La percezione pittorica dello spazio

Teorie & Modelli, n.s., XII, 3, 2007 (111-138)
La percezione pittorica dello spazio
Daniele Zavagno* (Milano)
1. Il dilemma della percezione pittorica
Il lavoro grafico dell’artista danese Maurits Cornelius Escher (18981972) costituisce l’apoteosi della raffigurazione pittorica dello spazio intesa
in senso classico, quella cioè che determina l’esperienza visiva di un ambiente rappresentato avente la caratteristica di essere solidamente profondo.
In alcune delle sue opere più famose egli gioca magistralmente con i cosiddetti indizi pittorici di profondità, piegando e contorcendo lo spazio pittorico-visivo al fine di inserire tra le maglie delle sue strutture, al contempo
matematicamente rigorose e logicamente impossibili (Penrose, 1995), una
dimensione in più. Se il fascino del lavoro di Escher consiste in una alchimia tra il visivamente possibile ed il logicamente inverosimile, in cui la nozione di relatività diviene uno degli ingredienti principali, il segreto delle
sue strabilianti costruzioni è intrinseco alla logica stessa del sistema visivo.
Per millenni gli artisti hanno creato su superfici mondi visivi che invitano l’occhio dell’osservatore a vagare al loro interno, diluendo per così dire la materialità visiva della superficie pittorica. Al di là del potente fascino
esercitato dalle opere pittoriche (Freedberg, 1993), queste rappresentano anche una sfida per quanti studiano i fatti visivi. Gibson (1979) coniò l’espressione “percezione pittorica” per indicare l’abilità di vedere oggetti e scene
derivanti da condizioni di stimolazione alle quali a livello fisico non corrisponde la scena osservata. Gibson parlò appunto di un rapporto conflittuale
a livello percettivo tra la natura propriamente fisica di un’immagine (per es.
la materiale piattezza del supporto) e ciò che dentro di essa si è in grado di
vedere e lo descrisse come un vero e proprio paradosso. Da un punto di vista puramente descrittivo, l’esperienza della percezione pittorica delineata
da Gibson è per certi versi simile a quella che si ha guardando una figura
impossibile, nella quale si vede un oggetto tridimensionale che però non
può essere effettivamente tale al di fuori della realtà pittorica (Figura 1a).
Già Gombrich (1956) aveva puntato il dito su questa doppia presenza,
* Dipartimento di Psicologia, Università di Milano-Bicocca.
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che egli descrisse però nei termini di due vissuti percettivi alternativi. Per
Gombrich, più di un rapporto conflittuale si tratterebbe di un’alternanza tra
esiti percettivi, e in questo senso l’esperienza della percezione pittorica non
sarebbe dissimile da quella innescata dalle figure ambigue, le quali mostrano appunto due esiti percettivi possibili – l’uno alternativo all’altro – come
nella coppa-profili di Rubin (Figura 1b).
Diversa è la posizione di Wollheim (2003), che parla della percezione
pittorica in termini di twofoldness, e quindi di simultaneità per quanto riguarda l’esperienza visiva del supporto pittorico e della scena ivi raffigurata. Questa posizione trova riscontro in altri studiosi, come per esempio in
Pirenne (1970) e in Kubovy (1986), secondo i quali la consapevolezza percettiva del supporto pittorico è un requisito essenziale per il funzionamento
d’ipotetici processi compensatori atti a correggere distorsioni percettive dovute alle discrepanze tra l’immobile geometria interna alla scena pittorica e
le continue trasformazioni dovute alla mutevole geometria dell’osservazione. L’ipotesi di Wollheim richiama alla mente il vissuto di doppia presenza che si ha quando ad un unico livello di stimolazione corrisponde il
vissuto di due presenze fenomeniche simultanee, come nel caso della trasparenza (Figura 1c).
Più articolata è la posizione di Mausfeld (2003), che parla di rappresentazioni congiunte ma in termini antagonistici, per cui i parametri caratterizzanti un particolare aspetto di una delle rappresentazioni costituiscono un
vincolo per l’altra rappresentazione relativa alla stessa caratteristica, e viceversa. In altre parole, parametri specificanti medesimi aspetti nelle due
rappresentazioni mentali starebbero tra loro in una relazione antagonistica.
La posizione di Mausfeld sembra coniugare la posizione di Gibson con
quella di Willheim, ma con un’importante distanza rispetto al fisicalismo
implicito ed esplicito della posizione gibsoniana (Mausfeld, 2002). La posizione di Mausfeld è perciò più prossima a quella di Willheim. L’idea di
rappresentazioni congiunte in modo antagonistico, oltre che al vissuto di
trasparenza, rimanda anche alla scissione fenomenica descritta da Koffka
(1935), quella cioè relativa all’esperienza simultanea di un colore di superficie e dell’illuminazione della superficie (Figura 1d). Questo fenomeno è
forse quello che strutturalmente si avvicina di più a quello della percezione
pittorica. La proprietà di possedere un dato colore è una caratteristica di una
superficie opaca, com’è propria di una superficie pittorica la caratteristica
di essere appunto una superficie. Allo stesso tempo però una superficie opaca può anche mostrarsi illuminata in un certo qual modo, una caratteristica questa che è molto diversa da quella di essere di un dato colore; in modo
abbastanza simile, la superficie pittorica mostra altro da sé, con una estensione spaziale che non appartiene alla superficie pittorica in quanto tale. In
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entrambi i casi si ha quindi una doppia rappresentazione: il colore di superficie e l’illuminazione coesistono simultaneamente nello spazio-tempo fenomenico, rubandosi a vicenda la scena, così come coesistono l’aspetto superficiale-materico del supporto pittorico e la scena ivi rappresentata. Il
prestare più attenzione ad un aspetto rispetto all’altro è determinato di volta
in volta dal rapporto dinamico tra l’attenzione e le mutevoli relazioni fotogeometriche all’interno della scena visiva globale.
