Arthur Rimbaud, un poeta maledetto

COLLANA “Αμάραντος”
FRANCESCO GUADALUPI
Arthur Rimbaud,
un poeta maledetto
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RINGRAZIAMENTI DELL’AUTORE
Ringrazio tutti i partecipanti alla Grande Festa: Bruno, Cristina, Sarah, Piero, Fabio, Marcella, Elena, Davide, Syria,
Claudia, Vito, Laura, Stephen, Ina, Viviana, Alessandro, May,
Antonio Ferretti, Antonio Latanza, Giuseppe, Daniele, Antonio, Dante, Mino, Giorgio, Francesca, Federica, Giovanni, Italo,
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Rossana, Fabio e Gianluca Medico, Matilde, Paola, Marina, Gigi, Madia, Ilaria, Anna, Germana, Dario, Diana, Paolo, Coco,
Virgilio, Daniela, Emanuela e Vincenzo Romata, Sabino, Lilli,
Salvatore, Domenico, Guglielmo, Annamaria, Valeria, Tea,
Franco, Gabriele-Aldo Bertozzi, Gabriella, Lorella, Federica,
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Gianrico, Stefania, Marianna, Roberta, Rosanna, Cinzia, Serena,
Amalia, Rita, Camillo, Stefania.
E Rina Durante.
a Giovanni e Lucia
Annarosa e
Giangiacomo
Alle sette e dieci del pomeriggio del 15 maggio 1888, Arthur
Rimbaud, agente francese presso la ditta Tian, stava osservando
una delle ventiquattro torri merlate di Harar. L’area su cui era
inchiodato il suo sguardo era incredibilmente ristretta. Soltanto
una linea verticale. Rovente. Il lato destro della torre che perimetrava quella parte della costruzione sancendone il termine.
Più in là, avvampava lo sfondo violaceo del cielo. Fra il cielo e
la torre, un sottile filo di fuoco – perentorio, assoluto, – riverberi crepitanti di un tramonto abissino. Quella linea ricordava
qualcosa al mercante francese. Qualcosa che al momento gli
stava sfuggendo, un pensiero, un’immagine che aveva a che fare
con il sole. O forse con il mare. Un qualcosa che un tempo era
riuscito a ritrovare e che adesso scivolava fra le griglie della sua
memoria come sabbia in mezzo alle dita. Ma che cos’era? Che
cosa aveva ritrovato una volta, maledetto il demonio! Non un
qualcosa che si può toccare, pensò. Ma una cosa ben più… astratta. Del resto anche questa linea è immaginaria, riflettè, la
torre è circolare, non ha lati, non ha angoli, men che meno una
linea destra e una a sinistra che ne delimitano la forma. Non c’è
nessun lato, qui. Nessuna linea. E ce ne sono mille. Una appiccicata all’altra. A formare un cilindro. Ma a me ne interessa
soltanto una. Solo questa. Rosee scintille lungo un fascio spesso
quanto un foglio. Le pietre e l’argilla della torre stavano annerendo, si facevano gradualmente come un grumo nero,
compatto. La luce del cielo era sempre più fioca. Adesso era un
rosso carminio impastato col fango, reciso a metà da una linea
verticale che suddivideva l’area della finestra in due parti ben
distinte: una scura, l’altra leggermente più chiara, ma ancora per
poco. Il mercante francese inclinò mentalmente quella linea di
separazione. La immaginò sempre più obliqua, piano piano,
sempre di più. Finché non divenne una linea perfettamente orizzontale. In quel preciso istante Arthur Rimbaud sgranò gli
occhi, sentì il cuore pulsare più forte. Sulle iridi azzurre del
mercante iniziarono ad aggrovigliarsi forme impossibili, artigli
di fuoco e dardi si sfilacciavano in frenetiche contorsioni, vorticavano esasperati liberando distanze che esplodevano al di là di
ogni tempo, oltre qualsiasi luogo... Poi quelle immagini iniziarono a farsi meno nitide, i contorni delle forme si annebbiarono,
si sdoppiarono, tutto si stava inesorabilmente fondendo in una
foschia indistinta. Arthur Rimbaud si accorse che piangeva.
Il Ritorno all’Ordine e la Rivoluzione della Poesia
(Antefatto)
Sconfitta la Francia napoleonica, le potenze vincitrici – Inghilterra, Russia, Prussia e Austria – decisero di rimboccarsi le
maniche in un’Europa ancora sconquassata dalle guerre e dagli
ideali che la Rivoluzione francese aveva innescato. Riportare
l’ordine: era questo l’imperativo. Il 9 giugno 1815 si concluse il
Congresso di Vienna, simbolo stesso della Restaurazione: i
Borboni tornarono al potere “sui carri dello straniero”, ma
l’instabilità politica continuava a rappresentare una seria minaccia per le sorti dell’umanità. Dopo la morte di Luigi XVIII salì
al trono Carlo X, ma nel 1830 fu costretto a fuggire in Inghilterra per la sommossa popolare scatenata dalla sua politica
repressiva. Il suo posto fu preso da Luigi Filippo d’Orléans, ben
presto però una seconda ondata rivoluzionaria si abbatté sulla
Francia e in tutta Europa. La popolazione parigina – operai,
piccola borghesia, studenti e intellettuali – nel 1848 alzò le barricate e costrinse il re ad abdicare, venne così proclamata la
Seconda Repubblica. La borghesia vittoriosa tuttavia, paventando lo spettro del socialismo, represse nel sangue l’insurrezione
degli operai e spianò così la strada a Luigi Napoleone, che di lì a
poco fu eletto presidente della Repubblica. Questi, non pago,
nel 1851 fece un colpo si Stato e si proclamò imperatore col
nome di Napoleone III. Nacque così il Secondo Impero, dopo
quello di Napoleone Bonaparte. Il nuovo re, appoggiato da
conservatori, moderati e masse contadine, cominciò regnare
con metodi autoritari e antidemocratici, soprattutto i primi
tempi.
In quegli stessi anni un giovane poeta, messo da parte
l’entusiasmo per la sollevazione del ’48, si aggirava inquieto fra i
club di fumatori d’hashish lasciandosi blandire dalle ammalianti
carezze di droghe e alcol, oggetto del suo interesse teorico e
mezzo per fuggire da una realtà che si faceva ogni giorno più
dolorosa. Il suo nome era Charles Baudelaire e si stava apprestando a concludere la sua prima raccolta di poesie, I Fiori del
Male, un’opera geniale, che avrebbe costituito l’origine e le fondamenta della poesia moderna. Siamo in pieno Romanticismo,
la poesia fioriva prorompente innervando di una luce novella il
vetusto panorama letterario frutto dell’ancien régime e del secolo
dei Lumi. I nuovi poeti propugnavano un’arte profondamente
autentica, pura, intima e creativa, che penetrasse fra gli oscuri
recessi dell’anima illuminandone le segrete connessioni con
l’universo e gettando in quei misteriosi meandri vividi bagliori,
deformati a tratti da sfumature oniriche e grottesche. La rottura
con i canoni classici era dichiarata, e tuttavia è pressoché impossibile individuare le costanti e i principi di un movimento
che si evolse per un intero secolo fagocitando al suo interno le
più variegate istanze: il sentimento della natura, la difesa dell’art
pour l’art, le rivendicazioni di una poesia squisitamente soggettiva, il rigoroso rispetto della forma, l’esaltazione di un’arte
modellata sulla scienza e sulla società, ma anche le suggestioni
simboliche e allucinate e la contemplazione cupa e malinconica
dell’esistenza, stato d’animo che Baudelaire ribattezzò spleen.
L’ombra tetra dei poeti decadenti cominciava ad allungarsi in un
oscuro presagio...
Nel 1820 Alphonse de Lamartine pubblicò Le Meditazioni imponendosi come capofila della giovane scuola. Nel 1827 Victor
Hugo con la prefazione al Cromwell scrisse il primo autentico
manifesto del Romanticismo incitando al rifiuto della tradizione classica in nome della “poesia vera”. L’invito fu presto
raccolto da Stendhal, Balzac, Gautier e da tanti altri autori – poeti, romanzieri, artisti – intenzionati a dir la loro in un epoca
ricca di fervore culturale e di rivolgimenti politici che aveva in
serbo ancora parecchie sorprese.
Malvisto dalla piccola borghesia liberale e dagli strati operai,
Napoleone III si era nel frattempo alleato con la Chiesa cattolica, aveva confermato le conquiste dell’opera rivoluzionaria,
attuato una politica di lavori pubblici e promosso
l’industrializzazione della Francia. Uomo astuto e ricco di ambizioni, aveva poi cercato in tutti i modi di affermare l’influenza e
il prestigio del suo paese in Europa. Fu così che nel 1854 la
Francia si alleò con l’Inghilterra e spedì le sue truppe nella lontana Crimea a difendere il sultano della Turchia dall’invasione
dell’arrogante zar Nicola I di Russia.
Quello stesso anno, in un piccolo borgo delle ardenne francesi…
Capitolo 1
Visioni
Arthur Rimbaud fu l’essere più straordinario che abbia mai
solcato la terra. Fu un miracolo, un fenomeno d’ordine sovrannaturale
per la sua tremenda precocità e il mistero del suo destino, che rimane
impenetrabile come il suo genio - Jean Cocteau
Alle sei del mattino del 20 ottobre 1854, a Charleville, in Rue
Napoléon numero 12, esattamente sopra la libreria, nacque Arthur Rimbaud. La madre aveva preso in affitto l’appartamento
un paio d’anni prima. Si trovava in una delle strade più trafficate
del paese, quella che ti portava dritto in piazza. La levatrice aveva appena finito di pulirlo e si era assentata pochi istanti.
Insospettita da un insolito silenzio, era tornata con le fasce dal
neonato: l’aveva trovato carponi per terra, diretto verso la porta,
gli occhi spalancati e un sorriso beffardo sulla labbra, pronto a
intraprendere la sua vita avventurosa. O almeno è ciò che narra
la leggenda. Nel pomeriggio, ad ogni modo, il nonno e il proprietario della libreria andarono in municipio e ne registrarono
la nascita. Dopo un mese il piccolo fu battezzato col nome di
Jean-Nicolas Arthur Rimbaud.
Arthur era il secondogenito di Vitalie Cuif e Frédéric Rimbaud, capitano del 47° reggimento di fanteria. Lei veniva da
Roche, un piccolo villaggio a una manciata di chilometri di distanza. Fino all’età di ventisette anni era stata lì ad aiutare il
padre nella mietitura e a fare la brava casalinga: la madre era
morta quando aveva appena cinque anni; il padre, sebbene an-
cora quarantenne, non si era più risposato. Frédéric invece era
partito in guerra volontario a diciott’anni anni, aveva fatto carriera distinguendosi come chasseur nella campagna del
Nordafrica e nel 1852 era stato promosso capitano e destinato
alle meno esotiche Ardenne. Arthur, dicevamo, era il secondogenito. Il 2 novembre del 1853 era nato il primo figlio,
Frédéric, stesso nome il padre. Poi toccò alle femmine: nel giugno del 1857 venne alla luce Vitalie, ma morì il mese successivo.
Nel 1858 nacque un’altra bambina e fu chiamata ancora Vitalie,
come la mamma. Nel 1860 fu infine la volta di Isabelle.
Il primo dubbio che Arthur non avesse ereditato le buone
maniere e quella “rispettabilità” borghese propria dei suoi genitori, Madame Rimbaud lo ebbe qualche settimana più tardi. Il
pargolo era stato affidato in balia a una famiglia di fabbricanti di
chiodi di Genspunsart, borgo a una decina di chilometri da
Charleville. Il giorno che sua madre andò a fargli una visita a
sorpresa lo trovò beatamente spaparanzato dentro una vecchia
cassa per il sale, tutto nudo: i vestitini di lino che lei gli aveva
lasciato erano stati “donati” al figlioletto del fabbricante di
chiodi.
Sono di razza lontana: i miei padri erano Scandinavi: si trafiggevano il
costato, bevevano il proprio sangue. - Mi farò tagli in tutto il corpo, mi
tatuerò, voglio diventare orrendo come un Mongolo: vedrai, urlerò per le
strade. Voglio proprio diventare pazzo di rabbia. Non mostrarmi mai
gioielli, striscerei e mi contorcerei sul tappeto. La mia ricchezza, la vorrei
macchiata di sangue dappertutto.
Una Stagione all’Inferno
Arthur trascorse la maggior parte dell’infanzia nella fattoria di
Roche, la madre ne aveva assunto la direzione dopo che uno dei
suoi fratelli, Charles, noto alcolizzato, era stato disconosciuto
dalla famiglia, e l’altro, Félix detto “L’africano”, veterano di
guerra, era morto. Nel 1855 il capitano Frédéric partì per le
trincee della Crimea, tornò a Roche nel settembre del 1856.
Due mesi dopo fu ancora a casa per una sostituzione, quindi
ripartì per Grenoble. Nel 1859 Mme Rimbaud andò a trovare il
marito a Sélestat, nei pressi di Strasburgo. Tornata in Rue Napoléon apprese che l’avevano sfrattata. I motivi ci sono oscuri.
La famiglia alloggiò provvisoriamente all’Hôtel du Lion
d’Argent, al centro di Charleville, e ci rimase fino a Natale. Poi
prese in affitto una casa in Rue Bourbon, una viuzza fatiscente
dagli effluvi di fogna e una losca “fauna”, situata nel quartiere
più povero del paese. Era il 1860. Arthur aveva quasi sei anni.
Sua madre trentacinque. Un giorno di settembre il capitano
Rimbaud partì per raggiungere la sua guarnigione a Cambrai e
non vi fece più ritorno. Da quel momento Mme Rimbaud si
fece chiamare la “vedova Rimbaud” e il suo atteggiamento
s’inasprì ancor di più. Frédéric e Arthur vennero sottoposti a
una severa educazione a base di ceffoni, digiuno e punizioni
corporali, e la domenica erano costretti a leggere la Bibbia, seduti al tavolo, lindi, composti, coi capelli impomatati.
E la Madre, chiudendo il libro del dovere,
Se ne andava soddisfatta e fiera, senza vedere,
Negli occhi azzurri e sotto la fronte di protuberanze,
L’anima del suo bambino, piena di ripugnanze.
I poeti di sette anni
“Abbiamo sempre lavorato senza esitazioni, senza debolezze,
senza permetterci la sia pur minima distrazione, il minimo rilassamento. Non abbiamo conosciuto nessuno dei piaceri che i
giovani di solito non si fanno mancare. Nessuna esistenza fu
austera quanto la nostra. Le Carmelitane, i Trappisti, hanno più
gioie di quante ne abbiamo mai avute noi”. È con queste parole
che Isabelle Rimbaud rievoca la sua infanzia tutt’altro che spensierata. Rue Bourbon puzzava di cavoli ed erba marcia. Arthur
si rotolava nel fango coi bambini poveri del quartiere e la sera,
steso accanto al muretto del cortile, si schiacciava gli occhi al
chiar di luna, per avere “le visioni”.
Forse voragini d'azzurro, pozzi di fuoco. Forse è su questi piani che
s’incontrano lune e comete, favole e mari.
Nelle ore d’amarezza immagino sfere di zaffiro, di metallo.
Sono padrone del silenzio.
Infanzia
Capitolo 2
Il Ripudio di Dio
Un autentico dio della pubertà - André Breton
Nell’ottobre del 1861 Arthur venne iscritto all’Istituto Rossat
come allievo esterno assieme al fratello Frédéric. La scuola era
vicina a casa, in Rue de l’Archebuse, e presto sarebbe diventata
una delle più prestigiose di Charleville. Per il momento, però,
era soltanto un cupo edificio dalle pareti antiche, dotato di due
piccoli cortili, un laboratorio artistico, uccelli impagliati, uno
scheletro e aule umide e malconce. L’esordio accademico di Arthur fu folgorante: in tre anni e mezzo vinse tredici premi e si
guadagnò undici note di merito, sbaragliò i compagni in grammatica e traduzione della lingua latina, grammatica e ortografia
francese, storia e geografia, recitazione e lettura dei classici. Studente modello, tornò a casa con una pila di libri ricevuti in dono
per le sue straordinarie capacità.
Nel 1862 la famiglia si trasferì in Cours d’Orléans n. 13, viale
elegante incorniciato da graziose villette e imponenti castagni.
“Fin sa piccolo scriveva per divertirsi, – ricordò in seguito Isabelle. – Aveva appena dieci anni e già ci teneva svegli per
lunghe serate leggendoci i suoi meravigliosi viaggi in contrade
sconosciute e bizzarre, in mezzo a oceani e deserti, per fiumi e
montagne…”.
Il vento rinfrescante, cioè una fresca brezza, agitava le foglie degli alberi con
un fruscio simile suppergiù a quello che faceva il rumore delle argentee acque
del ruscello che scorreva ai miei piedi. Le felci chinavano la loro verde fronte
davanti al vento. Mi addormentai, non senza essermi abbeverato all'acqua
del ruscello. Sognai che... ero nato a Reims, nell'anno 1503. Reims a quel
tempo era una cittadina o, per meglio dire, un borgo rinomato comunque
per la sua bella cattedrale, testimone dell'incoronazione del re Clodoveo. I
miei genitori erano ricchi, ma molto onesti…
Non si conosce l’età esatta in cui Rimbaud scrisse questa storiella, ma si ritiene sia stato attorno ai dieci anni. Non si sa
neanche se si trattasse di un tema o di un lavoro di fantasia, in
ogni caso da essa traspare la strabiliante precocità del ragazzino,
la sua fervida immaginazione, ma anche il suo carattere già anticonformista e l’aperto disprezzo per il lavoro e la società. Più
avanti infatti leggiamo:
Perché, mi chiedevo, imparare il greco, il latino? Non lo so. Insomma, non
ce n'è bisogno! Che me ne importa di essere promosso… a che serve essere
promosso, a niente, non è vero? Sì però dicono che non si trova un posto se
non si è promossi. Io di posti non ne voglio, io vivrò di rendita. E se anche
ne volessi uno, perché imparare il latino; nessuno parla questa lingua. A
volte lo vedo sui giornali, ma grazie a dio non farò mai il giornalista. Perché imparare la storia e la geografia? È vero, bisogna sapere che Parigi è
in Francia, ma non ti chiedono mica a che livello di latitudine. Quanto alla
storia, imparare la vita di Chinaldone, di Nabopolassar, di Dario, di Ciro, e di Alessandro e degli altri loro compari notevoli per i loro nomi
diabolici, è un supplizio? Che m'importa, a me, che Alessandro sia stato
celebre? Che m'importa… Che ne sappiamo se i latini sono esistiti? Magari è una qualche lingua fabbricata; e anche se fossero esistiti, mi lascino
vivere di rendita e si tengano la loro lingua! Che male gli ho fatto perché mi
mettano al supplizio. Passiamo al greco… questa sporca lingua non è par-
lata da nessuno, nessuno al mondo!... Ah! perdincibacco di perdincibaccolina! Caspiterina io vivrò di rendita; non è mica bello consumare i calzoni
sui banchi di scuola... perdincibacconcello!
