Martina e Stefano Giusti, della Policarta di Bassano in Teverina. le radici in bottiglia La ricetta vincente? Vini autoctoni con qualche varietà internazionale. G Impacchettati e ben cotti Dal pane della Barilla ai prodotti senza glutine, guardando all’estero. C erto, se andassimo a produrre in Serbia potremmo guadagnare di più, ma ci sentiamo legati a questo territorio». Martina Giusti e suo fratello Stefano, 33 e « 28 anni, sono due giovani imprenditori che, sotto la guida del padre Arturo, mandano avanti la Policarta di Bassano in Teverina. Alla domanda sulla delocalizzazione rispondono quasi all’unisono: «Non ci abbiamo mai neppure pensato». La fortuna dell’azienda risale agli anni 90 quando la Barilla, appena entrata nel mercato del pane confezionato, decide di incartarlo con la pellicola appositamente prodotta dalla Policarta anziché con il meno efficace (e meno igienico) «film microforato» usato allora da tutti. Qualche anno dopo Barilla chiude il forno, ma la Policarta comincia a camminare con le sue gambe. Due milioni di fatturato l’anno, il 60 per cento all’estero, l’azienda è un esempio di quelle «multinazionali tascabili» che esprimono il meglio della vocazione imprenditoriale italiana. La crisi degli ultimi anni è stata dura, ma alla Policarta hanno mostrato la capacità di reagire. Mentre il mercato interno si contraeva, dai loro laboratori è uscito un prodotto che potrebbe dare un grande impulso a quello internazionale: una carta che resta integra anche alle alte temperature, consentendo di scaldare i prodotti senza togliere la confezione. «L’impatto può essere importante» spiega Stefano Giusti «specie per i prodotti senza glutine, che oggi richiedono la duplicazione dei forni per evitare contaminazioni». Per avere idea delle potenzialità, basti pensare che solo negli Usa il mercato del «senza glutine» vale 6 miliardi di euro. Sarebbe straordinario se anche solo una piccola quota fosse servita con la carta di Bassano in Teverina. 102 ira il mondo, dagli Stati Uniti alla Francia, a Israele per seguire, da consulente, 80 aziende vinicole, dalla progettazione all’imbottigliamento. Ma il re degli enologi Riccardo Cotarella, 66 anni, demiurgo dei vitigni di Massimo D’Alema e Bruno Vespa, non si sradica certo dalla Tuscia, dov’è nato e dove, in tempi ancora non affetti dalla fascinazione modaiola per i calici, ha creduto nei vitigni locali. Insegna alla facoltà di Agraria dell’Università della Tuscia e, soprattutto, ha fondato nel 1979, con 100 ettari di vitigni autoctoni arricchiti da varietà internazionali, il primo ramo della sua azienda, Falesco. Dove ogni anno 25 suoi studenti seguono uno stage. La Falesco, che dal 2004 si è arricchita di una megaazienda umbra, produce all’expo 3 milioni di bottiglie l’anno, per porterò un fatturato di 10 milioni (il 60 per i rumori cento da esportazione). Cotarella della è una star, con una sfilza di titoli lavorazione e riconoscimenti tra cui spicca la del vino presidenza del comitato scientifico per l’allestimento del padiglione Riccardo Cotarella del vino italiano di Expo 2015. Cotarella vorrebbe vedere più eccellenze nel Viterbese e intanto punta alle sfide di Giappone (vicino a Sapporo in primavera ci sarà la prima produzione) e Inghilterra, dove produrrà champagne a sud di Londra. Ma è più fiero ancora dei progetti no profit: tra Betlemme e Gerusalemme, nei Territori palestinesi, segue la cantina Cremisan, retta dai salesiani. E in Italia si dedica anche all’azienda vitivinicola di San Patrignano, aiutando i ragazzi in terapia a costruirsi un futuro come agronomi ed enologi. Riccardo Cotarella, 66 anni. Panorama | 22 ottobre 2014 Bw 100_109_PA43-PanoramaItalia.indd 102 14/10/14 13.54
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