesia da bar;
appunto, c’è chi difende il turismo intellettuale: la chatpoetry quale parente
stretta della videochat; c’è chi prova a fare poesia con il linguaggio dei cellulari. Si va per iniezioni, tentativi inconsulti; e la poesia diventa molto simile ad una attività approssimativa che scimmiotta i linguaggi telemediatici.
Oggi va di moda
oggi va di moda di porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro
del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso,
(anche da quello di finzione come il discorso poetico), dal figurato invece
che dal letterale. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un
massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo Satura (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano(Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata
una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel
piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da
ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stato espulso la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico.
Con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello
estetico superiore come Maria Rosaria Madonna che poggia la sua poesia su
una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno
a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di
Helle Busacca come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato all’abbraccio con
la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.
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Riguardo a Pier Luigi Mengaldo
...riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che
smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di
prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per
fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di
uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via
assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è
confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della
«crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico.
Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto»
e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine
dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo, scetticismo
mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi
conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a
fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico. Quello che Mengaldo apprezza della
poesia di Montale: «il processo di demetaforizzazione, di razionalizzazione
e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa
di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di
Trasumanar e organizzar (1971), da Giovanni Giudici con La vita in versi e
da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo
poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico.
Critico raffinatissimo privo però di copertura filosofica. Montale, insomma (pur con tutte le cautele del caso) apre le porte della poesia italiana a quel
processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con
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questo atto non solo compie una legittimazione dei linguaggi dell’impero
mediatico che era alle porte, ma legittima una forma-poesia che inglobi la
ciarla, la chiacchiera, la cultura dello scetticismo. Autorizza il rompete le
righe e il si salvi chi può. La forma-poesia va a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi. Il problema
principale che Montale si guardò bene dall’affrontare era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia come elettrodomestico. Qui sì che Montale ha
fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di
lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.
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Cronache dal Nord-Est
Con Nelvia Di Monte la “lingua friulana”
sale al Campidoglio
di Roberto Pagan
uanti poeti in riva al Tagliamento.
L’esclamazione mi era venuta alla
mente proprio così, con la cadenza dell’endecasillabo. Diventò poi
il titolo di un breve regesto (in “pagine”, n.
50, 2007) in cui davo conto della ricca fioritura di poesia dialettale ch’era prosperata, e
ancora continua, al di cà e al di là de l’aga;
oggi, per la verità, più al di qua del fiume,
nella provincia di Pordenone, che dall’altra
Nelvia Di Monte
parte, nella provincia di Udine. Ne avevo
recensito una decina, di poeti, giovani e meno giovani, lasciandomi guidare
dalla elegante collana (Piccola Biblioteca di Autori Friulani) curata con grande passione da Ofelia Tassan Caser, direttrice della Biblioteca Civica, e
splendidamente decorata in copertina da quel grafico d’eccezione che è
Gianni Pignat.Tornavo a Pordenone, dove ero stato giovane insegnante di
liceo, dopo un’assenza di decenni e vi avevo trovato, al posto del paesone
sgangherato che ricordavo, una città, non dico armoniosa, ma comunque
moderna ed efficiente. Lì il “miracolo del nord-est” c’era passato davvero (e
magari durasse ancora), e i risultati, sul piano materiale di certo, erano sotto
gli occhi di tutti. Ma quello che più mi sorprese favorevolmente era constatare come, per una volta tanto, quella nuova prosperità economica aveva
avuto, ad ogni evidenza, anche una ricaduta sul piano culturale. Ne era prova
palpabile la bella, ricca rassegna di “Pordenone legge”, che si rinnova, da
parecchi anni ormai, ogni settembre. Ma, per tornare ai nostri poeti, il Friuli
è, notoriamente, una delle aree più vivaci per la diffusione del filone “neodialettale”, che – dopo l’impulso pasoliniano – ha acquistato uno slancio che
non sembra arrestarsi, aprendosi anzi in mille rivoli e toccando le località più
sperdute, paesini dimenticati della pedemontana, giù giù fino alle cittadine
della Bassa, dove il friulano si ibrida curiosamente di echi e cadenze venete,
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
ritrovando quei sotterranei influssi, in realtà mai perduti del tutto, propri dell’antica Dominante: di cui ancora, sparse qua e là per la campagna, sopravvivono, vestigia illustri del passato splendore, decine e decine di ville patrizie. Siamo ormai, dai tempi della Academiuta di Pasolini, a una terza generazione di poeti che scrivono nelle infinite varianti della mappa linguistica
regionale: questo idioma dell’anima, ritrovato più che altro nella memoria
genetica, perché spesso nemmeno usato nella comunicazione quotidiana.
Talvolta per gli allentati rapporti con le piccole patrie d’origine e non di rado
per lo sradicamento dovuto a una lunga vicenda di emigrazione, propria di
una terra che ha conosciuto, fino a un passato recente, privazioni e miseria.
Di quella perdita di radici certo è restata traccia nella coscienza profonda
degli scriventi, con una attitudine diffusa al ripiegamento doloroso: ché le
nuove generazioni – uscite dai tempi più drammatici – hanno pagato su altro
piano lo scotto di un fin troppo repentino trasformarsi della società con la
conseguente dispersione dell’antica civiltà contadina da cui molti di loro provenivano. Sì che un nuovo trauma si è aggiunto all’eredità malinconica della
stirpe. Qui è forse anche la causa prima di questo rinnovato amore del dialetto natio, quasi a trovarvi rifugio e salvezza sul piano emotivo ed esistenziale. Ecco così la lingua degli avi che diventa strumento d’arte, di ispirazione
ed espressione privilegiata. Ma bella è anche in tale contesto la fitta rete di
scambi e rimandi, la capacità di stringere rapporti comuni, di costituire cenacoli e associazioni (ricordiamo almeno il Circolo culturale Menocchio o il
Gruppo Majakovskij) in cui discutere e confrontare i risultati del loro lavoro: ciò che indubbiamente ha contribuito ad assicurare ricambio e continuità
a questa tradizione. Negli anni la collana della Biblioteca Civica di Pordenone
ha allineato altri nomi, dopo quelli degli undici scrittori di cui, nel 2007, avevo
potuto dar conto. Nel n. 19, intitolato Tiara di cunfìn, Giacomo Vit e Giuseppe
Zoppelli, due specialisti della materia, hanno raccolto una piccola antologia
che, oltre a ripercorrere l’opera di poeti già pubblicati (Renato Pauletto, Luigi
Manfrin, Sergio Vaccher, Daniela Turchetto), altri ne propone: Fernando
Gerometta, Federica Rocco Contin, Luigina Lorenzin, Marco Pauletto,
Giorgio Faggin, Giovanni Valentinis. E tanti ancora se ne potrebbero aggiungere, che si sono segnalati più di recente e hanno acquistato fama a livello
nazionale: in primis Ida Vallerugo, Gian Mario Villalta, Pierluigi Cappello…
L’ultimo volumetto della collana (il n. 21) è dedicato ora a Nelvia Di Monte
e alla sua raccolta Sojârs (Soglie): opera che segna indubbiamente la sua
piena, intensa maturità poetica. Di questa personalità vorremmo dire qui in
particolare: proprio perché in questi ultimi anni Nelvia ha fatto spesso parlare di sé, segnalandosi – nell’ambito della poesia in friulano – come uno dei
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casi più interessanti. Seguiamo questa rapida successione della sua carriera.
Nel 2010 ha vinto il Premio Ischitella–Pietro Giannone con la silloge
Dismenteant ogni burlaz; nel 2011 ha pubblicato un’elegante plaquette,
mista di poesie in italiano e in friulano, Nelle stanze del tempo, premio speciale alla carriera Elsa Buiese; nel 2013, appunto l’accennato Sojârs, corredato da un’ampia prefazione di Giuseppe Zoppelli, un critico assai competente, in cui si riesamina tutto il percorso della poetessa. Dulcis in fundo – è
il caso di dirlo – il 16 gennaio scorso ha ricevuto in Campidoglio il primo
premio per la poesia inedita nel concorso, di nuova istituzione, “Salva la tua
lingua locale”. Di Nelvia Di Monte già tante cose dunque sono state scritte.
A parte l’importante prefazione di Zoppelli appena citata, troviamo la nostra
autrice inserita in varie antologie e, con particolare risalto, nella recente rassegna Poeti del Friuli di Anna De Simone, ed. Cofine, Roma 2012. La sua,
nel panorama della poesia friulana, è certo singolare caso di fedeltà a una lingua che, di fatto, l’autrice non parla più fin dall’infanzia, quando ha lasciato
il paese natio di Pampluna, nei pressi di S. Giorgio di Nogaro, per vivere poi
in terra lombarda. In verità Nelvia scrive anche con finezza in italiano (come
si vede nella già indicata plaquette Nelle stanze del tempo). Ma il friulano
(vicino alla koiné udinese, questa volta) è prediletto in quanto sentito come
l’espressione più intima e segreta della sua personalità: benché sia lingua
ricuperata a memoria e con studio paziente ricondotta ai testi canonici. È
vero peraltro che, della tradizione friulana, molti archetipi le sono congeniali, dai temi alle tonalità, avendone ereditato lo spirito, si direbbe, soprattutto
dal padre amatissimo e precocemente perduto.
Ché in fondo nei suoi versi confluisce la pena di un doppio sradicamento:
quello delle generazioni passate, il dramma dell’emigrazione che è stato
oggetto del suo grande libro d’esordio, Cjanz de la Meriche, 1996, e quello
del proprio esodo infantile, che ha lasciato tracce d’ombra malinconica nella
sua coscienza come nella sua poesia. Il che potrebbe spiegare anche, in via
subliminale, sia l’alternarsi (e il sovrapporsi) nel suo percorso creativo di
motivi intimistici ed eminentemente lirici e di aperture al sociale con soluzioni epico-narrative; come pure un susseguirsi di venature cupe (come in
Ombrenis, Ombre) e di momenti intonati a maggiore serenità (come in Cun
pàs lezêr o Dismenteant ogni burlaz). L’ultimo libro, Sojârs, ha un più complesso intreccio, e un gioco di corrispondenze e rispecchiamenti, tematici e
tonali, tra le sue quattro parti, calibrato con grande perizia costruttiva. Ma
tutto ciò richiederebbe un troppo lungo e approfondito discorso. Certo
impossibile in questa sede. Per dare appena una vaga idea di tali interni
rimandi che legano, in un rigoroso bilanciamento di simmetrie, parti più anti-
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che e parti più recenti abilmente confluite in questo libro citeremo a confronto (purtroppo solo in frammenti, non nella loro integrità) due testi: il n. 5
della prima parte (titolo: In tun zûc vueit = In un gioco vuoto) e il n. 5 della
seconda parte (titolo del brano: Masse cambiâts = Troppo mutati). In tutti e
due i brani (da noi qui contrassegnati A e B) si accenna al padre morto e alla
sua fotografia immobile nel sorriso: ma nel primo come in abbozzo, per allusioni sfumate; mentre nel secondo lo stesso tema si dispiega in accorata elegia (la salma ricollocata dopo vent’anni in un piccolo loculo), per aprirsi poi
in un vivace flash back (la bambina che corre in bicicletta incontro al padre)
e concludersi in un epilogo gnomico:
A) Cirîti tal nûl al è un pinsîr / imburît come une clapade / ch’e
sbreghe l’ajar frêt di scûr / Il tô ridi di cjarte – simpri chel – / al vongòle oltri
il murèt e respîrs / di vecjo a semenin pe tiare / pulvìn e nissune rispueste…(Cercarti tra le nuvole è un pensiero / rapido come una sassata / che
taglia l’aria fredda di buio // Il tuo sorriso di carta – sempre uguale – / ondeggia al di là del muretto e respiri / di vecchio spargono per terra / polvere e
nessuna risposta…)
B) Dopo vinc’ains ti àn gjavât de tiare: / ancje par voaltris al è precari / il puest cajù, o stramudais tal cement, / dentri un pizzul bûs – ce l’impuartal, ormai?...(Dopo vent’anni ti hanno tolto dalla terra: / anche per voi è
precario / il posto quaggiù, traslocate nel cemento / dentro un cantuccio – che
ti importa, ormai?...) // E tornâ tai nestris lûcs cognossûts, / cuan che tu finìvis di lavorâ? / Par coriti incuintri framjez dai cjamps / di blave e girasol
pedalant legre / sul troi daurvie fossai e vencjârs / mintri al revoche il campanèl tai claps (E tornare nei nostri luoghi conosciuti / quando finivi di lavorare? / Per correrti incontro fra i campi di granoturco e girasole pedalando
allegra / sulla sterrata lungo fossi e salici / mentre il campanello risuona sui
sassi…)…Nus covente / une muse par voltâ i ricuarts / ma di bant la tô foto
e cjale compagne: / o sin nô masse cambiâts e i lûcs dulà che, / pôc o tant,
insieme o vìn cjaminât…(Abbiamo bisogno / di un viso per orientare i ricordi / ma inutilmente la tua foto guarda identica: / siamo noi troppo cambiati e
i luoghi dove, / poco o tanto, insieme abbiamo camminato).
Non possiamo certo tacere infine sulla cerimonia capitolina che ha trovato
ancora la Di Monte in prima fila tra i premiati di spicco per la poesia inedita. In questa occasione Nelvia ha letto una delicata Ninenane des aganis
(Ninnananna delle fate dell’acqua), certo più accattivante per il pubblico
della sala. Ma noi vorremmo citare da un altro testo presentato al concorso –
che, ancora una volta, siamo costretti a comprimere in frammenti. Il tema è
di grande attualità civile, l’integrazione culturale dei nuovi migranti: ma si
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veda l’estrema discrezione, la leggerezza di tocco con cui l’autrice sa affrontarlo. Il titolo è Gjeometriis (Geometrie): Il cjaf un pôc alzât, a nolis, e i voi
/ ch’a cjalavin simpri plui in là: creanzôs / bravût, ma la matematiche e jè /
une robe precise e la grammatiche, po, / un baràz intorteât al to fevelâ cjalt
/ come la piel scuride che ploe e nêf / no podevin sclarî (La testa un po’ sollevata, tra le nuvole, e gli occhi / che guardavano sempre più in là: educato,
/ bravino, ma la matematica è / una cosa precisa e la grammatica, poi, / un
rovo attorcigliato al tuo accento caldo / come la pelle abbronzata che pioggia e neve / non potevano schiarire) // Tu olevis capî, tu olevis lâ sù ma / calchi scjalin al vagolave tal vueit… Tre mes di scorsadis e nessun / nol jere
restât indaûr dongje di te./ Un mistîr? “Sì, ccerto” e il sium di gnûf al rît:/
pocjis peraulis, tal cantîr, e i tubos / ch’a tirin su plan sore plan ti dan / la
strissule di tignî il mont te man: / dilunvie di chê gjeometrie di fiâr / tu giris
sigûr, come se ogni bande / s’incjastràs precîse tanche un disèn // Cuilibrist
in tun circo, magari, e / tu sarèssis stât bon di svolâ incuintri / a un altri
doman (Volevi capire, volevi salire, ma / qualche gradino brancolava nel
vuoto…Tre mesi di rincorse, e nessuno / era rimasto indietro, vicino a te / Un
mestiere? “Sì, certo” e il sogno di nuovo sorride: / poche parole, nel cantiere, e i tubi / che innalzano piano su piano ti danno / l’ebbrezza di tenere il
mondo in mano: / lungo quella geometria di ferro / tu giri sicuro, come se
ogni lato / s’incastrasse preciso quasi fosse un disegno // Equilibrista in un
circo, magari, e / avresti saputo volare incontro / ad un altro domani).Fosse
un segno del destino, al secondo posto, dietro alla Di Monte, si è classificato un altro friulano: Fernando Gerometta. Un altro nome che avevamo incontrato nella collana della Piccola Biblioteca di Pordenone.
NOTIZIA
Gli Autori che desiderano collaborare possono inviare gli articoli
ai redattori (max 3 cartelle A/4), le recensioni (max 1 cartella A/4)
e le poesie per un massimo di cinque. I lavori devono pervenire
esclusivamente in formato Word, entro il 2 febbraio; 2 maggio; 2
ottobre. Si possono inviare indifferentemente ai redattori della
rivista qui di seguito segnati:
[email protected] - [email protected]
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Saint-tropez, Colette & company
di Fausta Genziana Le Piane
a Costa Azzurra fu un’invenzione degli americani. Negli anni Venti
del Novecento, prima Cole Porter, musicista di genio, e poi Gerald
e Sara Murphy, miliardari con la passione delle arti e degli artisti,
fecero quella che qualcuno definì in seguito «la rivoluzione d’estate».Il primo affittò per l’intera stagione del 1921 lo “Château de La
Garooupe” a Cap d’Antibes, i secondi convinsero l’anno dopo il manager del
locale “Hôtel du Cap” ad aprire solo per loro da giugno a settembre, con una
cuoca e una cameriera per le faccende domestiche. Fino ad allora, «nessuno
che fosse qualcuno» come scrisse Elsa Maxwell per rendere meglio il senso
di quella rivoluzione, «veniva avvistato nel sud della Francia durante luglio
e agosto». Il Mediterraneo era ritenuto un mare interno, caldo perché stagnante, e d’estate la villeggiatura degli aristocratici di sangue e di censo,
francese e anglosassone, tedesca e russa, si faceva sulle isole del Canale della
Manica o sulle coste dell’Atlantico. In “Lasciami l’ultimo valzer”, Zelda
Fitzgerald, la moglie bella e pazza dell’autore de “Il Grande Gatsby”, racconta di come sui transatlantici che collegavano gli Stati Uniti all’Europa, i
viaggiatori esperti mettessero sull’avviso i novizi riguardo ai pericoli che li
attendevano: «I loro bambini avrebbero preso il colera, gli amici sarebbero
stati morsicati a morte dalle zanzare francesi, da mangiare avrebbero avuto
solo carne di capra e niente ghiaccio nei liquori». Della Costa Azzurra diventerà il compendio Saint-Tropez, con un uso squisitamente francese. È proprio Signac a scoprire questo luogo nel 1892 a bordo del suo yacht,
“L’Olympia”. Sedotto dai luoghi, invita nella sua casa che si chiama “La
Hune” numerosi pittori tra i quali Henri Matisse, André Derain, Albert
Marquet, Pierre Bonnard, Henri-Edmond Cross. Saint-Tropez diventa un
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luogo all’avanguardia per quanto riguarda la pittura. Signac, Matisse,
Dunayer de Segonzac si ritrovavano al bar dell’ “Hôtel Sube”, dove adesso
c’è il “Café de Paris”. Poi è stata la volta della regina dell’operetta
Mistinguette, dei registi Julien Duvivier e René Clair. È a “La Ponche”,
come quartiere, come luogo e come ritrovo, che nel dopoguerra arrivano da
Parigi gli «esistenzialisti»: si chiamano Juliette Gréco, Boris Vian, Daniel
Gélin, Pierre Brasseur, attori, musicisti, scrittori, cantanti che lo ribattezzano
“Saint-Tropez-des- Prés”, lo trovano magico, come scriverà la Gréco, «per
bere, ballare, nuotare, dormire al sole e fare l’amore».
È di Vian il suggerimento ai genitori di Simone, di aprire un locale notturno adiacente al bar. Il “Club Saint-Germain-des-Prés La Ponche” apre i battenti nel 1949: Boris suona la tromba, Mouloudji la chitarra, il negro americano Don Byas il sassofono, il gitano Pata le batterie. Ci vanno Eluard,
Sartre, Picasso, Annabelle Buffet. Negli anni Cinquanta, come ricorda ancora Simone, che della storia del suo albergo è giustamente fiera, tanto da averci scritto sopra un libro (“Hôtel de La Ponche. Un autre regard sur SaintTropez”, Le Cherche Midi Editore), “La Ponche” e con lei Saint-Trop entrano definitivamente nella leggenda. Succede che, più o meno contemporaneamente, il vecchio bar diviene un albergo. La giovanissima Françoise Sagan
(“Il sole, la velocità, la festa e l’allegria” questo era il motto di Françoise
Sagan che sbarcava ogni estate a Saint-Tropez, scortata da Jacques Chazot,
Juliette Greco e da tutta la sua banda per vivere la dolce vita del posto) si
ritrova scrittrice di successo, Roger Vadim gira proprio a «la punta» “Et
Dieu créa la femme”, il film che fa di Brigitte Bardot la nuova divinità da
adorare, quella stessa Brigitte che pochi anni prima, ancora ragazzina, «veniva al mattino presto, con i genitori, a divorare le tartine di pane abbrustolito
di mia madre”. “La Ponche”, l’albergo, è rimasto più o meno lo stesso, pur
se Simone lo ha ammodernato e ingrandito, diciotto camere al posto delle
otto che lo tennero a battesimo.
Alle pareti adesso ci sono i bei quadri di Jacques Cordier, il marito pittore
morto troppo giovane in un incidente di macchina, e dalla finestra della
camera 19, quella di Françoise Sagan, vedi la stessa piccola spiaggia di
mezzo secolo fa, e «lo stesso mare, lo stesso blu, lo stesso rosa, la stessa felicità» che vedeva lei, prima che la vita le presentasse il conto. Nell’agosto del
1926, Colette (Sidonie Gabrielle Colette, 1873-1954) compra vicino a SaintTropez una piccola proprietà di due ettari divisa tra vigna, un bosco di pini,
un orto di aranci e un giardino dove troneggia una casetta provenzale molto
modesta ben presto battezzata “La Treille Muscate” in virtù della presenza di
una vigna di vino moscato “la cui pancia tesa riflette in blu il giorno” e si
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ostina a coprire il pozzo “con il suo nome ed i suoi tralci“. Colette vi soggiornerà almeno tre mesi fino al 1938: “È stato necessario che, per trovarla,
io mi distaccassi dal porticciolo mediterraneo, dalle imbarcazioni per la
pesca del tonno, dalle case piatte, dipinte, rosa confetto sbiadito, blu lavanda, verde tiglio, dalle strade dove aleggia l’odore del melone sventrato, del
croccante e dei ricci. L’ho trovata sul bordo di una strada temuta dagli automobilisti e dietro il più banale cancello – ma questo cancello è soffocato
dagli oleandri, premurosi nel tendere al passante, tra le sbarre, mazzi incipriati di polvere provenzale, bianca come la farina, più fine del polline…
Due ettari, vigna, aranceti, alberi di fichi dai frutti verdi, alberi di fichi dai
frutti neri; quando avrò detto che l’aglio, il peperoncino e la melanzana riempiono, tra i ceppi, i solchi della vigna, non avrò detto tutto?” (Prisons et Paradis,
1932, traduzione di Fausta Genziana Le Piane). Il suo stabilirsi in Provenza è
simbolicamente diverso da tutti gli altri suoi spostamenti: riannoda qui le radici
paterne e si confronta anche con un aspetto fino ad ora inesplorato delle proprie
origini; non dimentichiamo che il padre era originario di Tolone. È piena di
ardore nell’installare la sua “provincia” meridionale, fa costruire una veranda
sotto la quale potrà dormire d’estate e si occupa alacremente di abbellire il giardino. Lo rimodella stupendo il giardiniere Etienne più abituato alle bordure di
aiole parallele come “griglia per cotolette” e lo consacra volontariamente all’incanto della curva per ottenere “un giardino dove si può raccogliere tutto, mangiare tutto, lasciare tutto e riprendere tutto” Qui invita i suoi amici – il “clan
cannebier” -, Francis Carco, Joseph Kessel, Paul Géraldy, che Colette inizia
alla degustazione del tè verde, l’attrice Simone Berriau e soprattutto molti pittori Luc-Albert Moreau, André Dunoyer de Ségonzac.
