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Estratto dal libro di Angiola Tremonti
LE STELLE SENZA CIELO
La prefazione
Quello che il vento fa alle rocce...
Quello che il vento fa alle rocce, il tempo fa agli esseri umani. Li modella, li scolpisce, li cambia. Dentro molto piu` che fuori. L’anima, piu` della pelle, infatti, porta addosso i segni di cio` che
ci succede. Il sole, la pioggia, il vento, lo smog in citta` o la salsedine al mare, la segnano. Certi
sguardi, certe parole, certi gesti ancora di piu`. Lasciano impronte indelebili. Lı` per lı` quasi non ce
ne accorgiamo. ‘‘Cosa vuoi che sia’’, pensiamo con un eccesso di leggerezza, come si trattasse di
piccoli graffi. Quelli che spariscono nel giro di poche ore. E, invece. Gli altri, le cose subite e, soprattutto, quelle inutilmente attese o, peggio ancora, mancate, restano lı` e non se ne vanno piu`.
Milioni di striature indelebili, tatuate dove nessun tatuatore potra` mai arrivare per provare a liberarcene. Qualche volta ce ne dimentichiamo, ma basta niente – una parola, un’immagine, un
frammento di canzone, un odore – e quelle tornano a farsi sentire. Come i dolori con il maltempo. Allora ricordiamo cio` che, in realta`, non avevamo mai dimenticato. L’avevamo semplicemente messo da parte, in uno di quei cassetti della coscienza nei quali ci guardiamo bene dal rovistare, nella speranza che quel dolore si dimenticasse di noi. Ma i dolori hanno ottima memoria.
Come certi poliziotti, non dimenticano mai una faccia. Mai la nostra. E ci sorridono, implacabili.
‘‘Credevi mi fossi dimenticato di te, eh?’’. Niente da fare. Non c’e` verso. Possiamo nasconderci in
capo al mondo, ma loro sanno sempre dove siamo. Li portiamo dentro come clandestini. Dove
sbarchiamo noi, sbarcano loro.
Se riuscissimo a guardarla dall’alto, sembrerebbe una citta`. L’anima, intendo. Ogni strada,
stradina, vicolo un dolore. Alcuni interminabili, altri brevissimi, ma tutti forti e collegati tra loro.
E, come vicoli e strade, ogni dolore ha un nome. Nomi di cose, di luoghi, di giorni. E, soprattutto, nomi di persone. Quelli con i nomi di persone sono i viali. Cosı` grandi e cosı` lunghi che
sono le arterie piu` importanti. Il dolore scorre soprattutto lı`. E non si ferma mai. Nemmeno all’ora di punta, quando il traffico si fa piu` intenso, ma non meno veloce.
Questa guida e` un romanzo. La guida di quella citta` che ciascuno porta dentro di se´. Una
citta` nella quale, per quanto grande sia, e` impossibile perdersi. E dalla quale, soprattutto, e` imESTRATTO
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possibile uscire. Tutte le strade portano lı`, davanti a un cartello che dice che ‘‘di vita si muore’’.
Lentamente, pero`. Ne´ ci si puo` fare niente. L’esistenza non ha la retromarcia. E nemmeno il freno
a mano. Strada a senso unico. E senza uscita. Monica, Annalisa, Michela, Milena e Anna lo sanno
bene. Come sanno, pero`, che nel frattempo si puo` anche provare a vivere.
La prima, Monica, l’ho incontrata su ‘‘Via del dubbio’’. Ho provato a spiegarle che il dubbio
non e` la negazione, ma l’anticamera della verita`, ma non c’e` stato niente da fare. Mi ha guardato
come ti guardano i ventenni. Sguardo di mareggiata: se resti lı` davanti, ti prende e ti sbatte contro
gli scogli. I suoi occhi dicevano ‘‘Che cawwo dici?’’, ma dalla sua bocca e` uscito solo un ‘‘Allora
faro` anticamera tutta la vita’’. E` strano – ho pensato – che, a vent’anni, si possa essere cosı` rassegnati. Ma poi ho capito che ci sono anime che certe cose se le sentono. Annusano il dolore come
i segugi una pista. Sanno esattamente quando arrivera`. E, soprattutto, sanno che non passera`.