Nell’aprile del 1865 Mme Rimbaud trasferì i figli al Collegio
municipale di Charleville. Forse era preoccupata dalla mancanza
dell’educazione religiosa nell’Istituto Rossat, o forse dalle idee
liberali che vi iniziavano a serpeggiare in nome di una “emancipazione intellettuale” di cui lei diffidava. Le doti superiori di
Arthur non persero tempo a scuotere il nuovo ambiente:
l’alunno venne immediatamente catapultato dalla settima alla
quinta classe grazie a uno straordinario compito a casa di storia
che fu proposto all’intera scuola come modello da imitare. Frédéric, ben più “lento” del fratello minore, rimase a guardare. In
questo periodo Arthur fu colto da un violentissimo, quanto effimero, fervore religioso. Nel 1866 si fece la prima comunione
assieme al fratello. Un giorno aggredì un gruppo di ragazzi più
grandi di lui che stavano giocando con l’acqua santa schizzandosela addosso. Ne nacque una rissa furibonda che solo
l’intervento degli insegnanti riuscì a sedare. I più indignati
dall’episodio definirono Arthur sale petit cagot, piccolo sporco
bigotto. In quel periodo, del resto, vi era un’insolita processione
che usciva di casa ogni domenica mattina per andare a messa:
per prime venivano le due bambine, tenendosi per mano, con i
guantini di cotone bianchi e gli stivaletti neri abbottonati, poi
venivano i ragazzi, con giacchette nere e calzoni blu scuro fatti
in casa, collettini bianchi e buffi cappellacci neri. Avanzavano
lentamente, intralciati nei movimenti da scarpe troppo grandi e
vestiti fuorimoda, ciascuno con un ombrellino di cotone azzurro in mano. Il corteo si chiudeva con Mme Rimbaud che
camminava da sola, dignitosa e solenne, rigida come un sergente maggiore, completamente nera dalla testa ai piedi. Nella foto
della prima comunione i ragazzi appaiono composti, Frédéric è
in piedi con una mano sul petto, Arthur è seduto, e come il fratello stringe una Bibbia in mano: ma ha una strana luce negli
occhi che fissano intensamente l’obiettivo, un inquietante bagliore, immagini ancora informi che si aggrovigliano in un cupo
brusio cercando un assordante varco di splendore da cui irrompere…
La mia prima Comunione è ormai ben lontana.
I tuoi baci, non posso averli mai conosciuti:
E il mio cuore e la mia carne alla tua carne è avvinghiata,
Brulicano del bacio putrido di Gesù! […]
Cristo! o Cristo, eterno ladro di energie,
Dio che per duemila anni votasti al tuo pallore,
Inchiodate al suolo per la vergogna e le cefalgie,
Le fronti, chine, delle donne in dolore.
Le prime comunioni
“Sono schiavo del mio battesimo. Genitori, avete fatto la mia
infelicità e avete fatto la vostra”, scriverà più tardi in Una Stagione all’Inferno. Intanto la sua fama, al Collegio di Charleville, aveva
già assunto proporzioni enormi e gli aneddoti sul suo conto si
moltiplicavano: girava voce che Rimbaud avesse già divorato
centinaia di libri e che durante l’ora di matematica sfornasse a
pagamento svariati compiti di latino in classe per i suoi compagni. I versi, di una perfezione impeccabile, erano scritti con uno
stile differente ritagliato su ogni singolo alunno. Il professore un
giorno lo indicò al preside tutto orgoglioso: “Tenga a mente
quello che le sto per dire: sta nascendo un ragazzo prodigio nel
mondo della scuola!”.
Rimbaud era una figura che affascinava e inquietava. Passava
la maggior parte del tempo barricato in un impenetrabile silen-
zio, l’espressione del viso assorta, lo sguardo vigile. Disdegnava
i giochi dei suoi coetanei, adorava intrattenersi nella barchetta
dei conciatori ancorata al molo vicino alla scuola. Le parole del
professore di latino Francois Pérette sono passate alla storia per
la loro sconcertante preveggenza: “Definitelo intelligente quanto volete, ma farà una brutta fine. C’è qualcosa che non mi
piace nei suoi occhi, nel suo sorriso… vi dico che finirà male”.
Capitolo 3
«Tu Vates Eris»
L’iniziatore dei ritmi della prosa moderna, la base dalla quale hanno avuto
origine tutte le meditazioni del genere - Edith Sitwell
I docenti non sapevano come prenderlo, era sfuggente, ambiguo, rideva poco. Per valorizzare ulteriormente le sue capacità il
piccolo Arthur venne affidato ad Ariste Lhéritier, insegnante
privato famoso per l’abilità nell’accattivarsi le simpatie dei ragazzi. L’uomo cominciò col solito giochino di sfigurare una
statuetta di porcellana che teneva sul tavolo, ma invano: Arthur
rimase impassibile. Allora provò a confidargli che aveva scritto
una poesia in onore di Felice Orsini, l’attentatore di Napoleone
III. L’allievo allora concesse un tiepido sorriso, più che altro di
cortesia.
L’azzurro chiaro dei suoi occhi pareva un mondo inaccessibile, eppure strinse forte amicizia con due compagni di scuola, i
suoi primi veri amici: Ernest Delahaye e Paul Labarrière. Un
giorno Delahaye, colpito dalla fama dilagante di Rimbaud, che
ancora non conosceva, aveva incontrato il fratello maggiore
Frédéric in corridoio, durante le lezioni di tedesco: “Ma chi è
questo Arthur?”, “Arthur?”, gli aveva risposto Frédéric, “È un
genio!”. Labarrière, Delahaye e Arthur divennero inseparabili, si
autosoprannominarono “I tre moschettieri”. Nel 1868 Arthur
inviò al figlio di Napoleone III un’ode per la comunione, forse
non priva di sarcasmo. Il precettore del Principe gli rispose ringraziandolo sentitamente. Rimbaud aveva da poco scoperto la
letteratura romantica divorando drammi e poesie di Victor Hugo. Cercava tuttavia dell’altro, del nuovo.
I primi romantici sono stati veggenti quasi senza rendersene conto: la coltivazione delle loro anime è cominciata da incidenti: locomotive abbandonate,
ma ardenti, catturate in certi periodi dalle rotaie. - Lamartine a volte è
veggente, ma strozzato da una vecchia forma. - Hugo, troppo cocciuto,
ha davvero visto negli ultimi libri: I Miserabili sono un vero poema.
Ho I Castighi sotto mano: Stella dà grossomodo la misura della vista di
Hugo. C’è troppo Belmontet e Lamennais, troppo Geova e colonne, vecchie
enormità crepate.
Lettera del Veggente
Nel giugno del 1869 la famiglia si trasferì al numero 5-bis di
Quai de la Madeleine, sulla Mosa, in un appartamento che aveva
dirimpetto un bel mulino seicentesco. Quell’anno Arthur si aggiudicò otto primi premi, incluso quello per l’educazione
religiosa. Il direttore del collegio Jules Desdouest, entusiasta dei
suoi successi che tenevano alto il nome dell’istituto ordinò: “Fategli leggere di tutto!”, ma Rimbaud vi stava già provvedendo da
solo: trascorreva ore e ore dai librai, divorando in loco, poiché
impossibilitato a comprarle, tutte le novità arrivate da Parigi. A
volte sottraeva lesto qualche libro e, lettoselo a casa con calma,
lo riponeva con attenzione dove l’aveva preso oppure lo rivendeva. Scoprì così Gautier, Banville, Coppée, Verlaine, autori di
cui a scuola non si parlava e, sfogliando il “Parnasse Contemporain”, antologia poetica fondata nel 1866 da Alphonse Lemerre,
tutti gli altri parnassiani, i poeti dell’avanguardia romantica. La
rivista “Moniteur de l’Enseignment Supérieur” pubblicò uno
dei suoi componimenti latini, la parafrasi di alcuni versi epicurei
di Orazio in cui trovò modo di dire che Apollo, dio del sole, gli
aveva fatto questa stupefacente predizione: “Tu vates eris”, Sarai poeta. Nel 1869 vinse il primo premio al concorso regionale
con una poesia in latino su Giugurta. L’esame durava sei ore.
Rimbaud dormì sul banco dalle 6 alle 9. Il preside, allarmato,
scoprì che non aveva fatto colazione, chiamò allora un bidello e
gli fece portare una cesta di cibo. Sazio e carico di energie,
Rimbaud iniziò a comporre rapidamente e consegnò il lavoro a
mezzogiorno: era un compito perfetto, geniale. Il preside quarant’anni dopo stentava ancora a capacitarsene.
La sua personalità si stava foggiando alla velocità del lampo,
assumeva tratti netti, perentori. Una mattina Rimbaud sbalordì
il professore di storia, uomo di fede: “Qual è – chiese – il punto
di vista della chiesa sulle guerre di religione, la strage di Bartolomeo e le persecuzioni di Luigi XIV?”; a uno stupefatto
Delahaye confidò: “Napoleone merita la galera!”, e una frase dei
suoi compiti aveva gettato scompiglio nella scuola: “Robespierre, Saint-Just, Couthon, i giovani vi attendono!”.
La bomba a orologeria era stata innescata.
Capitolo 4
La Fuga
Il primo poeta punk. Il primo uomo che abbia mai fatto
una forte dichiarazione in favore della liberazione delle donne,
affermando che quando le donne si saranno liberate
dalla lunga schiavitù degli uomini esse proromperanno realmente.
Nuovi ritmi, nuove poesie, nuovi orrori, nuove bellezze - Patti Smith
Il 2 gennaio 1970 “Le revue pour tous” pubblicò Le strenne
degli orfani, una lunga poesia che Rimbaud aveva spedito qualche
giorno prima. Intanto nella classe di retorica era arrivato un
nuovo professore, il ventiduenne Georges Izambard, acceso
repubblicano. Fra lui e Rimbaud nacque fin dal primo momento
un’intesa perfetta. L’enfant prodige diede subito il meglio di sé e a
marzo il direttore gli consegnò un premio, I Caratteri di La Bruyère, con una dedica lusinghiera. Il prof. Izambard, determinato
a stimolare quelle doti fuori dal comune, gli prestò I miserabili di
Victor Hugo scatenando le proteste della “Bocca d’ombra” –
soprannome dato da Rimbaud alla madre – che riteneva “pericoloso” mettere nella mano dei ragazzi i libri di “V. Hugot”
[sic]. Per nulla intimidito Izambard fece conoscere al ragazzo
anche Villon, Rabelais, Baudelaire, Voltaire e tutti quegli scrittori ai loro tempi in conflitto con l’autorità. Ormai Rimbaud
sentiva ardere dentro di sé la vocazione di poeta. A marzo buttò
giù in breve tempo Sensazione, Ofelia e Credo in unam e le spedì a
Théodore de Banville, icona dei poeti parnassiani, supplicandolo di pubblicarle nel “Parnasse Contemporain”.
Maestro, siamo nei mesi dell'amore; ho diciassette anni. L’età delle speranze e delle chimere, dicono, – ed ecco che mi sono messo, fanciullo
sfiorato dalle dita della Musa, - scusi la banalità, – a dire tutta la mia
fiducia, le mie speranze, le mie sensazioni, tutte le cose dei poeti – che io
chiamo: primavera. […] Fra due anni, fra un anno forse, sarò a Parigi.
– Anch'io, signori del giornale, sarò Parnassiano! – non saprei dire che
cosa ho… che vuol salire… – Giuro, caro Maestro, di adorare per sempre
le due dee, la Libertà e la Musa. Non arricci troppo il naso quando leggerà
questi versi… Mi renderebbe pazzo di gioia e di speranza, se volesse, caro
Maestro, far dare a Credo in unam un posticino fra i Parnassiani…
Uscirei nell’ultima serie del Parnasse: un po’ il Credo dei poeti!... – Ambizione! O Folle! […] Non sono conosciuto; che importa? i poeti sono
fratelli. Questi versi credono; amano; sperano: è tutto. – Caro maestro, a
me: mi alzi un poco: sono giovane: mi tenda una mano…
Charleville, 24 maggio 1870
Rimbaud bleffava sull’età, in realtà ne aveva quindici, di anni.
Banville gli rispose con rammarico che i numeri erano già completi, ma lui non si diede per vinto. A giugno scrisse Il ballo degli
impiccati, danza macabra ispirata alle ballate di Villon, e di lì a
poco Il fabbro e I morti del Novantadue, in cui si esaltavano gli eroi
della rivoluzione francese. Il 13 luglio la Francia dichiarò guerra
alla Prussia, l’entusiasmo era alle stelle, “A Berlino!” si urlava
per le strade. Il giorno 20 finì la scuola: Rimbaud aveva vinto
tutti i premi, incluso il concorso generale. In questo mese scrisse le prime poesie ironiche e beffarde, Il castigo di Tartufo e
Venere Anadiomene. Il 24 luglio Izambard tornò per Douai, dove
c’era la sua famiglia: le tre sorelle Gindre. Rimbaud cadde nella
più profonda disperazione sebbene il professore, prima di partire, gli avesse lasciato le chiavi della sua camera piena di libri. L’8
agosto vi fu la distribuzione dei premi, il giorno stesso si seppe
della sconfitta di Wissemburg e l'indomani di quella di Reichshoffen. Il giovane poeta, chiuso nella camera di Izambard,
scriveva febbrilmente:
Signore, com’è fortunato a non abitare più a Charleville! La mia città natale è superlativamente idiota fra tutte le cittadine provincia […] Che
orrore, i droghieri in pensione che si mettono l’uniforme! È meraviglioso le
arie che hanno messo su questi notai, i vetrai, gli esattori, i falegnami e
tutti i pancioni che, fucile al petto, fanno mostra di patriottismo alle porte
di Meziérès. La patria è in piedi. Io, per quanto mi riguarda, preferisco
vederla seduta. Non muovete gli stivali, è il mio motto. Sono spaesato, malato, furioso, istupidito, stravolto; aspiravo a bagni di sole, passeggiate
infinite, riposo, viaggi, avventure e insomma cose da bohémien; speravo soprattutto in libri, giornali… Niente! Niente! la posta non porta più niente
ai librai; Parigi se ne infischia bellamente di noi.
Charleville, 25 agosto 1870
Ad agosto Rimbaud compose Alla musica, feroce satira sul
provincialismo borghese di Charleville: fra i “grassi burocrati”
che ascoltavano il concerto della banda militare in Place de la
Gare una miccia sovversiva iniziava pericolosamente a sfrigolare.
Capitolo 5
Libertà Libera
Un degenerato mentalmente superiore con la
complicazione aggiuntiva, durante il
periodo di creazione letteraria,
di delirio tossico - Dott. E. Jacquemin-Parlier
Il paese era in fermento: bollettini di guerra, ospedali da campo e infermerie volanti ovunque. Il 13 agosto 1870 fu
pubblicata Prima serata su “Le Charge”, giornale sarcasticamente
patriottico: la poesia valse al giovane poeta un abbonamento
gratuito. Il 29 agosto Rimbaud stava passeggiando sulle rive della Mosa con la madre e le due sorelline. All’improvviso si
allontanò dicendo che doveva tornare a casa a prendere un libro: andò alla stazione e prese il treno per Parigi. Era la sua
prima fuga. Arrivato a Charleroi si accorse che i soldi gli bastavano solo per arrivare a Saint-Quentin. Decise di rimanere sul
treno tentando la fortuna ma gli andò male. All’arrivo fu arrestato, rispose sprezzante alle domande del giudice istruttore e
venne rinchiuso nel carcere di Mazas. Il 5 settembre scrisse a
Izambard pregandolo di farlo uscire.
Spero in lei come in una madre; lei è stato sempre per me come un fratello:
le chiedo istantemente l’aiuto che mi ha offerto. Ho scritto a mia madre, al
procuratore imperiale, al commissario di polizia di Charleville; se non avrà
ricevuto mie notizie mercoledì, prima del treno che va da Douai a Parigi,
prenda quel treno, venga qui e mi richieda per iscritto.
L’affezionato professore pagò la cauzione e lo invitò a Douai.
Rimbaud, coccolato dalle sorelle Gindre e divenuto amico del
poeta Paul Demeny, aveva trovato un piccolo eden insperato. Il
23 settembre spedì un articolo dai toni violentemente rivoluzionari al direttore del “Liberal du Nord” a nome di Izambard, per
rendere conto di una pacata riunione elettorale tenutasi in Rue
d’Esquerchin. Quando Izambard aprì il giornale inorridì. Il 24
arrivò al professore una lettera di Mme Rimbaud con l’ordine di
rimpatriare immediatamente quel figlio scapestrato (“come mai
gli è venuta in mente una simile follia?”). Izambard doveva
anch’egli ritornare a Charleville e il 27 settembre decise di accompagnarlo: venne accolto dalle prevedibili rimostranze della
“Mother”. Rimbaud riprese così a frequentare Delahaye, lo spirito anelante alle più meravigliose devastazioni catartiche:
“Guarda – gli spiegò un giorno indicando un fiore – dove potresti acquistare un oggetto lussuoso e artistico che abbia una
struttura più sapiente di questo fiore di campo? Quando tutte le
nostre istituzioni sociali saranno scomparse, la natura ci offrirà
sempre, in varietà infinita, milioni di gioielli”.
Il 7 ottobre comunicò alla madre che usciva a fare una passeggiata e s’incamminò verso il Belgio. La donna pregò
Izambard di riacciuffarlo ma il fuggiasco aveva diversi giorni di
vantaggio. Durante il suo cammino scrisse altre poesie – Al
Cabaret Vert, La mia bohème – sui tavoli delle locande o nei fossati in cui dormiva. Raggiunto Charleroi, trentatré miglia a nordovest, Rimbaud chiese al direttore del “Journal de la Charleroi”,
Xavier Des Essart, padre di un suo compagno di scuola, di poter collaborare al quotidiano. I modi impertinenti del ragazzo
mandarono a monte il progetto. Allora, sacco in spalla, Rimbaud virò per Douai, ovviamente a piedi: trentaquattro miglia.
Trovò alloggio prima da un amico di Izambard, Durand, poi
tornò dalle “zie” Gindre. Fu lì che Izambard lo trovò intento a
ricopiare i suoi sonetti sul tavolo da pranzo. Mme Rimbaud ordinò al professore di consegnarlo alla polizia e lui, a malincuore,
obbedì. I due si strinsero la mano a lungo per salutarsi: non si
sarebbero rivisti mai più.
Sono ritornato a Charleville il giorno dopo averla lasciata […] Muoio, mi
decompongo nella mediocrità, nella meschinità, nel grigiore. Che vuole, mi
incaponisco tremendamente a voler adorare la libertà libera, e… un mucchio di cose, da “far pietà”, non è vero? – Avrei dovuto ripartire oggi
stesso; potevo farlo: ero vestito a nuovo, bastava vendere l'orologio, e viva la
libertà! – Dunque sono rimasto! Sono rimasto! – e vorrò ripartire ancora
tante altre volte. – Su, cappello, cappotto, i pugni nelle tasche, e andiamo.
Ma resterò. Questo non l’ho promesso. Ma lo farò per meritarmi il suo
affetto: me l’ha detto lei. Lo meriterò.
Charleville, 2 novembre 1870.
La lettera era firmata “quel senza cuore di Arthur Rimbaud”.
Il 31 dicembre 1870 i prussiani bombardano Mézières.
Capitolo 6
Il Veggente
Il primo poeta di una civiltà non ancora nata - René Char
All’inizio dell’anno cominciò a cadere una fitta neve su Charleville. Le truppe prussiane giravano per le strade attonite. A
metà febbraio ripresero le lezioni. Il collegio si era temporaneamente trasferito al teatro municipale. Rimbaud disse alla madre
che non era “tagliato per le scene” e rifiutò di andarci minacciando di vivere in una cava arenaria nei vicini boschi. Seduto al
Cafè Dutherme, nella Place Ducale, inveiva contro la Francia
“sciovinista”, la gente senza scrupoli e la maggior parte
dell’umanità che avrebbe dovuto essere “sterminata a fuoco lento”, scriveva “Merde à Dieu” sulle panchine, dileggiava i preti,
un giorno arrivò a provocare degli spocchiosi ufficiali prussiani
in un caffè ricevendo in cambio torve occhiatacce: non vi furono conseguenze più gravi per un puro caso. “L’amor proprio
nazionale non aveva nulla a che fare con questa provocatoria
ironia nei confronti della vanagloria prussiana – spiegò Delahaye anni dopo – Rimbaud avrebbe fatto la stessa cosa, e faceva la
stessa cosa, con i compatrioti, di fronte a qualsiasi sfoggio di
boria”.
