Il peso insopportabile. Arthur Rimbaud

Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
ISSN 2282-1031
Il peso insopportabile.
Arthur Rimbaud
di Francesca Brencio
L’angelo e il bambino
E già il nuovo anno aveva esaurito la prima luce,
luce che piace ai bambini, e a lungo richiesta
e presto scordata: sepolto nel sorriso e nel sonno,
tacque il languidetto bambino; lo abbraccia un letto di piume,
e tutt’intorno per terra: strepitosi sonagli,
e conservando il loro ricordo, carpisce sonni felici,
e riceve i doni dei celesti, dopo i doni della madre.
Stira la bocca sorridente, e le labbra appena dischiuse sembrano
invocare Dio: accanto alla testa l’angelo sta sospeso,
chino, e cerca di cogliere i deboli sussurri
del cuore innocente, e pendendo dalla sua visione,
contempla i tratti eterei;
in ammirazione delle gioie della fronte serena,
in ammirazione delle gioie della mente,
e dell’intatto fiore di Noto: «Bambino simile a noi,
vieni, sali con me al cielo, entra nei regni celesti;
abitaci, tu degno delle regge celesti viste nei sogni;
la terra non ti seppellisca, figlio celeste!
Per nessuno c’è fede senza rischi: mai gioie serene
confortano i mortali; dallo stesso profumo del fiore
viene su qualcosa d’amaro, e i cuori commossi sono sollevati
da una triste gioia; mai il piacere gode senza nube
e traspare una lacrima nel riso incerto.
Che? la fronte pura ti marcirebbe a causa di una vita amara,
e l’affanno con le lacrime ti turberebbe gli occhietti azzurri,
e l’ombra del cipresso ti strapperebbe le rose del volto?
Questo no: penetrerai con me nelle regioni degli dei,
e unirai la tua voce ai concerti dei celesti,
spierai gli uomini sotto di te, e le passioni degli uomini.
Vieni: per te il Nume spezza i lacci dell’esistenza.
Ma la madre non sia velata a lutto:
non faccia distinzioni tra feretro e culla;
rilassa il sopracciglio triste, né i lutti
contristino il volto: piuttosto sparga gigli a piene mani:
infatti l’ultimo giorno fu per il puro il giorno più bello».
Ora sta avvenendo questo: avvicina lieve l’ala alla bocca rossa,
recide l’ignaro e porta l’anima del reciso sulle ali azzurre,
con un volo delicato lo trasporta su nelle sedi celesti: ora il piccolo letto
custodisce soltanto delle membra smorte, alle quali tuttavia non è venuta meno la grazia,
ma non lo anima più il respiro e rende la vita.
È trapassato… ma ancora sulle labbra che sanno di baci
Espirano sorrisi, e aleggia il nome della mamma,
1
Francesca Brencio - Il peso insopportabile
e morendo ricorda i doni dell’anno che nasce.
Penseresti che quegli occhi spenti siano socchiusi per un sonno tranquillo;
ma quel sonno, più che mortale per il nuovo onore,
non so perché avvolge la fronte di luce celeste,
e dimostra che egli non è più una radice della terra ma figlio del cielo.
Oh! Con quanta pena la madre pianse la perdita,
e con quante lacrime bagnò il caro sepolcro!
Ma ogni volta che chiude gli occhi nel dolce sonno
dalla rosea soglia del cielo rifulge un bambino,
Angelo, e si diverte a richiamare la dolce madre.
Si scambiano sorrisi: poi, perso nell’aria,
con le ali nivee svolazza attorno alla mamma stordita,
e congiunge quelle labbra con labbrucce divine1
Smarrisco il mondo e muoio lo dimentico
l’ho sepolto nella tomba delle mie ossa
George Bataille
2
I.
«Poeta, Rimbaud lo fu in modo assoluto, perentorio»3.
Eppure, come ricorda Isabelle Rimbaud, quando ― durante
la malattia ― ella leggeva al fratello qualcosa, «quando capitava
un verso, anche uno solo, mi supplicava di saltare. Aveva orrore
della poesia»4.