POLLO ALLA GRIGLIA DE LA TREILLE MUSCATE
“Frutta, legumi, pesce e ogni tanto la metà di un giovane pollo delicatamente
innaffiato di olio e grigliato all’aria su braci di finocchio e rosmarino…”
(C.A.A. BILLY, Intimités littéraires, 1932) Spaccate due polli da 1,5 kg. Mettete
le 4 metà salate e pepate a marinare in un generoso bagno d’olio d’oliva aromatizzato con aglio schiacciato, semi di finocchio, rami di rosmarino e succo di un
limone. Sopra una griglia, fate una bella brace di legno l’olivo, finocchio e
rosmarino. Mettete il pollo sulla griglia. Non abbandonatelo; rigiratelo e spennellatelo regolarmente, evitando che la brace s’infiammi. Lasciatelo grigliare
per 30 minuti. Per accompagnare il pollo, approfittate della brace profumata per
grigliare alcuni pomodori succosi dopo averli salati e pepati.
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Giustino
L. Ferri
(1856-1913)
Giustino Ferri
“La Camminante”
di Francesco De Napoli
’anno 2013 ha visto la ristampa, quasi in contemporanea, delle due
diverse edizioni del romanzo, divenuto ormai introvabile, “La
Camminante” di Giustino L. Ferri nel Centenario della morte
(Picinisco, 23 marzo 1856 – Roma, 13 maggio 1913), il grande
scrittore ciociaro frequentatore dei maggiori cenacoli letterari dell’epoca ed
amico di personalità quali Luigi Capuana, Gabriele D’Annunzio e Luigi
Pirandello. Le due ristampe in questione sono: la prima, edita da Eva
Edizioni di Venafro (2013, pag. 336) a cura di Gerardo Vacana, che riproduce l’edizione originale della “Nuova Antologia” (Roma, 1908, pag. 355); la
seconda, edita da Arbor Sapientiae di Roma (2013, pag. 355) a cura di
Floriana Giannetti, che riprende l’edizione di “Apollon” (Roma, 1944, pag.
350). La duplice riedizione - troppa grazia, Sant’Antonio! - è stata accompagnata, per la verità, da qualche polemica, in quanto l’edizione postuma di
Apollon 1944 è notoriamente considerata alquanto “rimaneggiata”, ovvero
alterata, rispetto all’originale voluto dall’autore. Il volume curato da F.
Giannetti presenta, in effetti, il piccolo “neo” di non aver adeguatamente
puntualizzato i ritocchi e le varianti dell’edizione a cui ha attinto. In ogni
caso, è da ritenere che entrambe le pubblicazioni possano essere utili ai fini
d’un esame comparato, onde evidenziare le tipologie e le motivazioni delle
“modifiche” apportate da Apollon.
Le due edizioni – Eva, come Arbor Sapientiae – risultano essere, del resto,
in tirature estremamente limitate, quindi ad esclusivo uso di studiosi e addetti ai lavori, i quali si presume siano già a conoscenza dell’arbitrario lavoro di
scrematura operato da Apollon ai danni del testo originale. Per quanto tuttora ignorato sia dalla critica che dai lettori, il romanzo “La Camminante” di
Giustino Ferri si presenta come un autentico capolavoro della letteratura italiana dei primi del Novecento, straordinariamente complesso e ricco di spunti stilistici, contenutistici ed esegetici. La vicenda si svolge nell’anno 1905
alle Ramogne, dimora della famiglia Bartoli nei dintorni di Avignano, un
borgo senza connotazioni geografiche precise, uno dei tanti della Ciociaria ai
confini con l’Abruzzo. È l’oscura ed ibrida zona franca posta tra il dissolto
Stato Pontificio e le propaggini settentrionali dell’ex-Regno delle Due
Sicilie. Protagonista del romanzo è - almeno fino a quando non compare
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
sulla scena una misteriosa sconosciuta, detta la Camminante - Andrea
Bartoli, sfiorito rampollo quarantacinquenne d’una decaduta aristocrazia di
provincia, ormai fusa, e confusa, sul piano economico, con l’emergente piccola e media borghesia rurale. Andrea è uno scrittore idealista, non molto
affermato ma abbastanza colto e sensibile. Egli possiede una personalità fragile, tanto da essere intimamente combattuto persino riguardo alle proprie
capacità letterarie. Appartiene ad una famiglia che, nel difendere con orgoglio l’antico blasone, negli anni della formazione dell’unità d’Italia aveva
mantenuto un atteggiamento defilato, simpatizzando - senza scoprirsi troppo
- per Garibaldi e, forse, per i Savoia, contro il potere temporale della Chiesa.
Il suo amico più caro ed unico confidente è don Angelo Castelloni, un
“vecchio e scomunicato garibaldino” che, proprio in apertura del romanzo,
racconta ad Andrea le drammatiche peripezie capitate ad un drappello di
garibaldini dispersi nei territori papalini, subito dopo lo scioglimento dei
Mille a seguito dell’incontro di Teano. Giustino Ferri è molto bravo nel non
calcare troppo la mano su spiegazioni superflue. Del resto, ciò che accadde
realmente a quel tempo nessuno lo sa, ed ogni episodio fu un caso a sé. Da
quanto è dato arguire, la famiglia Bartoli dovette, allora, farsi da parte ed
assistere impotente, dopo l’unificazione dell’Italia, al ritorno al potere della
“reazione fatta passare per rivoluzione”.Alla restaurazione, concretizzatasi
nell’apparente “normalizzazione” dei rapporti tra Regno d’Italia e Papato,
era seguita nel Centro-Sud, strisciante ma feroce, la caccia ai miscredenti
“rivoluzionari” ritenuti responsabili della fine del Regno dei Borboni e dello
stesso Stato Pontificio, mentre contadini bramosi di ricchezza, mercanti e
strozzini ordivano nell’ombra fingendo d’ossequiare - in realtà osteggiando
- gli antichi “signori”, al solo scopo di sostituirsi ad essi.
Così, alla famiglia di Andrea, travolta da una crisi economica su cui gravava il peso degli interessi usurai, non restò che aggrapparsi al suo glorioso
passato, senza rendersi conto che proprio quella svuotata aura di nobiltà risibile perché decaduta - era perfettamente congeniale a favorire il subdolo
ricambio, il passaggio delle consegne ad altre classi sociali. Con un azzardo
interpretativo, potremmo convenire che la vicenda de La Camminante rappresenta, benché scritta circa mezzo secolo prima, il seguito de Il Gattopardo
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ovvero ne costituisce una delle possibili
varianti tematiche, fatte salve le difformità stilistiche e di ambientazione: il
“clima” che vi si respira è quello, identico, d’una aristocrazia in disgrazia
sconfitta dalla storia, alla periferia dell’impero. Non sarebbe neppure errato
affermare che l’opera rientra, in tutto o in parte, nei canoni individuati da
György Lukács in Teoria del romanzo (1920) e, successivamente, ne Il
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romanzo storico (1937), laddove lo studioso ungherese aveva definito il
romanzo “la forma dell’avventura, del valore proprio dell’interiorità; il suo
contenuto è la storia dell’anima, che qui imprende ad autoconoscersi, che
delle avventure va in cerca, per trovare, in esse verificandosi, la propria
essenzialità”.Pur essendo Andrea il protagonista indubbiamente “passivo”
della narrazione, egli si configura, con la sua personalità travagliata - contrassegnata da fin troppo inspiegabili esitazioni -, in un rapporto con l’ambiente circostante assolutamente conflittuale e diverso rispetto all’ideale dell’eroe classico o romantico che la tradizione aveva trasmesso per tutto
l’Ottocento, fino al tempo in cui operò Ferri.
Nello stesso tempo, il ritratto che di lui dipinge Giustino Ferri appare abbastanza lontano dal ruolo e dal concetto di scrittore (e di scrittura) dominante negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Andrea è, infatti, intellettualmente ben addentrato nelle problematiche letterarie dell’epoca - dalle
quali tuttavia si discosta -, quando il naturalismo di Zola e di Maupassant, in
Italia appena attenuato dal verismo di Capuana e Verga, la faceva da padrone, scadendo non di rado nel gusto acido e cupo del patologico-fisiologico.
Rispecchiandosi in Andrea, Ferri probabilmente s’era sforzato di munire il
suo personaggio degli opportuni anticorpi,ossia degli strumenti critici utili
per una sana “autoconoscenza” - come la definirà Lukács qualche decennio
dopo -, ovvero di quelle nozioni che avrebbero potuto consentirgli di superare le sabbie mobili d’una visione a senso unico (soltanto idealistica, oppure
soltanto meccanicistica) della letteratura, come invece si verificava nel panorama letterario del tempo, con le correnti del naturalismo/verismo e del crepuscolarismo/decadentismo che s’andavano intrecciando e accapigliando
senza requie, l’una con/tro l’altra.
Paola, la misteriosa Camminante risvegliatasi da una lunga perdita di
conoscenza dopo che, malata e febbricitante, era stata soccorsa e curata da
Andrea e da sua sorella Bettina, rimane ospite nel palazzo della famiglia
Bartoli. Ancora convalescente, dopo aver appreso da Andrea della sua attività letteraria, gli chiede di poter leggere qualche sua opera. Dinanzi a tale
richiesta, egli rimane come sempre pensieroso e titubante. Paola è una potenziale lettrice – una popolana, per giunta -, sicché le sue perplessità di scrittore riguardano proprio la sua capacità di arrivare al pubblico: “Tutti i suoi
volumi erano studi tristi, vivisezioni dell’anima contemporanea: offrirle a
una donna ammalata non solo nel corpo, ma forse anche e più gravemente
nello spirito uno di quei saggi sanguinanti di anatomia morale poteva nuocere a lei, se la verità era raggiunta, o a lui, se piuttosto, come egli credea, tutto
quel pathos letterario doveva impallidire al confronto di una vera sventura.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Il suo romanzo meno aspro alla infelicità umana era il Libro di Moloch e lo
avevano giudicato scandaloso per l’audacia di certe pitture…”È uno dei passaggi che dimostrano come l’“individualità” di Andrea si presenti, a dispetto
di altre melliflue velleità, intellettualmente lucida ma “disorganica” alla storia e al periodo storico che gli è dato attraversare: contingenze che egli interpreta in maniera dialetticamente in/compiuta, benché tremendamente significativa. Gli opprimenti “monologhi interiori” di Andrea – che si presentano
come flussi di coscienza (diretti o indiretti) - lasciano sì intravedere delle
possibili soluzioni (o vie di fuga), ma queste vengono valutate come prese di
posizione troppo impegnative, se non irrealizzabili, per un intellettuale di
provincia (forse lo stesso Ferri, autore del libro), che, nonostante tutto, giudica se stesso un modesto romanziere dai mezzi limitati, non un critico navigato né un filosofo.
Il romanzo abbraccia problematiche molteplici, a cominciare dalle contraddizioni d’un’epoca di trapasso - colta in un determinato momento del suo
divenire -, trasferite nella figura d’un uomo di cultura in possesso di caratteristiche assai particolari, che si direbbero confezionate su misura per lui.
Anche la scelta degli altri personaggi obbedisce ad esigenze precise: per questo, è lecito dedurre che Ferri intese rappresentare, consapevolmente o no in una a posteriori prospettiva gramsciana -, quella che sarebbe dovuta essere e, almeno fino ad oggi non è stata, la funzione dell’intellettuale all’interno della società. Andrea è sì figlio d’una “baronessa”, ma trattasi d’un tipo
di nobiltà decaduta, falcidiata dalle speculazioni e dallo strozzinaggio delle
classi arrembanti, tant’è che, per consentirgli di proseguire gli studi fino al
conseguimento della laurea, s’era reso necessario vendere l’argenteria di
famiglia. Ma a ben vedere, lo stile di vita che egli conduce non è molto dissimile da quello dei cafoni di Ramogne.
Il contesto economico-sociale in cui è calato è sostanzialmente povero, la
sua stessa famiglia appare sobria e modesta, come dimostra la gravità conferita all’episodio - in effetti, di poco conto - del furto delle pere nel giardino
della villa. Andrea si aggira tra i suoi compaesani con fare dimesso, e non
solo per via d’una certa accidia di cui è ben consapevole, un “ozio larvato”
misto a ipersensibilità spirituale, il che lo rende caratterialmente remissivo e
taciturno. A Paola che lo insignisce del titolo di “professore”, così risponde:
“Vuol farmi una vera gentilezza? Non mi chiami più professore: l’ho così
poco meritato! Chi mi dà questo titolo di cortesia, mi dà anche ragione sulla
inutilità del mio mestiere. Questo mestiere, vede, non ha titolo, perché non
risponde a nessuna funzione necessaria alla vita sociale.”Il fatto di condurre
un’esistenza proba e misurata, pur coltivando senza ripensamenti la propria
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vocazione letteraria, ha reso Andrea particolarmente attento alla dimensione
umana – insieme, psicologica e sociale – dell’esistenza. E dentro i suoi amletici ed irrisolti tentennamenti, ci pare di ritrovare avvinghiato - in toto Giustino Ferri. Lo Scrittore di Picinisco fa dire a don Angelo Castelloni:
“Moralità o immoralità (…): a questo mondo nulla di assoluto”.
È lampante come Ferri abbia proiettato nella figura di Andrea il proprio
intimo dibattersi, lo strenuo confrontarsi con opposte concezioni della vita e
della letteratura. A livello intellettuale - con lucida capacità intuitiva -, egli
sembra perseguire (e/o prefigurare) le istanze specifiche del romanzo storico, come già Alessandro Manzoni ne I promessi sposi: far coincidere circostanze particolari ed oggettive - reputate inessenziali e transeunti - con situazioni di più ampio respiro e cariche di significati paradigmatici, onde trasformare l’intero contesto in modelli assoluti, pregni d’insegnamenti anche
morali. Tuttavia, la forma mentis ed il bagaglio culturale - per quanto ricco
ed ampio - erano quelli del suo tempo. La sua stessa biografia parla chiaro:
Giustino Ferri fu amico di Capuana, ma anche di D’Annunzio e di
Pirandello; fu vicino alla Scapigliatura come pure al Verismo e al
Decadentismo. Grazie a cotante frequentazioni, ebbe la capacità d’estrinsecare, rendendole meno latenti pur senza risolverle artisticamente, le proprie
contraddizioni di scrittore. Ad un certo punto, e con i limiti dovuti al fatto di
non aver potuto sciogliere quei nodi, egli si decise per la scelta più saggia:
far leva sull’indistinto rapporto uomo/mondo, convinto d’aver trovato, a
ragione, il suo uovo di Colombo.
Andrea è, dunque, un personaggio dalla “disordinata e vagabonda cultura
di cui egli soltanto sapeva tutte le incredibili lacune”. È una figura che attrae,
ci giunge interessante e convincente perché simboleggia, riproducendoli in
maniera quasi perfetta, le medesime antinomie dell’autore del romanzo, che
poi, su più vasta scala, erano quelle degli inizi del XX Secolo. Dubbi, incertezze, ripensamenti che il binomio Giustino/Andrea così confessa: “Aveva
tanto dubitato e dubitava sempre tanto di sé e delle sue forze che non aveva
osato misurarsi con quei temi semplici e immensi che racchiudono in un piccolo nucleo le realtà analitiche della vita quotidiana e la verità sintetica dell’idea che domina le circostanze. Sogni di ragazzo ambizioso che facevano
tristemente sorridere l’uomo arrivato alla maturità; ma quella sarebbe stata la
via! Altro che le stentate e timide teorie delle relazioni fatali fra l’ambiente
storico e l’arte! L’opera dell’artista vero e grande è più alta e più larga dalle
condizioni empiriche; perciò sopravvive alle fasi della civiltà che la vide
nascere.” Come si vede, la ricognizione oscilla, alquanto scientemente, tra
ricerca della totalità e autocompiacimento soggettivo e psicologico, con talu-
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ne locuzioni ed espressioni che combaciano incredibilmente con il noto linguaggio degli scritti (ancora di là da venire) di Lukács. Gerardo Vacana, in
un saggio esemplare dedicato a Giustino Ferri, scrisse che questi “non si
lasciò imprigionare dentro i confini di un movimento o di una scuola. Fu un
eclettico per vocazione e per convinzione” (da “Giustino Ferri: giornalista
e scrittore”, Centro Studi Letterari “Val Comino”, Alvito, 1997).
Aggiungerei che Ferri fu un eclettico soprattutto per necessità, ovvero per
limitazioni contingenti ed obbiettive. Pur non lasciandosi ingabbiare, non gli
riuscì di districarsi a dovere; nondimeno, seppe trarne vantaggio per la propria arte - se vogliamo, genialmente -, prendendo spunto da una tale condizione di disagio e di stallo. I riferimenti autobiografici divengono scoperti
quando Andrea (come Giustino, laureato in giurisprudenza), affetto da insonnia, in uno dei suoi frequenti “dormiveglia tormentosi” rievoca gli anni
romani dell’università trascorsi, specie nelle ore notturne, “nella seconda e
terza sala del Caffè Aragno” (il Caffè Bussi di Ferri), tra donne eleganti,
“merletti e intimità fragranti, pellicce e passeggiate in carrozza”. In una sorta
di lucido delirio, Andrea ripercorre le avventure vissute nel corso della giovinezza - da Firenze a Budapest a Monaco di Baviera -, esperienze talmente
effimere che i volti di quelle signore ora si confondono nella sua mente. In
Andrea, pericolosamente in bilico “alla soglia del mondo subliminale”, il raffronto tra quelle allegre donnine e l’immagine - affascinante perché impenetrabile - di Paola si fa sempre più incalzante, dirompente.
La Camminante viene idealizzata, trasfigurata “in una impura e demoniaca sacerdotessa di eresie nefande”. Andrea s’addentra nei meandri libidinosi
ma virtuali del sogno allucinatorio, e comincia a “vivere nel cuore dell’irrealtà”, come ebbe a scrivere Walter Benjamin di Charles Baudelaire. Nel frattempo, la notizia della sconosciuta aveva fatto “scandalo” e s’era sparsa per
le vallate ed i paesi circostanti. Paola non era altro che una miserabile intrusa osteggiata da tutti - specie dai villani -, “solidali contro la povera donna
che non si sapeva chi fosse”. La narrazione alterna, a periodi intensi e profondi momenti d’una certa inconsistenza nelle descrizioni e nei dialoghi - a
volte banali ed enfatici, anche perché datati -, rasentando stereotipi da feuilleton (in effetti, La Camminante uscì a puntate, in prima edizione, sulla
“Nuova Antologia”, nel 1908), ma s’avvale comunque di credibili colpi di
scena che contribuiscono a creare un crescente clima d’attesa, mantenendo
viva l’attenzione del lettore. Alla vicenda principale se ne intrecciano altre,
tra cui quella di Ascensa, la “serva” (così ripetutamente etichettata) di casa
Bartoli. Costei è accusata da Bettina di negligenza nelle faccende domestiche, a causa del suo feeling, neanche tanto segreto, con un carabiniere.
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Minacciata di licenziamento, la cameriera confessa la verità: il Governo è
sulle tracce d’una donna, “una di quelle che fanno la rivoluzione”, la quale
s’aggirerebbe per quelle contrade. Credendo d’aver individuato la rivoltosa
nella Camminante, le autorità hanno imposto al carabiniere di raccogliere
tutte le informazioni necessarie, tramite la fidanzata Ascensa - divenuta confidente -, sul conto di Paola. Si scoprirà più tardi che non è Paola la “rivoluzionaria” cercata dalla polizia, anche se mai conosceremo la vera identità
della Camminante.
Ciò rappresenta, a ben vedere, un punto di forza del romanzo: se fosse dato
venirne a capo, l’intera trama perderebbe il fascino enigmatico su cui poggia
l’attendibilità del ruolo - altrimenti assolutamente scialbo - svolto dagli altri
personaggi, con i loro squallidi sospetti e frustrazioni. Ferri stabilisce, tra se
stesso ed i protagonisti della vicenda, un colloquio costante che è, al tempo
stesso, una sorta di “gioco” e di curiosa “complicità”, non nel cercare semplicemente di scoprire chi sia e da dove venga l’indecifrabile donna di strada. È plausibile ritenere che, fino all’ultimo, Ferri fosse indeciso su quale
svolta imprimere alla trama e se svelare o meno l’identità della fuggitiva: è
un dato che si desume, tra l’altro, dall’impennata finale del romanzo, che si
esaurisce nel giro di poche pagine rispetto alla lunga preparazione iniziale.
Sta di fatto che la Camminante, sin dal suo ritrovamento alle Ramogne, più
morta che viva nel suo stato d’incoscienza, e specie dopo la sua guarigione,
catalizza su di sé l’attenzione d’un ambiente indolente e infido, fermo da
secoli in una condizione di malsano letargo.
Dotata “più d’ingegno, forse, che di cultura”, Paola diviene la vera dominatrice della scena, con la sua sensibilità inusuale, capace d’esprimere in maniera aggraziata giudizi controcorrente, netti e taglienti: “La pietà è un inganno
per i disgraziati”. Ferri ne tratteggia a più riprese i caratteri:“L’originalità del
temperamento di Paola balzava dalle sue espressioni vaghe, intime, profonde.
Tanto più profonde quanto più vaghe.” Ogni cosa ella osservava e tutto confidava, tranne che i “fatti della sua vita”, sui quali aleggiava come un’eco, uno
“strascico morale (…) impresso nella sua intelligenza” che rendeva le sue
parole “orlate di nero”. Non sappiamo se, deliberatamente o meno, l’autore
si proponesse di smuovere in qualche modo lo stagnante perbenismo delle
coscienze - ci riferiamo ai lettori del romanzo -, suscitando interrogativi più
“alti”. Esistono, infatti, nel romanzo sottilissime motivazioni di natura - direi
- figurata ed allegorica. Paola, la Camminante, è la “Storia” che s’insinua
tacitamente – anzi, viene letteralmente “trasportata” - nei piccoli eventi della
quotidianità, è la “Storia” che “passa” – indugiando sonnolenta o sorniona –,
senza mai fermarsi. È la “Storia” malata che, per poter curare, ha bisogno
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d’essere curata. È la “Storia” che tutto avvolge con il suo vorticoso mantello, su ciascuno imponendo le sue leggi. È la “Storia” con le sue ferite di
donna soggetta alle barbare prevaricazioni degli uomini. È la “Storia” che
non impone dogmi e non pretende attenzione, perché essa si realizza autonomamente, con il suo incessante divenire.