Chi può smuovere i turbini del fuoco furente,
Se non noi e coloro che immaginiamo fratelli?
A noi! Romanzeschi amici: ci piacerà.
Non lavoreremo mai, o flutti di fuoco!
Europa, Asia, America, sparite.
La nostra marcia vendicatrice ha occupato tutto,
Città e campagne! - Saremo schiacciati!
I vulcani salteranno! e l'oceano colpito…
Cosa sono per noi, cuor mio
In quel periodo Rimbaud fissò anche un appuntamento con
una ragazzina, a Place de la Gare. Fu un disastro: “Ero timido
come trentasei milioni di barboncini appena nati”, confidò
all’amico iniziando percepire i primi fremiti di una virulenta avversione per le sue coetanee. “L’amore dev’essere reinventato”,
sosteneva.
Il 25 febbraio vendette l’orologio e partì ancora una volta per
Parigi. Ma la delusione fu grande, nella capitale non si parlava
che di cibo e di guerra, e le librerie offrivano solo le ricostruzioni dell’assedio. Rimbaud prese a girovagare assorto, non aveva
incontrato neanche un artista. Un giorno, trovando la porta aperta, s’infilò nella casa del vignettista André Gill e si
addormentò sul divano. Quando il proprietario tornò e gli chiese cosa ci facesse lì, lui rispose: “Facevo uno splendido sogno”.
– Vedevo un mare di fiamme e di fumo in cielo, e a sinistra, a destra, tutte
le ricchezze avvampare come un miliardo di tuoni. – Intanto si era fatto
crescere i capelli fino alle spalle, fedele al look dei parnassiani, in
spregio alla moda e alle convenzioni del tempo. Il 10 marzo,
deluso, decise di ritornare a casa: centocinquanta miglia a piedi
attraverso strade di campagna.
Il 18 marzo a Parigi scoppiava il tumulto della Comune. Il
popolo impugnava le armi, il potere si asserragliava a Versailles.
Rimbaud e Delahaye, eccitatissimi, percorrevano i fauborg gri-
dando ai commercianti “Ci siamo! L’ordine è vinto! Il novantadue continua!”. Il 12 aprile il collegio riapriva ufficialmente i
battenti, ma questo era secondario, bisognava changer la vie.
Quando siamo molto forti, - chi arretra? molto lieti, - chi casca nel ridicolo?
Quando siamo molto cattivi, - cosa fare di noi?
Ornatevi, danzate, ridete. Non potrò mai buttare l’Amore dalla finestra!
Frasi
Rimbaud riprese i suoi lunghi vagabondaggi nei paesi circostanti, spingendosi fino in Belgio per rifornirsi di tabacco. Il suo
rifugio preferito era la biblioteca municipale, ma un giorno il
bibliotecario Hubert, stanco delle sue insolite richieste – antichi
trattati di alchimia, libretti di opera buffa, romanzi licenziosi del
Settecento – lo cacciò via. Rimbaud per vendicarsi scrisse I seduti, poesia in cui irrideva i fossili che passano le giornate
“tremando come i rospi tremano dolenti”. Gli autoritari sono
persone malvagie, impotenti, sosteneva. Per alcuni giorni lavorò
come segretario di redazione del “Progrés des Ardennes”, poi
venne a sapere che la Comune reclutava guardie nazionali per
quindici soldi al giorno e a fine aprile avrebbe deciso di ripartire
per Parigi. Fu subito arruolato dagli insorti – raccontò a Delahaye – e destinato alla caserma di Babylone sulla Rive Gouche,
dove regnava un disordine pazzesco di operai, studenti, disertori e marinai, gente da cui forse subì la violenza descritta nella
poesia Il cuore rubato. Prese quindi a vagolare per le vie cittadine
col disegnatore Jean-Louis Forain, ma non c’era traccia di battaglie. Disilluso dall’insurrezione parigina fece ritorno a casa.
Non è mai stato accertato, in realtà, se Rimbaud partecipò alla
Comune. In ogni caso, inebriato da quegli sconvolgimenti politici, redasse un progetto di costituzione comunista e si gettò a
capofitto nella sua personale definitiva Rivoluzione: quella della
Poesia. “Bisogna soltanto spalancare i nostri sensi alla sensazione, – diceva – occorre assorbire, vedere, ascoltare, e poi
annotare con le parole ciò che si è ricevuto, qualunque cosa
sia”. – Bisogna essere assolutamente moderni. – Il 13 maggio inviò a
Izambard una lettera carica di scherno: vi erano esposte le sue
teorie innovatrici in fatto di poesia: una poesia che deve essere
necessariamente oggettiva e trascendere l’individuo, poiché “IO è
un altro”.
In fondo lei non vede nel suo principio che poesia soggettiva: la sua ostinazione a voler riguadagnare la greppia universitaria – pardon! – lo
dimostra. Ma lei finirà sempre come un soddisfatto che non ha fatto niente,
perché non ha voluto far niente. Senza contare che la sua poesia soggettiva
sarà sempre orribilmente insulsa. Un giorno, spero, – e molti altri sperano
la stessa cosa, – vedrò nel vostro principio la poesia oggettiva, la vedrò più
sinceramente di quanto potrebbe farlo lei!
Due giorni dopo, il 15 maggio, scrisse a Demeny la famosa
Lettera del Veggente, in cui spiegava all’amico la sua concezione di
poeta che raggiunge l’ignoto e si fa veggente “attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi”. Il poeta
deve la propria lucidità sovrannaturale alla capacità di coltivare
sistematicamente allucinazioni e percezioni assolute e ha il
compito di guidare l’umanità sulla strada dell’Avvenire. La lettera è divenuta un testo sacro della poesia moderna.
[Il poeta deve sperimentare] tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia;
egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la
quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta
la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il gran-
de criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge
all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli
giunge all'ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere
l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste! Crepi pure nel
suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili
lavoratori; cominceranno dagli orizzonti su cui l’altro si è accasciato! […]
Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco. Ha a suo carico l’umanità,
perfino gli animali; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni;
se ciò che riporta da laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, darà
l’informe. Trovare una lingua; – Del resto, ogni parola essendo idea, il
tempo di un linguaggio universale verrà! Bisogna essere un accademico, –
più morto di un fossile, – per rifinire un dizionario, di qualunque lingua
sia. I deboli che si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto,
potrebbero rovinare subito nella pazzia! – Questa lingua sarà dell’anima
per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe la quantità d'ignoto che si
risveglia nell'anima universale del suo tempo: egli darebbe di più – della
formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il
Progresso! Enormità che diventa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe
veramente un moltiplicatore di progresso.
Lettera del Veggente
La missiva conteneva, inoltre, forti dichiarazioni in favore
dell’emancipazione delle donne, una presa di posizione sorprendentemente moderna per l’epoca, soprattutto da parte di
un ragazzino non ancora maggiorenne.
Quando sarà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando ella vivrà
per sé e grazie a sé, poiché l'uomo – finora abominevole, – le avrà reso il
suo congedo, sarà poeta, anche lei! La donna troverà dell’ignoto! I suoi
mondi d’idee differiranno dai nostri? – Troverà cose strane, insondabili,
ripugnanti, deliziose; noi le prenderemo, noi le comprenderemo.
Rimbaud vi allegò anche alcune poesie, Canto di guerra parigino,
Gli accosciamenti, I poveri in chiesa, le cui sfumature grottesche e
anticlericali turbarono l’amico. Il 21-28 maggio scoppiò la terrificante “Settimana di sangue”: le truppe del governo francese
massacrarono migliaia di pacifici cittadini. Quell’estate Rimbaud
scrisse Le mani di Jeanne-Marie e L’orgia parigina, poesie
d’ispirazione comunarda, e L'uomo giusto, un invito al ripudio di
qualsiasi “maestro di vita”. L’ex gloria del collegio di Charleville
percorreva a grandi falcate le vie del paese, volute di fumo nero
si alzavano dalla sua pipa di creta, i capelli lunghi gli ricadevano
sul colletto. Era in piena febbre “filomatica”, termine con cui
Rimbaud indicava la tendenza ad apprendere freneticamente
qualsiasi cosa, assorbendo con voracità nuovi vocaboli, conoscenze, fatti. “Lavorare ora, mai, – affermava – sono in
sciopero”.
Ho orrore di tutti i mestieri. Padroni e operai, tutti bifolchi, ignobili. La
mano da penna vale la mano da aratro. - Che secolo di mani! - Io non avrò
mai la mia mano.
Una Stagione all’Inferno
A giugno supplicò in una lettera Demeny di bruciare tutte le
poesie che gli aveva consegnato in Belgio. L’amico le conservò.
Il 15 agosto spedì a Banville il componimento Quel che si dice al
poeta a proposito di fiori, in cui derideva ferocemente il manierismo
dei parnassiani. La poesia era datata 14 luglio 1871, il giorno
della presa della Bastiglia: Rimbaud era in rivoluzione perma-
nente. Poi litigò con Izambard, reo di non aver capito la poesia
Il cuore rubato e le sue ambizioni. Due settimane più tardi scrisse
nuovamente a Demeny pregandolo di trovargli una sistemazione stabile a Parigi e dichiarandosi perfino disposto a lavorare:
Situazione dell’imputato: ho abbandonato da più di un anno la vita normale per quello che lei sa. Chiuso perennemente in questa inqualificabile
contrada ardennese, senza frequentare un solo uomo […] Non chiedo niente, chiedo un’informazione. Io voglio lavorare libero: però a Parigi, che amo.
Senta: sono un viandante, nient’altro; arrivo nella città immensa senza
alcuna risorsa materiale: però lei mi ha detto: Chi desidera essere operaio a
quindici soldi al giorno va nel tal posto, fa così, vive così. Andrò lì, farò
così, vivrò così. L’ho pregata di indicarmi occupazioni poco impegnative
perché il pensiero richiede ampie porzioni di tempo.
Charleville, [28] agosto 1871
Su suggerimento di Auguste Bretagne, personaggio istrionico
e appassionato di occultismo conosciuto grazie a Izambard,
Rimbaud scrisse infine una lettera al poeta Paul Verlaine pregandolo di tirarlo fuori da quella desolazione. Verlaine, allora
ventiseienne, gli rispose con entusiasmo (“Venga, cara grande
anima! La chiamiamo, l’aspettiamo!”) e invitò il ragazzo a raggiungerlo. Rimbaud ne fu entusiasta ma confidò a Delahaye i
suoi timori: “Quanto a intelligenza non temo nessuno, ma quello è un mondo di salotti e intellettuali, non saprò come
comportarmi!”.
Laggiù, non ci sono forse anime oneste, che mi vogliono bene… Venite… Ho un guanciale sulla bocca, non mi sentono, sono fantasmi. E
poi, nessuno pensa mai agli altri. Non avvicinatevi. Puzzo di bruciato,
questo è certo.
Una Stagione all’Inferno
Capitolo 7
Il Selvaggio
Un dio della mitologia. Pubertà superba e perversa.
Un passante considerevole. Anarchico di spirito.
Splendore d'una meteora accesa senza nessun altro motivo
che la propria presenza, scaturita sola e poi spenta - Mallarmé
Il 10 settembre 1871 il quasi diciassettenne Rimbaud arrivò a
Parigi ma alla stazione non riuscì ad incontrare Verlaine, che era
andato ad accoglierlo assieme al poeta e inventore Charles Cros.
Allora si diresse in Rue Nicolet, a casa dei suoceri di Verlaine,
dove questi viveva con la neosposa adolescente Mathilde Mautè. I suoi modi rozzi e grossolani “spiazzarono” non poco la
benestante famiglia Mauté. Verlaine invece fu immediatamente
affascinato dal fanciullo di Charleville e lo introdusse nei circoli
letterari che frequentava, “L’uomo era alto, ben piantato, quasi
atletico – scrisse – con un viso perfettamente ovale di angelo in
esilio, capelli castano chiari in disordine e occhi d’un azzurro
pallido inquietante”.
Il 30 settembre ebbe luogo il pranzo mensile dei “Vilains
Bonshommes”, un club di poeti e artisti. Rimbaud lesse la poesia Il battello ebbro: i convitati rimasero ammutoliti, totalmente
annientati dall’esplosione di lampi e visioni così allucinanti. Leon Valade scrisse all’amico Blemont: “Stiamo assistendo alla
nascita di un genio!”.
E’ un vero peccato che ti sia perso il nostro ultimo pranzo degli Affreux
Bonshommes [sic]. Lì, sotto gli auspici di Verlaine, il suo creatore, e i
miei, il suo Giovanni Battista della Rive Gauche, si è esibito un poeta
terrificante men che diciottenne di nome Arthur Rimbaud. Grandi mani,
grandi piedi, una faccia veramente da bambino che starebbe bene a un
tredicenne, profondi occhi azzurri, selvaggio più che timido, questi è il giovane la cui immaginazione, con i suoi stupefacenti poteri e la sua
depravazione, sta affascindando o spaventando tutti i nostri amici.
Nel Quartiere Latino non si parlava d’altro. L’adolescente,
invasato dal demone dell’irriverenza, propose di abolire
l’alessandrino (verso della metrica utilizzato nella poesia francese da secoli) lasciando i suoi interlocutori esterrefatti. Il sonetto
Vocali, dalla perfezione stilistica estrema, scatenò un altro terremoto la cui onda d’urto fece fiorire aneddoti più o meno
verosimili: si raccontava che Victor Hugo avesse dato un buffetto al giovane poeta definendolo “Shakespeare bambino” (il
quale, per tutta risposta, avrebbe borbottato “Vecchio stupido…”). La sua fama era alle stelle ma le intemperanze del
“beniamino delle Muse” non si placarono. Disinibito dall’alcol,
Rimbaud cercò di sfregiare con un temperino i coniugi Verlaine
in un caffè e in un’altra occasione di colpire con un coltello il
giornalista Edmond Lepelletier, reo di aver scritto un articolo
ironico sull’ambiguo rapporto fra i due poeti. Verlaine, su consiglio della madre, gli chiese di cercarsi un lavoro, “Il lavoro è
più lontano da me di quanto lo sia l’unghia dal mio occhio”, gli
rispose l’altro aggiungendo otto volte la parola “merda”. – Le
viscere mi bruciano. La violenza del veleno mi torce le membra, mi rende deforme, mi schianta. Muoio di sete, soffoco, non posso gridare. –
Alcuni poeti si diedero da fare per dare a Rimbaud un piccolo
assegno di tre franchi al giorno, Banville gli offrì la stanza degli
ospiti nel proprio appartamento in Rue de Buci n. 10, fra
l’Odéon e la Senna. Quella sera, salito in mansarda, Rimbaud si
spogliò e gettò i vestiti sulle tegole del tetto dando
l’impressione, al proprietario di casa, di una belluina figura mitologica. A metà ottobre fece ritorno a Parigi e alloggiò due
settimane nello studio-laboratorio di Charles Cros, nel Quartiere Latino, al numero 13 di Rue Séguir, un vicolo che portava
alla Senna. Resosi insopportabile anche a Cros, andò via e iniziò
a vagabondare vivendo fra i barboni della Place Maubert, dove
Verlaine una sera lo trovò sudicio e deperito.
Per le strade, nelle notti d’inverno, senza dimora, senza vestiti, senza
pane, una voce mi stringeva il cuore gelato: “Eccoti, è la forza. Non sai né
dove vai né perché vai, entra dappertutto, rispondi a tutto. Non ti ammazzeranno più che se fossi cadavere.” Al mattino avevo lo sguardo così
sperduto e il contegno così smorto, che quelli che ho incontrato forse non
mi hanno visto.
Una Stagione all’Inferno
L’amico gli mise a disposizione una camera all’Hôtel des Etrangers, sede del “Cercle Zutique”, fondato da Charles Cros e
altri intellettuali, dove conobbe l’eccentrico musicista Ernest
Cabaner, persona gracile dai fluenti capelli lisci: “Gesù Cristo
dopo dieci anni di assenzio”, lo chiamava Verlaine. Chi partecipava agli incontri del circolo poteva scrivere sull’Album Zutique
brevi sonetti in rima. Rimbaud riempì il giornale di salaci parodie di noti poeti. Lui e Cabaner vennero incaricati della
distribuzione dell’alcol ai membri del circolo e dell’acquisto della scorta. Fu in quei locali che un giorno Verlaine e Delahaye –
che era partito alla sua ricerca – lo scovarono sdraiato su una
panca, nel lerciume, sprofondato fra i torpori dell’hashish. Aveva un viso scarno, occhi cerchiati di rosso e i capelli lunghi.
Disse a Delahaye cha la Comune era stata ridotta a una minuscola banda di maniaci suicidi cui lui stava pensando di unirsi in
un definitivo atto di terrorismo urbano, e definì Parigi “il posto
meno intellettuale della Terra”. A dicembre Rimbaud fu portato
dal fotografo delle celebrità Etienne Carjat, che lo immortalò in
uno foto divenuta leggendaria. “I suoi occhi sono stelle, – disse
Jean Cocteau nel 1919 commentandola, – sembra un angelo,
una materializzazione”. Il pittore Henri Fantin-Latour impugnò
i pennelli e cominciò a ritrarlo assieme a un gruppo di artisti nel
quadro Coin de table, un “Omaggio a Baudelaire” che contava di
presentare al Salon del 1872.
Che cos’è il mio nulla in confronto allo stupore che vi attende?
Capitolo 8
L’Accademia dell’Assenzio
Un genio fanciullo nell’anima del quale poesia e verità
intendevano cantare concordi per la gioia
e l’elevazione della condizione umana - Mario Luzi
All’inizio del 1872 il “Cercle Zutiste” chiuse. Rimbaud prese a
girovagare assieme al pittore Jean-Louis Forain. Ogni tanto si
fermavano al Louvre, Forain dipingeva, Rimbaud, che disdegnava la pittura moderna, si godeva il dolce tepore di quelle
stanze. “I pittori non devono più replicare gli oggetti, – diceva –
le emozioni devono essere create con linee, colori e schemi presi dal mondo fisico, semplificato e sottomesso”. Rimbaud
parlava di arte astratta, stava già enunciando i principi che le
scuole d’avanguardia avrebbero proclamato spavalde nel ventesimo secolo. L’8 gennaio Rimbaud e Forain trovarono alloggio
in uno squallido edificio all’estremità orientale del Quartiere
Latino, all’angolo fra Rue Campagne-Première e Boulevard
d’Enfer, e vi stettero due mesi. Dormivano in un’ampia mansarda dal soffitto obliquo, il pittore sul materasso, il poeta sulla
rete, quasi sempre imbottito di assenzio.
Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria sfibrante e il mare; verso i supplizi,
attraverso il silenzio delle acque e dell’aria mortali; verso le ridenti torture,
nel loro silenzio atrocemente burrascoso.
Angoscia
Verlaine andava a trovarlo di frequente, preda ormai del suo
fascino diabolico, e i due scivolavano in un’ardente deriva alcolica dentro locali d’infimo ordine. Una sera Verlaine cercò di
bruciare i capelli della moglie, il 13 gennaio scaraventò il figlio
sulla parete e poi cercò di strangolare Mathilde. Il padre di
quest’ultima, esasperato, la convinse a rifugiarsi col bambino a
Périgueux, il paese dei Mauté. Verlaine tornò dalla madre.
Sebbene scatenasse emozioni violente, Rimbaud risultava gradevole quando voleva, manifestava una vaga timidezza in
presenza di gente appena conosciuta, una curiosità inafferrabile.
