Cataldo Dino Meo NIHIL LIBRO + DVD NO © 2014 NO PRICE Foto

PRODUZIONI
VIDEO - RECORD - BOOK
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Cataldo Dino Meo NIHIL
LIBRO + DVD
NO © 2014
NO PRICE
Foto di Copertina:
Antonio Meo
Impaginazione:
CGS Progettazioni Grafiche
Lissone (MB)
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Cataldo Dino Meo
Postfazione di Carmine Mangone
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Perché tanta ferocia sull’empio seguace di Aristippo,
affinché bruci i tizzoni ardenti della sua mente
scellerata sull’Ara del Senso?
Vai a capire com’è andata quella volta che,
spinti da estro, si è arrivati a maturare spiegazione.
Non è passato giorno in cui non l’abbia interrogata,
provato a stanare nei recessi dei riscontri fantasmatici,
in fondo a incrostazioni di porcilaia dotta.
A dispetto del mio orgoglio luciferino, il risultato è
stato impietoso: niente da dire, niente da capire, aporie.
Nonostante i miei biasimevoli tracolli nei confronti
dei virtuosismi mentali, l’indagine è chiarissima,
spiegazione, raggiunta la cima delle sue risposte, ricade
in basso nell’altro versante, Sisifo blaterante costretto
a riprendere la sua fatica, senza sosta, ogni qualvolta
si convince d’aver soddisfatto un quesito.
Rassegnamoci con classe, non c’è narrazione che possa
ricondurci a com’è potuto accadere che l’esistenza si sia
manifestata, così, dal nulla, un giorno in cui l’intero
universo obbedì al dolore.
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È meraviglioso tremare, vibrare nell’incertezza,
nel periglio, asserragliato in camera d’apprensione
col proiettile in canna, la sicura sbloccata, il colpo
alla nuca immanente, sragionare su come stare
al mondo, stando al mondo, ignorando di stare
al mondo, esaltante sentirsi in balia di milioni
di locuste bianche attaccate alle palpebre e alla
giugulare, stare costantemente col batticuore,
in allarme persistente, circondato da microcefali
detenuti nel reclusorio del gorgo maligno inveterato.
È tenero, romantico, sapere che posso rimanere
deficiente, immaginare qualsiasi abrasiva
sobillazione, tanto vivrò per sempre da cumulo
di macerie senza scopo, ignavia costernata,
ombra differita larvale, anacoreta rinchiuso
nello scettico continuato, fatto di solido Nihil.
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Trascorro le mie giornate d’avventuroso guerriero
sdraiato sul divano a esercitarmi nel solo cimento
per cui ho vocazione: contemplare soffitti.
Ad Atene Solone istituì la legge che proibiva l’ozio
ai cittadini, facile, pienamente d’accordo,
persino io mi sarei dato una mossa, se invece
di annichilirmi nell’alienante quotidiano avessi
potuto incontrare Socrate, ascoltare i dialoghi
di Aristotele, stare nel Giardino di Epicuro,
la cui scuola era frequentata da schiavi
e dalla etera Leonzia.
Avrei seguito Pan, col mio piede equino, nei suoi
possedimenti, la foresta abitata da Driadi e Ninfe,
scelto a dimora i monti d’Arcadia dove sarei stato
esonerato dal faticare, così da potermi
più agevolmente interrogare: cento miliardi di esseri
umani transitati sulla Terra, mio padre e mia madre
perché vissero, la loro presenza fu davvero
necessaria, lo sapevano di avere messo al mondo
uno schiavo?
Mi hanno mollato negandomi il chiarimento,
se ne sono andati e ancora non so dove
mi è capitato di finire, lasciandomi nelle grinfie
di me stesso, scheggia di vetro conficcata tra i denti,
dopo una notte di rancori post festum.
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Il dio del Pentateuco proibisce di cibarsi con carne
di porco in quanto immonda, contemporaneamente
nutre la casa d’Israele coi dolci impastati negli
escrementi, e getta Giobbe nel guano.
L’Amante del Sacro Cuore, santa Marguerite-Marie
Alacoque, lecca il pus dei malati, ripulisce il vomito
ai sofferenti, non riesce a trattenersi e lo fa con la
lingua, mangiandolo avidamente.