Sdraiata sul suo letto d’ospedale, Monica sapeva perfettamente che, qualunque cosa avesse fatto,
l’avrebbe pagata. Ci sono vite che scivolano via come seta su seta e vite che non scivolano affatto.
Quella di Monica apparteneva alla seconda specie. La vita di chi, ogni volta che si trova di fronte
ad un bivio, sa che qualunque scelta fara`, si rivelera` la scelta sbagliata. Da allora non l’ho piu` rivista.
Annalisa, invece, abitava in ‘‘Via dell’illusione’’. Amava leggere ed era convinta, come il suo
scrittore preferito, che, anche se le illusioni non si mangiano, alimentano. Il dolore l’aveva presa
alle spalle, all’improvviso. Capita mai che lo faccia in qualche altro modo? Comunque non l’aveva
colpita direttamente. Sarebbe stato troppo facile. La natura ha fissato una soglia del dolore molto
alta per le donne. C’era il rischio che il colpo andasse a vuoto. Per essere sicura che lei avrebbe
sofferto davvero, lui l’ha colpita negli affetti. Il dolore sa perfettamente qual e` il tallone d’Achille
di una donna. Sa che noi viviamo per gli altri e che, se ci togli gli altri, la nostra vita non ha piu`
senso. Detto, fatto. Le ha spezzato le ginocchia piu` di una salita e le ha tolto il fiato. Confesso che
ho creduto che non ce l’avrebbe fatta ad alzarsi. E, invece. Dato che la sua famiglia (o almeno cio`
a cui lei pensava quando pensava parole come ‘‘la mia famiglia’’) non c’era piu` o non sarebbe mai
piu` stata la stessa, se n’e` scelta un’altra. Ancora piu` grande. Come uno che a poker dice ‘‘rilancio’’ e fissa l’avversario, pregustando il momento nel quale questo dira` ‘‘vado’’ e lascera` le carte
sul tavolo. L’Africa e quella specie di ospedale, nel quale mancava praticamente tutto e l’unica
cosa che abbondava era il dolore, non era un ripiego. Al contrario: era un alzare la posta. ‘‘Hai
distrutto la mia famiglia – sembrava dicesse, fissando negli occhi il dolore, vedremo se riuscirai a
fare altrettanto con questa!’’. Ci siamo viste il giorno della partenza. L’ho accompagnata all’aereo.
‘‘Come fai?’’, le ho chiesto. ‘‘Come fai cosa?’’. ‘‘Questo’’, ho detto, indicando le valigie e la citta`
lontana al di la` della porta a vetri. ‘‘Credo’’. Si riferiva a Dio, ovviamente.
‘‘Beata te’’.
‘‘Guarda che la fede ce l’hai anche tu’’.
‘‘E` un dono’’ ho replicato. ‘‘Si vede che a me non e` arrivato’’.
‘‘E` arrivato, e` arrivato’’, ha sorriso. ‘‘Certo che, se non ti decidi ad aprire il pacco!’’.
Aveva ragione. Il pacco era arrivato da un pezzo. Solo che non avevo ancora trovato il coraggio di aprirlo. Ed e` ancora lı`.
Al contrario di me, Michela era il tipo che non si fa domande. Nemmeno una. Il suo motto
era: voglio, prendo. Punto. Quando ci siamo conosciute, viveva in ‘‘Via dell’oro’’ e non aveva la
benche´ minima intenzione di cambiare. Quarant’anni: carriera, soldi e sesso. Nell’ordine. La invidiavo. Aveva tutto quello che voleva. O, almeno, cosı` sembrava. A lei e anche a me. Bella era
bella. Altroche´. E lo e` ancora. Il tipo di donna che fa girare la testa. A me avrebbe fatto girare
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ESTRATTO
anche altro, se solo li avessi avuti. Ma la verita` era che ero solo invidiosa. Nessuno e` perfetto. E io
meno di tutti. Era una di quelle creature nate per suscitare invidia. Se il male avesse avuto bisogno di una testimonial per fare pubblicita` al rodimento di culo, avrebbe sicuramente scelto lei. Lo
vedevi da come camminava: sembrava che la strada si lastricasse sotto i suoi piedi. Era come se i
desideri, prima di lei, non esistessero. Come se, spostandosi come una farfalla di fiore in fiore,
rendesse improvvisamente visibili le meraviglie che la vita offre e, in quello stesso istante, ti stillasse un incontenibile desiderio di possederle. Era, allo stesso tempo, Eva, il serpente e la mela.