A volte si stropicciava gli occhi con i pugni, spesso era imbronciato e meditabondo, perduto fra le nuvole di fumo della sua
pipa. Aveva una conversazione brillante, originale, ma “puzzava
di genio”, come disse una volta Forain. E i geni, si sa, non puoi
addomesticarli. Il 2 marzo si tenne un pranzo dei Vilains Bonshommes e al momento del dessert il poeta Auguste Creissels,
secondo l’usanza, si accinse a leggere una sua poesia. Rimbaud
cominciò a interromperlo esclamando “merda” alla fine di ogni
verso. Carjat, esasperato, lo chiamò “piccolo rospo”, Rimbaud
allora si scagliò su di lui con la lama del bastone animato ferendolo alle mani e al ventre. Lo scalmanato, alla fine, fu
immobilizzato a fatica e affidato al pittore Michel de l’Hay che
lo ricondusse nella sua stamberga in Rue Campagne-Première.
Da quel momento Rimbaud fu bandito da tutti i conviti dei Vilains Bonshommes, Carjat bruciò i negativi delle sue foto e
Mérat si rifiutò di posare assieme a lui nel quadro di FantinLatour (venne sostituito da un vaso di fiori). Mathilde, da parte
sua, minacciò il marito di separazione se non avesse cacciato
immediatamente l’enfant terrible. Verlaine allora lo convinse a lasciare momentaneamente Parigi e Rimbaud a marzo fece i
bagagli. “La mia superiorità sta nel fatto che io non ho cuore”,
diceva di sé.
Sta’ zitto, ma stai zitto!... C'è la vergogna, c’è il rimprovero, qui: Satana
che dice che il fuoco è ignobile, che la collera è terribilmente sciocca. - Basta!... con gli errori suggeriti dagli altri, magie, falsi profumi, musiche
puerili. - E dire che posseggo la verità, che vedo la giustizia: ho un giudizio
sano e sicuro, sono pronto per la perfezione…
Una Stagione all’Inferno
Rimbaud trascorse qualche giorno ad Arras con alcuni parenti
di Verlaine, poi fece ritorno a Charleville, dove riprese le vecchie abitudini e le passeggiate con Delahaye. A maggio scrisse
Memoria, Lacrima, Canzone della torre più alta e L’eternità, sonetti
sibillini in cui vibra una malinconica contemplazione
dell’esistenza dagli ipnotici riverberi. Alla fine del mese Verlaine, che nel frattempo era tornato dai Mauté e lavorava come
assicuratore, gli scrisse di tornare clandestinamente a Parigi pregandolo di assumere un aspetto più presentabile. Il 25 maggio
Rimbaud raggiunse la capitale e per un mese e mezzo si spostò
da una pensione all’altra come un ricercato. A giugno scrisse
una lettera a Delahaye da una stanzetta soffocante dell’Hôtel de
Cluny, in Rue Victor-Cousin, accanto alla Sorbona: si svegliava
alle cinque del mattino, andava ad ubriacarsi con l’assenzio e
tornava barcollante alle sette crollando sul letto.
L’estate è opprimente: la calura non è molto costante, ma al vedere che il
bel tempo interessa a tutti, e che tutti sono dei porci, odio l’estate, che mi
uccide non appena si manifesta […] Mi auguro con forza che le Ardenne
siano occupate e tiranneggiate sempre più sfrenatamente […] Il primo mattino d’estate, e le sere di dicembre, ecco ciò che mi ha sempre incantato qui.
Giugno 1872
Ormai Rimbaud era diventato un habitué dell’Academie de
l’absinthe, un caffè situato al n. 175 di Rue Saint-Jacques. Un
giorno, da quelle parti, incontrò Jules Mary, un vecchio compagno del collegio di Charleville. I due chiacchierarono
cordialmente e mangiarono assieme. Verlaine, intanto, aveva
ripreso i suoi atteggiamenti sregolati e violenti esasperando la
giovane moglie. Il 7 luglio uscì di casa per comprare delle medicine per Mathilde che non si sentiva bene. Dopo qualche passo
s’imbatté in Rimbaud, che lo convinse a partire per il Belgio.
Presero il treno quella notte. La mattina arrivarono ad Arras. Al
buffet della stazione, mentre aspettavano la coincidenza per
Bruxelles, si divertirono a terrorizzare un signore con un cappello di paglia seduto al tavolo accanto facendosi passare per
temibili banditi. Poco dopo arrivarono due gendarmi e li condussero alla stazione di polizia. Rimbaud finse di piangere
intenerendo il magistrato che li rispedì a Parigi. Arrivati alla Gare de l’Est i due presero il treno per Charleville. Qui Bretagne,
nella notte, li fece condurre in Belgio da un carrettiere facendoli
passare per due preti. Due ore prima dell’alba, il 10 luglio, scesero dal carretto nei pressi del villaggio di Pussemange e si
addentrarono nel bosco per evitare i doganieri. Giunti a Bruxelles iniziò per loro un periodo di spensieratezza e libertà
sfrenata, andavano a zonzo fumando sigari e bevendo assenzio.
Quasi ogni notte, appena addormentato, il povero fratello si alzava, la bocca imputridita, gli occhi estirpati, - proprio come si sognava lui! - e mi
trascinava nella sala urlando il suo sogno di dolore idiota. Avevo infatti, in
tutta sincerità di spirito, preso l’impegno di restituirlo al suo stato primitivo
di figlio del Sole, - ed erravamo, nutriti del vino delle caverne e del biscotto
della strada, io ansioso di trovare il luogo e la formula.
Vagabondi
Presero a frequentare Georges Cavalier detto “Pipainbocca” e
i suoi amici esuli della Comune, ma Verlaine non riusciva a reprimere i rimorsi: “Non piangere, sto facendo un brutto sogno,
un giorno tornerò”, scrisse a Mathilde. Il 21 luglio lei e la madre
lo raggiunsero a Bruxelles per riportarselo a casa. Verlaine,
sborniato, le seguì alla stazione e salì sul treno. “Noi abbiamo
amori di tigri”, disse alla moglie mostrando il petto ferito dalle
coltellate di Rimbaud. Alla frontiera di Quiévrain, sceso dalla
carrozza con gli altri passeggeri per passare la dogana, si confuse fra la folla e riprese il treno per Bruxelles.
Io solo ho la chiave di questa parata selvaggia.
Capitolo 9
Vagabondi
Uno ‘spirito’ del più alto rango nel corpo
di un fanciullo vizioso e terribile.
Uno mostro di purezza - Jacques Rivière
I due poeti, spiati dagli informatori della polizia belga e schedati fra i “criminali e prigionieri evasi”, ripresero le loro
peregrinazioni. Il 6 agosto 1872 erano nel nord del paese, attraversarono Malines, Anversa, Gand. Rimbaud, definito da un
informatore della polizia come combattente fra gli irregolari
della Comune, scrisse Feste della fame, Bruxelles, Feste della pazienza
e La caccia spirituale, poema misterioso che non è mai stato ritrovato. Il 7 settembre i fuggiaschi raggiunsero la costa a Ostenda:
era la prima volta che Rimbaud vedeva il mare. Quella notte
presero il traghetto per Dove e da lì, un paio di giorni dopo,
salirono sul treno che la sera del 9 settembre si fermò alla stazione londinese di Charing Cross; verosimilmente trovarono
alloggio in un albergo nelle vicinanze. L’indomani
s’incamminarono verso il centro, il tempo era delizioso, il sole
sfolgorava sovrano, i due poeti furono quasi storditi dalla maestosità della metropoli inglese: carri, carrozze, omnibus, tram,
strade immense, cocchieri dalle ampie guarnacche (“gli ultimi
romantici”, diceva Rimbaud), gente di colore, piccoli lustrascarpe e palazzi dall’architettura terrificante che davano un senso di
enorme decadenza.
L’acropoli ufficiale supera le concezioni più colossali della barbarie moderna. Impossibile esprimere la luce opaca prodotta da questo cielo
immutabilmente grigio, lo splendore imperiale degli edifici, e la neve eterna
del suolo. Sono state riprodotte con un gusto singolare dell’enormità tutte le
meraviglie classiche dell’architettura.
Città
Attraversarono Tafalgar Square e imboccarono Regent Street,
quindi chiesero ospitalità al pittore Regamey, vecchio amico di
Verlaine, che abitava in Langham Street. Questi spiegò che presto Eugène Vermersch, rifugiato comunardo, avrebbe lasciato la
sua stanza al n. 34 di Howland Street. Le prime settimane i due
francesi si dedicarono all’esplorazione del nuovo mondo. Visitarono la Torre di Londra e i principali musei della città, la
National Gallery, il Museo di Madame Tussaud, la metropolitana da poco inaugurata, i suggestivi docks e le loro taverne
cinesi, frequentate dai fumatori d’oppio. Rimbaud, estasiato,
osservava le navi ormeggiate e i marinai, esaminava le mercanzie, – acquistò un cappello a cilindro per dieci scellini, – si
accomodava assieme all’amico nei pub, nei caffè, nei teatri.
I due amici trovarono temporaneamente lavoro come redattori di lettere commerciali in francese per testate americane,
continuarono ad affinare il loro inglese e presero a frequentare i
circoli intellettuali, fra cui il Cercles d’Etudes Sociales, un club
di rifugiati. Il 1° novembre assistettero a una conferenza di
Vermersch e alla Society of french artists exhibition contemplarono se stessi nel Coin de table di Fantin-Latour. Non è escluso
che videro Karl Marx in uno dei numerosi convegni politici che
si tenevano in quel periodo. Madame Rimbaud, intanto, era andata in Rue Nicolet per chiedere a Mathilde di far tornare il
marito. La sposa aveva già avviato le pratiche per la separazione
e la accolse con gentilezza ma non mosse un dito. Improvvisamente, a metà dicembre, Rimbaud decise di prendersi una pausa
e tornò a Charleville. Verlaine rimase a Londra.
Non è niente! sono qui! sono sempre qui.
Capitolo 10
Libro Pagano
L’uomo dalle suole di vento. Un angelo in esilio.
Un grandissimo poeta, assolutamente originale,
di un sapore unico, prodigioso linguista, la cui vita è tutta
rivolta in avanti nella luce e nella forza, bella
per la sua logica e per la sua unità come la sua opera - Paul Verlaine
Rimbaud iniziò a raccontare a Delahaye le meraviglie di Londra, dove tutto era molto più “intelligente” e “logico” che in
Francia. Qualche giorno dopo gli arrivò una lettera di Verlaine:
era distrutto dalla sua partenza e in più aveva contratto un terribile raffreddore. Mme Rimbaud si rifiutò di pagare al figlio il
viaggio di ritorno, vi provvide la madre di Verlaine che gli inviò
cinquanta franchi. A metà gennaio Rimbaud era di nuovo in
Howland Street con l’amico. Nei due mesi successivi intrapresero seriamente lo studio dell’inglese: leggevano Swinburne,
Edgar Allan Poe, quotidiani e riviste, ascoltavano le discussioni
per strada, prendevano appunti, traducevano versi. Il 25 marzo
1872 Rimbaud ottenne il tesserino del British Museum (biblioteca e museo) dichiarando di “non avere meno di ventun anni”
e ne divenne assiduo frequentatore. Verlaine intanto continuava
ad essere angosciato dai rimorsi per Mathilde, portò più volte la
valigia a Victoria Station ma poi, misteriosamente, fece ritorno a
casa. Il 3 aprile si decise finalmente a prendere il treno per Newhaven. La mattina seguente era sul ponte in attesa del
traghetto per Dieppe, quando sentì due tipi che palavano di
comunardi e galera. Terrorizzato, salì su un treno per Dover e si
imbarcò sulla Comtesse de Fiandre, diretta a Ostenda. Raggiunse
Jehonville, nelle Ardenne belghe, e passò qualche giorno da una
zia paterna. Il 5 aprile Madame Rimbaud e i figli Fréderic, Isabelle e Vitalie si trasferirono alla fattoria di Roche. L’11 aprile,
Venerdì Santo, sentirono bussare alla porta…
Andai ad aprire e… immaginate la mia sorpresa, mi trovai faccia a faccia
con Arthur. Passati i primi momenti di stupore, il nuovo arrivato ci spiegò
la ragione di questo avvenimento; ne fummo molto felici e lui ben contento
di vederci soddisfatti…
Diario di Vitalie
Rimbaud non aveva mai visto il podere di famiglia e anche
quella volta ne avrebbe fatto benissimo a meno. Si annoiava a
morte e se ne lamentò con Delahaye in una lettera, nella quale
gli parlava anche di un libro che avrebbe cambiato la sua vita.
O Natura! O madre mia! Che stercaglia! e che mostri d’innocenza, questi
contadini […] Tuttavia lavoro con una certa regolarità, scrivo storielle in
prosa, titolo generale: Libro pagano, o Libro negro […] Mi sento abominevolmente a disagio. Neanche un libro, neanche un’osteria, neanche
un incidente per la strada. Quale orrore questa campagna francese. La mia
sorte dipende da questo libro, per il quale mi restano da inventare una
mezza dozzina di storie atroci. Ma come inventare atrocità qui!
Roche, maggio 1873
Il 18 maggio Verlaine gli scrisse da un caffè di Boglione, al
confine belga. Diceva che non era riuscito a farsi perdonare da
Mathilde e adesso si dibatteva fra la noia e la confusione. Rimbaud e Delahaye andarono più volte a trovarlo per banchettare
insieme. Il 24 Verlaine confidò a Rimbaud che qualche anno
prima si era confessato e fatto la comunione, ma la conversione
era durata poco. Il 25 i due decisero di tornare in Inghilterra.
L’indomani passarono da Liegi, raggiunsero Anversa e presero
il traghetto; sbarcarono ad Harwich e il 27 maggio, alle 6 e 40,
erano alla Great Eastern Station di Londra. Trovarono alloggio
al n. 2 di Great College Street, a Camden Town. Pubblicarono
subito alcune inserzioni sui giornali in cui venivano offerte lezioni di francese da parte di “due gentlemen parigini”: si
presentò solo un candidato.
La vita iniziava a farsi insopportabile, le voci su quel torbido
sodalizio giravano fastidiosamente per il quartiere, gli informatori della polizia continuavano a tampinarli. Verlaine e Rimbaud
cominciarono a litigare, anche violentemente, sempre più spesso. Il 3 luglio Verlaine stava tornando dalla spesa con un’aringa
e una bottiglia di olio in mano. Rimbaud, vedendolo arrivare
dalla finestra iniziò a sghignazzare dicendogli che era ridicolo.
Verlaine, infuriato, prese i soldi e andò via senza neanche fare i
bagagli. Raggiunse la banchina St Katharine e salì sul piroscafo
diretto ad Anversa. Rimbaud non riuscì a fermarlo e il giorno
dopo, disperato, gli scrisse:
Ritorna, ritorna, amico caro, unico amico, ritorna. Ti giuro che sarò buono.
Se sono stato sgarbato con te era uno scherzo in cui mi sono intestardito,
ma me ne pento più di quel che non sia possibile dire. Ritorna, tutto sarà
dimenticato. Che disgrazia che tu abbia dato peso a quello scherzo. Da
due giorni non smetto di piangere. […] Se non devo più vederti mi arruolerò nella marina o nell'esercito.
Capitolo 11
L’Inferno
Grande e ammirevole poeta, il massimo del suo tempo,
oracolo sfolgorante - Albert Camus
Verlaine gli rispose con una lettera datata “in mare” spiegandogli che quella loro vita era ormai diventata impossibile e che
se non fosse riuscito a tornare insieme a Mathilde si sarebbe
sparato. Rimbaud lo pregò ancora di ritornare, scettico sulle sue
minacce (“Quanto a schiattare, ti conosco!”), cercando di convincerlo che sarebbe stato felice soltanto con lui.
Come ti sembrerà strano, quando io non ci sarò più, quello che hai passato.
Quando non avrai più le mie braccia sotto il collo, né il mio cuore per riposarti, né questa bocca sui tuoi occhi. Perché dovrò andarmene molto
lontano, un giorno.
Una Stagione all’Inferno
Verlaine scrisse a Mathilde di incontrasi a Bruxelles ma, certo
che lei non avrebbe accettato, pensò di arruolarsi come volontario nell’esercito spagnolo. Poi inviò una lettera a Mrs Smith, la
padrona di casa di Londra, in cui preannunciava il suo ritorno.
Scrisse anche a Lepelletier e a Mme Rimbaud comunicando i
suoi propositi suicidi. Quest’ultima gli rispose scongiurandolo
di desistere. Il 7 luglio 1873, infine, mandò un telegramma a
Rimbaud dicendogli di raggiungerlo a Bruxelles. L’amico corse
immediatamente alla stazione, attraversò la Manica e la mattina
seguente era con Verlaine e la madre di questi all’Hôtel Liégeois.
All’ambasciata spagnola gli avevano detto che l’esercito non
reclutava stranieri e Mathilde era ormai perduta: mercoledì 9
luglio Verlaine prese a bere e continuò per tutta la notte, rientrando in albergo alle 6 del mattino. Il giorno dopo uscì e
acquistò una rivoltella in un’armeria. Quella sera, in albergo,
Rimbaud gli comunicò che l’indomani sarebbe partito per Parigi, allora, in stato di sovreccitazione, cominciò ad adombrarsi.
Alle 2 di notte andarono in un caffè sulla Grand-Place, i toni
erano molto accesi e la discussione continuò nella stanza
d’albergo. Verlaine a un tratto afferrò la pistola e sparò due colpì verso Rimbaud. Il primo lo ferì a un polso, il secondo andò a
vuoto. A quel punto scoppiò in un pianto isterico e porse la
pistola all’amico chiedendogli di premere il grilletto.
Sono schiava dello Sposo infernale, quello che ha dannato le vergini folli. È
proprio quel demonio. Non è uno spettro, non è un fantasma. Ma io che
ho perso il senno, io che sono dannata e morta per il mondo, – non mi uccideranno! – Come descriverlo? Non so neanche più parlare. Sono in lutto,
piango, ho paura.
Una Stagione all’Inferno
La madre accorse a fasciare il braccio di Rimbaud e alle 5 del
mattino lo portò all’ospedale Saint-Jean. Medicata la ferita, i tre
tornarono in albergo e Rimbaud fece i bagagli. Poco prima delle
8 di sera si stavano recando alla stazione. Mentre attraversavano
Place Ruppe Verlaine infilò la mano nel cappotto dove teneva la
pistola parandosi davanti agli altri due. Rimbaud, nel panico,
corse verso un poliziotto. Il gendarme si avvicinò a Verlaine, gli
tolse la rivoltella e lo arrestò. Il giudice istruttore cercò di far
luce sull’accaduto raccogliendo le deposizioni dei protagonisti e
documentandosi sull’insano ménage. “Per quanto concerne moralità e talento – scrisse un poliziotto nel suo rapporto – questo
Raimbaud [sic], fra i 15 e i 16 anni, era ed è un mostro. Può
scrivere poesie come nessun altro, ma le sue opere sono del tutto incomprensibili e ripugnanti”. Rimbaud insistette sullo stato
di ebbrezza dell’amico ma negò recisamente di avere avuto relazioni immorali con lo stesso. Poco convinto, il giudice ordinò
che Verlaine fosse sottoposto ad un umiliante esame fisiologico.
L’8 agosto il poeta fu condannato al massimo della pena: 2 anni
di carcere e 200 franchi di multa.