Louise de Bellère du Tronchay, “Luisa del Nulla”,
vuole solo il suo Sposo, non conosce che il suo Sposo,
guardatela nel magnifico abito nuziale di lucentezza
abbacinante, cilicio a pelo caprino e crine, due volte
a settimana gusta le ulcere, per dissetarsi usa il teschio,
mangia dal pavimento.
Le Mistiche tarantolate alimentano feticismi isterici,
fomentano manicomio, non le puoi riprendere,
non le puoi giudicare, godono come pazze,
raggiungono l’orgasmo che le manda in estasi,
scopano da dio.
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Quando si comunica, anche il mutismo può avere
carico eccessivo di frasi, l’afasia risultare assordante,
non credo nella parola, nella bontà della conoscenza
reciproca, ritengo insidioso lo scambio tollerante,
infido il dialogo costruttivo, la cessione di opinioni
mi fa schifo.
Il pensiero, tutto il pensiero, ci rende infelici,
avvilendoci nell’analisi psicologica dei morituri,
più siamo esposti a consapevolezza, più cresce in noi
l’afflizione, la dolorosa scia lavica, che crea escoriazioni
laceranti al godimento, causa la disperata promessa
di un appagamento che mai sarà nostro, in quanto
bastonati alla catena, senza aura di grandezza,
conturbante abuso di fascino.
Ingiungo all’intelligenza di starmi lontana, le analisi
approfondite moltiplicano concetti criminogeni,
quando ho incrociato tesi filosofiche erudite,
ho sparato a bruciapelo.
Più cose metto dentro di me, più s’innalza
la stratificazione del niente.
La vicenda umana è una inutile corsa, tragica
fuga, verso il niente irraggiungibile.
Mettiamoci d’accordo tra persone civili: è vietato
incrociare il proprio simile a una distanza inferiore
ai mille chilometri, per evitare incresciose collisioni
tra bare infervorate, dal midollo cerebrale asinino.
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Ho visione che l’individuo schiatti, finisca di apparire,
lasci il posto a vapori leggeri che volino lontano,
che gli umani ritornino a condizioni di preesistenza.
Un rientro meditato, convinto, remissione spontanea,
per chi ha potuto sperimentare, in migliaia d’anni,
l’assoluta infondatezza, l’inutilità di permanere
ulteriormente, data l’impossibilità di far parte
del genere vivente senza sviluppare gravi aritmie
omicide.
La razza umana mi fa così tanta pena che quasi quasi
mi spiace doverle sputare in faccia, tuttavia, anche oggi,
devo pur trovare il modo di passare la giornata,
e allora, conoscendo i soggetti, devo fare attenzione,
un mio atteggiamento d’eccessiva clemenza
potrebbe all’istante dare alito a equivoci, scatenare
l’insubordinazione di chi si è montato la testa,
tanto è propenso a credersi qualcosa.
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Decomposizione a ruota libera: cercare se stessi,
quanta damnatio memoriae nei licantropi eloquenti,
fautori di neurosi ottimistiche, che portano
alle aspirazioni indecifrabili del beota spossato,
conducono al down da crack buio e comatoso,
allo svilimento per troppa aspettativa, svuotato
in tristitia post coitum.
Conoscere se stessi, partire da se stessi, modellare
se stessi, rivelare se stessi, sordida ars, il cielo me ne
scampi, lenocinio!
Scandagliare se stessi è indagine da scherano,
satanismo incline ad ansia funebre.
Agostino, padre della loro Chiesa, invitava a non uscire
da se stessi, a rientrare in noi stessi: questo iniquo
maestro che incoraggia, irresponsabilmente,
la frequentazione di cattive compagnie!
Non voglio avere niente a che fare con me stesso,
nessuna teologia intimista, non voglio essere me stesso,
ammesso pure che sia possibile rintracciare se stessi,
cosa potremmo scoprire, cosa si potrebbe mai scovare,
se non l’ennesimo stronzo che galleggia?
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Pensare qualsiasi pensiero sancisce divisioni
che sfociano in olocausti per un mondo migliore,
avere una concezione dell’esistenza, reclamare ideali,
sostenendoli con la presunzione di servire a uno scopo,
è di per sé crimine che pretende spargimento
di cadaveri.