Arthur Rimbaud morì il 10 novembre del 1891 a trentasette
anni; accanto a sé non c’era più traccia di fede nella poesia5;
1
A. Rimbaud, “L’ange et l’enfant”, in A. Rimbaud, Poesie latine, in Opere, a
cura di D. Grange Fiori, Mondadori, Milano 1975, p. 424 sgg.
2
G. Bataille, Nietzsche. Il culmine e il possibile, trad. it. a cura di A. Zanzotto,
Rizzoli, Milano 1970, p. 99
3
V. Segalen, Il doppio Rimbaud, trad. it. a cura di F. Pietranera, Ed. Rosellina
Archinto, Milano 1990, p. 5.
4
Ibidem, p. 50.
5
«Vostro fratello ha la fede, figliola che mai ci avevate detto? Ha la fede, e
anzi non ho mai visto una fede di qualità simile!» scrive Isabelle Rimbaud alla
madre riportando le parole che il sacerdote le disse nel momento della
confessione di Arthur prima della morte (cfr. Isabelle Rimbaud alla madre, in
A. Rimbaud, Opere, cit., p. 629).
Tuttavia, come sottolinea Yves Bonnefoy a proposito della conversione in
extremis di Rimbaud alla religione cattolica, «per un’anima incapace di
dimenticare la promessa di Gesù, la conversione di Marsiglia non è stato il
2
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eppure di lui rimangono i versi che, come dice Coulon, «sono il
suo cervello, il suo sangue e la sua carne direttamente messi sulla
carta»6. Forse è per questo che per capire Rimbaud «bisogna
studiarlo e bisogna, soprattutto, amarlo»7, bisogna, come dice
Bonnefoy, «separare la sua voce dalle tante altre voci che ad essa
si sono mescolate»8 e pensare questa attraverso la misura del
silenzio.
Cresciuto dalla madre nella piccola Charleville, «una città
superlativamente idiota fra tutte le città di provincia»9, senza la
figura paterna accanto, desideroso di fuggire da quel posto per
realizzare la libertà libera e con essa i propri sogni, poco più che
adolescente, Rimbaud sperimenta la solitudine dell’esistenza
«grigiastra». Egli avvertì il suo legame con Charleville come un
cappio che lo stringeva, come un luogo che inebetiva le sue
capacità e lo confinava fuori dal mondo. Il 2 maggio del 1870
scrive a Izambard:
«Sono spaesato, malato, furibondo, istupidito, stravolto; aspiravo a
bagni di sole, a passeggiate senza fine, riposo, viaggi, avventure,
bohémienneries insomma» .
10
Qualche mese dopo (il 2 novembre) scrive ancora al suo
interlocutore:
«Signore, sono tornato a Charleville il giorno dopo aver lasciato lei.
Mia madre mi ha accettato, e io – eccomi qua, l’ozio assoluto. Mia
primo impeto di speranza. Ma tutte le altre volte, finché Rimbaud fu
cosciente, Dio sembrava non rispondere. Spesso detestato per la morale da lui
avallata, atteso talvolta ingordamente, nella Saison en enfer o nelle
Illuminations, il Dio cristiano fu sempre un assente, e se l’opera di Rimbaud
può avere valore di testimonianza, lo è davvero e soltanto di quella morte del
divino che anche Nietzsche ha descritto. Si faccia pure, se lo si desidera, della
conversione di un morente il segno del risveglio di Dio. Ma che non si cerchi
la sua presenza in una poesia che spesso ha tentato di provocar- lo senza
incontrare null’altro che il suo silenzio». Y. Bonnefoy, L’impossibile e la
libertà, trad. it. a cura di G. Caramore, Marietti, Casale Monferrato 1988, p.
114.
6
F. Liuzzi, Arturo Rimbaud, Formiggini, Roma 1926, p. 9.
7
Ibid., p. 8.
8
Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 1.
9
A. Rimbaud, “Lettera a Georges Izambard”, in Opere, cit., p. 440.
10
Ivi, p. 441.