Rimbaud, che nel frattempo aveva ritirato la denuncia, il 19
luglio lasciò l’ospedale e affittò per qualche giorno una stanza in
Rue des Bouchers, sopra a una tabaccheria. Quindi partì per
Roche, si chiuse nel granaio e portò a termine la sua opera. La
intitolò Una Stagione all’Inferno: era lo sconvolgente percorso spirituale e artistico della sua vita. Fece leggere il libro alla madre
che sbalordita gli chiese cosa mai significasse. “Significa ciò che
c’è scritto – le rispose lui – letteralmente e in tutti i sensi”. Persuasa dalla determinazione del figlio, acconsentì a finanziargli la
pubblicazione e Rimbaud spedì il manoscritto all’editore Jacques Poot di Bruxelles. A fine ottobre M. Poot gli disse che
poteva ritirare le copie. Rimbaud ne prese dieci assicurandogli
che avrebbe presto saldato il conto. Lasciò una copia alla portineria della prigione di Bruxelles e tornò in Francia per
distribuire le altre agli amici, ma qui trovò un’accoglienza ostile.
Indignati dallo scandalo di Bruxelles, gli amici gli avevano voltato le spalle.
Voglio davvero che le stagioni mi consumino.
A Te, Natura, mi arrendo;
E la mia fame e tutta la mia sete.
E tu, se non ti spiace, nutri, abbevera.
Non m’illude più niente di niente;
Ridere al sole è come ridere ai genitori,
Ma io non voglio ridere più a niente;
E libera sia questa sfortuna.
Feste della Pazienza
Il 1° novembre Rimbaud entrò nell’affollato Caffè Tabourey
di Parigi, ritrovo di intellettuali e artisti. Non appena varcò la
soglia calò il silenzio. Il “demone di Verlaine” andò a sedersi ad
un tavolo appartato. – Pigra giovinezza, a tutto asservita, per delicatezza ho perduto la mia vita. – Gli si avvicinarono solo due poeti,
Alfred Poussin e Germain Nouveau, e provarono a parlargli. Il
primo fu fulminato da uno sguardo terrificante. Nouveau invece, persona dal carattere affabile e bonario che conosceva
Rimbaud per la fama delle sue poesie, fu trattato amichevolmente. I due chiacchierarono un po’ e progettarono un viaggio
in Inghilterra per l’anno successivo. Poi Rimbaud tornò a Charleville, dove la famiglia si era trasferita per passare l’inverno. Un
giorno Millot, seduto con lui al Caffè Dutherme, gli chiese
dell’incidente di Bruxelles. “Non rimestare quel mucchio di
merda – rispose – Fa troppo schifo”.
Capitolo 12
Ritorno a Londra
Un mistico allo stato selvaggio, una sorgente perduta
che torna a scaturire da un suolo saturo.
Una mente angelica, quasi certamente
illuminata da una luce celestiale - Paul Claudel
A marzo del 1874 Rimbaud e Nouveau partirono per Londra
e affittarono una stanza al n. 178 di Stamford Street, fra un pub
e un’agenzia teatrale, nei pressi del Tamigi. Nouveau fu subito
colpito dall’opprimente grigiore della metropoli e l’amico cominciò a spiegargli come orientarsi in quella giungla sterminata.
Gli mostrò le birrerie e i negozi di fish-and-chips francesi, i musei,
le sale da concerto, il Crystal Palace e la metropolitana. Forse
Rimbaud lavorò per un po’ di tempo presso una fabbrica di scatole ad Holborn. Gli archivi del British Museum registrano la
nuova tessera che il 4 aprile venne rilasciata a lui e all’amico
Nouveau. I due si diedero da fare per ricopiare in bella copia le
proprie poesie e a maggio inserirono una serie di annunci sul
“Times” per impartire lezioni di francese. A inizio giugno Nouveau, stanco dell’Inghilterra o forse convinto dagli amici a non
frequentare il poeta maudit, decise di ritornare in patria. Rimbaud così rimase solo, la sua terribile reputazione peraltro
l’aveva raggiunto anche qui e l’ambiente era meno benevolo di
un tempo. L’8 giugno pubblicò un’altra inserzione sul “Times”,
questa volta per lavorare come “segretario particolare, accompagnatore o tutore”, cambiò casa e si trasferì al n. 40 di London
Street. Decise poi di migliorare il suo inglese e pubblicò una
serie di annunci per raccattare gentlemen con cui conversare.
Continuava nel frattempo a scrivere brevi poemi in prosa, descrizioni visionarie e storielle surreali. Furono pubblicate nel
1886 col titolo di Illuminazioni, lampi d’avanguardia che si abbattevano con un boato sulla letteratura del tardo Ottocento.
Verso la fine del mese Rimbaud si ammalò gravemente. Rimessosi in sesto, ricevette una lettera dalla madre: stava venendo a
Londra a fargli visita.
Sono circa le due e mezza del mattino, il giorno comincia a spuntare; nel
cielo brillano solo poche stelle perdute nell’immensità dei cieli. I miei occhi
non hanno mai incontrato quello che osservano in questo momento; mai un
simile spettacolo si è presentato alla mia vista: niente e tutto in questa immensità solenne del mare […] Le coste dell’Inghilterra si offrono ben presto
alla nostra vista; sono coperte di un bianco giallo simile allo zolfo;
dev’essere il mare, a produrre quest’effetto…
Diario di Vitalie
La mattina del 6 luglio 1874 Rimbaud andò a Charing Cross.
Alle 10:10 arrivò il treno da Dover e vi scesero Mme Rimbaud e
la figlia Vitalie. Isabelle era stata lasciata in convento. Rimbaud
fu entusiasta della visita e le condusse subito al n. 12 di Argyle
Square, dove aveva trovato una pensione spaziosa e ben tenuta,
il Quality Hôtel. Nelle tre settimane che seguirono fece visitare
agli ospiti mezza Londra: videro il Parlamento, il teatro reale
d’Alhambra, l’ospedale di San Martino, le chiese protestanti, gli
oratori di strada, le vetrine dei negozi, i docks e le rive del Tamigi. Rimbaud aveva aneddoti e leggende da raccontare per
ogni luogo. Ogni tanto si assentava e passava ore al British Museum, e senza di lui spiegarsi con un negoziante o un
cambiavalute diventava un’impresa. Consapevole della necessità
di conoscere i rudimenti dell’inglese, Rimbaud cercò di insegnarlo anche alla sorellina, ma con scarsi risultati.
Tenta di insegnarmi qualche parola d’inglese, e la pronuncia. Le ripeto
dopo di lui in un modo che lo fa ridere, e poi spazientire.
Diario di Vitalie
Mme Rimbaud sarebbe rimasta finché il figlio non avrebbe
trovato lavoro. Questi continuò a pubblicare inserzioni sui
giornali, l’11 luglio ricevette una lettera con tre offerte ma non
c’era nulla che lo convincesse. Vitalie iniziava a sentire nostalgia
di casa, il 23 luglio Mme Rimbaud era pronta a partire, Arthur la
pregò di concedergli un’altra settimana di tempo. Mercoledì 29
tornò dall’agenzia e annunciò che sarebbe partito l’indomani. La
partenza slittò al 31 perché le sue camicie, portate in lavanderia,
non erano ancora pronte.
Ore sette e mezzo del mattino. Arthur è partito alle quattro e mezza. Era
triste. […] Penso ad Arthur, alla sua tristezza; alla mamma, che piange,
che ora scrive…
Diario di Vitalie
Non si conoscono con certezza gli itinerari che Rimbaud percorse nei mesi successivi. Forse raggiunse Scarborough, forse
Brooklyn, oppure Glasgow. Quell’autunno, in ogni caso, si stabilì a Reading, al n. 165 di King's Road, probabilmente come
insegnante di francese nella scuola di Camille Le Clair. Conti-
nuò tuttavia a lavorare alle Illuminazioni, che si arricchirono di
numerosi termini inglesi. Dopo alcuni mesi passati nella cittadina del Berkshire decise nuovamente di emigrare e il 7 novembre
pubblicò un’inserzione sul “Times” in cui si offriva come accompagnatore di “un signore (preferibilmente artisti), o una
famiglia, che desideri viaggiare in paesi del sud o in oriente”.
Aveva da poco compiuto vent’anni. A quell’annuncio non rispose nessuno. Qualche chilometro più a nord il coetaneo
Oscar Wilde si era appena iscritto all’università di Oxford. Il 29
dicembre Rimbaud tornò a Charleville sotto la neve.
La vita è la farsa che dobbiamo tutti recitare.
Capitolo 13
Feste della Fame
Al di fuori di ogni letteratura, e probabilmente al di sopra - Félix Fénéon
Il 16 gennaio 1875 Rimbaud ricevette una lettera gioiosa da
Verlaine appena uscito dal carcere per buona condotta: si era
convertito alla religione cristiana, “l’unica cosa buona che esista
al mondo”, e invitava l’amico a seguirlo nel cammino delle fede
(“Amiamoci l’un l’altro in nome di Gesù!”). Rimbaud gli rispose
con una scarica d’imprecazioni, poi decise che avrebbe trovato
lavoro in Germania. La madre gli diede un piccolo gruzzolo e il
13 febbraio partì col suo baule. Qualche giorno dopo arrivò a
Stoccarda e trovò alloggio al numero 7 di Hasenbergstrasse, in
un quartiere residenziale della periferia ovest in via di costruzione. La strada costeggiava una collina, la casa di Rimbaud era
occupata da un pastore in pensione di sessantasette anni, Ernst
Rudolf Wagner. Il 3 marzo bussò alla sua porta un uomo emaciato con dei lunghi baffoni e un rosario fra le mani: era
Verlaine. Rimbaud aveva permesso a Delahaye di dargli il suo
indirizzo e lui era partito in missione per convertirlo.
Tre ore dopo era stato rinnegato il suo dio e avevamo fatto sanguinare le 98
piaghe di N.S. È rimasto due giorni e mezzo, molto ragionevole, e su mie
rimostranze se ne è tornato a Parigi, per recarsi subito a finire gli studi,
laggiù nell'isola…
Lettera a Delahaye, 5 marzo, Stoccarda
Prima che andasse via, Rimbaud consegnò all’amico una pila
di carte e fogliettini con le sue ultime poesie dicendogli di affidarle a Nouveau per farle stampare in Belgio, quindi i due si
salutarono, questa volta per sempre. A metà marzo Rimbaud si
trasferì al n. 2 di Marienstrasse, in una “stanza ampia, molto ben
ammobiliata, al centro della città”. Si fece stampare degli eleganti biglietti da visita, cercò lavoro, migliorò il suo tedesco. A fine
aprile intimò a Verlaine, tramite Delahaye, di inviargli i cento
franchi che gli doveva per le lezioni d’inglese londinesi, altrimenti avrebbe rivelato al mondo la sua natura omosessuale. Il
ricatto cadde nel vuoto. Verlaine si era ritirato nelle campagne
del Lincolnshire, dove insegnava in una piccola scuola di Stickney, e aveva detto a Delahaye di non comunicare il suo
indirizzo al “ragazzino viziato”. Rimbaud allora vendette il suo
baule, prese il treno fino al confine svizzero, attraversò le alpi a
piedi e giunse a Milano. Trovò alloggio in Piazza Duomo n. 39,
ospite di una vedova “molto civile” – ebbe a dire Verlaine nel
1888 – che forse rivedeva in lui quel figlio che aveva perduto
l’anno precedente. A maggio, sacco in spalla, si diresse a piedi
verso Livorno, dove fu impiegato come lavoratore portuale a
giornata. Il 15 giugno s’incamminò in direzione di Brindisi intenzionato a salpare per le Cicladi, isole dell’Egeo dove c’era la
sede di un saponificio di cui era comproprietario Henri Mercier,
un suo amico giornalista. Nel tragitto fra Livorno e Siena fu
colpito da insolazione e rimpatriato dal console francese su un
battello a vapore.
A volte vedo nel cielo plaghe sterminate coperte da bianche nazioni in festa.
Un grande vascello d’oro, sopra di me, sventola le sue bandiere variopinte
alla brezza del mattino. Ho creato tutte le feste, tutti i trionfi, tutti i
drammi. Ho cercato d’inventare nuovi fiori, nuovi astri, nuove carni, nuove
lingue. Ho creduto d’acquisire poteri sovrannaturali.
Una Stagione all’Inferno
Rimbaud passò diversi giorni all’ospedale di Marsiglia, una
volta guarito si recò presso l’ufficio di reclutamento e si arruolò
come volontario nell’esercito carlista. Gli diedero una piccola
somma di denaro e le istruzioni per raggiungere il suo esercito,
ma invece di recarsi al confine spagnolo prese il treno per Parigi. Il disertore affittò una stanza al numero 18 di Boulevarde
Montrouge. Sentiva palpitare una strana frenesia, in questo periodo, mista a un senso di sdegno nei confronti dell’umanità. –
La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo. – Studiò l’arabo, il
russo, il greco. Cercò denaro in vista dei suoi futuri viaggi. Forse frequentò Mercier, Cabaner, Forain. In estate incontrò la
madre e Isabelle, venute a Parigi per consultare un medico per
Vitalie che aveva contratto una grave forma di sinovite. A fine
settembre tornò a Charleville e ritrovò Delahaye, la compagnia
ideale per farsi qualche bevuta.
In questo periodo diede qualche lezione di tedesco al figlio
del suo nuovo padrone di casa, ora situata in Rue SaintBarthelemy n. 31. Un giorno si recò dall’organista della chiesa,
Louis Létrange, e gli chiese di insegnargli i rudimenti della musica. Iniziò a esercitarsi su una tastiera incisa sul tavolo, poi,
all’insaputa della madre, introdusse in casa un pianoforte scatenando le proteste del vicinato. Il 14 ottobre scrisse una lettera a
Delahaye, che lavorava come insegnante a Rethel, accennando
al servizio militare e chiedendo informazioni sullo studio di alcune materie, forse sfiorato dall’idea di iscriversi al Politecnico.
La lettera si concludeva con un sonetto surreale intitolato “Sogno”, in cui veniva descritta una caserma popolata da soggetti
che a turno si attribuiscono nomi di formaggi: era l’ultima scintilla visionaria e goliardica del poeta maledetto.
Già l’autunno! - Ma perché rimpiangere un eterno sole, se siamo impegnati
nella scoperta della chiarità divina, - lontano dalla gente che sulle stagioni
muore.
Una Stagione all’Inferno
Il 12 dicembre gli scrisse Verlaine da Londra invitandolo ancora una volta a convertirsi e ad abbandonare il suo perenne
atteggiamento di disgusto e “collera contro ogni cosa”. Il 18
dicembre, a soli diciassette anni, Vitalie morì di sinovite. Rimbaud al funerale parve molto provato, quasi invecchiato,
sprofondato in una “rugosa realtà da stringere”, senza la fluente
chioma ribelle dei suoi capelli.
Aveva deciso di rasarseli a zero.
Capitolo 14
Partenze
Un meraviglioso ragazzaccio - Philippe Soupault
Il suo orgoglioso e demoniaco tentativo di ritrovare,
attraverso la poesia, lo stato di innocenza precedente
il peccato originale, il suo paganesimo, insomma,
pare più moderno del senso molto cattolico del peccato
che emanano i versi di Baudelaire. La sua purezza
così sorgiva, così fragrante e tuttavia così rigorosa,
appare più vitale e attraente delle glaciali grazie
di Mallarmé - Alberto Moravia
Rimbaud rimase a Charleville finché i rigori invernali non allentarono la loro presa. All’inizio di aprile partì per Vienna.
Aveva intenzione di trovare lavoro in Russia. Giunto nella capitale austriaca fu derubato da un cocchiere mentre dormiva. Si
risvegliò sul marciapiede senza denaro né cappotto. Vagabondò
qualche giorno nella capitale austriaca finché non ebbe una rissa
con un poliziotto e fu espulso dal paese. Ricondotto sotto scorta alla frontiera bavarese, fu giudicato indesiderato anche dalle
autorità tedesche e venne respinto fino alla frontiera alsaziana.
Da lì si fece trecento chilometri a piedi e ritornò nelle ardenne
passando per Strasburgo.
Le sue lunghe gambe compivano falcate formidabili in modo calmo; –
scrisse Delahaye – le sue lunghe braccia ciondolanti segnavano un movimento molto regolare; la schiena era diritta, la testa eretta, gli occhi
fissavano un punto distante. Il volto aveva un’espressione di sfida rassegnata, come di chi aspetti tutto senza rabbia o trepidazione.
A maggio “L’uomo dalle suole di vento”, come lo definì Verlaine, s’incamminò in direzione di Bruxelles, dove si arruolò
nell’esercito olandese. Gli diedero un premio di arruolamento di
trecento fiorini e l’ordine di recarsi a Rotterdam dal comandante di guarnigione. Da qui venne trasferito al porto militare
Haderwijk il 18 maggio 1876. In attesa di essere mandato in
missione, si dice passasse il tempo nei bar sborniandosi col gin
e frequentando una prostituta chiamata “Rotte Pitje”, cosa che
mandò in bestia il suo protettore. Un amico olandese riuscì a
trarlo d’impaccio. Agli inizi di giugno Rimbaud prese il treno
per Den Helder. Il 10 giugno, raggiunta la costa nordoccidentale assieme a 225 reclute, salpò sul Prins van Oranje e la sera del
giorno dopo era a Southampton. Il giorno 13 il bastimento a
vapore prese il largo verso Gibilterra e il 22 attraccò nel golfo di
Napoli. Poco dopo ripartì e attraversò il canale di Suez e le coste somale dall’entroterra pressoché sconosciuto. Superata
anche Aden la nave puntò a sud e il 19 luglio gettò l’ancora a
Padang, nell’isola di Sumatra (Indonesia), cinquanta miglia sotto
l’equatore. Il giorno dopo oltrepassò il vulcano Krakatoa e il
mare di Giava approdando, infine, a Batavia (Giacarta). Rimbaud e il suo battaglione marciarono fino alla caserma
provvisoria presso il distretto di Meester Cornelis, a circa sedici
chilometri dal porto. Ai soldati fu comunicata la loro destinazione. Rimbaud e quattordici commilitoni vennero incorporati
nella quarta compagnia del primo battaglione di fanteria. Il 30
luglio s’imbarcarono sulla nave Fansen van de Putte, che due giorni più tardi li depositò a Semarang, un altro porto della costa
nord dell’isola, a 235 miglia marine da Batavia. Da lì coprirono
– in treno fino a Tuntang, poi a piedi – i 48 chilometri che li
separavano da Salatiga.
Lo sciame di foglie d’oro avvolge la casa del generale. Sono nel mezzogiorno. – Si segue la strada rossa per arrivare alla locanda vuota. Il castello è
in vendita; le persiane sono staccate. – Il curato avrà portato via la chiave
della chiesa. – Intorno al parco, le garitte dei guardiani sono disabitate. Le
palizzate sono così alte che si vedono soltanto le cime fruscianti. D’altronde
non c’è niente da vedere là dentro.
Infanzia
Il 15 agosto, quasi un mese dopo il suo arrivo sull’isola, Rimbaud fece perdere le sue tracce e si diede alla macchia: con ogni
probabilità s’imbarcò sotto falso nome sul piccolo veliero Wandering Chief che trasportava un carico di zucchero, d’accordo col
comandante scozzese John Brown. A fine settembre il vascello
passò il Capo di Buona Speranza dove s’imbattè in una terribile
tempesta che lo piegò su di un fianco facendogli imbarcare quasi due metri d’acqua nella stiva, e venne ancorato al largo di
Sant’Elena. Rimbaud, folgorato dall’ultimo esilio di Napoleone,
si gettò in mare per guadagnare le coste dell’isola ma un marinaio fece in tempo a tuffarsi e a riportalo a bordo. Questo
episodio, tuttavia, potrebbe essere privo di fondamento. Il 6
dicembre 1876 il Wandering Chief approdò a Queenstown, sulla
costa meridionale dell’Irlanda. Da Queenstown Rimbaud andò
in treno e poi in traghetto fino a Liverpool, quindi in treno fino
a Londra e attraverso la Manica arrivò a Dieppe. Da lì raggiunse
Parigi, dove, a Place de la Bastille, fu ritratto da uno scultore di
nome Wisseaux nelle vesti di un “marinaio inglese”. Rimbaud il
marinaio, lo soprannominò Nouveau. Il 9 dicembre Rimbaud
era a Charleville, la barba lunga, la pelle abbronzata, un lieve
reumatismo. Quando Delahaye venne a saperlo lo riferì sovreccitato in una lettera all’amico comune Ernest Millot: “È
ritornato!... Da un piccolo viaggio, una cosa da niente! Del resto
non è finita e vedremo, a quanto pare, molte altre avventure”.