Dopo di lei guardavi il mondo con occhi diversi e ti chiedevi come avevi fatto fino ad un attimo
prima. Ma il momento del cretino passa per tutti e passo` anche per lei. Un momento di buio e
zac! Roba da mandare in vacca una carriera. E, infatti. Prima il lavoro e poi il padre: un uno-due
che avrebbe mandato al tappeto chiunque. Chiunque, ma non lei. Quando mi aveva raccontato la
storia del lavoro al carcere, avevo pensato che stesse scherzando. ‘‘Insegnare alle detenute? Se resiste una settimana, e` tanto’’, mi sono detta. E invece. Aveva ragione Annalisa: i miracoli esistono.
Non saprei come altro definire quello che e` successo. Non c’e` un altro modo. Fece i bagagli e, in
quattro e quattro otto, si trasferı` in ‘‘Via dell’umilta`’’ e scomparve dalla circolazione. Il numero
delle cose fatate si era ridotto di uno, e` vero, ma, nello stesso tempo, era cresciuto di uno il numero delle cose belle. Non l’ho piu` vista per un bel pezzo. Ci siamo ritrovate per caso, in una di
quelle strade del centro che erano state le sue passerelle e sulle quali non sfilava piu`. Bella lo era
ancora, ma in modo molto diverso. ‘‘Non ti manca la vecchia Michela?’’, le chiesi, senza ammettere a me stessa che era a me che mancava: come potevo sentirmi migliore, adesso? Sorrise, con
una dolcezza che non le avevo mai visto. Sedemmo a un tavolino a bere qualcosa e, all’improvviso
la tiro` fuori. Una lettera. Una calligrafia da bambina e una montagna di errori. La firmava una
certa Irene. L’ho letta e ho capito. I miracoli esistono. E non hanno niente a che fare con l’ortografia.
Milena aveva lo sguardo di chi ha combattuto e ha perso, ma e` felice per entrambe le cose. E,
cosa che non avrei mai immaginato, soprattutto per la seconda. Ci sono sconfitte – mi diceva il
suo silenzio – che valgono molto piu` di una vittoria. Mi sembrava un’affermazione un po’ forte.
Una di quelle frasi che si dicono per sorprendere, per darsi un tono, per far vedere che la sappiamo lunga, piu` lunga degli altri. Ma non era cosı`. Milena ne era convinta davvero. Abitava in
una casa d’angolo, tra ‘‘Via del pregiudizio’’ e ‘‘Via della accettazione’’. Aveva vissuto tutta la vita
accanto ad una persona, senza riuscire a conoscerla. Non una persona qualunque: sua madre.
‘‘Era mia mamma – mi aveva detto, scuotendo la testa, come se la sorpresa per quello che era
successo la scuotesse ancora – e praticamente non sapevo niente di lei’’. ‘‘Ti rendi conto?’’, aveva
aggiunto. Per la verita`, no. Non me ne rendevo conto. Anzi, proprio non me lo spiegavo. E se
proprio devo dirla tutta, ero un po’ scettica. Come diavolo fa un figlio a non conoscere la propria
madre? Un marito o una moglie posso capirlo e anche un amico: ma un genitore! Non e` possibile. Lei dev’essersi resa conto che la mia perplessita` cresceva un po’ di piu` ad ogni parola. Il
fatto e` che non riuscivo a credere una cosa del genere... Mi ha guardato e ha detto: ‘‘Lo so che
sembra assurdo – sembrava assurdo anche a me (e, qualche volta, me lo sembra ancora) – ma ti
assicuro che e` cosı`’’. Allora mi ha raccontato tutta la storia, come chi ha bisogno di condividere
qualcosa con un altro per non impazzire; come se la verita` fosse troppo pesante per poterla portare sulle spalle da soli. Servivano altre braccia e un solo cuore non bastava a ospitarla. Mi ha parlato della vecchia casa, della serenita` che vi si respirava, dell’amore esemplare tra i suoi (per tutta
la vita aveva desiderato un amore cosı`). Dei ricordi, annidati ovunque, che le venivano incontro
dalle stanze, dai mobili, da ogni oggetto. Persino la luce e gli odori erano impregnati di quel pasESTRATTO
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sato che si ferma e non passa piu`. E poi quelle lettere, sbucate all’improvviso chissa` da dove e in
un attimo tutto cio` in cui credi e hai sempre creduto se ne va in frantumi, come uno specchio
contro il quale qualcuno ha lanciato un mattone. Niente e` piu` quello che era. Nemmeno tu. E, all’improvviso, ti rendi conto che non sai piu` chi sei ne´ che cosa e` stata la tua vita fino a quel momento. ‘‘Aveva un amore...’’ ha detto, abbassando lo sguardo. ‘‘Tuo padre?’’ ho chiesto. Ha
scosso la testa e sbuffato un po’ d’aria dal naso. ‘‘Mia mamma’’, ha detto, con un tono che lasciava intendere che le sorprese non erano finite.