3
Francesca Brencio - Il peso insopportabile
madre non ha l’intenzione, pare, di mettermi in convitto fino al
gennaio ’71.[…] Muoio, mi decompongo nella mediocrità, nella
meschinità, nel grigiastro. Che vuole, mi sono tremendamente
incaponito a voler adorare la libertà libera, e… un mucchio di cose
da fare pietà, vero?»
11
Charleville è quel posto, o «natio borgo», in cui il giovane
Arthur si decompone; esso assurge a paradigma di inettitudine e
di miseria; nella lettera del 28 agosto 1871 a Paul Demeny scrive:
«Situazione dell’imputato: da più di un anno ho abbandonato la vita
normale, per quel che lei sa. Chiuso perpetuamente in questa
inqualificabile contrada ardennese, senza frequentare un solo
uomo, raccolto in un lavoro infame, inetto, ostinato, misterioso,
rispondendo col silenzio alle domande, alle apostrofi grossolane e
cattive, mostrandomi dignitoso nella mia posizione ex-tra-legale, ho
finito col provocare risoluzioni atroci, da parte d’una madre
inflessibile quanto settantatré amministrazioni dai berretti di
piombo. Mi ha voluto imporre un lavoro – da ergastolano, a
Cherleville (Ardennes)! Un posto per il tal giorno, diceva, oppure,
quella è la porta. Rifiutavo questa vita; senza dire le mie ragioni:
sarebbe stato pietoso. Fino a oggi, sono riuscito a eludere le
scadenze. Lei, si è ridotta a questo: augurarsi perpetuamente una
mia partenza avventata, la fuga!»
12
La povertà interiore e la solitudine che Rimbaud avverte nella
sua città non fanno che frustrare il suo desiderio di realizzazione,
e di libertà.
A Théodore de Banville scrisse il 24 maggio 1870 così:
«Maestro, […] ho diciassette anni. L’età delle speranze e delle
chimere, dico- no, – e, ragazzo sfiorato dalle dita della Musa – scusi
la banalità, – mi son messo a dire la mia fiducia, le mie speranze, le
mie sensazioni, tutte le cose dei poeti – che io chiamo: primavera.
[…] Fra due anni, fra un anno forse, sarò a Parigi. – Anch’io, signori
del giornale, sarò Parnassiano! – ho in me qualcosa, non so bene…
che vuol salire… – Giuro, caro Maestro, di adorare per sempre le
due dee, la Libertà e la Musa» .
13
La povertà e la solitudine di cui si fa qui parola non sono solo
certa prigionia e desolazione tipiche di un adolescente, ma sono
11
Ivi, p. 445.
A. Rimbaud, “Lettera a Paul Demeny”, in Opere, cit., p. 464 sgg.
13
A. Rimbaud, “Lettera a Théodore de Banville”, in Opere, cit., p. 439 sgg.
12
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quelle del poeta, il cui essere è avvertito per di più, come un
essere dal «sangue cattivo»:
«Mi è proprio evidente che sono sempre stato razza inferiore. La
rivolta, non mi è possibile capirla […]. Non ho mai fatto parte di
questo popolo; non sono mai stato cristiano; io sono della razza che
nei supplizi cantava» .
14
Sono la solitudine e la povertà di chi comprende
l’insoddisfazione proveniente dalla quotidianità, da quella
medietà che egli ritiene sterile e grigia di fronte all’ideale, di
fronte alle ambizioni. Tutto il mondo a lui circostante ― affetti,
casa, lavoro ― appariva agli occhi di Rimbaud come una
condanna.
La vita, nella sua manifestazione immediata, nella sua
concretezza era una condanna, quella vita per lui così ordinaria e
che imponeva delle esigenze necessarie per la propria sussistenza
era il vero limite di fronte al suo essere poeta, o meglio, così egli
lo intese, come un limite da superare, da oltrepassare in vista dei
«bagni di sole» e dei dettami della Musa. Probabilmente questa
insoddisfazione, questo senso di voler com-prendere il mondo e
il suo senso più intimo rappresentano la prima tappa per
l’affermazione di quella condotta di vita che in più di
un’occasione fece di Arthur Rimbaud un «povero da strada»15, un
barbone dalle dita fortunate.
