La diagnosi in psicologia dinamica: un approfondimento “Come un navigatore senza sestante, un clinico che si avventurasse a veleggiare nelle acque scure dell’inconscio senza una teoria di riferimento, si troverebbe presto perduto in alto mare”. Gabbard, 2000 La psicodiagnosi Occupandosi di psicodiagnosi è interessante fare una riflessione sull’etimologia di questo termine. La parola è composta dai termini psico dal greco “psiche” ovvero anima e diagnosi dal greco conoscenza (gnosis) per mezzo di (dia). La psicodiagnosi, quindi, si occupa della conoscenza dell’anima attraverso strumenti utili descrizione e comprensione di caratteristiche specifiche della persona. Negli anni sono state condotte innumerevoli ricerche con l’obiettivo di mettere a punto strumenti che meglio consentissero la valutazione del paziente. L’attuale complessità in ambito psicodiagnostico è almeno in parte data dalla presenza di diversi modelli esistenti. Innanzitutto possiamo individuare un approccio “statico”, tipico della tradizione psichiatrica: questo approccio, che fa riferimento al Manuale DSM, utilizza un modello categoriale legato ad una logica nomotetica, ossia centrata sulla ricerca di norme che siano universalmente valide. In secondo luogo abbiamo una valutazione sistemica, che al concetto di diagnosi si sostituisce quello di ipotesi sul gioco familiare in cui vengono considerate possibili chiavi di lettura, piuttosto che patologie, mirando a “rimettere [la] persona in connessione con gli altri, definire quello che fa come significativo e reinserirlo nel movimento temporale. […] L'ipotesi è molto più terapeutica che la diagnosi proprio perché permette al sistema di essere continuamente in uno stato instabile e quindi di sviluppare diverse evoluzioni: queste idee ci aiutano a essere elastici, a non sclerotizzare quello che vediamo e a rimanere dunque in contatto con la dinamicità del sistema.”2 Infine, l’approccio psicodinamico sostiene un approccio nomotetico, volto a ricercare ricorrenze nei comportamenti delle persone, ed insieme idiografico, ovvero che ha per oggetto di studio il caso particolare e specifico e pone l’attenzione sulle differenze individuali. In uno scenario tanto diversificato, mi sembra importante riportare il pensiero di Holt (in Falcone, 2008): l’Autore sostiene “Noi consideriamo la diagnosi sempre utile per la conoscenza della personalità globale del soggetto indispensabile se lo scopo è la scelta di un trattamento: essa, 2 Boscolo L, Checchin G., Il problema della diagnosi da un punto di vista sistemico, pp.3-‐5 G.M. Tonelli www.giadatonelli.it 1 utilizzando strumenti diversi come osservazione, colloqui, test, facilita la comprensione e permette di fare previsioni individualizzate riguardo il comportamento di persone che sono organizzate in modo peculiare e unico”.1 A prescindere dal sistema di riferimento, infatti, il processo diagnostico ha obiettivi di grande rilievo: determinare possibili manifestazioni patologiche della persona, individuare le sue risorse e punti di debolezza, verificare il livello di capacità di adattamento, analizzare gli stili ed i meccanismi di difesa primari e secondari che mette in atto, le sue modalità cognitive ed i suoi bisogni ed attese. La diagnosi in psicologia dinamica Focalizzandoci sulla prospettiva psicodinamica solo brevemente accennata in precedenza, possiamo definire il processo psicodiagnostico come un percorso dinamico conoscitivo-‐valutativo che si svolge nell’ambito della relazione tra un terapeuta e un cliente e che, grazie all’organizzazione delle informazioni raccolte, si pone un duplice obiettivo: la comprensione della persona e l’individuazione della forma di trattamento più adatta. Questa prospettiva, dunque, parte dalla concezione di unicità della persona, della sua storia e dei vissuti che porta. La valutazione secondo quest’ottica non rappresenta una fase volta a cristallizzare l’individuo dandogli un’etichetta derivante dal sintomo che presenta, bensì un percorso comune a terapeuta e paziente, un “co-‐cammino” come lo definisce Settembri (2013)3 che mira alla piena comprensione della persona nella sua interezza e non limitatamente al sintomo che presenta. Questo “co-‐camino” ha alcune importanti caratteristiche: innanzitutto il percorso psicodiagnostico è profondamente legato alla relazione esistente tra i due soggetti, psicologo e paziente. Pertanto un elemento chiave sarà rappresentato dalla capacità dello psicologo di creare un’alleanza con il paziente. Lo psicologo dovrà presentare con chiarezza il lavoro che verrà svolto, gli obbiettivi che si pone, sottolineando come la valenza di questo processo non è di tipo giudicante, bensì di tipo conoscitivo ed esplorativo, e che porterà ad un’ipotesi piuttosto che a verità assolute. Un atteggiamento empatico, caldo ed accogliente da parte dello psicologo, infatti, ha effetti positivi sulla costituzione dell’alleanza di lavoro con il paziente, impattando sui dubbi, timori, ansie o aspettative che quest’ultimo vive. Lo psicologo dovrà, inoltre, porre attenzione alle dinamiche in corso nel qui e ora e dello specifico contesto, sia quelle del paziente che le propri. Di fatto stiamo dicendo che all’interno del processo valutativo l’attenzione a transfert e controtransfert rappresentano una risorsa molto importante. 1 Holt, in A. Falcone, I test di personalità in Psicodiagnosi, 2008 3 Settembri C., Aspetti relazionali del processo psicodiagnostico, p.58 G.M. Tonelli www.giadatonelli.it 2 Mc Williams (2012), parlando di empatia nella psicodiagnosi e delle reazioni emotive che comporta, scrive “[…] tali reazioni sono potenzialmente di enorme valore: quando il terapeuta le coglie nel proprio vissuto emotivo, esse contribuiscono in modo essenziale alla formulazione di una buona diagnosi, sulla base della quale è possibile scegliere un modo di accostarsi all’infelicità del cliente che verrà sentito profondamente empatico, e non frutto di una meccanica compassione, dispensata professionalmente e senza tener conto dell’unicità della persona che siede di fronte”.4 Grazie a questo approccio la fase diagnostica è già fare terapia. Il costituirsi dell’alleanza di cui abbiamo parlato rappresenta un elemento chiave in termini di efficacia del trattamento: rappresenta, infatti, una relazione collaborativa basata sulla fiducia reciproca e quindi uno spazio sicuro in cui sperimentare nuovi comportamenti abbandonando quelli disfunzionali. Infine, l’approccio psicodinamico comporta la non definitività di una valutazione. Essendo un processo dinamico, la psicodiagnosi non ha come obiettivo la formulazione di una “verità assoluta”, l’etichettatura dell’individuo all’interno di specifiche categorie e definizioni: la diagnosi psicologica può sempre modificarsi nel tempo e lo psicologo è sempre aperto all’idea che la diagnosi potrà modificarsi nel tempo. In questo senso possiamo dire che persino la migliore diagnosi rappresenta al limite la migliore ipotesi che poteva essere formulata in quel momento alla luce dei dati raccolti in quello specifico contesto.Per questo motivo la diagnosi sarà oggetto di continue revisioni fatte in base ai dati che progressivamente vengono raccolti. Citando di nuovo la Mc Williams (2012), “Un’ipotesi diagnostica, che si riveli confermata o no dal successivo materiale clinico, fornisce comunque all’operatore la possibilità di procedere in un’attività finalizzata a basso livello di ansia”5 In sintesi, il processo diagnostico secondo una prospettiva dinamica pone profonda attenzione alla persona nella sua interezza, valorizzando la relazione con il paziente ed allontanandosi dalla logica delle “etichettature” tipica di altri approcci. Si propone come elemento utile alla costituzione dell’alleanza terapeutica, come momento di terapia esso stesso. Diagnosi descrittiva e diagnosi dimensionale a confronto. Parlando di diagnosi descrittiva-‐categoriale si fa riferimento al DSM (Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders) nelle sue varie versioni fino al DSM-‐IV-‐TR. Il DSM classifica le sindromi psicologiche