Figura 1. a) Il tridente impossibile è un paradosso visivo che mostra un oggetto
“solido” sulla carta ma che non può essere solidamente dato nella terza dimensione. b) Una coppa o due profili? Due soluzioni visive che non si danno simultaneamente, bensì in modo alternato. c) La trasparenza mostra simultaneamente superfici parzialmente sovrapposte, ma non vi è “antagonismo” tra i vari livelli; anzi per
vedere la trasparenza è necessario che la sovrapposizione sia parziale e non completa. d) Le superfici componenti una scena hanno un colore che è una loro caratteristica; talvolta si osserva oltre al colore anche l’illuminazione, che emerge fa emergere la luce come presenza autonoma sulle superfici in virtù dell’articolazione
spaziale delle luminanze componenti una scena. In assenza di ombre portate e di
consistenti contrasti di luminanza, la luce non emerge come oggetto percettivo autonomo: si vedono i colori di una certa brillantezza, ma non si presta particolare attenzione alla loro illuminazione (Zavagno & Massironi, 2006).
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Descritta in questi termini, al di là delle differenze intrinseche, l’esperienza della scissione fenomenica tra colore di superficie e illuminazione è
quella che più si avvicina al doppio vissuto che caratterizza la percezione
pittorica, per cui nella stessa esperienza spazio-temporale si danno due vissuti contrapposti ma contemporanei: quello del supporto che chiede di essere considerato per la sua materialità, e quella della scena ivi rappresentata,
che quando osservata tende a diluire o vanificare la materialità intrinseca
del supporto.
2. L’approccio tradizionale alla percezione dello spazio pittorico
Le tecniche utilizzate per diluire o vanificare la materialità del supporto sono le più svariate, e nel loro insieme costituiscono i cosiddetti indizi
pittorici di profondità. Il termine “indizio” rimanda direttamente ad una
tradizione teorica tra le più accreditate nell’ambito della psicologia della
percezione visiva, quella cognitivista, secondo la quale le nostre percezioni
sono mediate dalle nostre esperienze passate, dalle nostre conoscenze aprioriche e dalle nostre aspettative (Gregory, 1977; Rock, 1983; Knill &
Richard, 1996). Secondo questa impostazione, gli artisti avrebbero individuato ed utilizzato nelle loro opere importanti informazioni visive contenute nell’immagine retinica, e dunque correlate a stimoli reali tridimensionali,
informazioni che sarebbero utilizzate dal sistema visivo per dare ordine e
senso a serie di dati sensoriali altrimenti ambigui o perfino irrelati. Mediante processi inferenziali su basi probabilistiche, sotto il controllo delle esperienze passate dell’individuo e di conoscenze specie-specifiche geneticamente date, il sistema, a partire dall’informazione fornita da tali indizi, ricreerebbe la scena visiva che meglio calza la “realtà dei fatti”. Il termine
“pittorico” è introdotto per distinguere tra indizi che possono essere appunto utilizzati per generare impressioni di tridimensionalità mediante mezzi
puramente pittorici (o fotografici), e indizi che sono di natura propriamente
fisiologica, come per esempio l’accomodamento del cristallino rispetto alla
distanza tra osservatore e osservato, o la disparità retinica. È opportuno notare che questi ultimi tipi d’indizi giocano contro la tridimensionalità percepita nelle opere pittoriche, in quanto forniscono informazioni circa la sostanziale bidimensionalità del supporto pittorico e quanto su di essa è raffigurato. Si consideri, per esempio, il fatto che la curvatura del cristallino non
si modifica mai quando, posti di fronte ad un’opera pittorica, spostiamo la
nostra attenzione da un oggetto in primo piano nella scena pittorica ad un
altro posto su un piano più arretrato.
A prescindere dall’essere d’accordo o meno con l’impostazione cogni-
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tivista, questo tipo di approccio ha saputo formalizzare una serie di principi
riguardanti l’esperienza pittorica della terza dimensione. Non essendo tuttavia d’accordo con i principi esplicativi del cognitivismo applicati ai problemi della percezione visiva in generale, sostituirò il termine “indizio”, il
quale possiede appunto una forte connotazione teorica (un indizio è, infatti,
un dato informativo che costituisce un’indicazione o un suggerimento in
merito a un qualche cosa di non evidente), con il termine “indice”, dal sapore più neutro (un indice può essere sia ciò che denota qualche cosa, sia
un rapporto). Quello che segue è un elenco canonico degli indici pittorici di
profondità, con un rimando a figure esemplificative.
2.1. Interposizione od occlusione parziale
Questo indice, in apparenza semplice, informa circa cosa sta più vicino e cosa sta più distante rispetto all’osservatore. L’oggetto parzialmente
occluso si completa amodalmente dietro la superficie occludente. Nella determinazione di cosa sta davanti e di cosa sta dietro sono tuttavia importanti
Figura 2. a) Le giunzioni a T determinano i livelli di stratificazione, ma non forniscono informazione su come le figure continuano l’una dietro l’altra. b) Le giunzioni a X sono funzionali soprattutto alla percezione di trasparenza. c) Le giunzioni
a Y specificano giustapposizioni sul medesimo piano (vedi anche Massironi,
1989). d) Un esempio di multistabilità modificato da Arnheim (1974).
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fattori locali quali le giunzioni tra i margini, ovvero i punti di contatto visivo tra superfici diverse. Le giunzioni possono essere di tre tipi: a T, a X, o a
Y (Figura 2). Si ritiene che sia la conformazione di tali giunzioni a giocare
un certo ruolo nella segmentazione figura-sfondo, essenziale nella determinazione dei piani di profondità pittorica (e non). Tuttavia, come osserva
Arnheim (1974), le giunzioni da sole non possono determinare la gerarchia
delle sovrapposizioni: i fattori globali sono altrettanto importanti (Figura 2d).