La sua ribellione, ovvero quella che chiama la sua ripugnanza
contro il dovere imposto e ordinario, si manifesta sin da subito
persino nella eccessiva eccellenza di studente, perché le sue
ripugnanze producono obbedienza e ipocrisia, nei primi tre anni
e mezzo passati all’Istituto Rossat nel periodo 1861-1864, dove
vinse tredici premi e si guadagnò undici note di merito. Nella sua
14
A. Rimbaud, “Sangue cattivo”, in Una stagione in Inferno, in Opere, cit.,
pp. 217 e 221.
15
Si ricordi come Mathilde Verlaine rimase scandalizzata dalla scoperta dei
pidocchi sul cuscino di Rimbaud quando egli era ospite presso la casa dei
coniugi Verlaine, e facendone parola al marito, egli rispose che Rimbaud
amava portarli con sé per poterli attaccare ai preti (la testimonianza è riportata
in G. Robb, Rimbaud, trad. it. a cura di M. Mascarino, A. Palladino, Carocci,
Roma 2002, p. 115). Anche il cognato di Verlaine, desideroso di incontrare il
futuro grande poeta trovò «un ignobile, vizioso, disgustoso, indecente piccolo
scolaro» (Cfr. G. Robb, Rimbaud, cit., p. 119).
5
Francesca Brencio - Il peso insopportabile
ricerca della perfezione scolastica e intellettuale insieme, egli
aveva già l’idea di:
«Osservare ogni cosa da vicino, descrivere la vita moderna con
coraggiosa precisione e il mo- do con cui essa corrompe il genere
umano […] al fine di accelerarne la distruzione» .
16
Osservare il mondo al fine di smascherare tutte le menzogne
che esso racchiude ed ergersi nel- la propria solitudine come un
osservatore esterno, un anatomista del vissuto, un nuovo
Prometeo che priva il mondo ― il suo mondo, Charleville ―
del senso più intimo, in cui perfino gli affetti sono spogliati di
ogni valore.
Tuttavia, Rimbaud sperimentò questa solitudine non soltanto
nella sua città, ma anche nel rapporto con la madre; sebbene
fosse una donna intelligente e sensibile, M. me Rimbaud non
seppe comprendere quel sentirsi abbandonato che Arthur avvertì
sia nei suoi confronti sia nei confronti del padre, capitano
dell’esercito francese mai ritornato a Charleville dopo il 1860:
«E la Madre, chiudendo il libro del Dovere,
se ne andava, soddisfatta e fiera. Non vedeva
negli occhi azzurri e sotto la fronte piena
di protuberanze, l’anima del suo bambino
in preda alle ripugnanze.
Tutto il giorno sudava obbedienza; intelligente,
molto; eppure qualche nero tic, qualche mania,
indicavano in lui le acerbe ipocrisie.
[…] Pietà! Era amico soltanto di bambini scarni
che, fronti nude, occhi stinti sulle guance,
celando magre dita nere e gialle di fango
sotto vesti vecchiotte e puzzolenti di sciolta,
conversavano con la dolcezza degli idioti!
[…] A sette anni, faceva romanzi sulla vita
del vasto deserto, dove splende una Libertà felice» .
17
Questo medesimo sentimento torna anche altrove, nelle
Strenne degli orfani:
«La stanza è piena d’ombra; si ode vagamente
il sussurro di due bambini mesto e dolce
16
17
Biglietto di Arthur Rimbaud a Delahaye, in G. Robb, Rimbaud, cit., p. 61.
A. Rimbaud, “I poeti di sette anni”, in Opere, cit., p. 92 sgg.
6
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[…] Un’assenza si avverte in ogni cosa…
Non c’è dunque per queste creature una madre,
dal fresco sorriso, dagli occhi trionfanti?
[…] Il sogno d’una madre, è il tiepido tappeto,
il nido di bambagia dove i bimbi acquattati,
dormono un dolce sonno di candide visioni!…
Ma questo, – è un nido senza tepore né piume,
dove i piccoli han freddo, e paura, e non dormono;
nido ghiacciato amaramente al vento…
il vostro cuore ha capito: – bambini senza madre.