È la “Storia” al cui passaggio nulla più resterà come prima, anche se - e
proprio perché - gli uomini s’illuderanno che il loro piccolo mondo ne sia
rimasto indenne. È, infine, la “Storia” in carne ed ossa, perché la Storia, quella vera, siamo tutti noi. Un evento accidentale - una bufera notturna, di quelle usuali tra i monti d’Abruzzo - fa sì che tra Andrea e Paola scocchi la scintilla tenuta soffocata: l’uomo s’accorge d’amare - da lei ricambiato - quella
forestiera vagabonda, che sembra correre “leggera sulla cresta delle colline”.
La rivelazione, anziché far sbocciare una felice storia d’amore, porrà gli
“amanti” di fronte ad ulteriori difficoltà, secondo la migliore tradizione del
romanzo d’appendice. Le ossessioni notturne di Andrea diverranno incubi: la
presenza scomoda e scandalosa della Camminante, ai suoi occhi di velleitario scrittore meschinamente irresoluto - per il quale, in effetti, conta più la
letteratura che la vita reale -, gli impone ora una chiara presa di posizione.
Paola non è più una semplice “ospite” della casa, non è neppure la ragazza
cordiale con cui intrattenersi per conversare di letteratura. È divenuta la sua
amante, donna attraente e sensuale che assume, di volta in volta, le fattezze
più strane: Menade, Furia, Erinni… Andrea si sente un Edipo impotente,
incapace di prendere una qualsiasi decisione: sposare Paola trattenendola alle
Ramogne, fuggire con lei o, infine, respingerla? Sulla sua scelta incombe tra
l’altro, come una minacciosa spada di Damocle, la presenza della sorella
Bettina, che nutre nei confronti di Paola un ambivalente atteggiamento oscillante tra pietà e rivalità.
Di Andrea s’impadronisce un’angoscia malsana - ingiustificata per chi ama
davvero, sapendo oltretutto d’essere riamato -, che lo rende, come lui stesso
riconosce, “sciocco e maligno per paura di far l’ingenuo”. Più che il “darwinismo sociale” di Capuana e Verga e il “narcisismo estetico” di D’Annunzio,
è possibile riscontrare in Giustino Ferri spunti diversi e notevoli, degni di
autori come Ippolito Nievo, Federico De Roberto, Federico Tozzi e, forse,
Italo Svevo, che spaziano dalla dimensione privata a quella pubblica e collettiva. C’è, soprattutto, una certa affinità con Alfredo Oriani, lodato da
Antonio Gramsci per la volontà, sottaciuta e immediata, d’evidenziare l’arretratezza e i ritardi della classe egemone italiana, sempre capace di rigenerare se stessa per mantenere inalterati gli antichi privilegi di casta, da allargare ai gruppi sociali emergenti che è impossibile contrastare. In Ferri “cova-
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no”, gramscianamente, gli insegnamenti che già il cassinate Antonio Labriola
andava teorizzando da qualche decennio. L’attenzione dello scrittore della Val
Comino è rivolto, in sostanza, al ceto intellettuale, che avrebbe il compito di
“guidare” le classi lavoratrici e popolari. Epperò, Ferri si rende conto, in una
sfuggente e traumatica consapevolezza - sfuggente perché traumatica, e viceversa - che tale auspicata affinità non esiste, non c’è alcuna corrispondenza tra
intellettuali e popolo. L’intellettuale e scrittore Andrea, a causa della sua “fanciullaggine” che poggia grottescamente sull’“automatismo del mestiere”, non
sarà in grado di conquistare, di fermare la Camminante, la Storia. Infine, egli
trarrà consiglio dall’impenetrabile don Angelo, e neanche per propria iniziativa
ma su suggerimento della sorella Bettina. Dal “grande vecchio” garibaldino,
ripiegato ormai su se stesso e sui propri ricordi - del quale Andrea sembra destinato a seguire l’esempio - gli giungerà l’input definitivo per scrivere l’ennesimo romanzo, invero già mille volte abbozzato, dedicato a Paola. Andrea continuerà ad inseguire - consapevolmente e senza più illusioni - il patetico “bizzarro parallelismo” tra esistenza reale e romanzo, mai destinati ad incontrarsi.
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di Ninnj Di Stefano Busà
n discorso sulla Poesia torna opportuno oggi più che mai...visto
che la stessa si muove incerta per difficili sentieri, impedita da
lassismi libertari e fuorvianti, mode e linguaggi sconclusionati,
culture e capricci della moda votati a portare avanti la parte più
deteriore e rivoluzionaria del prodotto linguistico, quella che risente di forme
più o meno imbarbarite o troppo progressiste: come informatica, rampe satellitari, video games, che distolgono l’attenzione dalla poesia, divenuta obsoleta e fuori tempo. Questa mia nota, altro non è che una proposta, un invito a
pensare, a discutere, a promuovere iniziative atte a diffondere la Poesia e portarla tra i giovani: la poesia può appartenere a chiunque la ami. L’evoluzione
delle forme poetiche nella storia della cultura è stata continua e costante. Anche
nei periodi bui di stagnazione e di regressione o in altri di avanguardia o di
pseudoavanguardismo estremo, di rinnovamento forzato, quasi traumatico perché sotto dettatura di impellenti bisogni scardinatori della lingua, ha mantenuto (per fortuna) alcune categorie universalizzanti che fanno della parola poetica una realtà necessaria, non del tutto superflua per l’uomo e la sua specie.
Oggi il mondo dell’arte subisce i contraccolpi di quasi due secoli di rivoluzioni e controrivoluzioni ed è travagliato e stritolato dalla pretesa del tutto
moderna di un giovanilismo rinnovatore quanto anarcoide che scambia l’arte col capriccio e l’arbitrio, la libertà di scelta e d’ispirazione nel momento
creativo, con una sorta di soggettivismo-individuale impazzito, di relativismo assolutizzato, quanto esasperato, che rifiuta non solo ogni canone esterno, ma anche ogni più elementare regola derivante da un fondamentale sentire estetico, che viene non solo negato, ma forzato, ripudiato e violentato da
mode più libertarie. Diciamolo, subito, che non esistono due linguaggi: uno
per la Poesia surreale, magico, ermetico, inaccessibile ai molti, e uno feriale,
per i comuni mortali. La poesia può vibrare ovunque in maniera del tutto
naturale, anche nelle lasse di un’espressione lontana dalla ipertrofia delle
metafore o dalle ambiguità emergenti dall’inconscio, dagli assurdi e dagli
arbitrii delle avanguardie ad ogni costo. E “per ogni costo” s’intenda anche
quello di inquinare il linguaggio, impoverirlo e strumentalizzarlo in modo
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deleterio e anarcoide. D’altra parte bisogna riconoscere che il linguaggio
comune non è certo meno efficace di quello colto, o immaginifico, che anzi
il suo fondo realistico-logico, sentimentale può essere ben compreso, ma
notevolmente più apprezzato, ammettiamolo, sarà il linguaggio ricco di
ambivalenze, di metafore, di tensioni allusive proprie di una discorsività che
ha varianti emozionali ricercate e volutamente sensazionali.
È necessario avvertire chi mi legge che la nostra epoca è dominata dalla
pianificazione, dagli orologi, dai computers, dalle costrizioni collettive, dai
network, dai condizionamenti psicologici, dai modi ambigui, dalle persuasioni occulte e, pertanto, la Poesia non può porsi in funzione di antidoto e di corroborante della personalità, nello stesso tempo in cui esprime lo sdegno per
un mondo nel quale l’industria e la tecnologia hanno fatto il loro guasto, riducendo l’uomo a realtà “minima”, a manovratore di pulsanti, a robot senz’anima né coscienza, registratore meccanico di impulsi e pulsioni interni ed
esterni, frammenti ormai di un “essere” decapitato e privato dalla dignità di
pensiero e di coscienza. Si devono altresì tener presenti le condizioni nelle
quali la poesia si è trovata ad operare, all’interno della realtà sociale creata
dall’industria e dalla massificazione intellettuale della cultura, che ha livellato gli strati meno abbienti dell’intellettualità, riducendoli a meri contenitori privati di pensiero. L’industrializzazione ha finito per colpire e dissolvere
le strutture, i canoni, gli schemi e le categorie estetiche di un sapere logico,
massificandone gli strati di una società in sviluppo che non si è trovata alla
pari con l’evoluzione dei tempi tecnologici. Così mentre le forme storiche
della vita pratica, politica, economica tendevano alla pluralizzazione di codici diversificati, la cultura artistica (soprattutto poetica) s’incamminava verso
un destino nebuloso e asfittico.
La comunicazione si orientava ad una sorta di omogeneizzazione o omologazione monodica, in netto contrasto con la varietà dei canoni estetici,
delle forme poetiche e dei generi letterari che s’ispirarono ad un modulo linguistico meno sofisticato, più totalizzante e massificato, fondato quasi esclusivamente sull’informazione nuda e cruda, in contrasto con gli elementi
pedagogici che avevano costituito i poli della comunicazione del passato. La
comunicazione di oggi appare un modello standardizzato con una fondamentale tendenza a tradurre in evasione pura e in libertà arbitraria quello che
prima era la comunicazione, il linguaggio tra le genti. Inoltre si deve denunciare il divorzio che nel frattempo si è andato consumando tra Poesia e
Scuola. Tale divorzio ha provocato un lassismo linguistico, una sproporzionata condizione di arbitrio lessicale e di costumi, un allontanamento dal “bel
parlare”. La proposta della letteratura finisce col percorrere un sentiero ste-
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rile, inadeguato e non in linea con le esigenze spirituali dell’individuo che,
nel suo dispiegamento anarcoide, rifiuta volentieri la domanda culturale (in
particolare la Poesia) per intraprendere sentieri tortuosi di un linguismo più
depauperato, banalizzato e frustrato che non dà nulla in termini di elevazione culturale. Questo -consuntivo- oggi non ha la pretesa di essere “il vangelo”. Si presenta con l’intraprendenza e il rischio di un tentativo di storicizzare la produzione meritevole di essere trasferita alla pagina della Storia della
Letteratura, sintetizzare, (magari in modo opinabile) un referente storico che
intende essere un censimento dei poeti dell’ultimo ventennio, una sperimentazione “in limine” una sorta di indicazione che pone il fattore lirico a livelli di Storia e di percorsi epocali, includendo le varianti, gl’innegabili riferimenti sul piano ricostruttivo delle neoavanguardie linguistiche fino ai ns.
giorni. Nell’introduzione di questo copioso documento storico ho avuto l’opportunità di proporre e indicare alcune tra le massime espressioni dell’oggetto poetico, e questa mi appare una generosa offerta di quanto la realtà del
momento può disporre.
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A chi il Nobel? Cerchiamo di capire…
di Franco Mosino
o Statuto del Premio Nobel per la letteratura, al paragrafo 2, afferma che gli scrittori di saggi sono ammessi come candidati, se presentati da un docente universitario o da una accademia importante. Però dal 1901
fino a oggi questa norma è stata rispettata soltanto due volte,
quando furono premiati Mommsen (1902) e Bergson (1926)…
Perché ? Come mai ? Lo Statuto parla chiaro, ma l’Accademia
svedese di Stoccolma lo viola sempre, dico sempre. E ciò è un
fatto di rilevante gravità sotto il profilo giuridico e morale. Gli
Svedesi si devono ricordare di essere un popolo germanico, e,
quando dico germanico, mi riferisco a Kant, che affermava:
dentro di me la legge morale, sopra di me il cielo stellato!
Pertanto invitiamo l’Accademia Svedese al rispetto dello
Statuto…
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IL MITO DEI BESTSELLER
E LA CRISI DELLA LETTURa
di Antonio Coppola
i possono ancora fare previsioni nel campo della comunicazione del libro
e contro l’insofferenza alla lettura divenuta sistemica in un contesto
come quello del mercato editoriale preso da calcoli di profitto che vanno
a minare il già minato emporio librario? In una lettera aperta agli editori, Antonio Scurati parla di “collasso bulimico” (cfr: Tutto libri,4 gennaio 2014)
quello che sta investendo tutto il mercato dei libri. Non si può andare avanti cosi
con editori piragna (medi, piccoli e piccolissimi) che hanno interesse di fare circolare una sproporzionata quantità di libri da intasare le presse dei maceri. Basta
entrare in qualsiasi libreria per venire spostati dall’onda d’urto di centinaia di
scaffali: un’imponente macelleria dove c’è di tutto, dalle interiora ai diverticoli
sviscerati dai coltelli di Sandokan. Bene, le librerie d’oggi, danno l’impressione
di essere, enormi mercati generali dove arriva di tutto, pronto a diventare il più
imponente serbatoio di discarica merceologica. Impudenza sistematica dove si
pubblica di tutto e si riversano quintali di libri da intasare gli scaffali di volenterosi librai. Nel 2013, secondo i dati ISTAT, gli italiani che leggono un libro all’anno si riducono al 46 % ma questo conta o non conta? Che significato ha infuocare le presse con 60.000 titoli? Insomma siamo ad un orgia ributtante e nessuno ne
parla in difesa di questi pochi lettori. Il buco nero assume strada facendo una flessione del 5% nelle copie e del 6,5 per cento nel fatturato complessivo. Si è
coscienti o no: cui prodest nascondere del tutto questi dati? Oltre la metà dei tito-
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li sono prime edizioni ed è comprensibilissimo che gli editori puntano alle novità ossia sulla ciliegina nella torta del best seller più che su long seller. Insomma
la fortuna del titolo, quando fa centro, può durare al massimo quattro o cinque
settimane dall’uscita nel caso di aver fatto centro come best seller. Questo spermatozoo resiste dentro l’utero della libreria tanto e non di più, poi si costata la
morte spontanea commerciale. Non è comprensibile sfornare a getto continuo
libri quando i lettori diminuiscono. Le case editrici, piccole, piccolissime, medie
o robuste non sanno dare una risposta. Cercatela voi. Noi pensiamo che la maggior parte degli editorini, (si fa per dire) lavorano in buona o cattiva sorte con la
esplicita complicità degli autori paganti (sic.) che rosi dal tarlo dell’essere oggi
numero tra i numeri sperano di avere lustro e, solo in pochi, si accorgono dell’enorme stupro, perpetrato su di essi. Questo karakiri va avanti da anni, anche
con la crisi del mercato che va attestandosi al 9 o 10 %. Bene, siamo oggi pure in
una crisi culturale galoppante. Tanto per non scendere troppo in basso sul “pubblicato” possiamo incontrare di tutto nelle librerie in questo enorme “regno dell’indistinto” o anche punto senza arrivo. (Perciò se tutto questo fa parte del pane
quotidiano allora si capisce perché la gente non si sfama più, ha perduto l’orientamento, l’ago della bussola va all’impazzata).
Un’eruzione di titoli che dilaga e seppellisce i pochi lettori che sopravvivono a questa “abbuffata” Cena di Trimalcione. A latere è in movimento una
galassia di più manuali fai da te, auto pubblicazioni, self-publishing, blog,
opere online e case editrici di dubbia catalogazione che ora, prima e dopo vivono ancorati e/o alimentati con questa furia scrittoria. Come si può giustificare
il diminuito amore per i libri e, di converso, la smania pubblicandi? Gli editor
sono sovraccarichi (ci riferiamo agli editori di calibro e, anche, ai meno dotati)
che ricevono in media dai 30 ai 40 manoscritti al giorno. Un editore di prim’ordine ascoltato da Roberta Scorranese (cfr: La Lettura, 5.1. 2014) ha esaminato circa mille manoscritti tra italiani e stranieri nel 2013, ne ha indicato appena
trenta per la pubblicazione. Lascio a voi immaginare un editor di piccolo calibro cosa gli arriva sulla scrivania. Pochi o è il giusto? Questi sono dati eloquenti, la produzione risulta alterata nella quantità; cosa è lecito proporre per disincentivare i troppi aspiranti autori? C’è bisogno di un freno, una moratoria nell’arrembaggio agli editor, oramai il danno è fatto! Si salvano solo i titoli fortunati, titoli “bomba” -pochissimi davvero- che arrivano alla regalità del best seller, gli altri sono carta straccia da smaltire. Oggi quali misure servono per dire,
una volta per tutti agli editori-imprenditori, pubblicate meno e leggeteli i libri
da editare per non creare questo grande sacrario di carta inutile dove vengono
seppelliti milioni di titoli, depauperando la natura e creando il caos. Quei pochi,
isolati lettori, sono l’unica speranza che legge, non forzate la mano benemeriti
editori: dum excusare credis, accusas.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
“Nuda passeggio sulla lastra del cielo”
Lo spirito dell’altrove nella poesia
di Iole Chessa Olivares
di Fausta Genziana Le Piane
o spirito dell’altrove è fortemente radicato nella poesia di
Iole Chessa Olivares con varie
sfaccettature ed illumina la sua
visione esistenziale. Soprattutto è il desiderio, l’aspirazione al dopo terreno, all’oltre (titolo anche di una lirica della raccolta In piena sulla conchiglia) dove perdiamo consistenza d’ombra e vive l’amore
dell’Eterno, il Seminatore del mondo. È il
cosmo, le ignote quinte dell’universo
dove brillano stelle e armonie sconosciute
agli uomini: “E la vera festa? / Non è qui.
(In piena sulla conchiglia,( 2002), Sono
quei pochi passi… p. 31). Più lontano è
la vera melodia. Ma è anche l’Azzurro”,
il sogno, l’ideale cantato da Mallarmé –
barlume, lucina, virgola stregata, radice
Iole Chessa Olivares
viva - che sperde la Poetessa in un laggiù
lontano agognato. Irresistibilmente attirata dall’azzurro, Iole Chessa Olivares
si sente incapace di raggiungere la perfezione poetica che sogna. Talvolta
l’attrazione diventa ossessione. Invano tenta di sottrarsi, ogni fuga è inutile,
il richiamo dell’azzurro” resta il più forte: “L’Azzurro trionfa, lo sento che
canta / nelle campane, anima, che si fa voce / e più ci spaventa con la sua
cruda vittoria, / ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!” (Stéphane
Mallarmé, Poesie,(1991), L’Azzurro, pp. 36-37. E non è fuga dalla realtà,
bensì desiderio di non provvisorio, di assoluto e di permanenza. Di un senso
alla vita che non naufraghi: “Intatto sul lago solitario / ancora una volta
t’inoltri / complice il sogno / e anche se il corpo a corpo / con l’attimo apre
all’imboscata, / io dallo schianto ti riparo/e mano, nella mano, / da Re ti
accolgo nell’antica radura / densa di fruscii d’ala, / anche se l’estate è fuggita, / appostata spia l’autunno, / congeda gli uccelli (…) (cit., Anche
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se…(all’ideale), p. 54). Il sogno – scomposto -, è speranza viva: “Oltre il
sipario / solo la reliquia del sogno / attraversa e indora l’edera” (cit., Oltre il
sipario, p. 47). Altre volte è la scrittura, la parola stremata ma salvifica,
variegata che è tensione, sollievo, bisogno impellente e ricerca inesausta
sempre pronta alle scoperte; è la parola nascente (“attendo parole”): “Ancora
non dice, / sibila / la parola nascente. / Deraglia dalla bocca/di un fiore/non
sa dove andare, / un passo più in là/dal silenzio /sbanda, come risalire? / In
abbandono / prende il largo, / prova a significare / quello che può / anche se
tutta l’aria / montante non basta / a dare al sibilo / sapiente misura di voce”
(La buccia del grido,cit. La parola nascente, p. 53) laddove per “significare”
s’intende dare un senso al mondo, esprimerlo, palesarlo, comunicarlo. È
insomma la poesia: “In pura perdita / scrivo per imparare / a scrivere /
e…mi apro alla deriva” (op. cit., In pura perdita, p. 19) e “Spesso la poesia
/ non mette galloni sulla giacca, / intinta negli acidi del dolore, / respira alta
e allo scrutinio finale, / emerge, illesa dal tempo (In piena sulla
conchiglia,cit. Illesa dal tempo, p. 117). Ecco allora, però, che la scrittura
consente il viaggio, fa sua la meta: “Arriva dalla bruma / la parola screziata / soccorre l’osso in cordoglio, / l’orma stellata del passero /e…cambia
pelle / mentre ondeggia sul labbro / ormai maturo, / mentre balla tra denti
consunti / svenata di turgore, erosa, / ma con l’ala aperta a nuovi voli / nella
solitudine egemone / dell’oltre” (La buccia del grido,cit. La parola screziata, p. 38). Può essere ancora è la Sardegna, esilio ritornante, luogo di nascita della Poetessa: “Nell’aria di questa terra / improvviso un fragore di radici,
/ un nascere e morire ancora / nell’imprevisto come nell’altrove “ (Quel tanto
di rosso, Terre Sommerse, 2007, Nell’aria di questa terra, p. 5).
Senso dell’altrove duplicato, perché la Sardegna è lontana - “leggeva
anche il cammino / degli astri, e, tra le palpebre, / sulla cancellata,oltre il
mirto, / oltre un cadente pigolio di piume / puntava il dito nascosto su una
stella / inerme, arresa all’aurora” (In piena sulla conchiglia, (2002), Il
richiamo, all’isola della Maddalena, p. 80).Questa continua tensione, necessità, navigare inquieto dello sguardo, questo cammino incessante si concretizzano nel lessico che esprime questo continuo ondeggiare dal qui al lontano: disfarsi e ricomporsi, salire e scendere, andare, tornare, nascere, crescere e morire, perdersi e ritrovarsi accompagnati dai termini di confine, limite,
riva, sponda, argine, margine a dire le contraddizioni e la complessità dell’esistenza e che il cammino – andare, andare -, la strada sono interrotti. Mai
il canto della Poetessa è disperato bensì ha un “supplemento di speranza”.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
di Luigi Celi
o tra le mani la raccolta Mi ricordo, ogni giorno, ogni ora, come
se fosse ora, pubblicata dal “Centro Ebraico Italiano - Il
Pitigliani”, degli intensi testi della Maratona di Poesia del 27 gennaio 2013, curata dai promotori Francesca Farina e Roberto
Piperno. L’evento della rammemorazione dei tragici eventi della Shoah – “un
tuffo nell’abisso/orrore e stupore mescidati” - è dal 2007 reiterato e ha visto,
da quell’anno, la partecipazione commossa di circa settanta poeti di diversa
estrazione ideologica e religiosa. I poeti sono tutti qualificati e si farebbe
torto a molti se ne nominassimo solo alcuni. Non citeremo i nomi, considereremo l’opera come testo collettivo. Elena Loewenthal ultimamente si è
dichiarata indisponibile a partecipare a manifestazioni per una mera commemorazione della “memoria”, avanzava il sospetto che quest’ultima potesse
essere declinata in maniera retorica, mentre i sopravvissuti allo sterminio
impietosamente spariscono. Non è facile per chi non ha sofferto quei tragici
eventi mantenere atteggiamenti di sincera partecipazione. Si tratta di pensare fino in fondo la tragedia vissuta dagli ebrei da quel famigerato 20/01/1942,
quando a Wansee i gerarchi nazisti deliberarono la “Soluzione finale”
(Endlösung): il “rastrellamento e l’internamento in campi di concentramento” (campi di sterminio) di tutti gli ebrei.