2.2. Prospettiva
Il termine prospettiva indica l’insieme di regole che consentono di
rappresentare corpi tridimensionali su un piano in modo che si determini
un’immagine molto simile a quella che si avrebbe osservando direttamente
l’oggetto o la scena tridimensionale. La prospettiva lineare è probabilmente
la più nota tra le tecniche pittoriche perché se opportunamente utilizzata è in
Figura 3. Proiezione isometrica (sopra) e dimetrica (sotto), e particolare di una
schermata del videogioco SimCity™.
grado di generare impressioni “realistiche” di profondità spaziale. Di fatto
le regole della prospettiva lineare sono matematicamente derivate dalle leggi della cosiddetta prospettiva naturale (Gibson, 1979), che si basa sui
principi dell’ottica. Il grado di realismo teoricamente raggiungibile con la
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prospettiva lineare ha fatto sì che ancora oggi molti ritengano che rappresentazioni “realistiche” di tridimensionalità siano possibili soltanto tramite
questo tipo di proiezione geometrica. Questa conclusione, che ha un fondo
di verità, fa perdere di vista il fatto che vi sono altri metodi figurativi capaci
di far emergere la terza dimensione. Esistono, per esempio, tecniche di rappresentazione di oggetti e spazi tridimensionali che sono altrettanto capaci
di “eludere” la superficie del supporto mostrando scene e oggetti tridimensionali. Un esempio è la cosiddetta prospettiva assonometria o parallela,
che include tutte le rappresentazioni isometriche, dimetriche e a cavaliera.
Questi metodi di rappresentazione sono comunemente utilizzati nei disegni
tecnici, ma hanno avuto notevole fortuna anche nell’arte orientale e nello
sviluppo grafico di certi videogiochi (Figura 3).
2.3. Altezza rispetto alla linea dell’orizzonte
La linea dell’orizzonte è il luogo dello spazio dove terra e cielo sembrano toccarsi. Di solito si racconta agli studenti di percezione visiva che
quanto più una cosa è prossima a quella linea, dalla parte del suolo o da quella del cielo, tanto maggiore essa apparirà distante all’osservatore. Ciò che
Figura 4. L’altezza rispetto all’orizzonte è un indice che risulta essere più efficace
con oggetti ancorati al suolo piuttosto che con oggetti sospesi nel cielo. Il motivo
di questa asimmetria sta nel fatto che il suolo è maggiormente strutturato: più che
l’altezza relativa alla linea dell’orizzonte sembrano contare i rapporti locali e globali tra gli elementi componenti una scena (i gradienti tessiturali, la distanza apparente tra gli oggetti, la distanza dai bordi).
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conta, in realtà, è il punto d’appoggio dell’oggetto sul suolo rispetto al bordo inferiore del supporto, o la distanza dal bordo superiore della superficie
pittorica per gli oggetti sospesi nel cielo.
2.4 Gradienti
Un gradiente è un cambiamento graduale in una qualche dimensione
percettiva. Così, quando si disegna usando le leggi della prospettiva lineare,
elementi uguali della scena si differenziano per grandezza retinica in base
alle loro relazioni spaziali con la linea dell’orizzonte e il punto di fuga. Essi
determinano nel loro insieme un gradiente di grandezza, come ad esempio
Figura 5. Massimo Bottecchia, Senza titolo (1979, per gentile concessione degli
eredi Bottecchia)). In quest’opera i gradienti tessiturali si combinano con “linee di
fuga” creando l’impressione di una profondità vertiginosa verso il basso. Queste
trame hanno poco di “realistico”, eppure un’esperienza simile la si può avere guardando verso il basso dalla sommità di certi grattacieli di New York; è quanto accade nell’inquadratura d’apertura del film North by Northwest di Alfred Hitchcock
(1959).
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nel caso di una scacchiera vista in profondità. La maggioranza delle superfici che ci circondano (pavimenti, prati, strade, ecc.; cfr. Figura 1d, Figura
4) sono costituite da trame più o meno fitte, da una sorta di tessitura superficiale, come la definì Gibson (1950), il primo a notare l’importanza dei
gradienti nella percezione della profondità spaziale. Secondo Gibson, più
queste trame sono “realistiche” e maggiore è l’effetto di profondità da esse
indotto. Arnheim (1974) ha tuttavia fatto notare che spesso accade proprio
il contrario. Egli afferma che la fedeltà alla realtà fisica non è fondamentale, in quanto l’efficacia di un gradiente percettivo nel generare un’impressione di tridimensionalità dipende dall’articolazione visiva della scena osservata e non dalla sua aderenza ad una supposta realtà fisica (Figura 5).
2.5.Prospettiva area
Descritto da Leonardo da Vinci nel suo trattato sulla pittura, questo
indice è un altro tipo di gradiente, e si riferisce alla densità dell’aria posta
tra un osservatore e un osservato. Possiamo immaginare l’atmosfera come
una scatola piena di filtri a densità più o meno neutra, nella quale i filtri
rappresentano grosso modo i diversi piani in profondità. I filtri potrebbero
avere la stessa trasmittanza, oppure potrebbero essere caratterizzati da trasmittanze diverse. Nei grandi spazi aperti il secondo è il caso più frequente.
È come se tra noi e un oggetto posto ad una certa distanza vi fosse una serie
di filtri, e l’accorciarsi o l’accrescersi di tale distanza comportasse un numero minore o maggiore di filtri interposti tra noi e l’oggetto. Pensiamo ora
a che cosa fanno i filtri utilizzati dai fotografi: la loro funzione è quella di
“tagliare” una parte di luce proiettata dentro la macchina fotografica. Nel
fare ciò, in base alle loro caratteristiche di trasmittanza, i filtri possono tagliare la luce in modo uniforme (filtri a densità neutra) oppure in modo selettivo (correttori cromatici), e possono influire sui livelli di contrasto (filtri
polarizzati, filtri di diffusione), con un notevole effetto sulla nitidezza dei
contorni delle figure proiettate sulla membrana fotosensibile interna (pellicola, fotosensore, retina). L’atmosfera, quando è tersa, ci permette di vedere per esempio montagne in distanza; allora ce ne usciamo con esclamazioni del tipo “guarda come sono vicine le montagne oggi!”. Possiamo descrivere questa situazione dicendo che i “filtri” presenti erano pochi e con una
elevata trasmittanza. Quando l’atmosfera è più carica d’umidità, le montagne appaiono azzurrognole, un poco sfocate, e decisamente più lontane. In
questo caso è come se ci fossero molto più filtri, con un indice di trasmittanza inferiore e selettiva per quanto riguarda le lunghezze d’onda che arrivano all’occhio.
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Figura 6. La prospettiva area fu usata nell’arte cinese molto prima della comparsa
del trattato leonardesco. A sinistra è riprodotto il Viaggio alla montagna di Ma
Yuan (dinastia Song, ca. 1155-1235).