‘‘Tuo padre sapeva?’’.
‘‘Nessuno sapeva. Ne´ sapeva, ne´ sospettava niente’’.
‘‘Chi era lui?’’, se posso...
‘‘Non era un lui’’...
Mi sono chiesta spesso quante volte avesse ripetuto dentro di se´ quelle parole. Si capiva che –
nonostante avesse, ormai, traslocato da un po’ tempo – lasciare ‘‘Via del pregiudizio’’ le era costato piu` di quanto non fosse disposta ad ammettere. Per quanto fosse sempre stata una donna libera e aperta, non era ancora riuscita a far pace con quel tradimento. La domanda che la tormentava non era ‘‘Perche´?’’ – impariamo presto a capire che l’amore viene quando e come vuole lui –
ma ‘‘Perche´ a me?’’. Una domanda destinata a rimanere senza risposta. Di tanto in tanto, mi capita di incontrarla e il suo mi sembra ancora il profilo di un punto interrogativo.
L’ultima delle cinque – Anna – abitava in uno dei quartieri piu` grandi e densamente popolati
della citta`: un terzo piano, non particolarmente luminoso e senza ascensore, in ‘‘Via dei disillusi’’.
‘‘Meglio se non saliamo’’, mi aveva detto una volta che ci eravamo trovate davanti al suo portone.
‘‘La casa e` piccola e poi non ho avuto tempo di sistemare... Che ne dici se beviamo qualcosa: ti
va?’’, aveva aggiunto indicando i tavolini di un bar impersonale, sull’altro lato della strada. Mentre
la sentivo raccontare, pensavo: ‘‘Quante volte ho gia` sentito questa storia?’’. Il marito se n’era andato con una ragazza che aveva meno della meta` dei suoi anni e i figli, ormai grandi, si erano finalmente rivelati per quello che erano davvero: egoisti, aridi e ipocriti. ‘‘Benvenuta nel club’’,
avrei voluto dirle, ma non meritava sarcasmo, ne´ cinismo. E, allo stesso tempo, sapevo che della
mia comprensione non avrebbe saputo cosa farsene. Annuii, senza dire niente. Rimanemmo in silenzio per un po’, una di fronte all’altra, a sorseggiare un analcolico alla frutta e pasticciare con
salatini e pensieri. Guardavo la citta` riflessa nel vetro alle sue spalle e mi chiedevo se sono le cose
che non hanno un senso o se siamo noi incapaci di trovarlo. La vita ha questo di incredibile, pensavo: e` uguale per tutti e, allo stesso tempo, riesce ad essere per tutti diversa. Ci viviamo dentro
da migliaia di anni – milioni, forse – e non siamo ancora riusciti a prenderle le misure. Quando ci
sembra di cominciare a capire come funzionano le cose, succede sempre qualche casino che scombina tutto e ci rendiamo conto che non avevamo capito un bel niente. A volte mi viene il sospetto
che non ci sia niente da capire e che, se l’unico modo per non soffrire e` quello di non farsi troppe
domande, allora forse e` il caso di imparare a farsene il meno possibile.
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ESTRATTO