Non più la madre a casa! – e assai lontano il padre!… » .
18
Rimbaud non fu mai un figlio a casa, o meglio, un figlio e un
fratello che sentì la casa come dimora e rifugio. Forse il desiderio
della fuga nasce proprio da questa presa di coscienza, da questo
sentimento che fa avvertire ad Arthur come tutto gli sia estraneo;
e forse ha qui origine quel disincanto del mondo che egli
sperimenta sin da adolescente, e che frantuma nell’indifferenza
delle consuetudini del piccolo villaggio ardennate tutti i suoi
sogni e tutte le ambizioni di gloria.
«A ogni essere, parecchie altre vie mi sembrano dovute»19,
scrive in Una stagione in Inferno. Viene da domandarsi quali
siano queste altre vie, se è vero che «in un solaio in cui mi
chiusero dodicenne ho conosciuto il mondo, ho illustrato la
commedia umana»20. Ma Rimbaud sperimentò la delusione non
soltanto a Cherleville, ma anche altrove: Parigi, Londra,
l’Abissinia non erano poi così diverse tra loro.
II.
Rimbaud compose L’angelo e il bambino poco più che
quindicenne, nel primo semestre del 1869. Sebbene il titolo
possa far presumere qualcosa di serafico tale da legare
l’immagine dell’angelo a quella del fanciullo, in realtà il
contenuto della poesia parla d’altro: tratta dell’ideale che un
angelo persegue nel recidere la vita di un bambino.
L’interrogativo non è perché un quindicenne scriva di morte, ma
18
A. Rimbaud, Le strenne degli orfani, in Opere, cit., pp. 5-7.
A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p. 251.
20
A. Rimbaud, Illuminazioni, in Opere, cit., p. 301.
19
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Francesca Brencio - Il peso insopportabile
come la morte non sia solitudine, ma una condizione privilegiata
di relazioni. Ciò che merita di essere considerato non è tanto il
discorso che l’angelo pronuncia nel momento che precede la
morte del bambino, quanto come il bambino, una volta morto,
possa realizzare pienamente il suo rapporto con la madre.
L’immagine finale dei sorrisi e dei baci racchiude molto della
condizione affettiva ed esistenziale del giovane Rimbaud.
Proprio nell’inversione del significato che la vita e la morte o che
la solitudine e la comunicazione rivestono in questa lirica si
compie il miracoloso, il serafico ― e non è un caso che il
giovane Rimbaud scelga l’immagine dell’angelo. In questo senso
l’opera poetica di Rimbaud fin dall’inizio va al di là del cliché del
poeta maledetto, del rivoluzionario, del bohemien. Una volta
sperimentata la vita come assenza di pienezza, rimane solo la
morte come realizzazione di questa, o meglio, come custode di
una promessa che attende il suo soddisfacimento.
Se è valida l’affermazione di Cioran per la quale Rimbaud è un
ingegno che si è distrutto per aver voluto dare un senso alla
propria esistenza21, allora in questa sua distruzione egli
sperimenta la vertigine del proprio essere a metà.
Perciò, come ha giustamente osservato Camus, possiamo dire
che
«la grandezza di Rimbaud non sta nei primi gridi di Charleville né
entro i traffici dell’Harar ma prorompe nell’attimo in cui, dando
alla rivolta il linguaggio più stranamente appropriato che mai le sia
stato conferito, dice ad un tempo il suo trionfo e la sua angoscia, la
vita assente al mondo e il mondo inevitabile, il grido verso
l’impossibile e la realtà ruvida da stringere, il rifiuto della morale e
la nostalgia irresistibile del dovere. Nel momento in cui, portando
in sé l’illuminazione e l’inferno, insultando e salutando la bellezza,
ha fatto di una contraddizione irriducibile un duplice e alterno
canto, è poeta della rivolta, e il massimo» .