2.6. Chiaroscuro
La resa della tridimensionalità delle forme è pressoché garantita quando si usa questo particolare tipo di gradiente, che già in epoca preistorica
alcuni artisti avevano cominciato ad utilizzare (Figura 7a), ma che oggi ci è
nota soprattutto in relazione all’arte rinascimentale e agli scritti di Leonardo Da Vinci, il quale teorizzò lo sfumato infinito. Ma prima ancora di Leonardo, il ruolo del chiaroscuro era già stata codificato da artisti e teorici
medievali, come dimostra il seguente passo tratto dal Libro dell’Arte di
Cennino Cennini:
Se per ventura t’avenisse, quando disegnassi o ritraessi in cappelle, o coloressi in
altri luoghi contrarii, che non potessi aver la luce dalla man tua o a tuo modo, seguita di dare el rilievo alle tue figure, o veramente disegno, secondo l'ordine delle
finestre che truovi ne’ detti luoghi, che t’hanno a dare la luce. E così, seguitando la
luce da qual mano si sia, da’ el tuo rilievo e l’oscuro, secondo la ragione detta. E se
la luce prosperasse cun finestra che fusse maggiore d’altre […] seguita sempre la
più excellente luce […] perché di ciò mancando, non sarebbe tuo lavorio con nessuno rilievo, e verrebbe cosa semprice e con poco maestero. (Capitolo IX)
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a
b
Figura 7. a) Arte preistorica in Lascaux (Francia, ca.15000 a.c.): l’ombreggiatura
accennata sui cavalli rende una certa impressione di tridimensionalità, mentre
l’attenzione per la struttura muscolare del cavallo in primo piano fa pensare ad un
uso dell’ombreggiatura non propriamente casuale. b) Negli studi di percezione visiva si parla di shape from shading. La maggioranza degli studiosi concorda sul
fatto che vi sarebbe una predilezione del sistema visivo per interpretare le forme in
base ad un’illuminazione che piove dall’alto; alcuni studiosi suggeriscono anche
una preferenza del sistema visivo per una luce che proviene da sinistra1 (Mamassian & Goutcher, 2001). Infatti, b1 mostra tre sporgenze convesse; tuttavia, b2 dovrebbe mostrare tre rientranze concave, in quanto le ombreggiature sarebbero conforme ad una illuminazione proveniente dall’alto e da sinistra, ma vi è una certa resistenza verso la soluzione concava e molti tendono a vedere la struttura ancora
convessa, ma illuminata da basso e da destra. Le configurazioni b3 e b4 mostrano
situazioni di bistabilità.
2.7. Ombre
Oltre ad avere ombre proprie, raffigurate mediante la tecnica del chiaroscuro, gli oggetti, intercettando la luce, fungono da schermo, determinando dietro di loro una zona più o meno estesa d’ombra. In arte e nel disegno
architettonico si parla il tal caso di ombre portate. Una delle funzioni di
queste ombre è quella di definire relazioni spaziali tra gli oggetti e il piano
d’appoggio. Figura 8 mostra un esempio di come le ombre portate possono
modulare persino aspetti come la distanza, con conseguenti effetti sulla
grandezza percepita. Quando le ombre portate sono assenti, la relazione
1 Vedi anche il Capitolo VIII del Libro dell’arte di Cennini, in cui si raccomanda che
quando disegni abbi la luce temperata, e ’l sol ti batta sul lato manco.
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spaziale tra sfere e sfondo è ambigua. La presenza di ombre non solo chiarisce questa relazione, ma modula anche le distanze percepite delle tre sfere
rispetto al nostro punto di vista: la sfera nera che appare schiacciata sulla
scacchiera appare anche leggermente più grande delle altre due sfere, nonostante il fatto che un oggetto chiaro tende ad essere percepito come un poco
più grande di un oggetto scuro avente le stesse dimensioni fisiche.
Figura 8. L’assenza di ombre portate rende ambigua la collocazione delle tre sfere
rispetto allo sfondo. La presenza di ombre modula la posizione delle diverse sfere
rispetto al piano d’appoggio e al punto di vista dell’osservatore.
Gli esiti percettivi appena descritti sono descritti dalla legge di Emmert (1881):
Gp = k(Gr × Dp),
dove Gp sta per grandezza percepita, Gr per grandezza retinica e Dp per distanza percepita, mentre k è una costante moltiplicativa. Questa legge è
spesso introdotta per spiegare fenomeni come la grandezza percepita di
un’immagine postuma che varia in relazione alla superficie su cui è osservata, ma essa ha anche un importante valore descrittivo quando si analizzano le relazioni tra grandezze e distanze percepite in opere pittoriche.
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2.8. Grandezza relativa e grandezza familiare
La legge di Emmert rende conto anche di altri fattori legati alla percezione e rappresentazione pittorica dello spazio, come ad esempio la grandezza relativa, che molti autori considerano un indice vero e proprio, ma
che in ultima analisi è assimilabile all’indice dei gradienti.
Figura 9. Il gruppo inglese Status Quo nella stanza di Ames (1975): la stanza irregolare appare regolare, e i membri della band, che appaiono di dimensioni diverse
ma posti sullo stesso piano in profondità, sono invece posti su piani di profondità
diversi. La regolarità percettiva dello spazio ha decisamente la meglio sull’indice
della grandezza famigliare.
La grandezza familiare concerne il fatto che l’esperienza passata (la
conoscenza della grandezza “reale” di una cosa) sarebbe, secondo molti autori, in grado di modulare o comunque condizionare la distanza e la grandezza percepita degli oggetti. Tuttavia, l’arrangiamento da laboratorio noto
come stanza di Ames (Figura 9) dimostra come l’efficacia di questo tipo di
indice sia limitata.
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3. Lo spazio dell’inganno
In generale, la nozione dell’esperienza passata come fattore in grado
di modulare i nostri vissuti percettivi si rivela come una forzatura bella e
buona. La domanda cruciale, che probabilmente nessuno si è sin qui mai
posta, è se gli indici, o indizi di profondità appena descritti siano informazioni che fungono da punto di partenza per l’elaborazione di inferenze
quantitative e qualitative inerenti ad un vissuto spaziale, o se invece siano
dei principi che, operando in modo non dissimile dai principi di segmentazione del campo visivo di Wertheimer (1923), determinano le relazioni
spaziali intercorrenti tra gli oggetti di una scena visiva rispetto all’osservatore.