Anche i vecchi e i neonati sono caricati – scrive uno dei nostri poeti - su
“camion militari diretti/ verso un confine ignoto/ per l’irrinunciabile colpa di
essere nati ebrei”. Elie Wisel, in una intervista rilasciata a New York per il
Corriere della Sera ad Alessandra Farkas, a proposito di una possibile scrittura non partecipe, dichiara: - “La mia legge morale mi vieta di scrivere un
libro di fiction su questa immensa tragedia. – e aggiunge – “Come disse
Theodor Adorno: ‘Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro’ ”… E uno
dei poeti di questa antologia ripete: “ma dopo tanto male e tanta morte/ forse
è barbarie pure la poesia”. Sappiamo del paradosso di Adorno e come possa
essere paragonato all’altra tesi estrema di Primo Levi, che sosteneva che
dopo Auschwitz non sarebbe più possibile credere in Dio. Ho riproposto tale
questione, nel N. 49 del 2011 de “I fiori del male”, in un articolo dedicato
alla “Conversazione sulla montagna” di Paul Celan, in cui il poeta, il “pic-
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colo Jud”, paragona la poesia a un bastone con cui battere la montagna.
Celan è in posizione problematica - sia pure con rispetto - verso la tesi sostenuta dal “grande Jud”, il filosofo Adorno. Il bastone che batte la pietra è la
poesia che interroga, ma chi, cosa potrà mai rispondere? La poesia interroga
il Verde (la Natura), il Bianco (la Lingua - il Gespräch), Dio, che non appare agli ebrei più come un Egli, ma come un Esso. Tuttavia per Celan è possibile poetare, e se si può poetare, direi, si può riaprirsi alla fiducia in quel
Dio che sta oltre ogni nostra aberrazione. La guarigione viene dal non confondere Dio col diavolo. Diceva Tommaso d’Aquino, “Dio non è responsabile del male né direttamente, né indirettamente”; la malvagità è difetto, squilibrio, è un aspetto che ripugna all’essenza di un Dio infinitamente perfetto.
Quindi il problema è: da dove viene il male? Pur tra molte cose condivisibili Elie Wisel dà però anche una discutibile risposta all’intervistatrice, che
gli ricorda come nella liturgia ebraica, “a Rosh HaShana (Nuovo Anno) e a
Yom Kippur è sigillato chi vivrà e chi morirà, chi perirà per l’acqua, chi per
il fuoco”; ella chiedeva se avesse “mai pensato che Dio possa aver deciso lo
sterminio della sua famiglia”. Wisel risponde con una tesi per me cristiano
inaccettabile: “I veri credenti lo pensano, perché Dio per loro e dietro a tutto,
dall’inizio alla fine”. Questa pseudo-spiegazione fa ricadere la responsabilità del male su Dio, ignora la totale libertà umana nella storia che apre all’incontro tra pensiero laico e religioso, ed è causa della bestemmia e del rifiuto
della religione dei padri da parte di molti ebrei. Sostiene Wisel: “Molti di noi
che erano religiosi hanno smesso di esserlo, mentre tanti atei hanno trovato
la fede”. Certo il male estremo ti priva della tua identità. In Se questo è un
uomo, Primo Levi descrive il suo ingresso in Auschwitz: “Si immagini ora
un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue
abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede; sarà
un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogni, dimentico di dignità e discernimento, perché accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere se stesso”.
In un altro testo dell’Antologia troviamo: “leggevo il tuo Se questo è un
uomo e rispondevo: ‘No, questo non è un uomo’, il nazista, e ‘No, questo non
è un uomo, il perseguitato, / macellato,scuoiato, disossato”.“Giorno della
memoria”, sì, dunque, da opporre alle tenebre, alla “banalità del male”.
Leggo nella nostra Antologia: “E come per una banalità / (…) / può l’essere
Eichmann esistere, Può / e per simmetria subalterna essere Stato / efficiente,
funzionale, sistematico. / Lui (…) apparve felice tra i numeri,%, statistiche,
/ destinazioni, trasporti ferroviari, tempi totalitari. / Soprattutto senza colpa.
/ Parve così felice d’essere, Herr Eichmann /…” Il rischio che, scomparsi gli
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
ultimi testimoni, i negazionisti possano imporre un punto di vista che renda
possibile la ripetizione delle persecuzioni mi sembra improbabile, ma non
del tutto se ci si affida soltanto alle rammemorazioni sia pure a livello planetario. Wisel ci ricorda che “Nessun’altra tragedia della storia è stata documentata più dell’Olocausto, con decine di migliaia di testimonianze scritte e
orali”, e aggiungeva: “chi vuole la verità sa dove trovarla”.Occorre ritornare
con forza alle radici della propria appartenenza spirituale.
Mi sembra essenziale per gli ebrei ricordarsi dell’“elezione”, per quanto il
termine possa indurre a falsi sentimenti di superiorità. L’esperienza della
Shoah, con tutto il suo carico di orrore, potrebbe servire da paradigma per
escludere qualunque condotta discriminante e di violenza nei confronti di
altri popoli, culture, individui. Questa posizione andrebbe opposta con radicalità al fanatismo religioso e alle logiche di profitto: “Hanno abbandonato il
Signore / hanno disprezzato il Santo d’Israele / si sono voltati indietro …”(Is.
1,4); “Smettete di presentare offerte inutili, / l’incenso è un abominio per
me;/ noviluni, sabati, assemblee sacre, / non posso sopportare delitto e solennità” (Is. 1,13); “… togliete il male dalle vostre azioni (…) / imparate a fare
il bene, / ricercate la giustizia, / soccorrete l’oppresso, / rendete giustizia
all’orfano, / difendete la causa della vedova.” (Is. 1,16-17). Non è solo il
ritorno alla terra d’origine, ma un altro Ritorno rimette il popolo nella posizione di “elezione”. Quando si tratta di ebrei difficilmente si riesce a sfuggire a categorie religiose, ma dopo la Shoah queste spesso vengono impegnate per un’accusa a Dio, altre volte con un senso di interiorizzata pietas.
Tra i nostri poeti c’è chi parla con acribia di “cosmico altare affrescato, col
sangue/perenne encausto, civile salmo marchiato, trascritto a fuoco”.Certo il
male è il “mistero dell’iniquità” di cui scrive Paolo di Tarso. Nella tragedia
della Shoah qualcuno coglie il destinale dolore del popolo personificato, con
Isaia 53, segno messianico che i cristiani riferiscono a Gesù, sulla stessa linea
di un Giobbe quando, in quel misterioso libro, è scritto che il Signore consegnò a Satana il suo “eletto”. Come recuperare l’identità, dopo una prova che
sembra comprometterla in essenza? Essa sta nell’Oltre? La memoria ci porta
indietro, la preghiera che apre umilmente l’intelligenza alla domanda, nella
consapevolezza dell’abissale distanza che intercorre tra l’uomo e Dio, ci
spinge in avanti. La violenza, l’odio razziale, etnico, di classe, una religiosità male intesa sono sempre in agguato. Di fatto, occorre ricordarlo, nel
mondo contemporaneo ci sono stati e sono in atto altri olocausti e genocidi,
non ultimo quello dei migranti annegati nel mediterraneo. Ritornando alla
nostra raccolta, gli aspetti da considerare sono duplici, i primi propri della
poesia, anche se non mi sento di entrare nel merito di questioni formali -
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I Fiori del Male
infatti in questi casi di estrema drammaticità la poesia civile vale per i suoi
contenuti, anche se poi il linguaggio rimane centrale, in un’ambivalenza
insormontabile -. Dirò solo che molti di questi testi sono sentiti e sofferti,
commuovono, quindi meritano di essere letti e ricordati. Altri aspetti sono
più legati all’oggetto, alla Shoah … Perciò queste poesie forniscono contributi imprescindibili alla giustizia e alla pace; al bisogno di guardare anche al
presente e al futuro e di andare al di là della materiale ricostruzione storica
di eventi che hanno minacciato l’esistenza stessa del popolo ebraico (e non
soltanto), ben oltre – come è scritto in un’altra poesia di questa raccolta - “il
disastro osceno dell’incredibile”.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
RACCONTO
ICARO
di Carla Zancanaro
ra stato dimesso quella mattina. Sulla cartella clinica poche parole:
soggetto borderline, tendenzialmente schizofrenico, da seguire in
terapia domiciliare, non pericoloso ne per sé, ne per gli altri. L’aria
frizzante in quel primo giorno di libertà ebbe un effetto stimolante sul
passo ancora incerto della convalescenza, le facce delle persone che lo sfioravano, oscene maschere di cartapesta, assordante ed impietoso il rumore del
traffico. In clinica tutto era diverso, il ritmo delle ore regolamentato dalle sue
fedeli amiche pillole che lui chiamava “oasi”.Oasi rosse, levigate, al mattino
prima della colazione, verdastre, oblunghe, al pranzo, ed infine le più soddisfacenti, trasparenti, di un color giallo, alla sera prima di coricarsi. Quando in lui
subentrava l’affannosa disperazione nell’urlo che riecheggiava da parete a
parete, bastava una di loro per calmarlo, giungeva un totale rilassamento che
addormentava la bestia che da tempo con lui conviveva. In quel torpore anche
la dimensione luogo cambiava: ora si trovava nel deserto: il perfetto.Sdraiato
sulla sabbia in quell’illimitato vuoto incominciava il delirante gioco:UNO
DUE TRE QUATTRO… ARIA ACQUA TERRA FUOCO…
All’infinito si ripeteva il rituale di primordialità della perfezione che solo a lui
era stato concesso. All’improvviso tutto si inglobava in una sarabanda di nume-
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ri impazziti e lui ripiombava nella costrizione del laccio ai polsi doloranti. Altre
volte, nel suo peregrinare, saliva verso un azzurro sempre più lontano, aveva
grandi ali di sparviero in gara contro il vento. Lo seduceva il solo, radioso,
splendente richiamo di un cielo dove regnava amore. Improvvisamente si frapponeva tra lui e l’astro una nuvola di nero fumo, si scatenava violenta la pioggia… si inzuppavano le ali di fango e cenere e lui precipitava nel fondo di un
abisso. Continuò a camminare, una greve stanchezza lo colse, le membra rattrappite per l’indolenza vissuta nella clinica.
Si fermò al rosso di un semaforo, al lato una freccia indicava: per la periferia.
Deviò per trovarsi fuori dalla folla, i palazzi tornarono nell’ombra, il verde dei
prati brillava oltre la muraglia di cemento. Ora si sentiva meglio.
Inaspettatamente un bambino gli fu davanti, poteva avere sette/otto anni,
immensi occhi color del mare, uno zainetto, troppo carico, per l’esilità
delle spalle. Lo guardava incuriosito, forse per quel suo deambulare a scatti.- “Ciao” esordì il bimbo “come ti chiami?”. Senza attendere risposta gli
prese la mano.- “Vuoi accompagnarmi alla scuola? Tutti i miei compagni
hanno qualcuno che li porta, io nessuno”.S’incamminarono, il piccolo lo
guidava, ricominciò a parlare:- “Mi chiamo Giovanni, mia madre è morta
e mio padre lavora giorno e notte in fabbrica…”. Non vi era dolore in quelle parole, solo una pacata rassegnazione. Una fitta lancinante gli perforò il
cuore, si rivide piccolo, solo, quando i primi incubi sostavano nelle sue lunghe
notti insonni, il prepotente bisogno di avere ancora sua madre che l’aveva
lasciato in una piovosa giornata di primavera (non se ne era mai fatto una ragione, non si poteva morire di primavera quando esplodono i mandorli e le ragazze denudano la pelle…) e poi il lottare di suo padre sfinito dai turni alla catena
di montaggio, i giorni passati rasente ai bianchi muri urlando di rabbia e di dolore, infine il suo silenzio irreversibile. Erano arrivati davanti alla scuola,
Giovanni, senza guardarlo, staccò la mano dalla sua:- “Ciao, a domani”.
Lo vide allontanarsi, un nero antro lo inghiottì. Era spossato, una nascosta
nostalgia della clinica lo aggredì. In quel luogo dove la vita scorreva lenta e fluiva come limpida acqua, i giorni erano inconfessabili peccati senza possibilità di
redenzione. La notte fu tormentata, vuota di sogni, il bimbo era sempre nei suoi
occhi. Alle prime luci dell’alba si alzò. L’ultima luna impallidiva sul viottolo di
sassi. Lo vide da lontano, procedeva a piccoli passi, la testa reclinata sul petto,
gli arti afflosciati come una marionetta a cui hanno tagliato i fili. Prima o poi la
clinica lo avrebbe inghiottito, era solo una questione di tempo… Oh no, pietoso Iddio, oh no, lui no! Lentamente estrasse dalla tasca il piccolo coltello a serramanico: un solo colpo mirato al cuore. Si fece azzurrissimo il cielo sgombro
di nuvole, Giovanni cercò la sua mano e insieme spiccarono il volo.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
POESIE
Marilla Battilana
Poesia a Rima e dispetto
(da La corona d’oro e altre pagine)
Per un amante imperfetto
(alla maniera di Mariella Bettarini)*
Nevio che cosa è successo
di quell’amore
(di quella pira
l’orrendo fuoco
tutte le fibre
m’arse e bruciò)
un amore che si è ammalato
come dice la mia amica
Mariella, un amore
che ha il mal di testa
starnuta gocciola tossisce
deve fare le lastre
prendere le medicine
riguardarsi
mettersi la maglia e la sciarpa
usare il cappello un amore
che si è distratto (fra le mani
di un’esperta massaggiatrice)
e ora dopo avermi detto
se c’è un altro non posso, so
che non devo pretendere, torni
(si usava dire) alla carica:
c’è il congresso di semioecologia
a Pavia, prenota la stanza
che ho già pre-occupato la mia.
Che cosa è successo
nevio, posso scrivere
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I Fiori del Male
il tuo nome con la minuscola
che hai detto?
sì ti dedico una poesia
e ho una gran voglia
di una tua lettera,
se fossi incinta nascerebbe
un figlio con una voglia
bianca tutta dattiloscritta.
Verrò non verrò a Parigi
a Palermo a Pavia nevio c’è
anche casa mia, senza
il tuo cognome sulla porta
un indirizzo segreto
un’abitazione negata
una bugia confermata
per il postino di casa tua
e per la distinta signora.
Ottobre 1983
*I versi in corsivo sono presi
da una poesia di M. Bettarini
Data Medica
Ho cambiato indirizzo
-tota foemina in uteroora risiedo quindi
per l’antica misoginìa
nelle ceneri settiche
di un ospedale. Là
venitemi a cercare.
Millantata sofferenza:
intorno si muovevano
angeli come amici, amici
come angeli. Oh, troppo
diversa sorella fiorentina
PAZIENTE DECEDUTA – TRENTUNO
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
INQUISITI Attraverso
degenze in due cliniche
si ipotizza l’abbandono
di persona incapace: piaghe
da decubito riscontrate
sul corpo, dermatite
emorragica in zona vulvare
catetere vescicale con
ampio manicotto di pus
Morte da sepsi per
distacco di endoprotesi.
Falso ideologico in
cartelle cliniche. Non
angeli amici pietà
sorella fiorentina
dal femore sbreccato.
Sorella
Sorella
Sorella
sola
sprovveduta
crocifissa
per te straccio le vesti donatemi
di salvezza appena indossata
cospargendomi il capo di cenere
urlo la mia lamentazione
di pacato nero e disteso
bianco che il debito non salderà.
Anagrafe
…Milano dove sono nata – ma
in trasferta – mio padre era là
per lavoro e mia madre anche lei veneta
mi ci scodellò senza il medico
ma con la levatrice, in casa come
allora usava. Metropoli sempre
in vetta (o è stata superata
la Torre Velasca? Forse non sono
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I Fiori del Male
aggiornata) Milano all’orlo
di tutto, modernità e abiezione.
Veleggia l’uomo-sandwich abbigliato
di stracci indiani per le strettoie
intorno alla cattedrale, mentre
corre l’affarista in tassì verso
un insicuro miliardo.
Il metrò non esclude il Naviglio che lento
corteggia via Lodovico il Moro
portandole da Tornavento
millenarie acque dove nevicano
navigano milioni di pappi
piumosi nella brezza di maggio:
calmi navigano inconsapevoli
dell’ora e dell’eterno sul filo
d’una corrente intensamente verde,
rendono magico il paesaggio. A Porta
Ticinese non più lavandaie.
Rivedo con l’occhio della mente
le ultime al lavoro – camicie e gonne tinta
can-che-fugge, fazzoletti in testa
azzurri, gialli e scarlatti – chine
su lastroni di un grigio sepolcrale:
nella mia infanzia timorosa
sarei finita così, mi chiedevo,
nel parapiglia esistenziale?
Invece
sono un pregevole pezzo
di antiquariato – oltre i cinquanta l’oggetto
è da antiquario- che dipinge e scrive
e ogni tanto ritorna a Milano,
al Ca’ Bianca, club privato
che piaceva a Listz.
Era altrove
la mia maledizione. E più sottile.
13.5.1998
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Gli aratori
A Mirella Bentivoglio
Tu che mi hai lasciato la frasca
di ulivo sulla mensola
della madia a sedare la burrasca
che chiamano mia vita
e tante piccole cose – caffè
latte biscotti (una donna
non è mai solo mistica!) per rendere più felici
i miei giorni romani,
devi allora sapere che la frasca
ha fatto il suo dovere.
E così il resto.
Né è rimasto inosservato
l’altorilievo rotondo
dinanzi alla porta d’entrata
il quale mi ha ricordato
imperiosamente
il dovere di tirare l’aratro.
18.4.1998
Marilla Battilana già docente di anglistica a Ca’ Foscari e poi di letteratura americana
all’Università di Padova, è autrice di svariati saggi brevi o in volume, in particolare su Henry
James, sulla narrativa americana del Novecento, su Ezra Pound. In ambito poetico: L’erba
rompe le pietre (1960); Valore Zero Valore (1968); inoltre telefonare al boss (1979) e
Occhiodiamante (1989) Due cartelle di poesia visiva: Yo, el Rey (sei serigrafie in 60 esemplari
(1982) e la più recente, U.S.A (otto litografie in 100 esemplari, (2001), nonché le sue pagine di
narratrice: Racconti d’America e d’Italia (1991) e il romanzo breve Viaggio a St. Louis (1994).
Collaboratrice di riviste, fra cui Il Caffè (Roma), Poesia (Milano) I fiori del male (Roma),
Vernice (Torino), Forum italicum (New York). Ha pubblicato un poderoso romanzo Danny Boy
(2012) riconosciuto dalla critica come un’opera sorprendente per allestimento scenico e poetico. Lasciata la cattedra di Padova nel 1996, si dedica a pittura e poesia visiva, da lei coltivate
fin dagli anni ’60.
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I Fiori del Male
Giorgio Bárberi Squarotti
L’amante inglese ( inedito)
L’inglese, che l’altr’anno si era presa
la più grossa cascina a San Luigi,
arrivava, correndo, dal sentiero
sassoso e ombroso, che discende ripido
dal cimitero antico, unico bianco
fra il tanto verde di vigneti e pioppi,
alla piscina, ansando si buttava
nella panca del bar, a voce bassa
chiedeva alla barista la bottiglia
di wisky, senza bere la teneva
in mano, con affetto, sorridendo
e guardandosi intorno, e troppo attento
e insistente, ammiccava e salutava
le ragazze più imbarazzate e pudiche
(lui, così buffo, i pantaloni rossi
o a riquadri viola e gialli, a righe
variopinte la maglia, diagonali
oppure orizzontali, come vidi
gli atleti e gli acrobati del circo
nelle fotografie dell’ottocento,
quando scopersi l’album del bisnonno
che vinse a Londra i diecimile ed ebbe
una medaglia d’oro e due
boccali grandi, bianchi, per la birra).
Sai, ah, io sono curiosa, forse troppo,
e poi nel mio liceo studio tutte
le lingue o quasi dell’Europa. Pronta,
decisa, venni davanti a lui, nuda
completamente o quasi. “il mio nome è
Alice, e ben conosco delle Langhe
tutte le meraviglie: boschi, lepri,
rittani, caprioli, sciami d’api
d’oro prezioso, cinghiali feroci,
il saggio calzolaio pensionato,
che per regine e laureande vergini
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
faceva scarpe di cristallo o argento,
l’eroe novantenne che da solo
tenne a bada sull’ultima collina
di Alba tutta la brigata nera
nei favolosi secoli dei secoli”.
Gli parlavo inglese, naturalmente.
A lungo mi scrutò, poi mi rispose
con uno strano accento fiorentino;
e usava le parole antiche, quelle
che io lessi a scuola, forse Dante, forse
Boccaccio, forse qualche rimatore
che mi parve osceno, e ho dimenticato;
ed erano dolcissime ed asprigne,
misteriose e felici. Lo seguì.
Guardami bene, adesso: ti assicuro,
ho provato con lui tutto il piacere
noto dai libri e dalla giovinezza,
e l’altro, quello non immaginabile,
perché è quello dell’ombra, non di carne,
ma dell’anima.- Mi mostrava i segni
trasversali, profondi, rossi, delle
frustate sulle natiche e le cosce,
contratti a forza i rosei capezzoli
e il clitoride, ancora umido il volto
e il seno delle lacrime felici,
il pube depilato, dolcemente
e con sapienza ilare straziato.
-E dopo?, con pietà chiesi ed anche
con rimpianto, perché è più bella, adesso,
e mortale.
Monforte d’Alba, 7 luglio 2013
Giorgio Barberi Squarotti Critico letterario (Torino 1929), e poeta italiano di notevole spessore. Titolare di cattedra di letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Torino.
Studioso fervidissimo, spazia tra Machiavelli e Tasso senza tralasciare il sommo Dante.
Innumerevoli sono i suoi contributi di critica letteraria. L’interesse di Squarotti è volto al rinnovamento delle forme poetiche compreso le avanguardie europee e agli sviluppi della letteratura
italiana dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri.