sulla base delle loro descrizioni definendole come “raggruppamenti di segni e sintomi basato sulla loro frequente concomitanza che può suggerire 4 Mc Williams N., La diagnosi psicoanalitica, 2012, p.34 5 Mc Williams N., La diagnosi psicoanalitica, 2012, p.37 G.M. Tonelli 3 www.giadatonelli.it una sottostante patogenesi, un decorso, una familiarità, e una indicazione di trattamento comuni” (APA, 2000)6. Si tratta di un sistema descrittivo-‐categoriale della malattia psicologico/psichiatrica che si basa su un approccio ateoretico e punta al raggiungimento di un buon livello di accordo tra professionisti con formazioni differenti. Oltre all’ateoreticità, le caratteristiche distintive di questo modello sono la nosografia (la sintomatologia viene descritta a prescindere dal vissuto della persona), l’assialità (i disturbi sono raggruppati in 5 assi) e la base statistica (il sintomo ha valore in quanto dato frequenziale mentre non viene considerata la sua intensità). Come detto, DSM-‐IV-‐TR è l’ultima versione pubblicata ed è composta, come di fatto era già nel DSM III e nel DSM-‐II-‐R, da cinque Assi che permettono la valutazione di un individuo su diverse aree e dimensioni: Asse I: Disturbi clinici raggruppati in 14 macrocategorie (disturbi d’ansia, dell’umore, dissociativi, correlati a sostanze, psicotici, somatici, ecc..) Asse II: Disturbi di personalità organizzati nei tre cluster A,B e C e Disturbi a prima insorgenza in età evolutiva. Asse III: Condizioni mediche generali. Asse IV: Fattori psico-‐sociali stressanti. Asse V: Scala per la valutazione globale di funzionamento. I principali punti di forza del DSM possono essere riassunti come segue: presenta un’ampia base empirica; favorisce la comunicazione tra i diversi attori coinvolti nella cura; ha un valore predittivo rispetto all’uso dei farmaci. A fronte di questi qualità, questo modello presenta alcuni limiti. Innanzitutto il DSM, considerando la patologia e non facendo riferimento alle diverse epoche di vita ed all’intensità del sintomo, è caratterizzato da staticità e non fornisce indicazioni sul funzionamento generale del soggetto valutato: in questo modo non è possibile individuare quelle risorse su cui sarà possibile fare leva nella psicoterapia. Inoltre, non fornisce indicazioni circa il possibile trattamento. In breve, non consente la formulazione del caso. Un altro limite fa riferimento all’elevata comorbilità inter ed intra Asse: vi sono situazioni in cui lo stesso soggetto presenta più disturbi non correlati. Per quanto concerne l’Asse II (Disturbi di personalità), non sono presenti indicazioni sull’intensità dei criteri, che possono essere considerati solo rispetto alla loro presenza/assenza, a prescindere da un riferimento contestuale. Un differente approccio è quello proposto dal PDM (Psychodynamic Diagnostic Manual) 6 APA, DSM-‐IV-‐TR, p. 875 G.M. Tonelli www.giadatonelli.it 4 pubblicato nel 2006, proposto come uno strumento clinico ma con solide basi empiriche e di ricerca e che fa riferimento ad una psicodiagnosi di tipo dimensionale. Questo manuale, infatti, ha come elementi distintivi l’affiancamento di una formulazione del caso alla diagnosi descrittiva, sostenendo così un approccio alla conoscenza di tipo idiografico che si affianca a quella nomotetica, fornendo peraltro indicazioni sul possibile trattamento. Per questo motivo viene spesso detto che il PDM punta alla classificazione delle persone, piuttosto che delle malattie, mirando alla comprensione del funzionamento del singolo individuo: ciò consente un pieno superamento del tema della comorbilità, che in questo caso viene data per scontata. È infatti contemplata la possibilità che una stessa malattia si possa esprimere in forme differenti. La valutazione, infine, tiene conto dell’esperienza soggettiva dei pazienti rispetto ai loro sintomi e tratti. Il PDM è organizzato in tre Assi: ASSE P: valutazione dei pattern e disturbi di personalità ASSE M: valutazione del funzionamento mentale ASSE S: valutazione dell’esperienza soggettiva dei