22
Leggendo I deserti dell’amore si ha la sensazione che mai fu
scritta da lui poesia più triste, mai fu sentita in modo così radicale
la sua condizione di perdita della purezza della vita, di solitudine,
21
Cfr. E. M. Cioran, La tentazione di esistere, trad. it. a cura di L. Colasanti,
C. Laurenti, Adelphi, Milano 1984, p. 24.
22
A. Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, trad. it. a cura di L. Magrini,
Bompiani, Milano 2000, p. 717 sgg.
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di mancanza di comunione ― corporale prima che spirituale.
L’opera inizia dicendo:
«Questi scritti sono di un giovane, giovanissimo uomo, la cui vita si
è sviluppata un po’ dappertutto; senza madre, senza paese,
noncurante di quel che è noto, in fuga davanti a ogni forza morale,
come già lo furono molti uomini giovani, e meritevoli di
compassione» .
23
Poco oltre continua:
«Io ero abbandonato, in quella casa di campagna senza fine: a
leggere in cucina, a far asciugare davanti agli ospiti il fango dei miei
vestiti, alle conversazioni in salotto: mortalmente agitato dal
mormorio del latte la mattina e dalla notte d’un secolo fa […]. A
tutto ciò piangevo enormemente. Infine sono sceso in un luogo
pieno di polvere, e, seduto su una catasta di legna, ho lasciato che si
esaurissero insieme a quella notte tutte le lacrime del mio corpo» .
24
E nel Battello ebbro scrive:
«Ma è vero, ho pianto troppo! Son desolanti le Albe. Ed è atroce
ogni luna, ed è amaro ogni sole» .
25
Queste parole ricordano i versi di Orazione della sera dove si
legge:
«Il mio cuore triste è a volte alburno
ove sanguina il cupo giovane oro dei succhi» .
26
Il tema è sempre il medesimo: l’impossibilità di raggiungere
quella comunanza tanto agognata, quella pienezza irrisolta il cui
orizzonte fugge in una fuga eterna27.
23
A. Rimbaud, “I deserti dell’amore”, in Opere, cit., p. 195.
A. Rimbaud, “I deserti dell’amore”, in Opere, cit., p. 197 sgg.
25
A. Rimbaud, “Battello ebbro”, in Opere, cit., p. 149.
26
A. Rimbaud, “Orazione della sera”, in Opere, cit., p. 81.
27
A. Rimbaud, “Credo in Unam”, in Opere, cit., p. 19.
24
9
Francesca Brencio - Il peso insopportabile
III.
Solitudine è perciò il venir meno di tutto ciò che è oggetto di
desiderio, di amore, di appartenenza. La prima solitudine fu
quella della madre, la seconda quella di Dio e della Vergine28, la
terza quella dell’amore, la quarta quella della poesia.
In questa condizione, Rimbaud consegnò al fallimento la
propria esistenza ― per eccesso di orgoglio, di coraggio, perché
si può essere falliti anche per eccesso, non solo per difetto ―
rendendola poco più che un malinteso29. E il suo fallimento fu
triplice: fu quello dell’incapacità di farsi veggente ― così come si
era proposto nelle lettere a Izambard e Demeny del 187130 ―,
quello della carità e della pietà, che segnavano le poesie della
giovinezza, e infine quello dello spirito di verità. Soprattutto
quest’ultimo sarà ciò che egli denuncerà in modo implacabile
nella Stagione in Inferno, la sua sregolatezza programmatica di
tutti i sensi che avrebbe dovuto condurlo a comprendere la
verità, a farsi verità dopo aver partecipato della visione.
Tuttavia, in cosa altro mai può riposare l’essenza della poesia
e della sua verità, osserva Bonnefoy, «se non nella confessione
del fallimento»31 e nel riconoscere che l’affannarsi del poeta per
cercare la realtà nella sua essenza lo spinge proprio nella
direzione opposta di questa ricerca, cioè nel perdere la realtà e
con essa se stesso? Cercare la purezza della vita, l’eternità,
attraverso il loro opposto conducono Rimbaud a una perdita di
esse:
«Rivoltarsi contro la loro presente miseria, ingiuriarla con il pretesto
dell’Ignoto, essere odio prima di essere amore, è davvero questo il
28
Cfr. A. Rimbaud, “Le prime comunioni”, in Opere, cit., pp. 131-141.