Quantunque appaiano simili, le due ipotesi sono alquanto diverse.
L’idea di processi inferenziali inconsci presuppone la combinazione d’informazione di input (l’immagine retinica) con informazione interna preesistente, al fine di ottenere un output (l’esperienza visiva) congruo con lo
stimolo distale. Ed è proprio qui che insorgono i problemi: l’esperienza visiva dinanzi ad un’immagine pittorica è assai raramente congrua con lo
stimolo distale. Ciò vale anche quando si ha a che fare con l’arte informale
(Figura 10), una corrente artistica diffusasi a partire dagli anni ’50 del Novecento, per la quale la forma perde valore a favore della materia stessa di
cui è fatta l’opera. Anche facendo propria l’idea di un’arte “oggettiva”, per
la quale l’opera si dovrebbe identificare con la materia stessa con cui è fatta, non v’è dubbio che l’occhio umano va oltre e vede relazioni spaziali che
prescindono dalla pura materialità dell’opera. Questo, in fondo, è il fascino
dell’arte informale.
È assai difficile creare un’immagine pittorica in modo che appaia del
tutto piatta (vedi Figura 12), ovvero che non induca un qualche livello di
vissuto tridimensionale. Qualsiasi segno su una potenziale superficie pittorica implica già un vissuto di tridimensionalità: il segno è posto lì sulla superficie, occludendo, anche se in minimi termini, la superficie che le fa da
sfondo e che appare continuare amodalmente dietro il segno stesso, ad una
distanza che appare indefinita. Ma le cose sono ancora più complesse: qualsiasi discrepanza osservata su una superficie innesca vissuti di spazialità,
che sono però di natura meramente pittorica. Ne era pienamente consapevole già Leonardo Da Vinci (1492), che così descrisse il fenomeno:
Se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di vari misti,
se avrai a invecionare qualche sito, potrai lì vedere similitudini di diversi paesi,
ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure, grandi valli e colli in diversi
modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie, e atti pronti di figure, strane arie
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di volti e abiti e infinite cose, le quali tu potrai ridurre integra e bona forma (citato da Baltrusaitis, 1983).
Figura 10. A sinistra Cretto G1 (1975) di Alberto Burri (1915-1995), a destra un
marmo ruiniforme (Parigi, Coll. Cl. Boullé).
Si può certamente sostenere che “si vedono cose” là dove non vi sono
perché o accidentalmente oppure volutamente si sono determinati indici pittorici di profondità sopra una superficie. Tuttavia, soffermandosi a questo
livello d’analisi, si rischia di perdere di vista un punto che è invece fondamentale: il fatto che è particolarmente facile “trarre in inganno l’occhio” significa che lo spazio, in realtà, non è un dato che deve essere “ricostruito” a
partire da indizi presenti a livello prossimale (i quali peraltro dovrebbero
rimandare ad una possibile condizione distale di spazialità), bensì una dimensione intrinseca al sistema visivo, a prescindere da qualsivoglia corrispondenza tra stimolo prossimale e stimolo distale. In altre parole, ogni nostra esperienza visiva implica necessariamente una qualche esperienza di
tridimensionalità spaziale. D’altra parte non può essere altrimenti:
l’articolazione figura-sfondo (Figura 1b), processo essenziale nella determinazione di unità significative, implica di per sé una gerarchizzazione di
piani spaziali (Farné, 1973). Il ruolo degli indici pittorici di profondità è
quindi quello di flettere lo spazio, coniugando tra loro piani spaziali e gli
oggetti collocati su di essi.
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4. Qualità spaziali
La condizione minima di stimolazione visiva consiste in uno stimolo
prossimale isoluminante, per cui ogni punto fotosensibile della retina riceve
energia in misura quantitativamente e qualitativamente uguale a tutti gli altri. Tale condizione di stimolazione, ottenibile non facilmente in laboratorio, determina un vissuto percettivo denominato Ganzfeld (Metzger, 1930),
traducibile in italiano come “campo totale”, il quale si manifesta come una
nebbia penetrabile allo sguardo. In altre parole, se la retina è stimolata in
modo uniforme in ogni suo punto si vede uno spazio nebbioso tridimensionale, e non una superficie opaca e piatta. Ci vuole una qualche discrepanza
nella stimolazione retinica affinché la nebbia receda e si vedano uno sfondo
e una superficie, ovvero si inneschi il meccanismo di articolazione figura e
sfondo. A livello visivo, non vi è fuga dalla terza dimensione!
4.1. Piattezza pittorica
Quando si illustrano gli indici di profondità agli studenti, involontariamente si trasmette loro l’idea che scopo delle immagini pittoriche è quello di “rappresentare” sul piano bidimensionale una realtà il più verosimigliante possibile all’esperienza che si ha del mondo tridimensionale in cui ci
Figura 11.
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troviamo a vivere. Anzi, maggiore è il numero, la convergenza e il grado di
realismo degli indici pittorici impiegati per generare un’immagine pittorica,
maggiore sarà la verosimiglianza della profondità. Abbiamo già accennato
al fatto che Arnheim (1974) mette in guardia contro simili semplificazioni:
ciò che conta non è il grado di realismo di un particolare indice, bensì come
gli indici si combinano tra loro anche in relazione al piano pittorico. Infatti,
come è stato più volte sottolineato, non serve molto per innescare un qualche vissuto di profondità spaziale su un piano pittorico.
Figura 11 mostra una serie di esempi con due esagoni uguali: quando
essi sono allineati orizzontalmente (a), la tendenza principale è quella di
vedere due figure poste sullo stesso piano, sebbene con un certo sforzo sia
possibile anche una soluzione di profondità spaziale di tipo assonometrico.