sintomi e dei disturbi clinici. È importante sottolineare come il termine “Asse” del PDM differisca da quello del DSM: nel PDM, infatti, l’asse rappresenta un vertice di osservazione che deve sempre essere integrato con le altre dimensioni per poter giungere ad una diagnosi. L’obiettivo del PDM, quindi, è quello di arrivare ad una psicodiagnosi che consenta di comprendere a fondo il funzionamento e le risorse della persona, di giungere alla formulazione del caso e di poter pianificare un efficace intervento psicoterapeutico. Gli attuali limiti del PDM si riferiscono all’Asse P che necessita di ulteriori approfondimenti empirici a sostegno della sua validità e attendibilità, all’influenza del DSM, soprattutto per l’Asse S, che produce una sottovalutazione di alcuni aspetti psicopatologici ed alla relativamente poco dettagliata la sezione “bambini e adolescenti”. In definitiva, confrontando i due modelli, possiamo dire, come affermano Lingiardi e Del Corno (2008)7, che la diagnosi del DSM è multiassiale, categoriale e politetica in quanto le sindromi vengono lette secondo categorie assenti/presenti che sono indipendenti tra di loro e vengono definite in base ad un numero minimo di criteri. La valutazione del PDM, per contro, è multiassiale, multidimensionale e protitipica, poiché considera sia le sindromi che la storia e l’esperienza soggettiva del paziente. Riflessioni conclusive Ho trovato personalmente molto vicina al mio sentire -‐e anche un po’ rassicurante-‐ la frase di Mc 7 Lingiardi V., Del Corno F., Manule Diagnostico Psicodinamico, p.XXX G.M. Tonelli www.giadatonelli.it 5 Williams (2012) “ Una possibile fonte del disagio di alcuni terapeuti con la diagnosi è la paura di sbagliarla, ma per fortuna la prima formulazione del clinico non deve essere necessariamente ‘giusta’ […]..8 Se da un lato in un processo diagnostico non possiamo pensare di escludere completamente categorie e criteri, che rappresentano garanzie di chiarezza, di sintesi, di oggettività e anche confrontabilità, dall’altro mi ritrovo in un approccio che non si limiti ad “imprigionare” in paziente in una categoria rappresentata da una semplice etichetta. Mi sento più affine ad una visione che veda la psicodiagnosi come una relazione che si co-‐ costruisce, un incontro tra due persone con i propri atteggiamenti e vissuti e in cui l’attenzione al paziente, pensato come persona con confini ben più ampi di quelli di un sintomo, venga costantemente promossa. In questo senso ho trovato molto stimolante una riflessione di Perna Colamonico (1996) che sostiene “La diagnosi sarà tanto più valida quanto più vasta sarà la conoscenza delle risorse interne di una persona e di quelle parti sane con cui allearsi per una eventuale indicazione psicoterapeutica”.9 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI American Psychiatric Association, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-‐IV-‐ TR), 2000. Tr. It. Milano: Masson, 2002. Boscolo L, Checchin G., Il problema della diagnosi da un punto di vista sistemico, Rivista “Psicobiettivo” n. 3 pp.1-‐11, 1988 Colamonico P., La diagnosi psicologica, in "La specificità psicologica. Dai fondamenti teorici all'intervento" a cura di G. Ceccarelli, 1996, A. Pontecorboli Editore. Dazzi N., Lingiardi V., Gazzillo F. (a cura di), La diagnosi in psicologia clinica, 2009, Raffaello Cortina Editore Mc Williams N., La diagnosi psicoanalitica, 2012, Casa Editrice Astrolabio Mingone P., La diagnosi in psicoanalisi: presentazione del PDM, Psicoterapia e Scienze Umane, XL, 4, pp. 765-‐774, 2006 8 9 Mc Williams N., La diagnosi psicoanalitica, 2012, p.37 Colamonico P., La diagnosi psicologica, p.92 G.M. Tonelli www.giadatonelli.it 6 PDM Task Force, Psychodynamic Diagnostic Manual (PDM), 2006, trad. Italiana, 2008, Raffaello Cortina Editore Settembri C., Aspetti relazionali del processo psicodiagnostico, Integrazione nelle psicoterapie, n.3, 2013, Edizioni Scientifiche A.S.P.I.C. G.M. Tonelli www.giadatonelli.it 7
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