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I Fiori del Male
Luciana Vasile
Se, mai
Se mai riavessi
il mio volto levigato di fanciulla
il bello aspetto, il muscolo scattante
non vorrei indietro di quella età
timori e colpe, angosce e insicurezze
che hanno ritmato
lacerato i giorni
degli anni – spensierati? –
dell’età – più bella? –
A volte sciupati torturati
passati ad ubbidire e a subire
ad ingaggiar doveri
a celare nei silenzi frustrazioni
inadeguata ai compiti assegnati
a vergognarmi di non saper – chi sono –
Se mai riavessi quella amata
perché sofferta gioventù
direi – No, grazie –
voto per questa età
quella dai trenta in su,
e poi più su
che mi riporta giù, a calpestar sentieri
cercando luce nell’intricata giungla
a camminare in basso a testa alta
ora che vado orgogliosa
di quanto sia sapiente aver coraggio:
accettare con pietà
la mia pochezza
Solo
Solo sei
quando la vita ti prende
Nel grido di pianto si intende
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
la tua ignara paura di vivere
Cammini, Corri e Insegui
Cerchi, Elemosini e Chiedi
Solo
se monca è la mano che tendi al fratello
Solo
se arida è la bocca ansiosa di baci
Solo
se muto batte il cuore sordo all’ascolto
Ma quando con pale d’Amore
riempi quel vuoto glaciale
scopri e gioisci d’incanto
che Solo nel mondo non sei
Solo sei
quando la vita ti lascia
Nella tua ultima umana battaglia
di morire hai cosciente paura
Là nelle piazze
le folle condannano, le folle plaudono
Uomo sei Solo
se ti fai buio
Uomo sei Solo
se ti fai luce
Senza gridare e senza piangere
Solo il Silenzio ti onorerà
L’uomo nuovo
Non ho più bisogno di chiedere
il consenso
che mi cinge di alloro
il rispetto
che da solo mi devo
e l’amore
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I Fiori del Male
che vive di sé
Né il denaro
che riempie le tasche
ma ruba nel cuore
o il potere
che incurante calpesta
l’indifeso altro da me
Già ho subito le schiaccianti sconfitte
il dolore, la sofferenza
di chi ha preteso rincorso pregato
pensando che su ogni tavola
avrei poi trovato una fetta di felicità
Ho girato la roulette dell’anima
sordo un colpo dal profondo è partito
ha colpito, ha ucciso il questuante dentro di me
Non più schiavo dei lacci del chiedere
Libero intono una nuova canzone
Solo ho bisogno di dare, unica azione
nella quale fondare il mio credo
la leggera voglia di andare
trovando ristoro alla sete
dell’unica vera felicità
Per vivere
Per vivere bisogna non aver paura di morire
Lontana divisa separata
si rintana nell’antro putrido dell’Io
sola sorda cieca
la paura
Reagisce con violenza
Si priva del contatto
Si esclude dalla gioia
Affoga nel dolore
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Incede nell’aria aperta e profumata
con passi lunghi e indomiti
il coraggio
È liquido di lacrime
non pensa a trattenerle, brillano con lui
né mai se ne vergogna
Di esse nutre l’animo commosso
Nel desiderio ardito, avvicinarsi
Nella curiosità vivida, raggiungersi
Nella felicità più intensa, finalmente unirsi
Sul cerchio verticale della vita
arrampicare con mani piedi denti
le salite
precipitare rotolando
le discese
permettersi più volte di morire
E rinnovati, non arrestarsi mai
sicuri di voler rinascere
per vivere
Stai qui
Si arresta
per storie incomplete il peregrinare
Si intersecano e si attraversano le membra
riempiendo le voragini dell’Io
Non trova albergo qui la solitudine
Navigano due libertà in un sol corpo
Stai qui
Non guardarmi ora negli occhi
Bisbiglia farfalle d’anima all’orecchio
Rifugiati nella piega del mio seno
Spremi l’umore caldo del mio cuore
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I Fiori del Male
confuso alla ricchezza del tuo succo
quel succo di cui parli quando doni
Non già per possedersi
ma insieme ex-sistere
Stai qui
Dita alle dita e palmo nel tuo palmo
chiusi nel pugno a fondere la pelle
Inanellati i tuoi capelli cedono
e si distendono al passaggio
che l’ingordigia della mano inventa
Stai qui
Carezzo il viso tuo reso bambino
la barba a verso, morbida, disegno
Passo e ripasso moltiplicando il tempo
dell’esserci specchiati in un eterno
Ma solo ora uniti, ritrovati
Stai qui
Luciana Vasile, Nata a Roma è architetto. Nel 2002, nella sua esperienza di aiuto volontario nel
terzo mondo per la costruzione di case per gli ultimi e che dura da dodici anni, ha scoperto il
piacere di scrivere. È fondatrice e presidente della HO UNA CASA-Onlus. Esordiente nei
Concorsi Letterari nel 2004, ha conseguito numerosi premi (oltre centotrenta) nella prosa e nella
poesia. I suoi testi figurano in diverse antologie e riviste culturali “Per il verso del pelo” suo
primo romanzo, (2006), ha ottenuto riconoscimenti in otto Premi Letterari. Del romanzo si sono
occupate le pagine culturali di alcuni quotidiani nazionali e riviste. Numerose le recensioni.“Lo
sguardo senza volto” 11 poeti del disincanto, (2008) volume antologico, curatore Donato Di
Stasi.“Danzadelsé” - Ho ballato per Paparone e altre storie, (2012) pubblicato come opera vincitrice al concorso di narrativa per inediti Interrete, “è una specie di diario interiore che si affaccia appunto nel sé… sul filo dell’autenticità, si avverte il percorso verace di un’anima” (dalla
prefazione di Marcello Veneziani). Vincitore Premio Internazionale Lago Gerundo e altri tre
premi. Numerose le recensioni. Di prossima pubblicazione la raccolta di poesie “Libertà attraverso”. [email protected]; www.lucianavasile.it
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Raffaele Piazza
Ad Alessia
Dedica
Ascoltami, Alessia, nell’aria
inazzurrata dal volo di cieli
a sovrapporsi, carta velina
o pagine di un libro di poesia
avviene ancora vita, se era
esistere nuotando, saetta o freccia,
tu adolescente nei jeans stretti
sdruciti al punto giusto,
e la maglia rosa fucsia che
ancora ti accompagna
nel suo afrore per mattini di gioia
al bar con Giovanni
dopo liquidità di bacio.
Stupore a poco a poco presentito,
nel vibrare di un tempo altro,
vacanza a Ischia nel 2010 se
tra pagine archiviate di diari,
con pastello rosso carico o incerta
grafia, uscisti dove ci sono le
stelle a respirare l’aria carica
di fiori:
da nominare, non ne conosci la
classificazione: allo specchio ti guardi
sei bella e tutto il mondo fuori,
grano dei capelli, azzurro
limpido occhi che a poco a poco
nel disanimarsi delle forze
nella sera ritrovano intensità,
come se dopo l’esame di italiano-due
superato fosse accaduta una storia
da raccontare bella: trenta e lode
e viaggio ad Assisi con l’amato.
Alessia, colei che protegge,
ascoltami nel dedicarti il mio
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I Fiori del Male
tempo migliore, a dire di te
poi in presagi di gioia ti penso
nella festa a casa dell’amica
farsi parola.
Alessia e il libro di poesia
Scrive con vaga grafia, Alessia,
nell’aria disadorna senza fiato,
inchiostro rosapesca come l’estate
o l’inoltrata primavera.
Scatta il volo di un gabbiano
e trasale Alessia azzurrovestita
nell’aria vegetale della consecutiva
attesa. Sulla scrivania I fiori del male,
sua lezione per la vita e la
scrittura accade dalle mani affilate
come un attimo disadorno
come un bagliore Alessia
alla trentesima poesia
del suo libro per la vita,
pioggia a cadere esteriore
sulle cose senza tempo in segno
di vittoria. A destra il mare
a sinistra una nube bluastra
gioca a farsi ragazza o cavallo.
Epifanie del nulla, a poco a poco
tutto si ricompone, ecco lo squillo
del telefono, la voce di Giovanni.
È il 1984 attesa sgretolata ecco
il primo appuntamento
ci sono il parco, la panchina e le labbra
da baciare.
Raffaele Piazza- Napoli 22/12/1963- Ha pubblicato Luoghi visibili (1993)- La sete della favola (1996) Sul bordo della rosa (1998) e Del sognato, 2009. Ha vinto numerosi premi in concorsi di poesia. È redattore di Vico Acitillo 124 Poetry Wave.. È collaboratore esterno del Il
Mattino di Napoli alla cultura. Ha pubblicato su numerose riviste letterarie, tra le quali Anterem,
Gradiva, Fermenti, La Mosca di Milano, Tam tam, Hyria Tracce, Arenaria, I fiori del male,
Grafie; è inserito in molte antologie. È curatore dell’antologia Parole in circuito (2010). Ha partecipato a letture di poesia a Napoli.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Chiara Mutti
Costellazioni
Inedita
I
Eravamo sulle labbra della luna
un soffio di polvere bianca,
lische di salmoni dorati
risaliti alla corrente.
Il coro d’inermi fanciulli
emise qualche nota stonata,
un’uggia di rauchi conati.
Duro il sangue pulsò
corrompendo ogni desiderio sacro:
tracciavamo i punti della celeste cometa
una domanda, una domanda, una domanda
nascevamo sopraggiungendo al giorno
tutto il resto sembrava sera
e la notte era già il tempo del dopo.
II
Dall’emisfero boreale
il vento soffiava gelido di ghiaccio,
pavidi e tremanti
riparammo sotto l’apparenza
seguendo traiettorie
perpendicolari al nulla
immobile, piombando il sonno
suggeriva sistemi in divenire,
non sapevamo che il nostro
era solo un girovagare in tondo?
Un suono di sirena fissa
accanto all’ultima luce.
Il futuro è rimasto irrivelato
come pianeta dissolto .
III
Prima che piede
ci spingesse al passo
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I Fiori del Male
milioni di zampette confuse
segnarono orme di galassia,
solo ali di libellula astrale
ci liberarono dall’orda
distinguendoci l’uno all’altro,
vennero a portarci
nuova forma di confine.
Il margine era acqua
e non era finito, oltre la sostanza,
che potesse quietare l’ansia del crescere
pure il ventre così vuoto e scarno
sembrava ora tendersi al tutto
mani d’ossa tintinnanti
musicarono il vuoto.
IV
Perché mai questa scia
di detriti alla deriva?
Questo nulla che ci attrae
più dell’atomo scomposto?
Cambierò la tua fede
in un carro,
un pavone, un cavallo,
una capra bianca.
Puoi frenare il volo del cigno?
Incalzare la risposta del corvo?
Domani, domani.
Forse la materia è madre
strappata agli abissi,
per questo siamo nati.
Forse non siamo che forma.
V
Oh! come tutto muove
e muta e segue
solo noi sembriamo
sempre in atto di finire
sempre con vani occhi
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
ci appressiamo alla vista
pure un giorno dura,
ogni sole, un giorno
e una notte, una notte
basta
per tutte le stelle.
Spleen
E del perché
della domanda, sempre
quella, che non ha risposta
porto nelle mie palme
il vuoto universale
contorto ramo secco
ancora assorbo
l’umidità del sangue
versato sulla terra
e ancora mi rivolto
nella cenere che il fuoco
ha condannato al rogo.
Uomo sacro,
cranio,
nascosto simulacro
che il mio viso offusca,
porti, nell’orbita scoperta
del mio essere di ossa
(da “La fanciulla muta” ( 2012)
Chiara Mutti Nata a Roma, lavora presso l’archivio fotografico della Galleria nazionale d’arte
moderna di Roma. Appassionata di fotografia, letteratura, archeologia e antropologia. Ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie “La fanciulla muta”(2012).Tra i premi quello della
Critica al Concorso di Poesia “Il saggio città di Eboli” 2009 e della Giuria al Don Luigi di
Liegro 2012; I premio al concorso di poesia a Pier Paolo Pasolini, “Autori di vita”, 2010 e al
Premio Enrico Folci 2010, II premio di poesia “Giorgio Belli”, 2011. Le sue fotografie sono
state esposte alla Galleria il Marzocco di Roma e al Lavatoio Contumaciale.
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I Fiori del Male
Giuliana Lucchini
CAINO
FIORE DEL MALE
Nel silenzio felpato lui tace e sale
carica l’aria d’attesa
il muscolo contratto e il fuoco nel cervello
rossa la luce
rosso il caldo tocco del legno
su per la scala nero freddo determinato
muro di odio
“Lei mi appartiene”
non la doveva guardare
non la poteva toccare non le doveva parlare
lui non doveva violare l’ordinamento
Scivolare sul corpo del serpente
abbracciarlo come fianchi di montagna
formica inquietante inavvertitamente
aderisce la mente al geroglifico
del sentiero ondoso stampato fra gli alberi
nel bosco sacro della follia dove la linea
a curva si muove percorre
chissà quale cammino dal passato
all’eterno indica traccia e comando
T’infilzerò
dai mille artigli unghiuto
tentacolare
mostro
spremuto mi striscerai lungo le linee della mano
eraddrizzato e rosso.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Rovente dell’arsura
il sangue
la falce chiama che il pugno stringe
sicura nella notte brilla
serpente-gelo
di luna di lama
Il passo cauto la porta
gradino per gradino in cima alla scala
È l’ora di modulare il sibilo
incantatore canto
incantesimo incantato
mutevole e raro
si insinua il gesto al richiamo
si muove il gesso del capo si abbruna
si scioglie timidamente la pietra
sull’orlo del collo eretto sul piatto
busto – capo – erma (ferma) – cippo
s’avviva
(secchi d’acqua sul viso
a sciogliervi l’ardore!)
Sul letto la coppia, dipinta,
immobile d’attesa,
la prigioniera a mezzo liberata.
Vendetta la difende ora o l’immola?
Incredulo lui disteso di fronte al destino :
sangue di fratello nutrito dello
stesso respiro la nostra alleanza
campo di solidarietà mensa di complicità
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I Fiori del Male
unicità di movimento a gruppo
ora sovvertimento dei valori caos primario.
Dove sono finiti
gli spazi risolti della guerriglia su cui
stormi di uccelli libravano voli?
“Macerie le città
senza ali il cielo
senza pesci il mare
tutti gli animali fuggiti” .. - un poeta all’orecchio.
Sterminio! Fuori gli ebrei!
Abbasso gli Asburgo, fuori i Romanoff,
fuori i gays, fuori gli Armeni!
Crudele è bello (“ageing in my face”). Indurisciti cuore.
Silenzio immobilità spostamento,
ravvicinamento dell’immagine, brivido :
primo piano cautela (due mani a clava)
– varano ingoia il cobra sputatore –
un gesto esplosione uragano
Di rosso cinabro la falce trancia
collo busto mano braccio dita piede
gamba coscia testicoli scroto
urla la donna e vomita colpo dopo colpo
lacerati gli occhi alla vista
stravolta
eredità
nei profondi meandri della coscienza
di un marchio malattia nome
Caino
da “Vivere il Due”, 1983
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rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 87
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Lina Furfaro
Mari del Sud
Lo sguardo si perde distratto
cullato dalla lenta risacca
nel dolce mare profondo
che bagna la magica costa:
aspre radure insabbiate ed arse
ignare dissetano erbe e fusti.
Il luccichio dorato esplode tremulo
su le piccole onde azzurre aggrottate
acceca la mente che mai altrove sfugge
se non là, oltre l’orizzonte infinito
e l’avanzano in sensazioni libere
tra il planare di uccelli
e un’aura salmastra
l’avvolgono annullando realtà
la trascinano e immergono
nell’antica amante
terra greca, acquietandola.
Madre
Il distacco avanza freddo, impassibile
verso ogni inutile essenza terrena
latente affetto risveglia legami
illumina tenue rughe solcate
e strappa ancora al volto
folate di serenità anelata.
Quel remoto sguardo vigile e attento,
il giovane viso
dall'alto del suo portamento
incorniciato dal fazzoletto
che al freddo si annodava sotto il mento
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rivista n.57 gennaio-aprile 2014:Layout 1 03/03/14 14:10 Pagina 88
I Fiori del Male
ad ogni incontro sono altresì spenti.
Piegata in due affievolisce i pensieri
i perduti e immediati ricordi,
nascosta in intimo, pregiato candore
flebile la ragione vaga deserta.
Avvolta nella coltre nulla pare
quel tempo donato già teso a fine certa.
Flussi oceanici
Istrione, riottoso o docile
lento, brulicante o solitario
trascina serpeggiando
celandosi al contatto
della sabbia ardente.
Qui, dimora d'amore
nell'animo è l'intesa
presto rinfresca le membra nell'onda
rapido uno sguardo travolge
e limpida divora la giovinezza
ormai travolta da spuma.
Al largo l'immensa distesa
misteriosa e increspata tace:
agita il vento l'intimo affetto
fluttua tra voli di gabbiani
abbaglia nel riflesso dell'aurora
culla nei meriggi
annega nel fondale della notte
per ricominciare la sua alba.
Lina Furfaro nata a Locri ( R.C.), laureata in Scienze dell’Educazione all’Università degli
Studi di Messina, è docente. Fa il suo esordio negli anni ’80 con le prime poesie. Ha ricevuto
diversi riconoscimenti tra cui il Premio “ Montesacro” 1986 e il Premio Concorso Nazionale
Ladispoli 2001. Ha pubblicato la monografia Gerace, e il libro Il monastero di Sant’Anna. Nel
2006 ha pubblicato la silloge poetica Gocce e nel 2009 La maestra Tita, romanzo storico. Ha
riscosso una straordinaria risonanza il romanzo storico Giuditta Levato, la contadina di
Calabria. Collabora con Riviste ed è impegnata in attività culturali.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Davide Cortese
Tu mi aspetti in silenzio
Poesie inedite
Tu mi aspetti in silenzio,
dietro l’angolo, dietro l’albero,
scrutandomi, segreta.
Mai mi dimentichi.
Anche quando sorrido,
anche quando sono io a dimenticarti.
Tu mi aspetti in silenzio,
come una bambina
che mi sbircia dall’angolo.
Getti una rete d’ombra
sulla mia gioia che un istante guizza
e la fai tua ancora lucente.
La tua pesca miracolosa.
Tristezza,
sono i miei sorrisi.
Eldorado
Baratterei la casa bianca tra i girasoli
con la baracca di cartone nel fango
se dentro vi fossi tu
e lo spazio per un abbraccio.
Non c’è altro posto dove vorrei essere
se non lì dove tu sei ora.
Dove tu sei
lì è Eldorado.
Aria
Respiro la parola dolce di Tagore.
Respiro Klimt in spirali d’oro.
Respiro Mozart in volute di suono.
Privandomi della bellezza,
soffochi un uomo.
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I Fiori del Male
Una pace
Una pace c’è
che posso dirti.
Ce n’è una qui
che tu puoi dirmi.
La sa il tuo sorriso.
La sa il mio.
Ti prendo la mano.
La mano tua mi prende.
Andiamo
in un silenzio nostro
con lentezza
di nuvola bambina.
In tutti questi istanti
In tutti questi istanti di tutte queste ore,
in tutte queste ore di tutti questi giorni,
in tutti questi giorni di tutti questi anni
io non ho fatto altro
che cercare di salvarlo.
Salvarlo. Salvarlo.
Ancora e sempre.
Salvarlo, io non ho fatto che salvarlo.
È tutto ciò che mi resta.
Ed è ancora niente.
Ma posso stringerlo al petto e sorridere.
Perché è ancora qui con me, vivo,
il mio sogno invincibile di gioia.
Davide Cortese è nato nell' isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere
moderne all'Università degli Studi di Messina con una tesi sulle "Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane". Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata "ES", alla
quale sono seguite le sillogi: "Babylon Guest House"(2004), "Storie del bimbo ciliegia" (un’autoproduzione del 2008), “ANUDA” (2011), “OSSARIO” (2012) e “MADREPERLA” (2013). I
suoi versi sono inclusi in diverse antologie e in varie riviste cartacee e on line, tra cui “Poeti e
Poesia”. Le poesie di Davide Cortese nel 2004 sono state protagoniste del "Poetry Arcade" di
Post Alley, a Seattle. Davide Cortese è anche autore di una raccolta di racconti, "Ikebana degli
attimi" (2005) e di un cortometraggio, “Mahara”(2004), che è stato premiato dal Maestro Ettore
Scola alla prima edizione di Eolie in video video e al Lagofilmfest di Bracciano nel 2013.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Rita Gatta
Tracce d’amore
Vibra nell’aria
eco senza suono
oltrepassa invisibili confini
e torna indietro
boomerang
di sensazioni indefinite
dolore e inquietudine
profumo nell’aria
familiare essenza
di un battito senza tempo:
lo sguardo si ferma
su un incerto pensiero
lacerante il dubbio
tremano le visceri
brucia l’addome
di uno straziante
dolore: angoscia
mancanza di certezze
dubbi si affastellano
divengono scoscese pareti
e inutile il tentativo
di respirare
in quell’aria,
venefico volatile veleno.
sempre più forte si fa
il richiamo del sangue
si bussa alle porte
in un impensabile istante
granitica diviene la certezza
poche gocce di sangue.
Canto
È la poesia il linguaggio
più diretto dell’anima.
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I Fiori del Male
Trasmette allo spirito in ascolto
le vibrazioni più intense
e profonde
cariche di emozioni.
Fissa per sempre,
le più intime percezioni,
composite miniature
fatte d’attimi
appena percettibili
e fuori dal tempo.
Regala coi versi
a chi sa ascoltare
un magico canto
di tenera confidenza.
Sei tu
Dolce malinconia
tenero rimpianto
innocenza sfuggita
rapita in un istante
Ambrosia lucente
il ricordo si accende
profumo di pane
di dolci confetti
Morbido abbraccio
tenero lo sguardo
soffice sicuro
approdo
Un raggio di sole
s’accende al pensiero
sei tu, non è vero?
Rita Gatta è nata a Rocca di Papa ( RM). Laureata in sociologia presso l’Università degli Studi
di Roma La Sapienza. Ha pubblicato nel 2004 “Avventure nel “Castello dello spazio”. Nel 2001
ha vinto il primo premio al Concorso Letterario Città di Ladispoli con la poesia “ Ombra
Chiara”. Nel 2010 ha pubblicato “Svrìnguli Svrànguli” raccolta di brani e sonetti in italiano e
rocchegiano. Partecipa attivamente a convegni sul Dialetto. Collabora con riviste locali, quali
Castelli Romani, Controluce e il Grillo pubblicando brani, sonetti in vernacolo e brevi articoli
di attualità e cronaca.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
AA. VV. Antologia del decennale 2003-2013, Hammerle, editori 2013
In occasione dei suoi primi dieci anni di vita il Pen di Trieste, presieduto da
Antonio Della Rocca, ha realizzato una antologia collettiva di prose e poesie,
volta a documentare non solo il pregio culturale dei suoi membri, ma anche a
illuminare i valori ispiratori dell’organizzazione, attiva nel capoluogo giuliano.