Quando le due figure non sono orizzontalmente allineate (b), si riesce con
una certa facilità a vedere le due figure su piani di profondità leggermente
diversi; avvicinando tra loro le due figure (c) l’impressione che esse appartengano a due piani diversi si rafforza, anche se la soluzione del piano unico è sempre possibile. Quest’ultima impressione è di nuovo rafforzata, annullando praticamente la possibilità di vedere le due figure su piani di profondità diversi, quando i due esagoni sono molto ravvicinati tra loro e posti
sagittalmente (d). Mentre nei tre casi precedentemente discussi sono possibili sia la percezione di figure giacenti sullo stesso piano, sia la percezione
di figure giacenti su piani diversi, solo nell’ultima condizione si ha una robusta piattezza, che coincide con la formazione di una giuntura a Y.
Figura 12. Cristo e i dodici apostoli (scuola catalana, ca. 1100). A prescindere
dall’articolazione figura-sfondo, anche in quest’opera, spesso descritta come “piatta”, il vissuto di piattezza è assai limitato.
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Il vissuto di piattezza, ovvero l’assenza di profondità o di rilievo pittorico, non è una condizione che si crea con facilità. La possibilità di una soluzione tridimensionale in Figura 11b-c si verifica in assenza di indici di
profondità. In tal caso non si può neppure parlare di altezza rispetto
all’orizzonte perché quando l’immagine è vista articolata su piani diversi, si
verifica una bistabilità del tutto simile a quella che caratterizza il cubo di
Necker. In ultima analisi, a livello pittorico è molto più difficile rendere la
piattezza bidimensionale frontale, che innescare un vissuto di tridimensionalità (Figura 12).
4.2. Linee solide
Da quanto esposto finora, si potrebbe supporre che il problema non sia
tanto quello di vanificare la piattezza intrinseca della superficie pittorica,
quanto quello di generare figure che appaiano tridimensionalmente solide.
Le sagome umane tracciate in Figura 12 appaiono, tutto sommato, piuttosto
piatte; solo la figura centrale ha una certa solidità tridimensionale.
a
b
c
Figura 13. Le tre configurazioni appaiono tutte tridimensionali, ma in modo multistabile: a) mostra la versione al tratto della configurazione in fig. 7a, e può essere
vista come un cono protuso verso l’osservatore (come in 7a) oppure come la bocca
di un imbuto; b) mostra la sezione di un semicilindro che si può vedere come concavo oppure convesso; c) mostra un rettangolo piegato, in cui ora la parte più corta,
ora quella più lunga appare come sporgente verso l’osservatore2. In tutti e tre i casi,
la soluzione bidimensionale è quella che richiede maggiore sforzo.
Eppure, generare l’impressione di superfici tridimensionali è più facile
di quel che si crede, poiché nell’organizzare i dati in entrata il sistema è già
predisposto alla percezione della tridimensionalità non solo dello spazio inteso come contenitore, ma anche delle cose in esso contenute. Figura 13
mostra tre esempi di disegni al tratto nei quali la soluzione tridimensionale
2 Per studi sugli effetti di “piegatura” fenomenica, vedi Massironi (1985).
La percezione pittorica dello spazio
129
s’impone su quella di piattezza. Tra tutti i metodi di rappresentazione figurativa, il disegno al tratto è quello più povero in termini di contenuti informativi a livello di stimolazione prossimale; ciononostante esso è forse uno
dei metodi più efficaci di rappresentazione in funzione della comunicazione
visiva (Kennedy, 1974; Massironi 1982, 2002). Infatti, trattati tecnici, manuali d’utenza, dizionari ed enciclopedie fanno uso ricorrente di disegni al
tratto per illustrare oggetti, edifici, animali e quant’altro non tanto per il loro basso costo in termini di riproduzione, ma anche e soprattutto perché essi
presentano un grosso vantaggio in termini di chiarezza rispetto, per esempio, alla fotografia, la quale richiede minor tempo per l’esecuzione. Lo scopo non è tanto quello di riprodurre la realtà, bensì quello di mostrare nel
modo meno ambiguo possibile come sono fatte le cose (Figura 14).
Figura 14. Un disegno al tratto è in grado di mostrare un alto grado di realismo
strutturale sebbene non vi sia traccia d’informazione inerente al colore o alla luce.
4.3. Spazio allo stato solido
Come si è detto, l’ombreggiatura e le ombre portate svolgono un’importante funzione visiva nella percezione delle qualità spaziali a livello pittorico, lo stesso ruolo che hanno nella percezione dello spazio in generale.
Nella determinazione di solidi pittorici sono particolarmente importanti le
ombreggiature. Il fenomeno dello shape from shading, abbiamo visto, è noto sin dalla notte dei tempi, e venne applicato sistematicamente anche dopo
il crollo dell’Impero romano e la conseguente scomparsa del suo naturalismo pittorico, a cui fece seguito, in occidente, l’arte bizantina con la sua
pittura codificata (Gombrich, 1986).
Zavagno
130
Una critica piuttosto comune rivolta all’arte bizantina, ed estesa poi
alla quasi totalità dell’arte medievale, è quella di non aver saputo determinare una spazialità visiva coerentemente profonda. Il fatto è che l’arte medievale si è concentrata primariamente sulle forme, e tramite le forme ha
definito lo spazio. Se però si pensa agli esiti spaziali dell’arte rinascimentale, regolati in modo più o meno rigoroso dalla prospettiva geometrica, il
modo di concepire lo spazio pittorico nel medioevo appare decisamente
goffo. Eppure, se ci si pensa bene, il modo medievale di determinare lo spazio ha una sua aderenza all’esperienza visiva del quotidiano, per la quale lo
spazio è un contenitore il cui modo di apparire è determinato da strutture,
superfici ed oggetti delle più svariate forme e caratteristiche visive. In fondo, una stanza vale l’altra; ciò che fa la differenza è la presenza di cose nella stanza, i loro colori, la loro disposizione. Scopo dell’arte medioevale non
era tanto quello di dare una forma coerente allo spazio, quanto di mostrare
la solidità tridimensionale delle forme, le quali, alla fin fine, modulano lo
spazio (Figura 15).
Figura 15. Duccio Da Buoninsegna (1215-1318), La strada per Emmaus (Siena,
1308-11). In quest’opera personaggi e oggetti si stagliano contro lo sfondo dorato,
come le sporgenze figurate di un bassorilievo.