Capitolo 15
Ladro di Fuoco
Un ribelle che combatteva contro i valori
che normalmente ci preparano alla vita - Wallace Fowlie
Progetti vaghi, sentieri ancora informi si dipanavano nella
mente di Rimbaud, pensava di fare l’agente assicurativo, di unirsi a un gruppo di missionari. In primavera partì per la Germania
dove lavorò sotto falso nome per un agente di reclutamento
olandese. Riuscì ad assoldare una dozzina di soldati, quindi incassò il suo compenso e si recò ad Amburgo dove perse tutti i
soldi giocando al casinò. Il 14 maggio 1877, tornato a Brema,
scrisse una lettera al consolato americano chiedendo di arruolarsi nella marina. Si definì “disertore del 47° reggimento
dell'Esercito francese” (lo stesso in cui aveva servito il padre!)
firmandosi “John Arthur Rimbaud”. La richiesta non ricevette
alcuna risposta. A giugno Rimbaud lavorò come bigliettaio nel
circo Loisset. Verso la fine del mese andò a Copenaghen e
quindi a Stoccolma. Nel registro degli stranieri il suo nome appare in qualità di agente e di marinaio. Da qui Rimbaud prese
un battello che lo condusse a Bordeaux. Secondo altre testimonianze, invece, si fece rimpatriare dal console francese che gli
pagò il tragitto in treno fino a Charleville, oppure venne imbarcato su una nave diretta a Le Havre e raggiunse Charleville a
piedi.
Sono il viandante della strada maestra nei boschi nani; il rumore delle
chiuse copre i miei passi. Vedo a lungo il malinconico ranno d’oro del tramonto.
Vorrei essere il bambino abbandonato sulla diga migrata in alto mare, il
piccolo servitore lungo il viale la cui fronte tocca il cielo.
Infanzia
Nei mesi successivi Rimbaud vagabondò senza meta procurandosi di che vivere come poteva, forse chiedendo l’elemosina,
forse rubando. In autunno era a Marsiglia e forse visse per un
po’ di tempo in un monastero. Le tracce a questo punto si fanno labili, si assottigliano all’inverosimile, il ladro di fuoco lascia
evaporare beffardamente le orme del suo cammino. – Qui c’è
qualcuno e non c’è nessuno. – Verso la fine dell’anno salpò su una
nave diretta ad Alessandria ma durante la traversata si ammalò e
fu costretto a scendere a Civitavecchia per essere ricoverato
d’urgenza all’ospedale. Una volta guarito prese il treno e visitò
Roma e infine, a bordo di un battello, tornò nelle Ardenne, forse passando per Nizza e Marsiglia. Mancano però, anche in
questo caso, effettivi riscontri.
Negli ultimi tre anni – questo è certo – Rimbaud aveva percorso oltre cinquantamila chilometri.
Tornerò, membra di ferro, pelle scura, occhio furente: dalla mia maschera,
mi giudicheranno di razza forte. Avrò dell’oro: sarò ozioso e brutale. Le
donne hanno cura di questi infermi feroci reduci dai paesi caldi. Sarò immischiato negli affari politici. Salvo. Ora sono maledetto, ho orrore della
patria. Il meglio è un bel sonno da ubriaco, sul greto.
Una Stagione all’Inferno
L’infaticabile camminatore passò l’inverno nella nuova casa
comprata dalla madre a Saint-Laurent, paesino a tre chilometri
da Charleville e nei primi mesi del 1878 avrebbe raggiunto Amburgo in treno per lavorare come impiegato in un’azienda di
esportazione di derrate coloniali. Ma qui le testimonianze non
collimano: a Pasqua fu visto infatti aggirarsi nei paraggi del
Quartiere Latino di Parigi. Una parte dell’estate e dell’autunno,
ad ogni modo, la trascorse nella fattoria di Roche, finché non
decise di abbandonare nuovamente le Ardenne per recarsi in
Egitto. Il 20 ottobre, giorno del suo ventiquattresimo compleanno, si diresse in treno verso il passo del San Gottardo. Da lì
proseguì a piedi perché il terreno era innevato e s’incamminò
per le montagne con un piccolo gruppo di altri viaggiatori. Superati piccoli borghi e una casa cantoniera, con la neve che in
alcuni tratti arrivava alle ginocchia, giunse al Canton Ticino. A
Lugano prese il treno e il 17 novembre era a Genova.
La sera del giorno successivo Rimbaud salpò in direzione di
Alessandria. Vi arrivò dopo una decina di giorni e prese accordi
con un ingegnere francese, “uomo cortese e intelligente”. A metà dicembre giunse a Cipro dove gli dissero che avrebbe dovuto
dirigere il lavoro di alcuni operai presso un cava di pietra di
Potamos, venticinque chilometri a est di Larnaca. Le condizioni
di vita erano precarie, malaria e tifo provocavano vere e proprie
stragi. Rimbaud si adeguò in men che non si dica al nuovo ambiente, conosceva diverse lingue, sapeva farsi rispettare, una
volta riuscì perfino a convincere alcuni operai a restituire gli
stipendi che avevano rubato dalla cassaforte. Era una vita dura
ma appagante. La dinamite faceva schizzare in cielo frammenti
di radioso avvenire. I riverberi del Mediterraneo erano l’esotica
promessa di ammalianti approdi.
L’alba d’oro e la sera fremente sorprendono il nostro brigantino al largo, di
fronte a questa villa e alle sue dipendenze che formano un promontorio esteso quanto l’Epiro e il Peloponneso, o la grande isola del Giappone, o
l’Arabia! Fani che il rientro delle teorie rischiara, immense vedute della
difesa di coste moderne, dune illustrate da caldi fiori e baccanali…
Promontorio
Alla fine di maggio Rimbaud fu colto da una violenta febbre e
dovette lasciare l’isola. Se ne tornò in patria con un attestato di
congratulazioni per il lavoro svolto che lo riempì d’orgoglio. A
Roche gli venne diagnosticata una febbre tifoidea. Partì per
Marsiglia ma era ancora debilitato nel fisico, allora fece ritorno
alla tenuta di famiglia dove aiutò nella mietitura dando ormai la
sensazione che altri ritmi fossero penetrati nel suo corpo, cadenze remote, terre roventi e frontiere sterminate. “Ora il clima
dell’Europa è troppo freddo per me, il mio temperamento è
cambiato… posso vivere soltanto nei paesi caldi”, confidò a
Delahaye producendosi in una lunga tirata sugli danni che aveva
provocato il frazionamento delle proprietà terriere, “bella conquista del 1789!”. Poi l’amico gli chiese se avesse chiuso
definitivamente con la letteratura. Lui rispose laconico: “Sì, non
me ne occupo più”.
Ogni scelta era definitiva, irrevocabile, per Rimbaud. Una sera
era seduto in un piccolo caffè di Place Ducale, a Charleville.
Millot a un certo punto si complimentò con Pierquin per
l’acquisto di alcuni libri pubblicati da Lemerre. Rimbaud uscì
improvvisamente dal suo mutismo e commentò: “Comprare
dei libri, soprattutto di quel tipo, è del tutto idiota! Tu porti sulle spalle una testa che dovrebbe sostituire tutti i libri! I libri,
sistemati sugli scaffali, sono buoni solo a mascherare la fatiscenza dei vecchi muri!”. Gli amici rimasero basiti. Nel resto
della serata – dichiarò comunque Pierquin – Rimbaud fu “inso-
litamente allegro, quasi esuberante, e alle undici in punto ci lasciò per sempre”. L’uomo che aveva ripudiato la sua
adolescenza trasgressiva anelava ormai a scenari diversi, aveva
grandi progetti, fulgenti sentieri da spianare. – Intanto è la vigilia.
Accogliamo ogni influsso di vigore e di tenerezza reale. E all’aurora, armati di un’ardente pazienza, entreremo nelle splendide città. – Arthur
Rimbaud adesso cercava un buon impiego, denaro sonante da
guadagnare, ma serbava ancora, e mai l’avrebbe perduta, la sua
passione viscerale per la libertà libera: un giorno, alla madre che
gli diceva di servire Delahaye invitato a cena, rispose: “Non mi
piace servire né essere servito”.
Era giunta l’ora di ripartire.
Capitolo 16
Harar
Uno psicopatico costituzionale - Dott. J.H. Lacambre
A marzo del 1880 Rimbaud tornò a Marsiglia e s’imbarcò alla
volta di Alessandria. “Lei è libero da ogni impegno nei confronti della società”, recitava l’attestato ricevuto l’anno precedente.
Non riuscendo tuttavia a trovare lavoro, fece nuovamente ritorno a Cipro. Alla fine di aprile le autorità inglesi gli affidarono
l’incarico di sovrintendente della nuova residenza estiva del governatore sulla sommità del monte Troodos. Il 22 maggio
arrivò la prima squadra di operai, Rimbaud scrisse alla madre
chiedendo manuali per il mestiere di carpentiere e per quello di
falegname, e augurandosi che la sua posizione col servizio militare si risolvesse una volta per tutte. A giugno, probabilmente a
causa di un attacco d’ira, scagliò una pietra contro un operaio
indigeno colpendolo mortalmente alla tempia. Sconvolto, raggiunse in tutta fretta il porto di Limassol, salì su una barca,
remò fino alla nave ancorata al largo e vi s’imbarcò. La nave
mollò gli ormeggi e si diresse in Egitto.
I carri d’argento e di rame –
Le prue d’acciaio e d’argento –
Battono la schiuma, –
Sollevano i ceppi dei rovi.
Le correnti della landa,
E i solchi immensi del riflusso,
Filano circolarmente verso est
Marina
Il continente africano, all’epoca, era una terra ancora inesplorata e misteriosa, un universo a sé che in passato singoli
esploratori avevano appena scalfito, spesso trovandovi la morte.
La spedizione in Egitto di Napoleone Bonaparte, all’inizio del
secolo, aveva per la prima volta allargato il campo visivo degli
europei. Ma era un altro l’evento che aveva mutato per sempre
le sorti della Storia scatenando una vera e propria rivoluzione
geografica e politica: l’apertura del canale di Suez. L’istmo venne inaugurato il 17 novembre 1869 dall’imperatrice Eugenia,
moglie di Napoleone III, e spalancò le porte africane al resto
del mondo accorciando di un terzo la distanza fra l’Europa e le
indie. I traffici commerciali con l’Oriente iniziarono a pullulare,
agevolati dall’introduzione della macchina a vapore nella marina, e gli scali abissini acquisirono un valore inestimabile.
L’Etiopia usciva così dal suo millenario isolamento e diveniva il
centro di una spietata competizione internazionale fra le nazioni
europee.
Sbarcato ad Alessandria, Rimbaud prese un battello in partenza per il Mar Rosso e, imbarcandosi su navi di passaggio, cercò
lavoro presso diversi porti. Giunto a Gedda, città sulla costa
d’Arabia a due giorni di marcia da La Mecca, s’imbarcò prima
per Suakin, sulla costa egiziana, e quindi per Massaua, porto
situato quasi cinquecento chilometri più a sud davanti alle isole
Dahlak, sulla costa abissina, dove restò qualche giorno. Non gli
era rimasto molto del denaro (400 franchi) guadagnato a Cipro
quando approdò ad Hodeidah, porto sulla costa arabica dedito
al commercio di caffè, tabacco e schiavi. In questa città si am-
malò ma all’ospedale ebbe la fortuna di incontrare un connazionale di nome Trébuchet che lo mise in contatto con
l’impresa per l’esportazione di Alfred Bardey. A metà agosto
Rimbaud salpò quindi su una nave che lo condusse ad Aden,
città adagiata nel fondo di un antico cratere vulcanico. Qui fu
subito impiegato dall’agenzia Bardey come supervisore
dell’imballaggio della merce e si guadagnò immediatamente la
stima dei suoi superiori: organizzava le attività e dava ordini in
arabo con estrema determinazione.
Aden è una città orrenda, senza un filo d'erba né una goccia d'acqua potabile: qui si beve acqua di mare distillata. La calura è fortissima,
soprattutto a giugno e a settembre, che sono le due canicole. La temperatura
costante, giorno e notte, in un ufficio molto fresco e ventilato, è di 35 gradi
[…] In questo posto sono quasi prigioniero e di certo dovrò restarci almeno
tre mesi prima d’essere un po’ in gamba e trovarmi un posto migliore.
Lettera ai familiari, Aden, 25 agosto 1880
In autunno la società fondò una filiale ad Harar, la “Città
proibita”, conquistata dagli egiziani ma da sempre in mano ai
predoni e alla pericolosa tribù dei Galla. Rimbaud il 10 novembre firmò un contratto di nove anni: avrebbe percepito
centocinquanta rupie al mese e l’1% dei profitti della succursale
di Harar. Scrisse alla madre chiedendogli ventisette libri sugli
argomenti più disparati (idraulica, chimica, architettura navale...)
e verso la metà del mese salpò da Aden insieme ad un giovane
impiegato greco, Costantino Righas. Il 23 novembre, dopo duecentocinquanta chilometri di deserto arabico, furono avvistate
finalmente le coste giallastre di Zeila. Da lì Rimbaud proseguì a
cavallo insieme alla sua carovana inerpicandosi per il vasto altopiano somalo fino ai gelidi passi delle montagne nere e
ridiscendendo poi verso il colle erboso del Checher. Il 13 dicembre, dopo venti estenuanti giorni di galoppate, in cima a un
pendio apparve l’inquietante profilo della Città Proibita.
Capitolo 17
Carovane
La persona più sgradevole che abbia
mai visto nella mia vita - Un insegnante di Stickney
Rimbaud mostrò i documenti alle guardie egiziane e oltrepassò Bab al Ftouth, la “Porta del Trionfo”. Harar era un enorme
mercato sovraffollato di artigiani, mercanti, lebbrosi, schiavi e
mendicanti. Le case erano fatte di fango e pietra, vi erano numerose moschee e giardini di frutta, le strade erano attraversate
da fiumiciattoli e pullulavano di iene.
Harar è una città colonizzata dagli egiziani, e dipende dal loro governo
[…] I prodotti commerciali sono il caffè, l’avorio, le pelli ecc. Sebbene si
trovi ad un’altitudine elevata la regione non è improduttiva. Il clima è fresco e non malsano. Le merci europee vengono importate, tutte a dorso di
cammelli. Del resto, c’è molto da fare nel paese.
Harar, 13 dicembre 1880
Rimbaud venne accolto da Pinchard, un socio di Bardey. A
gennaio scrisse una lettera alla famiglia chiedendo svariati strumenti, fra cui una macchina fotografica. Ad aprile
probabilmente contrasse la sifilide, ma non c’era tempo da per-
dere: rifletté sull’opportunità di seguire il vescovo francese che
si stava spingendo verso zone inesplorate con cinque monaci
francescani. Il 4 maggio scrisse a casa dicendo che avrebbe voluto “esplorare nell’ignoto”, poco distante c’era un grande lago
e si parlava di terre ricche d’avorio: occasioni da non farsi scappare, sebbene fosse ben consapevole che in quella missione
avrebbe potuto “lasciarci la pelle”. In tale eventualità – scrisse ai
familiari – “vi avverto che ho una somma di 7 volte 150 rupie
depositata all’agenzia di Aden”. L’11 giugno Rimbaud partì con
una carovana per Bubassa, verso sud, dove si diceva fosse stata
ammassata una gran quantità di pelli. Mantello rosso e turbante
in testa, raggiunse la città e fu accolto benevolmente dagli indigeni, riuscì così ad intavolare delle trattative con i mercanti del
luogo. Il 2 luglio tornò ad Harar e per due settimane fu bloccato
a letto dalla febbre. Il clima era terribile, i pericoli celati in ogni
angolo, “Non è possibile immaginare un’altra vita con un fastidio più grande!”, scrisse il 25 maggio alla famiglia. Ma ormai era
in gioco.
Cosa volete che vi racconti del mio lavoro qui, che mi ripugna già così tanto,
e del paese, che detesto, e così via. Anche se vi raccontassi i tentativi che ho
fatto con sforzi straordinari e che mi hanno fruttato soltanto la febbre, che
adesso mi tiene da quindici giorni come a Roche due anni fa… Ma che
volete? Sono abituato a tutto oramai. Non ho paura di niente.
Harar, 22 luglio 1881
Quell’anno ebbe alcune “discussioni sgradevoli con la direzione, e il resto” e presentò le proprie dimissioni, ma Bardey lo
tenne con sé: era una pedina fondamentale ormai. Alla fine
dell’anno decise di cambiare aria e tornò ad Aden. Il 5 gennaio
prese carta e penna e spedì una lettera al suo amico di sempre,
Delahaye. Gli comunicò che aveva intenzione di scrivere un
testo sull’Harar e il Gallas da proporre alla Société de Géographie e aveva bisogno di alcuni strumenti: carte da disegno,
un compasso, un campione di minerali e via dicendo. A febbraio s’infuriò con i suoi datori di lavoro che, a suo dire, non
erano che “ladri e imbroglioni, buoni solo a sfruttare le fatiche
dei loro impiegati”. Per il momento, tuttavia, rimase nel suo
afoso ufficio di Aden tenendo i conti e dirigendo gli operai. Il
12 febbraio scrisse alla famiglia ventilando un viaggio a Zanzibar, che non fece mai, e nelle lettere successive preannunciò più
volte la sua imminente partenza per Harar, poi inviò dei soldi ai
familiari raccomandandosi di destinarli all’acquisto di altra
strumentazione topografica. Madame Rimbaud, scettica sui
progetti del figlio, investì tutto il denaro in terreni. “Ma che diavolo volete che me ne faccia di proprietà fondiarie?”, si
lamentò lui invocando un maggior sostegno da parte della famiglia, e quando qualcuno chiedeva alla madre cosa mai stesse
facendo il figlio, lei rispondeva: “Si trova in Arabia… ad insegnare lingue”.
Rimbaud lavorava sette giorni alla settimana, beveva acqua
distillata o acqua minerale e masticava qat, foglie dalle proprietà
euforizzanti che servivano ad aumentare la resistenza alla fatica.
Rassicuratevi sul mio conto: la mia situazione non ha nulla di straordinario. Sono sempre impiegato nella stessa azienda e sgobbo come un mulo in
un paese che m’ispira un orrore invincibile. Sbatto la testa contro i muri
per tentare di uscir di qui e di ottenere un impiego più ricreativo. Spero
proprio che questa esistenza finirà prima che io abbia avuto il tempo di
diventare completamente idiota.
Aden, 10 maggio 1882
Capitolo 18
Abdo Rinbo
Un poeta maledetto che non ebbe paura di scendere
giù per tutti i gironi dell’inferno psicologico moderno per
pescarvi il segreto di una bellezza inusitata e folgorante.