Come si evince dal Manifesto di Bled del comitato degli scrittori per la pace,
adottato al 79°congresso mondiale a Reykjaavik nel settembre del 2013, il Pen
è un’organizzazione mondiale di scrittori che promuove una cultura di pace
basata sulla libertà di espressione, sul dialogo e sullo scambio. Ha tra i compiti
principali quello di vegliare sulla diversità linguistica e culturale e sulla vitalità
delle culture e delle lingue che siano parlate da molte o poche persone. In questo spirito di terra di confine Trieste si pone non solo in potenza, ma in atto,
come laboratorio di un modello fruttuoso di scambi ed incontri, sulla scia della
sua ricca tradizione mitteleuropea e di transiti di linguaggi, di commerci e di
idee. L’antologia, cui hanno dato contributi notevoli, autori come Marilla
Battilana, Ezio Berti, Lina Morselli, Ana Cecilia Prenz ed altri, vuole essere il
volto letterario di quella complessa rete di finalità ed intenti che il Presidente
Della Rocca spiega nella densa premessa al volume. Nello spirito cantieristico
di un’opera volta ad integrare passato e futuro si colgono nell’antologia numerosi spunti e suggestioni che documentano l’apertura e la sensibilità dei soci
scrittori, di cui si è notevolmente ampliata la compagine per età ed interessi, ai
temi sì della pace e della libertà, ma colti sempre nella ricchezza specifica di
sensibilità creatrici di emozioni e di storie. Lo provano racconti, versi e riflessioni, in particolare quella sulla traduzione e il tempo, a cura di Elvira Dolores
Maison. Interessanti infine tra le poesie, i testi in originale spagnolo del poeta
argentino juan Octavio Prenz, tradotti a piè di pagina, capaci di evocare timori
e speranze attraverso la musica delle parole immagini.
Paolo Carlucci
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Sandro Angelucci - Rescigno il racconto infinito- Blu di Prussia editrice, Piacenza 2014
Gianni Rescigno, poeta versatile e inesauribile, con i versi tramati di pensiero e con
la libertà di parola si muove su vari livelli lirici e offre una visione ampia e dolente della
realtà nel suo percorso umano e poetico. La sua opera mostra sensibilità antropologica,
dimensione metafisica, il dramma della quotidianità, la riflessione tra visibile e invisibile, tra essere e non essere. Sandro Angelucci ha scritto un saggio sul poeta, impresa
che richiede una lettura attenta e analitica della vasta produzione letteraria per potere
avere un quadro esatto attraverso una prospettiva diacronica dell’evolversi della poetica. Di Rescigno il racconto infinito, titolo bene appropriato, richiama il divenire dell’esistenza tanto che la poesia Non sei silenzio tempo messa in esergo a modo di epigrafe del libro esprime bene l’idea: Far finta / che tu non esista non si può / e ti ritrovo
ogni giorno / a camminare sul mio volto. Angelucci ripercorre con adesione totale della
ratio e del sentimento le tappe del lungo e straordinario viaggio poetico di Rescigno
cogliendone con chiaro acume la molteplicità e la varietà del reale nei particolari più
minuti, la navigazione interiore del poeta, il valore e l’intensità della sua opera. Questo
scritto dettagliato e illuminante sorretto da una espressione colta e limpida si colloca in
modo particolare su due livelli in cui viene messo in chiara evidenza: l’umanesimo, cioè
l’Humanitas nel significato terenziano: homo sum nihil a me alienum puto bene sottolineata nelle pagine e la poetica delle numerose sillogi. Il critico è arrivato a scandagliare sul mondo interiore ed esterno che anima la poesia di Rescigno nel quale vita e poesia vivono in simbiosi. Ne sottolinea la terrestrità della sua condizione umana, il modo
schietto di attingere ai precetti del Vangelo nella ricerca di Dio e quindi la consapevolezza dell’oltre, l’amore per la natura, gli affetti familiari, in breve un universo composito dove la voce del poeta con la parola alata trasporta il lettore nell’iperuranio. Questa
monografia si fa apprezzare per l’apporto ermeneutico perché induce a conoscere e
approfondire l’opera del poeta. Una divisione cronologica, però, dell’opera e apporti
critici diversi avrebbero condotto il lettore a una maggiore comprensione. Il critico nondimeno ha fatto un buon lavoro di cernita indicando un percorso per ulteriori studi su
tutti gli scritti di Rescigno.
Francesco Dell’Apa
Renato Greco, La parola continua , Sentieri Meridiani Edizioni,
Foggia 2013
Èvero: la parola continua e continuerà con Renato Greco. Questo recentissimo volume La parola continua Poesie inedite 1998-2001- rappresentano un altro spaccato dell’inesauribile vena di Greco. Qualcuno si domanda perché scrive Greco con questa fre-
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quenza disarmante, inappuntabile, temporale? Greco scrive, diciamo noi, un’interpretazione di sé e degli altri, per sopire gli spiriti interiori per quel bisogno inestinguibile di
fare e comunicare. È assolto dalla mitomania del rappresentato, i critici mallevadori o no
vorrebbero farlo tacere. La poesia non si imbriglia, non ha muri sotterranei, ma vive dove
s’insedia un poeta. Non volete recensirlo e va bene, ne avete facoltà; però ascoltatelo egli
è un cantore seduto su un sasso a declamare le sue poesie, un liberatore della parola, un
navarca di questo secolo, prigioniero ma non vinto dell’altrui famelica rabbia di dire a
chi non dice. Lasciamo penetrare tra “fiume di scagli / ognuno è nudo / più che fosse la
data / della nascita / e muoiono anche / gli angeli custodi..”. Queste poesie racchiuse in
La Parola continua rappresentano il viatico di un uomo che ha fatto una scelta sconvolgente. La scelta di non abdicare al suo mandato di poeta. Crede, ha creduto che il suo
dire è senza limite, perciò, profeti del nulla, lasciatelo scorazzare dove vuole e, un giorno, la sua poesia possa “incenerire i miscredenti”. Dunque Greco è uno che guarda con
occhi giovani alla vita senza tenere in bocca “lame di coltelli”. Ancora un poco la sua
rinnovellata vena poetica ci darà l’orientamento per poter barcamenarci in questa traversata della vita così aspra e persino amara.
Antonio Coppola
Renato Greco, La lunga via, da ieri fino a dove, Edizioni del Sud,
Modugno (BA)
Un lavoro, quello di Greco, La Lunga via, da ieri fino a dove (vol.III) affacciato
tra storia, archeologia e mito. Un profondo documento dentro la storia di millenni che
ci giunge da un poeta poco conosciuto ma assolutamente importante per la trasbordante opera che ci lascia. Questa La Lunga via con un apparato di note ai testi, è davvero voluminosa; forse la più compiuta manualità architettonica e poetica quanto
l’ipotetico Ponte sullo Stretto di Messina, mai realizzato ai nostri tempi. Greco passa
in rassegna le Civiltà mediterranee di duemila anni greco-latino e padroneggia dal
Grande Re di Assur alle fertili pianure di Olimpia ad Achab, re di Israele. Insomma
Renato Greco da Modugno ci riserva questa imponente lezione di Storia. Fosse l’ultima? Non è così, l’uomo, guru del verso libero ha riversato in pubblicazioni milioni
di idee, di immagini. Questa epopea umana La lunga via ci sovrasta per le rutilanti
vie dell’universo, tra storia, mito e una ricerca certosina da scriba indefettibile.
Antonio Coppola
Silvana Baroni, Criptomagrittazioni, Onyx editrice, Roma 2013
Felicità critica è il viaggio che ordina, nell’opera di un autore, le soglie diverse di
creatività, rivelandone la cifra, nell’aritmia di scrittura. L’opera di Silvana Baroni, in
virtù del suo essere prismatica e vitale, concede tale sortilegio. Asciugata al sole etico
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e fulminante dell’aforisma, di cui ha dato prove notevoli nelle sue ultime pubblicazioni, la scrittura dell’autrice si accosta al velame dell’arte di Renè Magritte per trarne la luce violenta degli oggetti e i palpiti interiori di lacerate realtà umane, solitudini di cappelli sul fiume, nerofumo di coscienze, senza celestiali annunciazioni.
Attraverso un mirato e capillare studio delle carte scritte e pittoriche dell’artista belga,
la Baroni sommuove sì forze archetipiche nelle visioni del corpo, del sacro, del viaggio
nel sottosuolo di oggetti e stati di coscienza epifanici di un malessere lucido e spinoso,
ma attraverso le sue criptomagrittazioni dà appunto voce alle opere, chiarisce come la
risposta di Magritte sia geometrica e denotativa, priva ad esempio dell’infanzia notturna delle fiere-giocattolo di Dalì, autore simbolo e quasi convenzionale del surrealismo
d’abord, anzi è antitetica al surrealismo del pittore iberico. È una riflessione, un coltello che governa il buio, quell’arte amletica di questioni di essere, capaci di evocare il
mistero, non di regalarlo all’occhio di superficie. E la meraviglia agra del sogno è lì …
nella mela, nel cappello, nel trono vuoto, nella foglia, nella candela accesa; insomma è
nel fasto grigio delle cose il sogno. Il francobollo d’esistenza è sorriso che spaventa.
Sono stati i sorrisi a spaventare il successo, i guizzi al crocevia, le verità a sperpero,
le astrazioni a chiave di musica,il goloso pallore dell’alba. Uno dei punti nevralgici del
libro è certo il testo La mia sediola sul tuo scranno? che si lega all’immagine de la
Lègende de siècles, sconvolgente e drammatico esempio di rovesciamento Oh mio Dio!
Davvero un posto a capotavola tutto per me?.. davvero io a presentire uragani sul picco
dell’infinita arsura? / io sul trono primordiale, nella luce intermittente tua verde ramarro,… io Adamo, la cavia / a far prove per altri che verranno / a testare lo spazio del
vivere. Un concentrato di filosofia per l’uomo di ogni epoca, Icaro ebbro…. Opera
ricca di sinestesie culturali, densa di richiami alla filosofia e all’arte in ogni pagina uno
specchio che attraverso occasioni di vita ci stupisce come l’orfano di sessant’anni di
spalle al sipario / in attesa…., pare stia, persi gli occhi nel diluvio dell’ora lento a
sgualcire il resoconto dei fatti, a contemplare la foto che resta nella tasca di un uomo
/ ormai giunta a chiarezza la sorte / , perché sempre.. ferita aperta è l’evidenza, anche
di una foglia, della pioggia che si fa ruggine.
Paolo Carlucci
Wilma Vedruccio, La casa del sale - Storie di un altro Salento, Edizioni
Kurumuny 2013
Poco importa che ognuna delle protagoniste della sezione “Ritratti” del recentissimo libro di Wilma Vedruccio edito da Kurumuny, 2013, proponga un aspetto del
Salento: la carnalità di Carmela, “I capelli biondi di Carmela”; il barocco del putto
della Pala di Santa Lucia di Lorenzo Lotto, “Il bimbo di Lotto”; la seduzione, la malizia e la vanità della protagonista de “La casa del Sale”; l’archetipicità di Maria
(Maria); la punta di follia di Cocettina; la gioiosità e l’ingenuità della ragazza di
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copertina…Tutte sfaccettature della femminilità e del Salento che restano indelebili
nella memoria. Poco importa che “Naturalia” ci rinfreschi gli inimitabili panorami –
anche dell’anima - del Salento contadino vissuto attraverso ricordi arcaici, ritmi e abitudini di tempi antichi, lunghi e silenziosi (“Orti”, p. 70): “A far bello il Salento, orti
e ortolani (…) In primavera la terra, lavorata da mani di antica sapienza, diventa grassa, umida, promettente e le giovani piantine, allineate in filari con grande precisione,
incoraggiate da poche gocce d’acqua, crescono in poche settimane, si spandono sul
terreno, s’arrampicano a sostegni di fortuna, brillano col loro verde nuovo al sole,
promettono frutti e maturano ortaggi e legumi già ai primi giorni dell’estate”. È che
in verità in questa ultima raccolta di racconti, il Salento – terra amatissima dalla scrittrice dove è nata, dove vive e dove si “agita”, come lei stessa afferma - è vissuto e
amato attraverso un’esplosione dei sensi, di tutti i sensi. Si legga, per esempio, il racconto intitolato “La domenica di un laico solitario” in cui il rapporto con il mondo
esterno è ritmato dai sensi: il protagonista va in bicicletta a sentire l’odore della terra
dopo la pioggia, a vedere le piantine appesantite dalle gocce d’acqua che dondolano
piano di benessere (…) Poi c’è la radio che offre la sua migliore programmazione
proprio nel mattino domenicale, bisognerebbe stare col fiato sospeso senza far nulla,
per ascoltare (…) Come è buono l’odore della roba lavata, sa di nuovo, sa di leggero come un corpo rinfrancato. Come un’anima nuova” (p. 22). Ancora, in “Delle
colombe il non volo”: “La magnificenza di Dio si sarebbe rivelata ai loro occhi, alle
loro ali, in tutti gli odori, nella varietà dei sapori, nella varietà delle forme” (p. 41).
Nei racconti si avverte una tensione continua, una volontà, un desiderio, un impegno
alla perfezione, alla Bellezza, all’assoluto. È così anche per Dio – “Il divino pittore”,
p. 44 - nella sua Creazione: “Sulla tavolozza i soliti colori base, erano le sfumature il
suo esercizio preferito su cui si ostinava da tempo alla ricerca della pennellata pura per
cui poter dire: “Ecco, era proprio questo che cercavo di fare” (p. 44). È così per il cane
fedele al padrone che non lo vuole più perché è fedele a se stesso (“Randagio”, p. 34).
È così per la stessa Wilma impegnata, tesa fino alla ultima fibra del suo corpo anche
attraverso Facebook a difendere la sua bella terra e a smascherarne abusi e brutture.
Infine, questa raccolta è sotto il segno del sole presente non solo nei titoli (“Prima del
sole”) ma che è protagonista di ogni racconto. Sole, manifestazione della divinità che
ha benedetto questa terra. Sole, energia illuminante, fonte di luce, di calore, di vita.
Fausta Genziana Le Piane
Laura Rainieri La bassa piana e le fontanelle, Tiellecci 2013
A prima lettura “La bassa piana e le fontanelle“ di Laura Rainieri figurerebbe un
testo composito, l’occasionale assemblaggio di una sezione dei versi, delle note esplicative a prevalente carattere storico e di un apparato iconografico con funzione esor-
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nativa: per l’esito scontato di un’operazione nostalgia. Invece l’obiettivo è più sottile
e complesso, riassumibile nel confronto – verifica da sottoporre al vaglio del lettore
tra un momento lirico e l’oggettivo degli altri due, dove le parti interagiscono, nella
prospettiva della restituzione totale di un territorio e della sua gente, secondo un’inedita formula narrativa, dichiarata nel sottotitolo “Racconto in versi”.Lo conferma
anche nella stessa sezione dei versi, ad esempio, l’accostamento alla lirica “La Rocca
al mio ricordo” di due prose sotto il titolo “Il castello di S. Secondo” a firma di due
storici. Va da sé che l’oggettività è solo parziale, perché i personaggi e le situazioni
delle supposte note e dei versi sono quelli cari all’autrice e le immagini riproducono
i suoi luoghi. Anche il rimando esperito nella “Introduzione” di Plinio Perilli, fatte le
debite proporzioni, tra la Rainieri e Bertolucci, solo motivato all’insegna comune
della provincia parmense, risulta improprio: diverso il paesaggio, e il paesaggio si sa
fa l’opera, in prevalenza montano nel poeta de “La camera da letto” e qui invece della
Bassa padana. Diversa anche la concezione del tempo, che innerva strutturalmente le
opere, secondo una costruzione nastriforme dei versi in Bertolucci, dove implicito
trascorre il flusso dei giorni; al contrario nella Rainieri una sistemazione quasi scolastica della materia sotto le rubriche “Le origini” “Storie di duchi e duchesse”, “Le
magnifiche sorti e progressive”, (di memoria leopardiana) ecc..., e al loro interno, con
tanto di titoli a tema, i singoli componimenti. In “Fontanelle” il tempo è spazializzato e compare agli occhi come panorama, un presente che contiene sedimentati i
monumenti lasciti della storia, a tal punto che nella memoria antica di oppressi e
oppressori, la Rainieri, pur parteggiando per i primi, non rifiuta l’eredità degli altri,
riconoscendoli parte della propria identità di paesaggio. Così l’esperienza della storia
e del privato coincidono.A definire la connotazione erotica di quest’opera soccorre un
rilievo contenuto nel testo di una raccolta postuma di saggi di Andrea Zanzotto, intitolato “Il paesaggio come eros della terra”. Riandando alle parole della donna di
Mantinea, Diotima, in Platone, il poeta di Pieve di Soligo ricorda come Eros “ha qualche cosa che viene da Poros (ricchezza) e Penia (povertà) ed ha a che fare con lo
scambio“, poiché tra i due c’è “il senso di un’infinita perdita che esige un infinito
compenso”.Il legame è nell’ontologia sottesa al paesaggio, la quale accomuna uomini e cose nel senso della Natura, perché le terre della Bassa parmense sono tutt’uno
con l’acqua dei suoi fiumi, innanzi tutto il Po, e di quella sostanza è composto in prevalenza anche l’uomo (una verità scientifica) in una compenetrazione, rilevata nella
breve “Prefazione” di Egidio Bandini in una semplice frase attribuita a Verdi, che vale
un intero discorso critico: ”La terra simile a sé abitator produce”. Ma la continuità
della storia è incerta, forse impossibile: se è auspicata ne “La chiusa”, l’ultima poesia della sezione dei versi, incombono i “Gamberi killer” “sgusciati dall’oriente”,
metafora della omologazione di un mondo globalizzato, “a divorare i nostri”.Da qui
il ricorso amorevole all’enumerata nominazione, che nella pronuncia cancella la
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distanza e restituisce i luoghi: “Albereto / albero, Busseto / bossi, Noceto / noci,
Saliceto / salici Canneto / canne”, ecc., ad esempio nella poesia “I nomi”, dove i toponimi, come gli agglomerati urbani, sono ricondotti al loro nesso naturale. In una silloge precedente “E serbi il sasso un nome”, per un richiamo necessario a comprenderne
l’itinerario di ricerca, la Rainieri aveva reso omaggio alla madre morta, che diviene la
Madre-Terra.Contemporaneo a “La Bassa” è poi un testo, “Badante sissignora” che,
complice la sensibilità sociale dell’autrice, è stato per lo più valutato nel risvolto sociologico. Si tratta di un romanzo, dove l’io narrante, fattosi personaggio, si confronta con
l’umanità di quelle figure provenienti in larga parte dai paesi dell’Est, che ripetono nello
sradicamento le vicende della nostra civiltà contadina. Con un’attenzione, sempre rivolta al presente, torna il passato, ma ancora si smentisce ogni proposito di operazione
nostalgia. Resta prima e ultima la questione della lingua, per la quale a taluno sarebbe
parsa più confacente la scelta del dialetto, considerata la materia e le numerose prove
fornite dalla Rainieri, problema non secondario in tempi di fervida neodialettalità poetica. Ma scontato l’ovvio rilievo che ogni poesia prevede un idioletto e che lingua e dialetto hanno, pertanto, pari dignità, a convincere per la prima deve essere stata la garanzia di un più ampio raggio di comunicazione, per testimoniare uomini e luoghi già così
“naturalmente votati all’oblio”. Una lingua tuttavia dal dissimulato sostrato dialettale,
per un’ulteriore adesione a una terra.
Mario Melis
Gemma Forti, Il pollice smaltato(Poesie 2007 -2012) Fermenti Editrice,
Roma 2013
Gemma Forti, poetessa e scrittrice, vive a Roma dove è nata; ha pubblicato numerose raccolte di poesia e romanzi. Il pollice smaltato, che presenta un’introduzione di
Gualtiero De Santi e che è illustrato da immagini policrome di Bruno Conte è un testo
scandito in sei sezioni: When, A mezzanotte, La teoria dei quel, Mala tempora, Down
e Sera obliqua. Nel suo complesso il libro è bene articolato architettonicamente.
L’opera presenta un carattere del tutto antilirico e antielegiaco, inquadrandosi, nell’ambito della poesia italiana contemporanea, in un ambito che potrebbe essere quello della poesia civile, anche se non mancano, in qualche componimento, subitanee
accensioni liriche, che presentano anche un carattere giocoso. Infatti, come scrive il
prefatore, quella della poeta è una scrittura…che vuol investire e anzi aggredire il presente. Sono molte le tematiche affrontate, che si collegano, soprattutto, alla sfera delle
problematiche del campo politico, di quello economico e di quello sociale, avendo
per oggetto anche aspetti deteriori della società contemporanea, tra i quali la corruzione e la violenza e anche il tema ecologico, come in La monnezza sale, poesia che
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si inserisce nella sezione Mala tempora. Molte sono i testi in cui è detta l’Italia, con
tutte le sue contraddizioni. Il genere di poesia praticato potrebbe essere vagamente
considerato come visuale, per il modo in cui i sintagmi sono disposti sulla pagina; i
versi presentano grandezze dei caratteri eterogenee e alcuni di essi sono delineati in
corsivo o in neretto. Spesso la poeta gioca con le parole e, non a caso, De Santi, nell’introduzione, parla di un neo cubofuturismo, italiano e femminile/ista e afferma che
la scrittura, in questo libro, ha scomposto la realtà e i suoi falsi segni. Si constata, nell’opera una quasi totale assenza di punteggiatura e tutte le composizioni presentano
la forma centrata sulla pagina, che dà un tono di vaghezza ai componimenti e, anche
per questo, la poetica della Forti si potrebbe considerare come sperimentale, per le
scelte e le tecniche utilizzate. Le strofe sono irregolari nella loro estensione e, a volte,
si assiste ad una ripetizione dei sintagmi, che crea ridondanza. Nel contesto complessivo emergono anche spunti naturalistici trasfigurati ed idilliaci e lo stile è molto elegante e curato. I versi sono luminosi e icastici e, senza ombra di dubbio, si può constatare che una grande originalità caratterizza questa scrittura.