La coerenza dell’approccio medievale allo spazio pittorico consiste
nel fatto che gli artisti compresero che gli oggetti sono spazio allo stato so-
La percezione pittorica dello spazio
131
lido. Al fine di ottenere una solidità tridimensionale stabile, è necessario
modulare quella materia, che non solo è altamente mutevole ma anche alquanto effimera, che è la luce. I consigli di Cennini su come usare la luce la
dicono lunga sull’importanza dell’ombreggiatura nell’arte medievale, ben
prima dell’avvento dello sfumato infinito di Leonardo Da Vinci: lo scopo
non era quello di cogliere un umore vago, di amalgamare personaggi e cose
all’interno dell’atmosfera pastosa dello spazio pittorico, bensì di rendere
una tridimensionalità tangibile e allo stesso tempo ieratico (Figura 16). Non
si trattava di fare dipinti in cui perdersi con lo sguardo, ma di creare personaggi, oggetti, città che dovevano staccarsi dallo sfondo pittorico per coesistere nello spazio comportamentale. La luce era quindi al servizio dello
spazio, inteso come presenza solida nel mondo materiale.
Figura 16. A sinistra San Nicola (Russia, Scuola di Novgorod, XIII-XIV sec.); a
destra San Boris (Russia, inizio XIV sec.). Secondo Gombrich (1986), la lumeggiatura (ovvero il modo di applicare il chiaroscuro) in uso nell’arte bizantina non era
basata sull’osservazione diretta della realtà bensì su codici formali da lui definiti
formulae. A ben vedere però queste formulae avevano uno scopo visivo ben preciso: quello di mostrare in modo convincente la tridimensionalità delle forme.
4.1. Il grande vuoto
Se Figura 8 ha mostrato il ruolo che possono avere le ombre portate
nello stabilire relazioni spaziali, le manipolazioni di ombre in Figura 17
mostrano come queste possono contribuire a plasmare lo spazio. La condizione base è una figura monocromatica strutturalmente simile a quella mostrata in Figura 13 c; rispetto a detta figura, però, Figura 17a mostra un gra-
Zavagno
132
do di instabilità totale, in quanto la discrepanza fisica determinata dal bordo
in comune in 13c è assente in 17a, e spetta quindi al sistema visivo segmentare in qualche modo la figura monocromatica: in due rettangoli giacenti su
piani diversi, oppure giacenti sullo stesso piano, oppure di non segmentare
affatto la figura mostrando un’unica superficie. Applicando in modo appropriato le ombre portate, si possono determinare diverse soluzioni visive che
non soffrono di alcuna ambiguità. Il materiale di partenza è sempre lo stesso ma gli esiti percettivi sono alquanto diversi.
Figura 17. Modulazioni spaziali determinate dalle sole ombre portate. Le figure b,
c, d mostrano rettangoli davanti ad un piano frontoparalello, che in figura e scompare per lasciare spazio ad uno sfondo retrostante spazialmente più profondo.
La differenza qualitativamente più importante in Figura 17 è quella tra
le configurazioni b, c, d e la configurazione e; quest’ultima sfonda la superficie per mostrarci un ambiente spaziale esteso in profondità, aldilà della
superficie pittorica. La superficie pittorica, che sussiste come supporto per
le ombre di b, c, d, è annulata in e, e al suo posto si ha un vuoto indefinito
modulato dalla presenza del rettangolo piegato, appoggiato con la sola base
inferiore ad un piano ortogonale alla superficie pittorica, e esistente soltanto
amodalmente.
Le carenze ed ambiguità spaziali nell’arte medievale (Figura 15:
l’assenza di spazio tra i due personaggi al centro della scena; Figura 16: la
La percezione pittorica dello spazio
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classica prospettiva inversa del libro di San Nicola) sono determinate in
particolare da due fattori: l’uso di proiezioni assonometriche, degenerate
col tempo in forme di prospettiva inversa, e la mancanza di ombre portate.
Uno dei risultati di questi fattori è l’assenza di vuoto. Lo spazio pittorico,
infatti, può essere concepito sia come un insieme di oggetti tridimensionali
che occupano uno spazio, sia come uno spazio vuoto che contiene gli oggetti. Alla maggior parte dell’arte medievale è mancata proprio quest’ultima componente dell’esperienza spaziale-pittorica.
L’invenzione o riscoperta della prospettiva lineare ha messo da parte i
problemi compositivi con cui si trovavano a combattere gli artisti dei secoli
precedenti, lasciando liberi i nuovi maestri di concentrarsi sulla diversificazione di forme e di stili, sicuri ormai della solidità visiva delle loro costruzioni spaziali. Ma soluzioni intuitive ai problemi spaziali furono avanzate
in Italia già in piena epoca medievale, soprattutto nell’opera di Giotto di
Bondone (ca. 1267-1337).
Giotto fu il primo a sperimentare lo sfumato in funzione atmosferica
(Figura 18) e a cercare una geometria tale da rendere la superficie pittorica
Figura 18. Giotto, Le nozze di Cana (Padova, Cappella degli Scrovegni, 1304-06).
In questo affresco il tavolo del banchetto ha un certo piglio prospettico, ma gli elementi di maggiore interesse sono lo sfumato sotto il ballatoio, che rende
l’ambiente atmosferico, e lo spazio tra le due donne che si danno la schiena in primo piano. Questo ultimo particolare in apparenza insignificante è in verità una
grandissima conquista in termini di spazialità pittorica.
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134
una finestra attraverso cui guardare all’interno di altri micromondi. Con
Giotto, lo spazio si fa vuoto dopo mille anni di spazialità solida dell’arte
occidentale. Sono testimoni di questo fatto i due splendidi coretti, noti anche come cappelle segrete, che si trovano nella Cappella degli Scrovegni a
Padova (Figura 19), giustamente decantati da Longhi (1952), il quale per
primo riconobbe la loro funzione di finzione architettonica. Quello che più
incanta in questi capolavori assoluti è la semplice ariosità dei due vani pittorici, che mostrano un sublime vuoto pieno di luce.