Grande nell'opera di scavo poetico, preparatoria del
monumentale moderno, grande nella rinunzia -Ardengo Soffici
Il 28 gennaio 1883 Rimbaud scrisse al viceconsole francese ad
Aden riferendogli di uno scontro che aveva avuto quella mattina con l’anziano magazziniere arabo. Quest’ultimo l’aveva
colpito al viso – spiegava Rimbaud – e minacciato con un bastone, e infine l’aveva denunciato alla polizia municipale. Non si
sa come andarono realmente le cose, ma gli scatti d’ira di Rimbaud erano ben noti a tutti. Bardey licenziò salomonicamente
l’uomo e spedì Rimbaud ad Harar: avrebbe rilevato la filiale
dell’agenzia e rinnovato un contratto da cinquemila franchi
all’anno. Il 22 marzo Rimbaud salpò da Steamer Point (il porto
di Aden) con i suoi libri e il suo materiale fotografico. Approdato sulla sponda opposta, passò forse per la regione di Obok,
presidiata dalla feroce tribù dei danakil, e agli inizi di aprile arrivò ad Harar. Il 6 maggio scrisse nuovamente alla famiglia:
Ho rinnovato il contratto per tre anni, ma credo che l’azienda chiuderà
presto i battenti, perché le entrate qui non coprono le spese […] Isabelle fa
male a non sposarsi, se si presenta qualcuno di serio e di istruito, qualcuno
con un avvenire. La vita è così, e la solitudine è una brutta cosa quaggiù.
Quanto a me, rimpiango di non essere sposato e di non avere una famiglia.
Ma adesso sono condannato a errare…
Ad Harar si stabilì in una casa vera e propria, assunse come
servitore un tredicenne di nome Giami Wadaï e, fedele
all’usanza di molti europei, iniziò a convivere con un’abissina.
Sobrio nell’abbigliamento, Rimbaud indossava ampie vesti di
cotonata bianca confezionate da sé e una piccola calotta come
copricapo. In quel mese spedì tre fotografie a casa, in cui appariva una figura rinsecchita e bruciata dal sole, e diede un nuovo
impulso all’attività commerciale della sua agenzia. Il 13 giugno
partì con una carovana in direzione delle montagne Ahmar assieme a Pietro Sacconi, un esploratore italiano. Attraversò terre
sconosciute dove imperversavano le temibili tribù itou e galla.
Giunse infine a Warabeili e fotografò l’albero dove Lucereau,
giovane esploratore, era stato trucidato tre anni prima. Ottenuto
il “souvenir”, fece marcia indietro e decise che bisognava estendere a tutti i costi l’area del commercio. Inviò Costantino
Sotiro, un suo fidato collega greco, a sud di Harar, verso la vasta e pericolosa regione di Ogadina. L’11 agosto Pietro Sacconi,
partito spontaneamente verso ovest, fu massacrato da un gruppo d’indigeni. Rimbaud non si stupì, aveva sempre deplorato i
suoi atteggiamenti impudenti e scriteriati. Lui, al contrario, intuì
fin dal primo istante i vantaggi di un approccio conciliante con i
costumi e le tradizioni locali. Il 7 ottobre chiese alla madre di
spedirgli un’edizione del Corano, che non tardò ad arrivare.
Qualcuno vi aveva apposto sopra un sigillo con le parole: ABDO
RINBO (ABDALLAH RIMBAUD), ovvero: Rimbaud, servo di Dio. Il
10 dicembre l’esploratore ardennese scrisse un “Rapporto
sull’Ogadina”, prezioso documento non privo di valore geografico e sociologico, vi erano infatti citate tribù e faune del tutto
sconosciute al mondo “civilizzato”.
La bandiera va al paesaggio immondo, e il nostro gergo soffoca il tamburo.
Nei centri alimenteremo la più cinica prostituzione.
Massacreremo le rivolte logiche.
Nei paesi impepati e infradiciati! – al servizio dei più mostruosi sfruttamenti industriali o militari
Arrivederci qui, non importa dove.
Democrazia
Quello stesso anno, intanto, seimila chilometri più a nord,
Paul Verlaine pubblicava nove folgoranti poesie, fra cui Il battello ebbro e Vocali, tracciando un succinto profilo biografico del
suo autore: nei caffè e fra i cenacoli letterari tornava ad allungarsi lo spettro di quel ragazzo selvaggio che dieci anni prima
aveva sconvolto i compassati ambienti artistici parigini…
Capitolo 19
Stelle Cadenti
Nessuno venuto dopo di lui, né Lorca né
Hart Crane né Eluard, è così intatto,
così giovane, così nuovo - Attilio Bertolucci
Nel gennaio 1884 l’agenzia di Harar fu costretta a chiudere.
La società di Bardey aveva fatto alcuni incauti investimenti in
Algeria e in Grecia, e come se non bastasse l’Inghilterra dopo il
bombardamento di Alessandria aveva in mano tutte le attività
commerciali egiziane. Rimbaud, per nulla scoraggiato, si avviò
con una carovana verso la costa e ad aprile era di nuovo ad Aden pronto a concludere affari per la sua ditta, sebbene la vita
continuasse ad essere “cara in modo proibitivo” – scrisse alla
famiglia – e gli europei di Steamer Point degli “ubriaconi” da
non frequentare. Ma quel passato così sfolgorante che aveva
deciso di seppellire continuava, suo malgrado, a tuonare impetuoso, e a tratti se ne avvertiva l’echeggiare dai cupi rimbombi.
Bardey lo accolse emozionato: sul battello proveniente da Marsiglia aveva incontrato Paul Bourde, giornalista di “Le Temps”
e compagno di scuola di Rimbaud, “un giovane poeta che aveva
fatto uno stupefacente e precoce debutto in letteratura!”. Verlaine, peraltro, aveva appena pubblicato l’antologia I Poeti
Maledetti in cui figurava anche l’impertinente ragazzino di Charleville con le sue poesie rivoluzionarie. Bardey, incredulo, chiese
a Rimbaud perché non ricominciasse a scrivere, “Assurdo!”,
tagliò corto lui piuttosto seccato. Ma le sue doti letterarie erano
state intuite anche altrove. Ad Aden arrivò una lettera della Société de Géographie: volevano includerlo nella loro serie di
geografi ed esploratori e chiedevano una breve biografia e una
foto. Rimbaud non rispose mai a quella missiva, ma la conservò. In primavera venne liquidata anche l’agenzia di Aden e il
commerciante rimase senza lavoro. Il 5 maggio scrisse alla famiglia:
Non ho la minima idea di dove mi troverò fra un mese […] Ho con me
dodici o tredicimila franchi, e siccome qui è impossibile affidare qualcosa a
chicchessia, si è costretti a trascinarsi dietro il proprio peculio sorvegliandolo
continuamente […] Che esistenza desolante la mia, in questi climi assurdi
e in queste condizioni insensate!
Ad agosto la donna abissina che viveva con Rimbaud lo raggiunse ad Aden. Si chiamava Mariam, vestiva all’europea,
fumava sigarette e parlava uno stentatissimo francese. Rimbaud
la trattava con molto riguardo e voleva che le insegnassero a
cucire. In quel periodo aveva preso in affitto una casa vicino
all’ufficio, continuava a vestire in maniera trasandata e preparava un libro sull’Abissinia. Era caustico di modi, solitamente
serio e autoritario, e a tratti provava un gusto sardonico
nell’indicare ai colleghi di lavoro il lato buffo di situazioni e persone.
Fèlix Fènèon ha detto che Arthur Rimbaud era fuori da ogni letteratura e
probabilmente al di sopra. Si potrebbe anche riprendere la frase per mettere
l’uomo, in un certo senso, fuori dall’umanità, e la sua vita fuori e sopra la
vita comune. Tanto l’opera è gigantesca, tanto l’uomo si è fatto libero, tanto
la vita passò fiera, così fiera da non avere più notizie e non sapere se continui ancora.
Paul Verlaine, I Poeti Maledetti
Aprile 1885: Rimbaud contrasse una “febbre gastrica” che
presto avrebbe colpito gran parte della popolazione. Aveva accumulato un capitale di quindicimila franchi ma gli affari
andavano male. Lasciò a Mariam un po’ di denaro e le disse che
da quel momento era libera: “Ne ho abbastanza di questa pagliacciata!”, scrisse all’amico giornalista Augusto Franzoj. Quella
primavera firmò un contratto che lo avrebbe legato alla società
fino alla fine dell’anno ma tre mesi prima della scadenza, infuriato “con quegli ignobili ingrati”, decise di partire per mettersi
in affari con Pierre Labatut, famigerato mercante francese.
“Non feci nulla per impedirglielo: sarebbe stato come tentare di
fermare una stella cadente”, dichiarò in seguito Bardey.
Rimbaud aveva deciso di dedicarsi al traffico delle armi: avrebbe venduto fucili a Menelik, re dello Scioa. Il 10 ottobre la
madre gli scrisse chiedendogli dove mai fosse andato a finire,
erano mesi che non si faceva più vivo (“Non sei più ad Aden?
Ti trovi forse nell’Impero cinese?”), e avvertendolo che presto i
gendarmi sarebbero venuti a cercarlo per il servizio militare.
All’inizio di dicembre Rimbaud era a Tagiura, piccolo villaggio
vicino ad Aden, in attesa di allestire una carovana e rimettersi in
viaggio.
C’è qualche palmizio e qualche moschea, e un forte costruito tempo fa dagli
egiziani dove adesso dormono sei soldati francesi agli ordini di un sergente
[…] È un protettorato. Il commercio principale è la tratta degli schiavi.
Da qui partono le carovane europee per lo Scioa […] Ma adesso non mettetevi a credere che sia diventato commerciante di schiavi! Le merci
importate da noi sono fucili (vecchi fucili a stantuffo in disuso da 40 anni)
che dai venditori di armi usate, a Liegi o in Francia, valgono 7, al massimo 8 franchi al pezzo. Al re dello Scioa, Menelik II, le venderemo a una
quarantina di franchi.
Hôtel dell’Universo, Aden
L’instancabile viaggiatore fremeva per la nuova partenza e sul
suo conto già cominciavano a girare le prime leggende: si raccontava che avesse attraversato la zona più micidiale del deserto
equatoriale munito soltanto di un copricapo turco in testa. Laggiù, si diceva, il sole era così violento che faceva letteralmente
esplodere il cervello. Pare che nessuno, fino ad allora, ne fosse
mai tornato vivo.
La nostra barca alta nelle nebbie immobili si volge verso il porto della miseria, la città enorme dal cielo macchiato di fuoco e di fango. Ah! gli stracci
putridi, il pane inzuppato di pioggia, l’ebbrezza, i mille amori che mi
hanno crocifisso! Dunque non finirà mai questa lamia regina di milioni
d'anime e di corpi morti e che saranno giudicati Mi rivedo con la pelle
corrosa dal fango e dalla peste, i capelli e le ascelle pieni di vermi, e vermi
ancor più grossi nel cuore, disteso fra sconosciuti senza età, senza sentimento.
Una Stagione all’Inferno
Capitolo 20
In marcia!
La sua poesia dà l’idea di una baldanzosa razzia
nei domini del sensibile e dell’immaginabile,
di un volante e allegro saccheggio delle città costiere,
dei velieri alla deriva, di tutte le messi non ancor
mietute sulla terra. In ogni sua pagina, in ogni riga,
si avverte l’insofferenza, la pena, l’angoscia,
lo spasimo dell’impossibile - Giovanni Papini
Gennaio 1886: furono preparati duemila fucili Remington e
sessantamila cartucce. Re Menelik aveva già pagato un anticipo.
Rimbaud, che calcolava un profitto complessivo di circa diecimila franchi, fu il primo europeo a intuire l’inarrestabile ascesa
al potere di quel sovrano senza scrupoli e a predire la nascita di
un nazionalismo abissino. Ma le notizie che arrivavano non erano affatto promettenti: i guerriglieri locali scorrazzavano
mietendo vittime nel deserto e la Francia aveva stipulato un accordo con l’Inghilterra che bandiva l’uso delle armi. Rimbaud
allora inviò una lettera di protesta al ministro degli esteri francese che, segretamente, a giugno gli accordò il permesso di
procedere con la spedizione. Labatut intanto era tornato in
Francia per frasi curare un cancro alla gola, Rimbaud trascorse
quei mesi dedicandosi agli ultimi preparativi per la carovana, era
ormai conosciuto in tutto il Corno d’Africa e ritenuto un esperto di religione islamica. Nel bosco di palmizi vicino a Tagiura vi
era la carovana dell’amico Franzoj, di cui faceva parte, fra gli
altri, l’esploratore italiano Ugo Ferrandi. Franzoj era amante di
letteratura greca e latina e capitò che i due intavolassero lunghe
discussioni dai romantici ai decadenti. Quell’estate la temperatura sfiorava i sessanta gradi, il Mar Rosso dispiegava ammaliante
le sue distese d’acqua cristallina e in Francia, sul quindicinale
“La Vogue”, si cominciavano a pubblicare le prime Illuminazioni.
“L’autore – riferiva Verlaine nella prefazione – adesso sta
viaggiando in Asia dove è impegnato in lavori artistici”.
All’inizio di dicembre Rimbaud partì con trentaquattro servitori e una cinquantina di cammelli. Tre settimane prima, nel
golfo di Tagiura, erano stati massacrati nove marinai francesi.
Basta! ecco la punizione. In marcia! Ah! I polmoni bruciano, le tempie
rombano! La notte rotola nei miei occhi, con questo sole! Il cuore… le
membra… Dove si va? A combattere? Sono debole! gli altri avanzano.
Gli arnese, le armi… il tempo!... Fuoco! Fuoco su di me! Qui! O mi arrendo. – Vigliacchi! – Mi ammazzo! Mi butto fra le zampe dei cavalli!
Ah!...
Una Stagione all’Inferno
Rimbaud proseguì con circospezione lungo la costa fino a
Sagallo, poi deviò verso l’interno. Il terreno si fece più irregolare, i cammelli arrancavano procedendo su dune che si andavano
arroventando in immense distese di pietra ferrosa. “I paesaggi
più spaventosi di questa parte dell’Africa. – raccontò in una lettera – Strade orribili che ricordano il presunto orrore dei
paesaggi lunari”. Era il territorio degli Issa, che persino i guerrieri danakil evitavano di esplorare.
La carovana entrò nel regno dello Scioa, passò per Farrè, un
piccolo villaggio, e il 9 febbraio 1887 arrivò ad Ankober. Qui
Rimbaud ebbe modo di conoscere Jules Borrelli, un esploratore
francese, e di apprendere della morte di Labatut. La vedova del
defunto citò in giudizio Rimbaud per ottenere quell’eredità che
riteneva dovesse esserle dovuta. L’Azzaze (il sovrintendente del
re) ordinò a Rimbaud di versarle trecento talleri accordandogli
tuttavia il diritto di sequestro a titolo di risarcimento. Rimbaud
si recò dalla donna ma la maggior parte dei beni erano già stati
messi al sicuro, pertanto si limitò a confiscare qualche animale e
alcuni effetti personali, poi compì un gesto sconcertante: diede
alle fiamme, nonostante le imprecazioni della vedova, una trentina di volumi in cui Labatut aveva trascritto le sue “memorie”.
Quelle annotazioni, con ogni probabilità, rappresentavano una
testimonianza storica di valore inestimabile, ma non scamparono al pragmatismo vandalico del mercante francese. Le
seccature che l’ex collega gli aveva lasciato, del resto, non erano
di poco conto: i creditori di Labatut che nei mesi successivi si
presentarono a reclamare denaro divennero un autentico tormento. A maggio la carovana si rimise in viaggio e il 7 aprile era
ad Entotto, la capitale del regno.
I nemici più pericolosi degli europei sono gli Abu-Beker, grazie alla facilità
che hanno di avvicinare l’Azzaze e il re, per calunniarci, denigrare le nostre azioni, pervertire le nostre intenzioni. Ai Beduini Dankali danno
sfrontatamente l’esempio del furto e consigliano l’assassinio e il saccheggio.
L’immunità è loro completamente assicurata dall’autorità abissina e
dall’autorità europea sulle coste, ed essi imbrogliano grossolanamente sia
l’una che l’altra.
Aden, 9 novembre 1887, lettera al console De Gaspary
La famiglia di Abu-Beker era la temibile mafia abissina. Re
Menelik arrivò qualche giorno dopo col suo consigliere,
l’ingegnere svizzero Alfred Ilg, e le trattative cominciarono. Il
sovrano acquistò tutte le merci a disposizione, Rimbaud, poco
soddisfatto, guadagnò novemila talleri netti. Il 1° maggio si mise
in viaggio con Borrelli verso est, attraverso terre sottomesse di
recente da Menelik, battendo un percorso lungo il quale sarebbe
sorta la prima ferrovia abissina (Gibuti-Addis Abeba), e tre settimane dopo raggiunse la disastrata Harar, dove fu accolto da
Makonnen, nuovo governatore della città e cugino di Menelik.
Ripartì quindi per Aden col fido servitore Giami. Il 30 luglio
scrisse al console francese lamentando tremende perdite di denaro e un mese dopo chiese alla madre con urgenza un prestito
di cinquecento franchi. Ma le cose non stavano andando poi
così male come voleva far credere. Il 5 agosto Rimbaud fu fermato a Massaua dai carabinieri che lo trovarono senza
passaporto e con due assegni da incassare. Una volta identificato fu libero di ripartire verso il Mar Rosso.
Non posso tornare in Europa per molte ragioni: prima di tutto d’inverno
morirei, poi mi sono troppo abituato alla vita errante e autonoma, e infine
non ho una possibilità di lavoro. Dunque, dovrò trascorrere il resto dei miei
giorni vagando fra stenti e privazioni, con l’unica prospettiva di morire
nella breccia […] Dovrò tornare per forza dalle parti del Sudan,
dell’Abissinia o dell’Arabia. Forse potrei andare a Zanzibar, da dove è
possibile fare lunghi viaggi in Africa; e forse in Cina, o in Giappone, chissà…
Lettera alla famiglia, Il Cairo, 23 agosto 1887
Da Suez il mercante francese si recò al Cairo dove depositò al
Crédit Lyonnais ben sedicimila franchi. Inviò poi un articolo
sulla sua spedizione al “Bosphore égyptien” che venne pubblicato a fine agosto. Rimbaud rimase in cura al Cairo per quasi
due mesi, soffriva di reumatismi alla schiena e alla gamba sini-
stra, fu sfiorato dall’idea di trovar lavoro a Zanzibar, forse passò
per Beirut e Damasco. L’8 ottobre rientrò ad Aden.
Visto abbastanza. La visione si è incontrata in ogni aria.
Avuto abbastanza. Rumori di città, la sera, e al sole, e sempre.
Conosciuto abbastanza. I decreti della vita. – O Frastuoni e Visioni!
Partenza nell’affetto e nel rumore nuovi!
Partenza
Capitolo 21
Notizie dal Passato
Il più sorprendente ed autentico fenomeno di
fanciullo prodigio che sia mai apparso nella
letteratura mondiale di tutti i tempi - Corrado Govoni
Il 15 dicembre 1887 Rimbaud scrisse al ministro delle Colonie
francese chiedendogli l’autorizzazione per il commercio di armi
nel sud dell’Abissinia. Makonnen, governatore dell’Harar, decise
che se la Francia avesse permesso l’importazione dei fucili Remington lui avrebbe chiuso le rotte commerciali agli inglesi.
Rimbaud spedì alcune relazioni sugli affari in Abissinia a diversi
giornali francesi e si augurò che il ministro delle Colonie accordasse la tanto sospirata autorizzazione. Il permesso però gli fu
negato. Rimbaud allora intraprese una missione clandestina con
Armand Savouré, trafficante d’armi parigino: per duemila franchi avrebbe trasportato tremila fucili e mezzo milione di
cartucce dalla costa ad Harar. Il 14 febbraio partì da Aden, attraversò il golfo e il 25 arrivò Harar. Qualcosa, tuttavia, gli
impedì di portare fino alla costa la carovana allestita da Savouré.