Raffaele Piazza
L’UOMO A QUANTI
Fisica e Storia, Arte e Destino – atroce o fulgido –
nel “quantismo” lirico di Mario Lucrezio Reali
Tradotte da Irene Marchegiani e prefate da Paolo Lagazzi, queste poesie di Mario
Lucrezio Reali che giungono dalla nostra vecchia Europa sino alla costa atlantica, e
da lì a tutti gli States, col loro estro profondo e la briosa necessità del loro lirico antidoto contro la deriva stessa del reale (e della Storia), sono una sorpresa davvero lieta,
un appuntamento, un rendez-vous magnanimo e garbato che come sempre il
Sentimento dà all’Intelligenza… “Siamo essenze ambigue / Abbiamo radici e ali /
Seguimmo sogni mostruosi / Infine tornammo mortali”. Poeta per sua e nostra fortuna totalmente sui generis, nel panorama poco più che asfittico dell’attuale nuova poesia – che modaiola vuol essere ma si sente assolutamente moderna – Reali, toscano
di Valdichiana che ha girato il mondo e si vanta cittadino europeo, è un chimico provetto e alto dirigente di quei colossi multinazionali del settore energia che, al contempo, ci salvano e ci spaventano… È insomma un umanista di forte tempra e stampo
scientista (metà bruniano, passionato e alchemico, metà galileiano, cioè a dire lucido e metodico?…), che giunge sì alla poesia ma né per vezzo né per digressioni (epocali o generazionali, fa lo stesso): “Ogni mattino cupo di letto / salgo sulla bilancia
della / realtà Affido ogni malfatta / all’intelletto Vesto un giubbotto / d’ironia ed esco
altro sulla via / Rido distratto portando / in ogni evento irrealtà”. Ha ragione Lagazzi,
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suffragandolo e postillandolo da par suo, a scomodare e rivendicare anche per l’orizzonte ultimo della nostra malcerta poesia, e soprattutto per quella di Mario Lucrezio,
il cosiddetto principio d’indeterminazione di Heisenberg (secondocui non è possibile effettuare la misura delle grandezze fisiche senza alterare lo stato del fenomeno
misurato…): “Anche nella poesia di Reali è impossibile isolare dei nuclei stabili di
senso, afferrare le parole al volo e spremerne la sostanza: tutto si muove, ogni forma
balena e scompare, ogni immagine ondeggia, ogni pensiero scivola su chine sdrucciolevoli”… E in questo senso è forse proprio “L’uomo a quanti” la sua vera scommessa lirica e ben rara professione di poetica! La riportiamo per intero, come a ringraziarlo d’essere ancora riuscito (e non è cosa facile) a far ragionare la poesia con le sacrosante ragioni del cuore, e a redimere verso a verso il cuore, incredibile dictu, con le
virtù più sane e riposte, le smerigliate o infrante geometrie, i frattali misterici come
un pulviscolo divino, insomma i logaritmi segreti e certo inconfessati della nostra
nuda mente, profonda e sprofondata di chiarità: “Ho scoperto a Mosca una sera /
azzurrata dal fuoco delle nevi / la vita a intermittenze Quando / l’abete oscilla lieve il
silenzio / alle finestre e un passante alterna / la luna Dell’umana ventura nel / banale
variato ho trovato / certezza Essere ad onde / oggi matrice oggi una sillaba sola / Sono
uomo a quanti / che a luce aperta vanta la sintesi / smarrita all’universo”.
Plinio Perilli
Mario Lucrezio Reali, A Tired Angel (Selected Poems), Stony Brook New York, Gradiva Publications 2011
“N°… (funzionario tartaro) – Dio che non esisti / io ti cerco / E voi che credete
/ trovate un dio che vada / nella foresta di Sandormoch / a consolare i morti /
Troverete anche me che mi aggiro / leggero tra gli alberi / senza toccare le loro mani
/ abbracciato al buio”… Questo splendido libro di dolore e lacerazione, questa rosa
insanguinata nel cimitero più negletto della Storia, meriterebbe ben più che una breve
nota. Valga però intanto questa pausa, insieme recensoria e monitoria, a dar conto del
fervore di pietas con cui Reali (poeta di cui da anni apprezziamo il talento, e la scelta etica della scrittura, dal Tramonto in Europa a L’anima corrotta o L’uomo a quanti) rievoca a mo’ di nuova – ben più atroce – Spoon River, la maledizione staliniana
dei Gulag e dunque queste sfinite, sfiatate Elegie del terrore che egli attribuisce alle
ossa, alle grida o ai silenzi ancora in tormento di quelle povere vittime, martirizzate
a milioni: “I fatti del libro sono autentici, da me annotati durante alcuni decenni in
Unione Sovietica e poi in Russia interrogando persone che con immenso pudore e
dolore hanno testimoniato quella tragedia. Ho cercato di addolcire la parola per quanto il racconto del Male me lo abbia permesso.” Mario Lucrezio dedica questo libro
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“al martoriato popolo russo”, e alla memoria di sua moglie Natalia Nikolaevna
Verderevskaia, che sempre lo esortò a scrivere questi versi, come a salvarne quelle
tante, povere anime riflesse, in un’aura di redenzione umbratile e assoluta, capace di
onorare questa memoria rimossa, negletta, calpestata – ma ora almeno ripensata,
rimeritata come cenere dispersa al vento, dannata al gelo del silenzio, che in questi
versi almeno trova ricetto: una zolla, una pausa, radice di luce, goccia o pioggia di
parole, l’epicedio dei nomi, già pulsanti, vitali, e secchi ora come intrico di vene,
crepe svuotate del grande Corpo in travaglio della Storia, fecondato e sfinito di Vita,
per morte cadenzata, ininterrotta.
Plinio Perilli
Roberto Pagan, Robe de no creder, Edizioni Cofine Roma 2013
Una prova di grande impegno questa Robe de no creder di Roberto Pagan, potente
periscopio dentro un dotto intercalare sulle abitudini di un recente passato rimasto alla
gola di Pagan e recuperato con questi versi variopinti in dialetto triestino. Leggere i
versi di questo immaginifico teatro di figuranti, quanto meno esistiti e nutriti dalla fantasia del poeta, rappresentano lo spoglio di un dinamico lungometraggio girato nelle
aree non solo triestine ma in tutte le latitudine del globo terracqueo. C’entra la storia,
buffa e surreale, c’entra a maggior ragione la partita giocata da Pagan dentro una dissolvente, aurorale centralità di episodi turgidi che fanno epoca nel glossario fiammeggiante del poeta. Si nota una concentrazione teatrale, mossa qua e là, da uno straordinario direttore d’orchestra. Sì, un’opera riversata nei versi, senza nascondimenti, creata
per squadernare gli “assetti marmorei” di un sociale che si ripresenta come un valzer
impazzito di forme biffate in un’ironia voluta. Un libro di sostanza scritto da un inguaribile “disturbatore” della quiete, del passatismo mummificato secolo per secolo; questi versi (e non sono neanche i primi, con traduzione a fronte) rappresentano un piano
di lavoro diagnostico e linguistico creati per legittima difesa e/o sedotti da una concretezza realistica; qui vige una duplice sostanza: la realtà destrutturata e scardinante dal
riscatto di un “re nudo” molle metafora di Robe de no creder oppure qui si vive assaltando pensieri e fantasie che hanno significanti ad oltranza mai statici o riflettenti. Una
prova onerosa, subitanea come “le vedove di guerra / dei pipistrelli di Strauss e dei violini” invenzioni poetiche rutilanti e infiorate di humour.
Antonio Coppola
Angela Giannelli, La via della sete/a (parte II) Giulinao Landolfi editore,
Borgomanero (NO) 2013
Angela Giannelli fa tutto un discorso ermeneutico sulla parola con dotta caparbietà. Dice di amare le narrazioni “cosmogoniche” e le scoperte scientifiche. Tutto
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
giusto per lo spirito e per fortificare la parola; in questa Via della sete/a in nome
dell’Eros e dell’amore in generale si costruisce il “fatto poetico” che viaggia quasi
sospeso, tra un tempo ritrovato e un amore pure ritrovato, fuggevole, stremato.
Giannelli aziona una capacità rafforzativa del verso e lo manipola, lo invera, lo riversa in un fiato lungo, nel solco di una parossistica ricerca. “…Eterni quasi quanto il
tempo / ora che un intero cargo di memorie / nelle nostra anime dimora…”: questo
flusso vorace di parole giunge stremato ad ogni bivio, quale storia la Giannelli può
raccontare se no dell’Universo che si muove, che la parola vince ogni ritrosia, ogni
svelamento? Se la poesia s’invischia in questa rete rimane poco di essa, ogni forza
(anche la più titanica) si scioglie in una declamante, ossessiva “Terza via”. Si perpetua un inganno ed ecco affiorare prepotente in ogni pagina il mistero, la riprova di un
universo mutato che neppure la poesia può accogliere i suoi resti.
Antonio Coppola
Carlo Cipparrone, Il poeta è un clandestino, Di Felice Edizioni, Teramo 2013
Scrivere è un atto di pace o di guerra, / d’amore o d’odio?.. la penna è un bisturi, un coltello, / una pistola rivolta verso gli altri / o da accostare alla propria tempia, / anche se manca il coraggio di premere il grilletto. È un’arma sottile / al servizio del bene e del male: lama affilata di rasoio / che ogni mattina fa la barba al
mondo. Con questa pungente dichiarazione di poetica Cipparrone ci offre nella sua
ultima raccolta poetica lo stato dell’arte suo e del sentimento di crisi del pianeta poetico contemporaneo, a cui guarda con occhio di clandestino, spietato e talora epigrammatico, quasi nuovo Giovenale, di chi vuole opporsi alla pedanteria di quanti hanno
ucciso il significato, amano la pagina esangue, la frase, zeppa d’oscure metafore. La
strategia d’attacco è chiara. All’unisono, verso dopo verso, polemica e costruttiva vis
di una sagace opposizione si palesano in impietosi diari di bordo di convegni ed eventi dedicati alla critica poetica. Qui il poetichese del cotè accademico è posto con
coraggio alla berlina in opposizione al fare del poeta che non va in cerca d’editori,
non vende, né esporta versi. Diverte ed inquieta la rabies satirica di descrizione di un
convegno. Il poeta lo vede come un simposio trionfante di -ismi logorroici, dove conventicole di leziosi filologi e critici, anche di chiara fama, sono visti come cerimoniosi becchini della Poesia. Il poeta è un clandestino dunque un borderline disilluso e selvatico ai più che tuttavia scrive sperando che la semplicità torni ad essere stile, auspicando che dove oggi un poeta annemico e servile sparge delebile inchiostro di menzogne / vi sarà domani un ragazzo / innamorato della verità. La corrosiva pars
destruens di questa indagine in versi conduce però il nostro alla convinzione forte che
scrivere è opporsi, che per lui scrivere è dar voce a pensieri, visioni, sogni lontane
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memorie, insomma all’arsenale di emozioni che attraverso le parole paion dare barlumi di sole, parole, spesso però infeconde, a giorni grigi, tetri o sereni. Scrivo
dimenticandomene, senz’attesa, né speranza di messi, dice di se stesso il poeta che
sigla qui e altrove la propria distanza dal circo mediatico, attua come un poeta antico
la recusatio, denunziando i propri limiti per meglio colpire i vizi del disordine delle
parole del fare poesia oggi diffuso e da molti praticato, verso i quali non risparmia
strali d’invettive, un ‘intera sezione. L’autore cerca così nella sua poesia di stringere
a sè quel bagaglio di senso, di contenuti in armonie di forma, insomma di ritrovare
spunti di quella poesia onesta, di cui parlava già Saba, come compito precipuo del
vero poeta che deve mettere cuore e non solo arte nel suo dire di vita. Toccante il
ricordo di Betocchi, conosciuto in occasione di un suo passaggio in Calabria e fonte
di riflessioni su poeti e poetiche, al maestro fiorentino di poesia, Cipparrone dedica
l’ultima sezione, La comune strada; egli così si sente sodale specie ne l’amaro sconforto e nella delusione del poeta inappagato che, nondimeno, tra cantieri e memorie
s’affina e trae ispirazione, come è avvenuto per tanti.. tecnici animati da vis poetica,
ad esempio i casi di Quasimodo, Gadda, Sinisgalli, Bargellini..
Paolo Carlucci
Stefano De Minico, L’ultima zattera, Bonaccorso editore, Verona 2009
La raccolta di poesie L’ultima zattera introdotta dalla puntuale e sapiente prefazione di Alfredo Bonazzi fa da prodromo all’esordio di un giovane poeta. La silloge
abbraccia un ampio arco di tempo in cui si può notare nel divenire l’evoluzione poetica verso forme più mature di pensiero. Nelle prime poesie giovanili si evidenziano
in nuce quelli che saranno i temi negli anni successivi. Emerge nei suoi primi passi
poetici un compiaciuto crogiolarsi dell’io lirico in una sorta di poesia chiusa nella
vicenda autobiografica dove giunge l’eco di uno sturm und drang di spirito foscoliano e una patetica visione lucreziana e leopardiana del mondo. Tutta la poesia di
Stefano De Minico è pervasa da una linfa inquieta: Questa vita è come il vento Che
spira tra le mie mani e la sua anima sbanda in ogni spigolo irrisolto della ragione. Il
poeta rovista in se stesso, si ausculta, rivendica un ruolo orfico della poesia e cerca di
dare una risposta a tutti i dubbi, i perché, le ansie che assillano il suo animo. È una
lirica che nella rappresentazione del conflitto interiore tra l’io psichico e la realtà
tende a sottrarsi al grigiore della vita, prigione che tarpa le ali alla speranza, con la
forza estrema di lottare nel mare tempestoso per sottrarsi al naufragio. L’incalzare
ricorrente di temi sulla inquieta e dura esistenza rivelano una forte ansia di evasione;
nella plaquette vi è una densa rete di contenuti, di figure, di interrogativi e riflessioni
che denotano una scrittura ricca di impegno e di intensità tesa all’introspezione e
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all’analisi di sé. I sentimenti che animano la lirica: la malinconia, lo stupore, il senso
di solitudine, il pensiero dell’oltre: Penso alla vita dopo di questa, sono la cifra dei
suoi versi che illuminano con squarci di luce la mente e il cuore. Un aspetto certamente non secondario nella poesia di Stefano De Minico è l’Eros che canta in diversi componimenti. È un eros che non stimola vertigini da Cantico dei cantici, a volte
squassa l’animo come vento impetuoso altre volte domina una sottile tenerezza : Il
mio desiderio si fa tutt’uno con la parola e stringe a sé un tenero cuore che chiede
ancora di poterti abbracciare (A Chiara). Il volumetto alterna offerte in versi, per la
maggior parte, e in prosa. L’autore segue una lunga tradizione da Baudelaire ad oggi
e in entrambi i casi non viene meno la vena poetica. Questa silloge mostra maturità
di pensiero e profondità di sentimento che il poeta esprime con un linguaggio talora
ricercato ma sempre incisivo e moderno volto ad uscire dal guscio dell’essere e a
ritrovare se stesso attraverso la poesia.
Francesco Dell’Apa
Nino Piccione, L’odore della tonaca, Bibliotheca Edizioni - Città del
Sole, Reggio Calabria 2012
Kierkegaard nelle sue opere parla delle varie possibilità dell’esistenza e delle scelte che può fare l’uomo, oltre quella “per cui vivere e morire”. Nella scelta dell’esistenza religiosa l’uomo etico può vivere in modo “dialettico” o secondo regole morali stabilite. Questa premessa sul filosofo danese per introdurre l’originale romanzo
dello scrittore giornalista Nino Piccione “L’odore della tonaca”, con prefazione di
Dante Maffia. Più che un romanzo religioso, è la storia di vita e la formazione del protagonista narrante – un sacerdote - che contiene un universo di valori profondi e un
percorso di spiritualità attraverso il mondo che è stato e che ci aspetta. Un inventario
degli ultimi decenni di esperienze, sofferenze e solitudini, una sorta epopea di
un’umanità spesso straziata dalla vita, senza mai perdere la fiducia in Dio e nel trascendente. È la storia, narrata in prima persona, di un sacerdote (del quale l’autore
non svela il nome, come se si spogliasse di un “io” ingombrante per indossare solo
una tonaca e potersi meglio identificare in ognuno di “noi”) colto, erudito, divoratore di libri e di conoscenza mai fine a sé stessa bensì in funzione della fede e della
ricerca della verità, in attesa del suo dies natalis, che per i cristiani è il giorno della
morte. Attraverso un caleidoscopio di ricordi ripercorre la sua vita, dalla cruda e violenta realtà contadina di un’infanzia vissuta in campagna, all’angoscia dei bombardamenti e degli orrori della seconda guerra mondiale, alle memorie di guerra tracciate
nel diario del padre durante la sua prigionia al tempo della Grande guerra, alla perdita dei genitori. Dagli esercizi spirituali all’apprendistato e alla pratica sacerdotale,
dall’Azione Cattolica, alla tesi di dottorato e all’insegnamento ai giovani, ma soprat-
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tutto è la storia di un uomo e di tutte le spesso tragiche vicissitudini umane. L’autore
gestisce sapientemente il protagonista, i suoi stati d’animo, i suoi tormenti, gli incontri con chi lascerà un segno indelebile nella sua memoria (“..ci sono incontri che
entrano nell’anima…diventano squarci di vita”). L’abilità stilistica e narrativa dell’autore consiste nel muoversi a suo agio all’interno di un vasto assortimento di scrittori,
santi, teologi, filosofi greci, citazioni latine ed evangeliche, senza per questo far calare
l’attenzione del lettore sul destino del sacerdote che si intreccia a quello delle sue stesse vicende familiari e delle tante disgraziate anime presenti nel suo percorso. Riesce
così a coniugare il messaggio evangelico ad uno spaccato storico e sociale lontano da
qualsiasi tipo di paternalismo bigotto e moralistico. Newman e Sant’Agostino, suoi
padri spirituali, suoi compagni di via e di vita, insieme a tanti altri, Seneca, Empedocle,
Giobbe, Sant’Ambrogio, San Tommaso, Dante, Pascal, Dostoevskij lo guidano e lo
incoraggiano nei momenti di offuscamento e di incertezza; ad affrontare e giustificare
il dolore e la morte (come nel dialogo col professore che afferma: “Vedo il dolore, ma
soprattutto la morte, come il compimento e la ragione dell’avventura dell’uomo sulla
terra..”), il richiamo dei sensi e la mortificazione della carne, a comprendere il significato della croce e del Cristo che ha cambiato la storia dell’umanità, ma anche a spiegare
l’armonia tra fede e ragione. Ci sono dei momenti di forte lirismo nel romanzo
(“Abbiamo bisogno di isole di silenzio dentro e attorno a noi..”, “Ho sempre pensato che
ciascuno di noi è un’isola dalla rapida apparizione…sbriciolata dalle mareggiate”) che si
alternano a considerazioni teoretico-teologiche esemplari di un incessante e crescente
spinta escatologica del protagonista: “La preghiera è un discorso con le cose invisibili,
cioè con il mistero... ”; “Il problema del male resta un osso duro…anche se spesso è
attraverso la sofferenza che l’uomo entra nella dimensione spirituale della
vita…”.Questo libro ha rappresentato certamente una necessità emotiva, oltre che narrativa, per Nino Piccione per descrivere la moltitudine di esseri umani immersi nel loro calvario quotidiano, per giungere a quel senso di eternità e infinitezza a cui tutti sono destinati, stelle che brillano in un cielo di speranza.
Monica Martinelli
Mariacristina Pianta, Ardesie e seracchi, Mimesis (Milano-Udine) 2013
Mariacristina Pianta, redattrice della rivista “Il Monte Analogo”, è nota sulla scena milanese per il suo impegno a vasto raggio nel dialogo tra le varie arti, anche tramite il marito
Emilio Palaz, insegnante presso l’Accademia e pittore ben affermato. In particolare si è
fatta promotrice del ricupero di una figura insolita come Maria Cumani Quasimodo, moglie
del poeta, danzatrice e poetessa, curandone l’opera assieme ad Alessandro Quasimodo (si
vedano O forse tutto non è stato, del 2003 e Il fuoco tra le dita, del 2011).
In un suo autonomo percorso poetico ha pubblicato a tutt’oggi otto raccolte di versi.
Tutte nel segno di un’assorta introspezione che muove però da un’indagine attenta e
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sottile dei dati della realtà naturale ed umana. Al limite – si direbbe – di quell’arduo
discrimine che separa i moti psicologici ed emotivi, insomma quanto attiene a ciò che
chiamiamo coscienza, dal nostro coinvolgimento organico nel flusso dell’esistente.
Una sensibilità dunque assai mobile e inquieta porta la nostra autrice a inseguire le
labili forme fenomeniche con una scrittura che fa della concentrazione e della sobrietà di parole il suo punto di forza. Tutta tesa a fermare sulla carta l’attimo transeunte
e volubile dell’accadere, aduna sulla pagina immagini e impressioni quasi allo stato
nascente con una immediatezza di sillabe lasciate a vibrare nel loro puro valore evocativo: astenendosi da ogni tentazione di abbellimento retorico, metaforico o ritmico,
e lontana da ogni espediente virtuosistico o sperimentalismo verbale. Ne vengono
testi scarni, paghi di una evocazione asciutta di cose ed oggetti, visioni o ricordi, spesso raccolti in esili strofe dove una rarefatta dizione induce piuttosto alla ricerca di
risonanze segrete capaci di aprirci un varco nel perenne mutare e contraddirsi delle
impalpabili apparenze in cui siamo immersi. Così ancora in quest’ultima silloge dal
titolo in fondo enigmatico, Ardesie e seracchi: che suggerisce, fin dalla dimensione
elementare della materia – la nera porosità della pietra, la lucentezza cangiante del
ghiaccio – quasi una impossibile endiadi, una separatezza, una mancanza di nessi. In
fondo, è l’inquieto riproporsi della frustrante ricerca di un senso, di un legame che
metta in contatto le cose nel tempo e il nostro pensiero con la sfuggente metamorfosi a cui nulla sembra sottrarsi. Ecco allora una meta (La meta, p.13) che appena s’intravede tra aspri sterpi, ma subito la nebbia sembra inghiottirla, e il sentiero è ormai
vago ricordo, si smarriscono le voci, e tace ogni risposta. A un segnale positivo sembra immediatamente contrapporsi una contrarietà. In Intreccio, a p. 14, s’intrecciano
lente / tracce d’azzurro / alla lunga corsa / del tempo: troppo lente, dunque, per compensare la lunghezza del tempo? E, subito dopo, se un fiume scorre limpido lungo la
riva, è vero poi che deve aprirsi un varco tra cupe forre. Analogo segno di contraddizione nella pagina seguente (Fragili sponde, p.15), dove limpide acque scorrono sì,
ma tra fragili sponde che si sfaldano…tra cumuli di terre rosse. E allora questi aggettivi nudi, essenziali, cui ci affidiamo così spesso nelle nostre valutazioni – lento,
breve, lungo – appaiono irrilevanti in un fluire che non ha misure. E la strofetta conclusiva di I giochi del cielo (p. 17) ammette infatti desolata: Ti trovi a misurare / lunghe distanze, senza / più abbracciare il vento / smarrito per via. Persino il vento dunque si smarrisce per via. Lo spaesamento si rinnova dinanzi all’apparizione fugace
della Locomotiva (p.18), soggetto tipico di tanto impressionismo, ma noi pensiamo
anche allo straordinario Turner: il fumo bianco dietro la curva, l’acuto richiamo che
si spegne tra l’ampia valle / e il ripido greto…Che relazione hanno questi dati di natura a noi così familiari con la mostruosa corsa della macchina di ferro? Altrettanto
assurda ci appare la scenetta di caserma (La caserma, p.19) – un impiegato che cita
versi latini a ogni sigaretta, un capitano che disperde inutili ordini tra polvere e regi-
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stri –: essa rivela la sua insanabile eccentricità se accostata, come fanno qui bruscamente i versi conclusivi, alla vita della natura: un volo basso / di fagiani colorava /
l’ampia baraggia. Non di rado queste paginette parsimoniose di parole, così spaziate tra margini bianchi, possono indurre l’impressione di quel tanto di metafisico che
aleggia sulla sazia immobilità di certi haiku di tradizione orientale. Ma lì la fissità
discende dalla composta saggezza dello spirito zen. Qui abbiamo piuttosto la sottile
ansia della frustrazione in agguato: qualcosa di molto occidentale. Non ancora, nella
pacatezza contemplativa di Mariacristina Pianta, una condizione drammatica; ma,
appunto, l’irrisolto “disagio della civiltà”.