P. Claudel, Prefazione a Arthur Rimbaud, Oeuvres, in A. Rimbaud, Opere,
cit., p. 730.
30
Cfr. A. Rimbaud, “Lettera a Georges Izambard”, e “Lettera a Paul.
Demeny”, in Opere, cit., p. 448 sgg. Sul tema del poeta veggente in Rimbaud
cfr. inoltre G. Robb, Rimbaud, cit., pp. 84-96; G. Deleuze, Critica e Clinica,
trad. it. a cura di A. Panaro, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pp. 4548.
31
Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 48.
29
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mezzo per ristabilire la felicità e l’amore originari? Non è forse
escludersi ancora un po’ di più dal grande festino rifiutato?»
32
Solo attraverso la presa di coscienza del proprio fallimento
risulta chiara l’espressione:
«Una sera ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho
trovata amara. – E l’ho insultata» .
33
Ormai Rimbaud ha consapevolezza non solo di questo suo
fallire, ma di come sia impossibile attuare la riconciliazione: del
passato col presente, di Charleville con Londra, di se stesso con
Dio, della poesia con la vita. È la coscienza dell’impossibile che
si apre a lui nei suoi multiformi aspetti. «Conosco ancora la
natura? Mi conosco? – Basta con le parole. Seppellisco i morti
nel mio ventre. Gridi, tamburo, danza, danza, danza, danza!»34
Impossibile è la libertà libera, impossibile la salvezza,
impossibile la poesia senza il pensiero della morte.
«Il vecchiume poetico era per buona parte nella mia alchimia del
verbo. Mi abituai all’allucinazione semplice […]. Più tardi spiegai i
miei sofismi magici con l’allucinazione delle parole! Finii col
trovare sacro il disordine del mio spirito. Stavo in ozio, preda di
una febbre pesante […]. Dicevo addio al mondo in una sorta di
romanze […]. Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe
avvizzite, le bevande intiepidite. Mi strascicavo per vicoli puzzolenti
e, chiusi gli occhi, mi offrivo al sole, dio di fuoco […]. Divenni
un’opera favolosa: vidi che in tutti gli esseri c’è un destino di felicità:
l’azione non è la vita, ma un modo di sprecare una qualche forza,
uno snervarsi.»
35
Tuttavia, la coscienza dell’impossibile e di come esso
rappresenti il limite ultimo verso il quale necessariamente egli
tende, non lo irretiscono, non lo imprigionano. Rimbaud vuole,
ancora e comunque, ciò che gli fu negato, ciò che il mondo gli ha
negato: la purezza, l’eternità, la vita e ― soprattutto ― la
pienezza. Vuole la felicità, la vita chiara, quel raggio di luce che fa
32
Ivi, p. 47.
A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p. 211.
34
A. Rimbaud, “Sangue cattivo”, in Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p.
221.
35
A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, cit., p. 243 sgg.
33
11
Francesca Brencio - Il peso insopportabile
cantare la sta- tua di Memnone. Così, per ritrovare quella
promessa, egli sceglie «le corrispondenze».
«È ritrovata.
che? – l’Eternità.
È il mare andato via
col sole.
Anima sentinella,
Mormoriamo l’assenso
della notte di niente
e del giorno di fuoco.
Dai suffragi umani,
dai comuni slanci
tu là ti liberi
e voli a seconda.
Poi che da voi sole,
braci di raso,
esala il Dovere
senza un: finalmente.
Là niente speranza,
non c’è un orietur.
Scienza con pazienza,
il supplizio è certo.
È ritrovata.
Che? - l’Eternità.
È il mare andato via
col sole.»