A questo punto le tracce di Rimbaud si perdono… tre mesi più
tardi Antonio Cecchi, console italiano ad Aden, inviò un rapporto al suo ministero degli Esteri in cui riferiva che il 10
maggio era stava avvistata ad Ambos una grande carovana di
avorio e di schiavi accompagnata dal mercante francese “Rembau”. Fu così che nacque l’immagine di Rimbaud mercante di
schiavi. In realtà la questione non è così determinante come potrebbe apparire. A prescindere dalla fondatezza di tali
avvistamenti, infatti, bisogna tener presente che all’epoca tutti i
commercianti erano implicati, in qualche modo, nella tratta degli schiavi. Era una piaga non ancora del tutto estirpata, e del
resto anche il colonialismo europeo costituiva un fenomeno
altrettanto deprecabile.
I bianchi sbarcano! Il cannone! Bisogna sottomettersi al battesimo, vestirsi,
lavorare.
Ho ricevuto al cuore il colpo di grazia. Ah! non l’avevo previsto!
Non ho mai fatto del male. I giorni mi saranno leggeri, il pentimento mi
sarà risparmiato. Non avrò avuto i tormenti dell’anima quasi morta al
bene, dove risale la luce severa come i ceri funebri.
Una Stagione all’Inferno
Nella primavera del 1888 Rimbaud tornò ad Harar per via di
una “successione di cicloni” che promettevano un’eccezionale
raccolta di caffè. Si era infatti accordato con César Tian, grosso
commerciante francese, perché fosse il suo unico agente in
quella città. Riprese dunque le sue frenetiche attività: allestiva
trasporti, riceveva mercanti, concludeva trattative. Si stabilì in
un piccola casupola a un solo piano e accanto vi fece erigere
alcune capanne che fungevano da depositi. Persona dall’indole
scorbutica e riservata e dallo stile di vita spartano, Rimbaud era
in buoni rapporti con tutti ma intimo con nessuno, e continuava a descriversi alla famiglia in uno stato di profonda
frustrazione:
Mi annoio molto, sempre; non ho mai conosciuto nessuno che si annoi
quanto me. E poi, non è forse miserabile questa esistenza senza famiglia,
senza un’occupazione intellettuale, perduto fra i negri di cui vorremmo migliorare la sorte e che invece cercano di sfruttarti e ti mettono
nell’impossibilità di sbrigare gli affari in breve tempo? […] Ma la cosa più
triste è questa. È la paura di diventare pian piano abbrutito anch'io, così
isolato e lontano da ogni società intelligente.
4 agosto 1888
Rimbaud era una persona ostinata, un abile mercante europeo
dallo sguardo cupo ma implacabile. E progettava. Pianificava e
progettava di continuo. Offriva magazzinaggio e agevolazioni
bancarie, muli cammelli e guide, perizie contabili e generali, stabiliva il prezzo delle merci più importanti. Ogni sera andava a
risistemare le casse piene di cartucce nel magazzino accanto alla
sua abitazione riflettendo sugli impegni dell’indomani. Ormai
gran parte del commercio europeo dell’abissinia meridionale
gravitava attorno a lui. Eppure quello stesso sguardo, anni prima, aveva provocato tremende distruzioni, e qualcuno, nel
Vecchio Continente, aveva già cominciato a venerare gli incendi
che ne erano scaturiti attendendo il suo ritorno come quello di
un messia. Un giorno arrivò la lettera di Paul Bourde. Il giornalista gli spiegava che purtroppo “Le Temps” aveva deciso di
rinunciare alle sue corrispondenze dall'Abissinia e aggiungeva
che...
Vivendo così distante da noi, lei probabilmente non sa che a Parigi per un
ristretto gruppo di scrittori lei è divenuto una sorta di figura leggendaria una di quelle figure la cui morte è stata annunciata ma nella cui esistenza
pochi fedeli continuano a credere e il cui ritorno aspettano con ostinazione. I
vostri primi sforzi, sia in prosa che in versi, sono stati pubblicati da alcune
riviste del Quartiere Latino e perfino raccolte in volume. Alcuni giovani
(che io reputo ingenui) hanno tentato di fondare un sistema letterario sul
vostro sonetto dedicato al colore delle vocali. Non essendo a conoscenza
della vostra attuale vita, il gruppetto che vede in lei la sua guida vive nella
speranza che un giorno farà ritorno, e lo salvi dall’oscurità.
Erano gli albori di un Mito.
Capitolo 22
Verso l’Abisso
Un ribelle incarnato. Un suicida vivente. Tanto più
insopportabile per noi. Senza barare al gioco, poteva
farla finita a diciannove anni, ma la tirò in lungo,
ci fece assistere, attraverso la follia di una vita devastata,
alla morte vivente che tutti infliggiamo a noi stessi.
Mi piace pensarlo come il Colombo della Giovinezza,
come colui che ha esteso i confini di
quel territorio solo in parte esplorato - Henri Miller
All’inizio del 1889 Rimbaud era di buon umore, rassicurò la
famiglia (“Sto bene, meglio dei miei affari”) e anche il collega
Borrelli, spiegandogli che la situazione era sotto controllo. In
realtà a marzo Menelik, dopo la morte di Giovanni IV, si era
proclamato negus negast, re dei re, imperatore di tutta l’Abissinia
e aveva cominciato ad applicare tasse micidiali sull’intera popolazione, i suoi soldati ne imponevano il pagamento a suon di
bastonate; d’estate una terribile carestia aveva distrutto i raccolti
e il governatore Makonnen era in viaggio in Italia per firmare il
Trattato di Uccialli con re Umberto I. Harar rischiava di sprofondare nell’anarchia più totale. Rimbaud se ne lamentò con
l’ingegnere Ilg, fedele a quel temperamento esigente e pratico
che non aveva mai perduto. Ormai suoi rapporti con le autorità
locali erano tutt’altro che cordiali, le sue bizze aumentavano, si
raccontava che un giorno avesse sterminato con la stricnina decine di cani colpevoli di sciupargli le merci, episodio che gli
valse il soprannome sarcastico “Il terrore dei cani”. Rimbaud
svolgeva il suo lavoro in maniera puntigliosa, stilava resoconti,
effettuava conteggi, era costantemente alle prese con imballaggi
di avorio, muschio, oro, caffè. Bisognava tenere il ritmo, restare
nel giro, evitare i colpi bassi di gente altrettanto motivata.
Riceviamo lettere da ogni parte che ci chiedono con insistenza notizie del
poeta; siamo bombardati dalle domande. E molti dei nostri onorevoli lettori
sono indignati dal notare come Rimbaud non abbia ancora una statua a
Parigi.
“Le Décadent”, 1-15 marzo 1889
Il malcontento aumentava, gli squadroni di Menelik angheriavano la gente, i tassi di cambio erano sempre più sfavorevoli.
Rimbaud venne pestato duramente un paio di volte, forse a
causa della sua sfrontatezza, forse per le interpretazioni del tutto personali che dava del Corano. César Tian chiese al vescovo
Taurin di convincere il francese “pazzo” a tornarsene ad Aden.
Nel marzo del 1890 venti cammelli di Rimbaud furono trovati
sotto la pioggia e in uno stato terribile nella zona fra Harar e
Zeilah, con i loro carichi completamente fradici, incapaci di
procedere fino alla costa o di tornare ad Harar. Il commerciante
francese negò di tenere le sue carovane in condizioni precarie,
sostenendo che fossero soltanto calunnie degli indigeni. È in
questo periodo che si colloca la storia dell’infibulazione, riferita
dai fratelli Righas: Rimbaud ferì gravemente una ragazza infibulata cercando di effettuare l’operazione con un coltello e
scatenando la collera della gente accorsa a vedere cosa stava
succedendo. Quest’orribile incidente, tuttavia, non è mai stato
comprovato.
Alla fine del mese terminò il blocco commerciale inglese,
Rimbaud scrisse a Menelik chiedendo con insistenza il rimborso
dei quattromila talleri che gli erano stati sottratti a titolo di “prestito”. Ad aprile arrivò una lettera della madre che gli
consigliava di sposarsi. Rimbaud declinò gentilmente l’invito,
“intendo rimanere libero di viaggiare”, le rispose. Saccheggi e
massacri erano all’ordine del giorno, le strade erano spesso impraticabili a causa di guerre e rivolte locali. Rimbaud sapeva
destreggiarsi abilmente nelle situazioni più avverse e riteneva gli
abitanti di Harar “né più stupidi né più canaglie dei negri bianchi dei paesi detti civilizzati”, sebbene a volte esprimesse
pessime opinioni sul loro conto.
Nella primavera del 1891 Rimbaud interruppe definitivamente
la sua collaborazione con Savouré. Intanto i “seguaci” europei
cercavano disperatamente di avere notizie del loro profeta e gli
“avvistamenti” si andavano moltiplicando: di recente era stato
scorto ad Aden, in Algeria, in Marocco. Il direttore della rivista
letteraria “La France moderne” gli spedì una lettera: “Signore e
caro Poeta, ho letto i suoi bei versi: questo per dirle quanto sarei felice e fiero di vedere il capo della scuola decadente e
simbolista alla ‘France moderne’ di cui sono direttore”. Menelik
cacciò i diplomatici italiani da Addis Abeba considerando l’Italia
una nazione nemica. Il commerciante Ottorino Rosa si apprestò
così a ritornare in patria in attesa di tempi più propizi, non prima però di aver fatto un’ultima cavalcata in montagna con
l’amico Rimbaud, che, spiegando all’altro i motivi che lo avevano spinto ad andarsene dalla Francia, colse l’occasione per
rinnegare senza mezzi termini i suoi trascorsi “maledetti”: era
solo “un periodo di ubriachezze – farfugliò, – una vita insensata, vuota, disgustosa”. – Io non so più parlare. – Rimbaud
iniziava intanto ad accusare un fastidioso dolore al ginocchio
destro. All’inizio pensò fossero semplici reumatismi oppure
un’artrite, ma nei giorni seguenti il dolore aumentò e
l’articolazione prese a gonfiarsi. Alla fine del mese la gamba si
era quasi totalmente irrigidita, fu quindi necessario farsi controllare. Il dottor Leopoldo Traversi capì immediatamente che si
trattava di un tumore canceroso ma decise di non rivelarlo al
suo paziente, si limitò a consigliargli di recarsi al più presto in
Europa per farsi curare. Rimbaud attese ancora qualche giorno
per poter seguire i suoi affari, poi, ai primi di aprile, si preparò
alla partenza.
I sentieri sono aspri. I dossi si ricoprono di ginestre. L’aria è immobile.
Come sono lontani gli uccelli e le fonti! Non può esserci che la fine del mondo, più in là.
Infanzia
Il 7 aprile fu allestita una lettiga di fortuna e vennero assunti
sedici portatori per condurla fino alla costa, a Zeilah. Bisognava
percorrere trecento chilometri lottando contro tempeste e terribili escursioni termiche. Rimbaud annotò puntigliosamente le
tappe del viaggio. Il quarto giorno rimase sotto la pioggia per
ventiquattr’ore incapace di muoversi. Otto giorni dopo arrivò a
destinazione e la lettiga fu issata a bordo di una nave in partenza per Aden. Raggiunto l’ospedale fu visitato da un dottore
inglese che, impressionato dalle condizioni del ginocchio, gli
consigliò l’amputazione della gamba. “Sono diventato uno scheletro”, scrisse Rimbaud a sua madre. Riuscì a prenotare un
posto su una nave in partenza per la Francia solo il 7 maggio.
Intanto “La France moderne” gridava vittoria: “Questa volta
l’abbiamo trovato! Sappiamo dove si trova Rimbaud, il grande
Rimbaud delle Illuminazioni!”. Ma il ladro di fuoco sfuggiva ancora.
– Sono mille volte il più ricco, dobbiamo essere avari come il mare. – Il
viaggio durò tredici giorni, il 20 maggio Rimbaud venne ricoverato all’Ospedale della Concezione di Marsiglia dove
diagnosticarono che il male si era esteso alla coscia. Bisognava
urgentemente amputare la gamba. Rimbaud mandò un telegramma alla madre:
Oggi tu o Isabelle, venite Marsiglia con treno espresso. Lunedì mattina mi
amputano la gamba. Pericolo di morte. Affari seri da sistemare. Arthur.
Ospedale Conception. Rispondete
Capitolo 23
L’Ultima Visione
Il suo deserto cominciava e finiva a Parigi,
passando per l’Inferno: ed era di specchi velenosi,
di nomi, di bestemmie, di oggetti, di simboli.
Era l’immagine della “oisive jeunesse”: la sua, la nostra:
una patria di poesia inventata in tre anni - Salvatore Quasimodo
Il 27 maggio 1891 due dottori e due assistenti effettuarono
l’operazione. Estirparono dal corpo del paziente quell’arto che
era stato da sempre l’anima – la mirabile leva – della sua vita
errabonda. Una settimana dopo l’emorragia terminò. Rimbaud
scrisse una lettera a Makonnen annunciandogli il suo ritorno ad
Harar “fra qualche mese”. Ma i giorni successivi il dolore al
moncone si fece più intenso, all’inizio di luglio provò a utilizzare una gamba di legno con scarsi risultati, la notte non riusciva a
dormire e la pressione delle stampelle gli dilaniava le ascelle.
Se qualcuno fosse nella mia stessa situazione e mi consultasse gli direi: è
arrivato fino a questo punto ma non si lasci mai amputare. Si faccia maciullare, straziare, fare a pezzi, ma non accetti di essere amputato. Se viene
la morte, sarà meglio della vita con degli arti in meno.
Marsiglia, 15 luglio
Arrivarono lettere dall’Africa colme d’affetto e solidarietà ma
le nevrosi di Rimbaud si moltiplicavano di giorno in giorno: temeva ancora di essere braccato dalle autorità militari, chiedeva a
Isabelle di scrivergli poco, sospettava che al piano di sotto ci
fossero dei ladri. Il 23 luglio decise di trasferirsi a Roche, continuò a rifiutare il sostegno di un prete, la notte urlava di dolore,
qualcuno lo sentì delirare e bestemmiare contro i credenti e la
religione. Un mese più tardi decise di ritornare a Marsiglia, dove, ne era certo, si sarebbe ristabilito e in breve tempo avrebbe
potuto imbarcarsi per l’Africa. Il 23 agosto Isabelle e il fratello
salirono su una carrozza che li condusse alla stazione. Rimbaud
manifestò il suo orrore per la piccola aiuola fiorita sistemata ai
piedi di un castagno, poi salì sul treno e venne adagiato vicino al
finestrino, il moncone poggiato sopra una coperta. Ogni scossone del vagone era una fitta atroce. La sera arrivarono a Parigi,
Rimbaud decise di fermarsi in un hotel, pioveva a dirotto, cambiò idea, prese un taxi e si diresse alla Gare de Lyon con
Isabelle. Intravide un’uniforme militare, scoppiò in una risata
isterica, collassò, gli somministrarono un sonnifero, ebbe un
sonno infestato dagli incubi. Giunti a Marsiglia, un taxi li ricondusse all’ospedale. In autunno le condizioni di Rimbaud
peggiorarono, perse anche la sensibilità delle braccia, iniziò a
piangere disperato, a imprecare contro suore e infermieri, a
chiedere cure più efficaci, “Andrò sotto terra! – urlava alla sorella – e tu camminerai nel sole!”, immaginava di essere ad
Harar, in perenne partenza per Aden, invocava il suo servitore
Giami.
È molto magro; ha gli occhi infossati e cerchiati di nero; ha spesso malditesta; quando dorme di giorno si sveglia di soprassalto, mi dice che è un colpo
che lo colpisce contemporaneamente al cuore e alla testa a risvegliarlo così;
quando dorme la notte fa dei sogni spaventosi e talvolta quando si sveglia è
irrigidito al punto da non poter fare alcun movimento.
Lettera di Isabelle alla madre, Marsiglia, 22 settembre 1891
Il 3 ottobre i medici decisero di ricorrere a una stimolazione
elettrica. Il 9 novembre 1891 Rimbaud dettò una lettera farneticante in cui faceva un inventario di zanne di elefante e
comunicava a un non meglio precisato “direttore” che aveva
intenzione di imbarcarsi con la sua merce su una nave della inesistente compagnia Aphinar:
UN LOTTO:
UN LOTTO:
UN LOTTO:
UN LOTTO:
UN LOTTO:
UN DENTE SOLO
DUE DENTI
TRE DENTI
QUATTRO DENTI
DUE DENTI
Signor Direttore, Le voglio chiedere se, a suo avviso, non ho lasciato
niente. Oggi desidero cambiare questo servizio, di cui non conosco nemmeno
il nome, ma voglio ad ogni modo che sia il servizio di Aphinar. Tutti questi servizi sono lì dappertutto ed io, impotente, infelice, non posso trovare
niente, il primo cane per strada glielo potrà dire. Mi mandi dunque i prezzi del servizio di Aphinar a Suez. Io sono completamente paralizzato:
quindi desidero trovarmi a bordo di buon mattino. Mi dica a che ora devo
essere trasportato a bordo…
Arthur Rimbaud spirò alle ore 10 del mattino seguente.
Aveva trentasette anni.
EPILOGO
Il caso più stupefacente, inquietante e insolubile
nella poesia da me conosciuta. Oserei dire che fa
parte a sé, senza le naturali parentele che
tutti i poeti hanno fra di loro - Aldo Palazzeschi
Il 14 novembre 1891 il corpo giunse a Charleville in una bara
di quercia. Madame Rimbaud organizzò il funerale in tutta fretta, senza neanche affiggere i manifesti funebri. L’abate Gillet,
che era stato insegnante di Arthur al Collegio di Charleville, in
un’ora riuscì a radunare quattro cantori, otto ragazzi del coro,
venti orfanelli con candele, un campanaro e un sagrestano.
L’altare avvampava di luci, il portone della chiesa era adornato
da eleganti paramenti neri con le iniziali dell’estinto spruzzati di
lacrime d’argento. Era un funerale di prima classe, ma non era
stato avvisato nessuno, e ad assistervi v’erano soltanto Mme
Rimbaud e Isabelle. Verso le 10:30 venne celebrata la messa.
Una volta terminata, il corpo di Rimbaud fu collocato sopra un
sontuoso carro funebre trainato da cavalli con le teste piumate e
deposto nella tomba di famiglia. Tutto era stato compiuto nella
massima discrezione: un decoroso silenzio doveva porre il suggello definitivo ad un’esistenza che era stata fin troppo
rumorosa. Ma quel silenzio durò poco… lentamente cominciò a
farsi largo, da diverse parti del mondo, l’echeggiare di un urlo
terrificante che anni prima aveva aggredito, disperato,
un’umanità colpevole e cieca. – Un colpo del tuo dito sul tamburo
scatena tutti i suoni e dà inizio alla nuova armonia. – Il 6 dicembre
1891 Frédéric Rimbaud ricevette una lettera.
Signore, mi perdoni se sono importuno, ma un giornale di Parigi, “L’Echo
de Paris”, pubblica una notizia la cui autenticità non mi pare certa: racconta cioè che vostro fratello, Arthur Rimbaud, sarebbe morto a Marsiglia
e che il suo corpo, trasportato a Charleville, vi sarebbe stato sepolto il 23
novembre scorso. Vi sarei molto riconoscente, Signore, se poteste farmi sapere se questa notizia è falsa, come mi auguro; e se, comunque, mi permetteste
di entrare in corrispondenza con voi per chiedervi alcune informazioni intorno a vostro fratello, informazioni che mi sarebbero indispensabili per un
studio che ho intenzione di consacrargli…
Rodolphe Darzens
E questo era solo l’inizio. Poi divampò la Leggenda.
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Seneca Edizioni
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n. 633, art. 2, lett. d). Esente da bolla di accompagnamento
(DPR 6/10/1978, n. 627, art. 4, n. 6). Finito di stampare nel
mese di nomemese 2006 presso la Legatoria nomestampatore
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