Roberto Pagan
Marzia Spinelli, Nelle tue stanze, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2012
Il rapporto tra poesia e dolore è intessuto a doppio filo, come quello tra la poesia e
la perdita, a cui consegue necessariamente dolore. Se poi la perdita è quella della propria madre - che rappresenta la Perdita, il distacco da quel cordone ombelicale che ci
ha donato la vita - il dolore è ancora più grande, ed è un dolore unico, particolare, che
ci accomuna tutti: “A dimenticare la voce / ci vogliono anni, mi dicono. / Parlano
come sapessero / tutto dei morti. Hanno pena sincera di me,/straniera approdata. /
Stesso dolore, stesso cuore pesto..” “Nelle tue stanze”, seconda opera di Marzia
Spinelli dopo la silloge poetica “Fare e disfare” (2009), è un libro dedicato alla madre
a seguito della sua scomparsa pubblicato dall’editore romano Progetto Cultura nella
collana di poesie “Le Gemme” curata da Cinzia Marulli, con una preziosa introduzione di Alberto Toni. In questi versi è possibile specchiarsi e riconoscersi per riflettere
non solo sul senso della morte, delle emozioni generate e sull'elaborazione del lutto,
ma anche sul concetto dell'inesorabilità del tempo che la poesia riesce a fermare e a
rendere perennemente presente e vivido proprio attraverso la memoria: “L’amo della
memoria / è una corda pendula, il gancio / su un’attesa da riempire..”. Il gancio dei
ricordi appeso all’anima. Ecco altri versi ricchi di metafore sulla vita e sull’oltre, sulla
frantumazione del tempo e dei ricordi che, come le foglie, si insinuano quasi a non
volerci lasciare mentre altri, ancora troppo freschi, troppo leggeri, si alzano in volo e
ci abbandonano senza traccia: “Le foglie rosse nella tua stanza, / inutile raccolta,
insostenibile il vuoto / affacciato su questo nulla…le più frantumate s’insinuano negli
angoli / del parquet divelto, / non avvertono, non lasciano traccia / le più leggere che
volano via.”La sensitività, che è al tempo stesso sensibilità, emotiva dell’autrice è un
asse portante nella sua poetica. L’empatia percorre il libro, e se da un lato la scrittura diventa un’operazione catartica per l’autrice, una modalità per lenire la sofferenza
e magari anche il senso di colpa che una figlia fragile può provare dopo la scomparsa di un genitore pensando di aver “mancato” in affetto, in premure o comunque in
qualcosa, dall’altro rappresenta un soccorso alla vita di chi resta, di chi legge e di chi
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prova lo “stesso dolore”, un compatire insieme, generando un mosaico di altre possibili o reali madri e figlie che si sovrappongono all’immagine di sé e di sua madre,
come nella poesia ‘Negozio di pietre’: “Tace il pianto / sigillato tra le pietre / dove la
figlia padrona fuma e vende quarzi, / dice buongiorno come te / la madre quando arriva”. Effetti della nostalgia…Illustri e noti poeti hanno dedicato poesie alla propria
madre, tra cui Pasolini nella “Supplica alla madre” (citata in esergo), Alberto
Bevilacqua in “Poesie alla madre”, ma quella che più mi sovviene leggendo i testi del
libro di Marzia è la “Lettera alla madre” di Quasimodo: “Ah, gentile morte, / non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro / tutta la mia infanzia è passata sullo
smalto / del suo quadrante, su quei fiori dipinti: / non toccare le mani, il cuore dei vecchi.” Così anche la nostra poetessa parla di un orologio: “Se è il giorno o la notte fa
lo stesso, / l’autunno di adesso m’ha fermata / alla tua ultima estate / fisso a quel nulla
il tuo orologio / continua a chiedermi che ora è”, e quell’orologio non è solo una
misura del tempo e dell’affetto filiale, ma di tutte le cose.Questo libro non è un diario autobiografico e lamentevole, ma la descrizione della verità della realtà e del dolore. Lo stile è chiaro, pacato ma evocativo, mai eccessivo o forzato, non ci sono sbavature, ogni verso è al giusto posto. Una struttura liricamente ritmica e solida, versi
asciutti, limpidi e densi: “Chiuse come urna nella tua stanza / le nostre verità, coltivavano tutte / spighe di grano, ciliegie che divoravi, / tra rami secchi d’ulivo benedetto, / e fiori, / di quelli almeno non ho mancato”. E un congedo dolcissimo e struggente lascia l’amarezza del ricordo, l’ultimo: “L’ultima stanza é l’ultimo giorno, / il più
lungo, poi ti portano via”.
Monica Martinelli
Lucia Occhipinti, Verso la luce, Edizioni Lo Faro Roma
Per una strana coincidenza d’amicizie sono venuta in possesso del libro di poesie
della poetessa Lucia Occhipinti. Devo dire che, con altrettanta sorpresa, ho trovato la
bella presentazione al libro di Antonio Coppola. Ho letto con molto interesse le liriche che rispecchiano un animo gentile e sensibile al servizio della Poesia. La Nostra
si accosta al verso in punta di piedi, con una capacità descrittiva forgiata dagli impulsi del cuore. Sono liriche ricche di sentimenti nobili: l’amore, l’amicizia, il rispetto
per tutto ciò che la circonda. Il verso è libero ma Lucia ci fa anche dono di una sua
lirica in perfetto endecasillabo che ci tengo a riportare: “Solo una fonte d’acqua cristallina / raminga come me, di tanto in tanto / con voce dolce mi sussurra “Vieni / a
spegner la tua sete, a non morire. Se qualche volta a te mi trovo accanto / ed al tuo
sguardo chiedo una carezza / sappi che vivo solo di questo istante / di questo poco di
tenerezza”. Poesia crepuscolare, elegiaca, di grande valore semantico.
Carla Zancanaro
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Pistoia Giovanni (a cura di), La letteratura per l’infanzia e la figura di
Carmine De Luca, Atti del Convegno, editi dalla Fondazione De Luca di
Corigliano Calabro (CS), 2004
A volte, passeggiando sulle strade insolite della cultura, si fanno degli incontri
eccezionali, preziosi e significativi, che fanno entrare profondamente in contatto con
l’umanità e l’innocenza di uomini e temi, che albergano esclusivamente i luoghi dell’anima, per come espresso e portato avanti dagli amanti e artisti della poesia e della
letteratura per l’infanzia. Una letteratura che ha dovuto e continua a dover molto faticare per vedersi riconosciuti i propri autonomi spazi d’espressione, e poter entrare a
pieno titolo nell’ufficialità della critica e della storia letteraria, sottraendosi all’influenza negativa di una certa stampa di tendenza, che vorrebbe fare e della letteratura per l’infanzia e della poesia, generi subalterni e con visibilità zero, comunque, mai
di primo piano. Grazie alla dedizione e all’amorevole lavoro di studiosi del calibro di
Carmine De Luca, calabrese di nascita e romano di adozione, la storia culturale ci
dice invece che il genere letterario dedicato all’infanzia, prima fra tutti la fiaba, il racconto popolare e la poetica esistenziale, hanno potuto imporsi e acquisire un proprio
spazio di genuina espressione educativa e culturale. Nato a Corigliano Calabro (CS),
Carmine De Luca, come tanti altri calabresi emigrati per necessità di lavoro in Italia
e all’Estero, si è fatto apprezzare, attraverso il lavoro della sua mente creativa e per
l’originalità letteraria e giornalistica, da studiosi e docenti universitari di primo piano,
come Tullio De Mauro, Pino Boero, Franco Frabboni, Ermanno Detti e tanti altri.
Riguardo al fortunato volume dedicato a La letteratura per l’infanzia, che ha come
primario artefice De Luca e scritto in collaborazione con P. Boero (Editori Laterza,
Bari-Roma,1995),“non è necessario essere critici letterari o psicologi per mettersi in
sintonia con l’immaginario dei bambini”, dice nell’intervento del convegno Mario Di
Rienzo, e poi continua “per far uscire la letteratura per l’infanzia dal suo stato di
minorità, non c’è che una strada da battere: affidarla allo studioso di
letteratura”(pg.87). La letteratura per l’infanzia, è questo il messaggio che mi preme
passare e sul quale insisto, ha una sua autonomia di spirito e di svolgimento, con
caratteristiche di genere letterario a sé stante, come d’altronde anche la poesia, ed è
giusto che insieme percorrano la loro magica strada, di inedito sentiero evolutivo,
potendo raccogliere il frutto educativo antropologico di un divenire umano che nell’infanzia trova molte giustificazioni primarie, proprio in quell’immaginario visionario che il bambino custodisce come atto di fiducia verso l’adulto a lui prossimo, e per
un mondo futuro, auguriamocelo, capace di portarne avanti i valori e svilupparne le
trame esistenziali, in piena libertà di linguaggio e con metodologie e strumenti propri
e specifici del suo genere.
Pasquale Montalto
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Lucia Montauro, L’insonnia della psiche, Genesi Editrice, Torino 2014
Senza pubblico fervore, ma persistente e priva di sofismi, Lucia Montauro pubblica, dopo “Le costole del sonno”(2007) e “L’ebbrezza transitoria” (2011)
(Laboratorio delle Arti, Milano), L’insonnia della psiche adottate in ogni suo verso,
che in effetti trasmette interrogativi, identità individuali, quasi in un soliloquio stilistico tanto vicino al “poema”, e dando continuità alla propria ricerca culturale, oscillante e, qua e là, etica della sua poetica acre, disposta a farsi aspetto di una visione
personale e morsa del respiro. Le soluzioni, mai sconnesse, fondano repliche consecutive e ormai l’inconscio motiva le pratiche notturne e diurne dei suoi conflitti legati a tale sensibile performance espressiva, direttamente adibita a più costellazioni
emozionali, locus di un sottosuolo in cui l’ombra avverte i destini di sè stessa e quelli del mondo, per più effetti e misure a recitativi affatto sgualciti o soltanto soggettivi. Ed ecco un primo azzardo di codesto genere di spiritualità per ridarsi vita in ciò
che si dissolve dei collettivi desideri e volontà: “Nelle notti d’estate / cercavo e ancora cerco / stelle inesplorate / ma l’affanno continua / a possedermi. / So che le mutazioni / accompagnano la vita / con ombre da sconfiggere / e vaghe percezioni di saggezza. / La pioggia si rigenera / in fiocchi, piume e cristalli / di neve / sui fiori che
profumano / di terra”(p.14); o qui, nei dettati della medesima materia: “Nel mistero
del dubbio / minuetti, duetti / concertati dal tempo. / L’illusione genera / elisir di vita:
/ le varianti non cambiano. / A volte la luna / ha gli occhi dell’oblio / che oscura pagine / scritte con l’inchiostro verde / ancora palpitanti di parole // prima di inciampare / sulle pietre dell’altrove.” (p.22). E infatti Lucia Montauro ripropone essenze di
risaputa coerenza immutabile, a esito non incerto: “Nessuna gioia / quando l’ombra
si prolunga / annullando sentieri / per pensieri nuovi. / L’erranza è avventura / che i
prescelti vivono / nell’atmosfera universale / niente allegria per l’esilio / degli assenti // l’anima vigile accarezza il cuore. / In questo dove / non resta che accettare / l’amplesso con la sera / senza naufragare.”(p.48). I monoloqui continuano a privilegiare
le funzioni dell’insonnia non astratta, né ironica; la rotta eguale e diseguale dei testi
scarni ed evoluti promuove i desideri, in effetti vitali all’esistenza e alla scrittura
(quanti dicono poco e si ritrovano “travolgenti” per certi recensori!). E intanto questi
sono gli aneliti necessari e intuiti nella morfologia dei disincanti “opacizzati” non dal
pessimismo o dal neo-crepuscolaristico movimento di afflizione, ma da incubi senza
sonno. Questo si svolge in brevità non sospette per via di ritmiche intese, direi disciplinate da un rapporto palpabile diffuso.Lucia Montauro è giunta da Messina a
Milano molti anni or sono. È autrice di otto sillogi affatto trascurabili: premiate, antologizzate, lette dagli amici con un fato assai analogo ai molti scrittori di versi, e in
ogni caso riesplora -per intime confessioni- un’incalzante e sofferta voce, a bagliori
persuasivi, non sospetti di ripieghi al quotidiano, alle narrazioni di cronache cruciali
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e/o corrose.Il suo nitore è anche il merletto di un io che, comunque, non evita ben
dislocate immagini e ideazioni, inerenti alla contemporaneità e al centrale rigore, presenza-assenza tutt’altro che vanesia o nascosta: sua faticosa verità!
Domenico Cara
Paolo Carlucci Strade di versi, editrice L’aura, Roma 2012
Scene di nuove odissee e geografie d’asfalto, sillabe amorose e altre solitudini,
“isole d’umanità spaesata” ed “esuli melodie” si fanno “sussurro dell’universo” nel
“grigio della vita” urbana. Paolo Carlucci, consapevolmente “refrattario alla modernità”, nelle liriche della silloge Strade di versi cerca “la scheggia di luce che resta”
quale contrappunto alla noia della banalità o al “carnevale della flessibilità”, ai “crisantemi dell’etere” o agli “amari bocconi”.Se la vita ferisce e il male incalza, tuttavia
una prospettiva di rinascita si cela “tra i bilancieri delle cose”. Un “peso del silenzio
/ ritrovato / tra tonnellate di voci” misura “pochi grammi / in più / d’Assoluto” e permea “sulla lastra del giorno / l’attimo di luce / il fiore che redime forse”.Queste composizioni non temono, non eccedono, esse osservano gli accadimenti introspettivi e
circostanti tra chiese di periferia e gravezze d’infinito, “tra insegne di negozi / e sale
di videogiochi sempre aperti, / come stelle comete metropolitane di città vuote / dove
solo, pecca il fedele, utente virtuale / anima SKY tra infiniti “spot” esegeti “del silenzio della parola”.Le tante belle poesie di questa raccolta, strutturate in significative
parti dai titoli emblematici, mettono a fuoco il viaggio meditativo riguardo a una sommatoria di esperienze le cui “strade di versi” sono battute da un presente di venti stranieri, d'amore, di “scrigni d’ombra / azzurra d’eterna luce” o “di matrici di speranza
/ nel pianto nero / dei lumini”. Nel senso più ampio, la poesia di Carlucci, a mio avviso, sintetizza la metafora di “un oceano di memorie disperso” in un tempo in cui “le
icone di profeti antichi” si confondono tra le tenebre dell’inconscio o tra i “giochi di
fauni decadenti”, sotto “un cielo di latta”. La forma e lo schema di rime, talora epigrammatiche, donano ulteriore intensità al linguaggio che scandaglia le esperienze e
i riferimenti di un viaggio conoscitivo verso un approdo di senso in una nuova e al
contempo originaria patria. “Un rifugiato extra comunitario / solo le ceneri dalle
ceneri ha salvato / della memoria […] Si chiamava Enea, / fu il primo / il più antico
clandestino, / uno di noi”: dal passato scaturisce “un prossimo lontano futuro”.
Vetuste e attuali geometrie di bellezze o lontananze macchiate di storia “diffondono /
belve gentili a pagamento, / la parabola di prati di luce, / di erba bio agitata dal vento
/ in una specchiera di cielo, / dove le rondini non volano”. Ma anche quando il tono
diventa più aspro, il poeta mantiene una cifra stilistica d’intensa liricità e obiettività
critica. Come un moderno Ulisse, Carlucci interpreta il desiderio ancestrale dell’uomo di trovare un approdo certo alla burrascosa navigazione fra gli allegorici mostri
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quotidiani che popolano “l’atomo opaco del Male”. Prendendo semmai, quale ultima
risorsa d’intrepida ironia, “il telecomando” per salvarsi “zapping facendo”.
Daniela Quieti
Giuliana Lucchini, L’Ombra gestuale L. C. poesia – Roma
L’Ombra gestuale è scandito in tre sezioni: ai bambini di casa (1999), alle signore morte che ritornano e a chi va.I componimenti che compongono il testo potrebbero essere letti vagamente come degli haiku. Nelle poesie si constata una quasi totale
assenza di punteggiatura. Elemento fondante nell’ordine del discorso di Giuliana
Lucchini è quello di un ritmo incalzante, che, tramite musicalità, produce senso. I
versi, tutti brevissimi e costituiti da pochi sintagmi, sono precisi e scattanti. Iniziano
tutti con la lettera minuscola e questo elemento conferisce loro l’aura di un’arcana
provenienza. Tutte le composizioni sono delle terzine irregolari e libere. Ogni poesia
si può considerare un’epifania concentratissima e ogni segmento è senza titolo.
Attraverso la lettura delle tre sezioni, connotate da una forte compattezza, si può
avere l’idea di un genere di poesia che potrebbe essere considerato come un poemetto, per la coesione delle parti e l’andamento calibrato. Ognuna dei tre movimenti de
L’Ombra gestuale è preceduta da un’immagine in nero e in varie tonalità di grigi. Le
suddette figure rendono intriganti la lettura. Le strofe sono disposte asimmetricamente sulla pagina e questo elemento dà l’idea di un gioco di poesia visuale. Si assiste,
attraverso le parole, all’estrinsecarsi di una polifonia d’immagini diversificate tra loro
in una grande varietà espressiva. Si può affermare che ogni testo è disposto sulla pagina come elemento di una partitura musicale asimmetrica. Tutti i componimenti tendono ad una certa linearità dell’incanto, raggiunta attraverso magia e sospensione.
Prevale il carattere di una grande chiarezza, anche se il tessuto linguistico, luminoso
e icastico, è permeato da una forte densità metaforica e sinestesica.Tra i temi affrontati quelli di una natura vegetale e animale, intesa con leggerezza e vaghezza. Molto
spesso vengono dette la corporeità, la fisicità, che si fanno parola. La poetica della
Lucchini, in questo testo che, per la forma si differenzia dagli altri, può essere intesa
in un certo senso come neolirica. Un lavoro originale, un esercizio di conoscenza nel
quale, dall’ombra del non detto, si passa al gesto delle immagini delineate.
Raffaele Piazza
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I Fiori del Male
Libri Ricevuti
Emerico Giachery, Per Montale , aracne editrice, Roma 2013 pp. 134 € 10,00
Roberto Pagan, Robe de no creder, Versi in dialetto triestino, Edizioni
Cofine, Roma 2013 pp.174 € 15,00
Giuseppe Aziz Spadaro, Baccanale privato, Edizioni Studio Tesi Roma
2013 pp.110 € 18,00
Stefano De Minico, L’ultima zattera, Bonaccorso editore, Verona 2013,
pp.94 € 8,00
Carlo Cipparrone, Il poeta è un clandestino, Di Felice Edizioni,
Martinsicuro (TE) pp.118 € 12,00
Nino Piccione, L’odore della tonaca, In coedizione Biblioteca edizioni e
Città del sole, (Roma) e Reggio Calabria, 2012 pp. 167 € 14,00
AA. VV. Antologia del Decennale, I Libri del Pen, Hammerle editori,
Trieste, pp. 200 s.i.p.
Sandro Angelucci, di Rescigno il racconto infinito, Blu di Prussia, Piacenza
2014, pp. 90 €12,00
Robertomaria Siena, Nel cerchio del mito (Flavio Pitocchi, Lorenzo
Romani e Piero Fornai Tevini, Marte editrice 2013 Colonnella (TE) 2013
pp.22 € 10,00
Mariacristina Pianta, Ardesie e seracchi, Mimesis Edizioni (MilanoUdine) 2013 pp.70 € 12,00
Riviste ricevute
Capoverso – Rivista di scritture poetiche n.26 luglio-dicembre 2013 semestrale (CS) Redazione: C. Cipparrone, P. Corbo, F. Dionesalvi e L. Mandoliti.
L’area di Broca, semestrale di letteratura e conoscenza, n. 96-97 luglio 2012
giugno 2013, (FI) direttore responsabile: Mariella Bettarini.
La Vallisa, quadrimestrale di letteratura ed altro, n. 94 aprile 2013 (BA)
direttore responsabile: Daniele Giancane
Calabria Sconosciuta n. 137/138 gennaio -giugno 2013, trimestrale (RC)
direttore responsabile: Carmelina Sicari
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Pier Luigi Berto, è l’autore della 1a di copertina, La Caduta, inchiostro su carta, 2005. Sono
anche suoi la 3a di copertina e le opere all’interno della rivista. Allievo della scultrice russa Lidia
Trenin Franchetti discepola di Despiau frequenta sin da giovanissimo l’atelier di Carlo Levi
sempre a Villa Strohl-Fern. Per un breve ma intenso periodo dipinge nell’atelier di Riccardo
Tommasi Ferroni alla fine degli anni 70. Espone alla “Margherita” di Calzetti a Roma e da
“Cortina” a Milano. Insegna dal 1988 all’Accademia di Belle Arti di Roma. Hanno scritto di lui,
tra gli altri: Berenice, Renzo Bertoni, Dario Micacchi, Jolanda Nigro Covre, Giuseppe Selvaggi,
Vito Apuleo, Costanzo Costantini, Marco Di Capua, Robertomaria Siena, Marco Nocca.
Marco Eusebi è l’autore della 2a di copertina. Nato ad Anzio nel 1991. Studente dell’Accademia
di Belle Arti di Roma, è alla vigilia della laurea in Pittura. Personalità artistica già delineata e promettente, ha al suo attivo diverse collettive. Terrà la sua prima personale nel maggio del 2014.
Finito di stampare in Roma - Marzo 2014
Stampa: Arti Grafiche De Martino snc
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