Figura 19. Giotto, Cappelle segrete (Padova, Cappella degli Scrovegni, 13041306). I due corretti mostrano la stessa struttura spaziale, ma appaiono illuminate
al loro interno da una luce di diversa qualità, che entra attraverso la bifora nella parete di fondo nel corretto a destra, e che appare provenire dal basso all’interno del
corretto a sinistra.
5. Spazio e luce
La fisica c’insegna che vi è un legame molto forte tra spazio e tempo.
È un legame che peraltro sperimentiamo quotidianamente: lo spazio sembra
poca cosa quando ci vuole poco tempo per percorrerla, e sembra infinito
quando ci vogliono giorni per spostarsi da un punto all’altro. È proprio una
questione di relatività, anche se più di natura psicologica che fisica.
A livello percettivo, però, vi è un legame altrettanto fondamentale,
quello tra spazio e luce. Spazio e luce sono, infatti, entità incastonate l’una
nell’altra. Ciononostante, possiamo avere rappresentazioni efficaci di spazio senza una precisa qualificazione della luce (Figure 13-16), ma non possiamo percepire la luce senza un qualche livello di struttura spaziale. Al fi-
La percezione pittorica dello spazio
135
ne di percepire la luce, intesa sia come luminosità che come entità che illumina, deve essere presente un qualche livello di struttura spaziale (Zavagno & Massironi, 1997; Zavagno & Caputo, 2005), dal momento che a livello percettivo non si dà luce senza spazio. La luce può essere vista soltanto all’interno dello spazio che essa stessa contribuisce a modulare. L’importanza del lavoro di Giotto (Figura 18) nella storia della rappresentazione
dello spazio nell’arte occidentale consiste nell’aver portato all’interno della
superficie pittorica ciò che gli altri mostravano sopra di essa, intendendola
più come un piano da cui emergono le figure (uno scolpire quindi con colori e luce) che come una finestra attraverso cui guardare. Con Giotto, lo spazio rappresentato pittoricamente diventa un contenitore, e come ogni contenitore esso può avere dei vuoti, colmi però di luce (Figura 19). Con il Rinascimento, lo spazio pittorico si fa sempre più contenitore pieno di giochi di
luci e di ombre (Figura 20).
Figura 20. Geertgen tot Sint Jans, Notte santa (Londra: National Gallery, 14841490). La luce modula lo spazio, ma è lo spazio a determinare la presenza della luce. A destra, il fenomeno dell’illuminazione fantasma (Zavagno, 2005): la zona
dello sfondo, fisicamente omogeneo, circondata da uova con gradienti di luminanza, appare più illuminata dello sfondo circostante. Sono i gradienti e la loro disposizione a determinare il vissuto d’illuminazione.
In conclusione, la percezione dello spazio appare essere una caratteristica congenita al sistema visivo. In tal senso, ogni segno su una superficie,
sia esso accidentale o creato intenzionalmente, è suscettibile di divenire un
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indice pittorico di profondità e di essere quindi visto come qualcosa d’altro
posto in relazione a quello stesso spazio pittorico che esso contribuisce a
determinare sulla superficie materiale. E, sempre in tal senso, qualsiasi segno può specificare un qualche aspetto di “realtà” altro da sé. Il problema,
nella produzione artistica, è quello di definire l’aspetto o gli aspetti di “realtà” che si vogliono mostrare (Zavagno & Massironi, 2006).
Nell’arte post-romana, per esempio, la realtà che interessava era la
consistenza materiale delle cose. Lo spazio era modulato dagli oggetti rappresentati, e allo stesso tempo consisteva in quegli stessi oggetti. La luce
era l’utensile atto a rivelare quel tipo di spazio, ma non fu, in quanto tale,
oggetto di rappresentazione (se non come entità simbolica congelata, come
nel caso delle aureole, vedi Zavagno, 2002). Fu con l’arte rinascimentale,
che riprese in questo alcuni aspetti dell’arte greco-romana, che la realtà raffigurata tese a coincidere con uno spazio visivo determinato “oggettivamente”, ovvero regolato da principi geometrici più o meno precisi. Tale
spazio divenne per questo soggettivo ed empatico, in quanto vicino
all’esperienza visiva dello spazio comportamentale. In un tale spazio la luce
stessa divenne oggetto di rappresentazione secondo canoni naturalistici.
Ma, come diceva Moustache nel film Irma la Douce (Billy Wilder, 1963),
quella è un’altra storia.
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Riassunto
Lo spazio rappresentato pittoricamente ha interessato da sempre gli studiosi di fatti
percettivi, ma fu Gibson (1979) con la nozione di percezione pittorica a dare un ulteriore impulso alla ricerca. La nozione di doppia presenza si sposava bene con l’idea
di indizi pittorici di profondità proposti dai teorici cognitivisti, secondo i quali il sistema visivo ricava dallo stimolo prossimale informazione circa la conformazione
delle relazioni spaziali esistenti a livello distale. Tale informazione verrebbe poi elaborata dal sistema mediante processi inconsci di tipo probabilistico, mediate dalle
esperienze passate e da conoscenze implicite. Tuttavia un mare di evidenze indica
che la dimensione della spazialità è congenita al sistema visivo, per cui i cosiddetti
indizi pittorici di profondità sono in realtà degli indici usati dal sistema per strutturare lo spazio che è comunque dato ad un qualche livello.
Abstract
Pictorial space has always interested scholars of perception, but it was Gibson
(1979) he who gave new ideas to the field by introducing the notion of picture perception. The notion of a double perception coupled well with the idea of pictorial
cues to depth perception proposed by cognitive psychologists, according to whom
the visual system derives information from the proximal stimulus about the conformation of the spatial relationships that exist at a distal level. Such information
would then undergo unconscious inferential processes of a probabilistic nature,
mediated by both nature and nurture knowledge about the world. However there is
a huge load of evidence that seems to indicate that the space is a dimension already
imbedded in the visual system. Hence so called pictorial depth cues are maybe better conceived in terms of indexes used by the visual system to structure space
which is however already given at some starting level.
Dott. Daniele Zavagno, Dipartimento di Psicologia, Università di Milano-Bicocca,
Viale dell’Innovazione, 10 ‐ 20126 Milano. E-mail: [email protected]