36
L’eternità è il mare andato via col sole ― in un’altra stesura
dirà «sciolto nel sole»37; ora è nel lampo dell’analogia che si
compie la promessa, il ritorno alla purezza, la realizzazione della
pienezza. Tuttavia, in questo lampo in cui sembra che l’unione
venga realizzata, che la pro- messa venga soddisfatta e con essa il
peso dell’attesa alleggerito dal compimento, il poeta non
dimentica lo scarto che l’impossibile genera e come, ancora una
volta, la pienezza non sia una meta a portata di mano: di qui
36
A. Rimbaud, L’eternità, in Opere, cit., pp. 167-169.
Cfr. A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, cit., pp. 249-251. Qui la poesia
dice: «È ritrovata! / Che? L’eternità. / È il mare sciolto / nel sole. / Anima mia
eterna, / osserva il tuo volto benché / la notte sia sola / e il giorno sia in
fiamme. / Dunque ti liberi / da umani suffragi, / da slanci comuni! / Tu voli a
seconda… / – Mai la speranza. / non c’è un orietur. / Scienza e pazienza, /
certo è il supplizio. / Non più domani, braci di raso, Vostro ardore, è il dovere.
/ È ritrovata! Che? – l’Eternità. / È il mare sciolto / nel sole».
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Kasparhauser ■ Philosophical culture quarterly
ISSN 2282-1031
l’incapacità della sintesi, di essere sintesi. «In quel periodo» scrive
nelle Minute «era la mia vita eterna, non scritta, non cantata, –
qualcosa come la Provvidenza nella quale si crede e non si
canta.»38 Ancora una volta non c’è possibilità di nutrire l’illusione
e non c’è possibilità per la realizzazione della comunione, della
pienezza. Accettare tragicamente questo scarto è l’unico modo
che può fare dell’eternità un momento della vita, che può
rendere «la vita chiara», almeno per un attimo, una tenera
certezza che può far intuire il ritrovamento di quella purezza
originaria tanto desiderata.
Si può forse affermare che nel suo cammino Rimbaud opera
una sola scelta: la via deludente della distruzione, l’abuso delle
droghe per comprendere che esse non sono tanto una sostanza
quanto una rêverie, non un avvicinamento all’essere quanto una
rassegnata passività39. E viene imposto alla parola il peso di un
destino che non può che giungere al silenzio, e Rimbaud
consegnò ad esso la parte più importante della sua poetica.
Spesso, infatti, solo il silenzio rende ragione di un’intera esistenza
di cui non è possibile comprendere il senso con le parole.
«Ritrovare la purezza non nella coscienza ma in ciò che la
nega: questo è stato il tentativo di Rimbaud.»40 Una stagione in
Inferno «significa ciò che dice, alla lettera e in ogni senso»41. Non
si tratta di una sofferenza gratuita, ma necessaria come altrettanto
necessaria è la discesa agli inferi «da cui tornerà redentore»42. In
de profundis Rimbaud torna dagli inferi; egli ha visto e la visione
lo ha reso partecipe; la visione si è offerta a lui nella sua
materialità, nelle sue manifestazioni fisiche; l’Inferno che
Rimbaud ha esperito si è presentato al poeta nella vita; per
questo egli dice:
«Mi sarà lecito possedere la verità in un’anima e un corpo» .
43
38
A. Rimbaud, “Età dell’oro”, in “Minute per Una stagione in Inferno”, in
Opere, cit., p. 277.
39
Cfr. Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 37.
40
D. Ropps, Rimbaud, Morcelliana, Brescia 1935, p. 62.
41
Lettera di Isabelle Rimbaud, in G. Robb, Rimbaud, cit., p. 215.
42
Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 29.
43
A. Rimbaud, “Addio”, in Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p. 265.
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Francesca Brencio - Il peso insopportabile
Così la solitudine e quella infelicità e tristezza che lo hanno
accompagnato nella vita sono diventate in Rimbaud una ricerca
di senso, sebbene distruttiva. Infatti, anche laddove vi è una
distruzione è possibile rintracciare un senso per quella stessa
distruzione, un senso disperato ma pur sempre senso.
Questo Rimbaud lo sapeva, «piccola rosa in un giardino e
metafora di Dio»44.
44
D. Ropps, Rimbaud, cit., p. 170.
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