L’arroganza di scimmia settaria decreta melodiosi
ergastoli, lo scannatoio è condizione ecumenica
nella quale ci sorprendiamo aborti dogma rigorosi,
stancamente esangui.
La ricerca di fede, l’affermarsi di civiltà, il semplice
fatto di respirare, producono corruzione, superstizioni
mediatiche dai bastoni chiodati sorvegliano
i cani arrendevoli, nuovi profeti sferrano il ghigno
collaborazionista nel candore del mattatoio positivo,
gangster della partecipazione mi chiedono
di collaborare, farmi prossimo, proprio a me, in vacanza
devozionale nella lirica assenza dei rinnegati.
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Fatto d’arsura deviante, lordura fecale, composto
molecolare d’anatema, reprobo d’etnia sconosciuta,
carattere contundente, arma impropria d’assalti
nefandi, non possiedo ethos per abbracciare una fede,
sono rettile sensista, il martirio non è compatibile
con la tempra dell’ammutinato.
Per riuscire a convivere con la mia estromissione devo
aggrapparmi dove posso, lupo haereticus, agguato
cellulare, vilipendio transgenico, baro obsoletus,
infima contumelia.
Ho posto Meta nel sopraggiungere profondo di corsa
senza arrivo, sono il classico tipo che ha tutto in testa,
ma che al momento del bisogno non riesce mai
a trovarla, sono l’usurpatore esausto dell’inerte nulla
operante, il dileggiatore di cibo nel pasto della belva.
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Mio padre, giovane, elegante, bello come un attore
del cinema neorealista, un morto di fame che in ogni
circostanza risultava dall’aspetto impeccabile,
arrivava in bicicletta nell’abito completo scuro,
camicia bianca, cravatta, cappello di feltro.
Nella piazza a Francavilla Fontana si era già distinto
esibendosi come tenore, l’avvenimento convinse,
chi lo sosteneva, che dovesse possedere, in certa
misura, il sacro fuoco dell’arte, e pertanto valesse
la pena impegnarsi per sviluppare le sue qualità
di cantante d’Opera.
Un giorno, insieme ad altri giovani del paese,
inviò la sua foto per un provino a Cinecittà,
fu l’unico ad essere convocato,
ma non si presentò, tipico del suo carattere,
fuggire via, non osare mai.
A dire il vero però ci fu una volta nella quale osò
e fu il mio Cavaliere Intrepido, affrontò il padre
di un bambino che si divertiva a canzonarmi,
zoppo, zoppo, zoppo.
Mio padre per un po’ ottenne il suo scopo,
poi il moccioso riprese la sua cantilena,
zoppo, zoppo, zoppo.
Aveva tentato di proteggermi, si era battuto a muso
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duro con quell’uomo, per me, avrei dovuto
inorgoglire, ma ormai non era più così importante,
iniziavo a convivere con insulti, prese in giro, soprusi.
Ciò che nel tempo ho rimproverato a mio padre è stato
di avermi negato la chance di salire a bordo
di A Streetcar Named Desire, d’emigrare nel mondo
di Marlon Brando.
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Non siamo condannati all’amore, possiamo vivere
senza, così com’è possibile spassarsela molto bene
anche senza dio.
In tutta la mia vita non ho mai detto ti amo a una donna.
Non per sfortuna o recalcitrante predisposizione
alla follia, neanche per il contagio di un batterio
disgraziato, o per colpa grave da espiare,
come non ho mai avuto neppure un motivo
recondito, impronunciabile, da collegare al mio
increscioso delitto.
Dire ti amo a una sola donna è un crimine che non ho mai
voluto commettere, perché non sono poi così spietato,
da fare torto a tutte le altre.
Gli amanti sono monoteisti, essi affermano, non avrai
altro amore all’infuori di me.
Un Gentiluomo non può infangare la sua onorabilità
assumendo un comportamento ingiurioso
nei confronti delle altre donne, egli non rinnegherà
mai l’inderogabile dovere di ossequiare sempre
e ovunque, l’amore.
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Non ce la faccio a vivere senza Ossessione,
mi è insopportabile l’assenza di psicosi,
posso tentare di esistere solo come fobia,
ombra d’ansia, depositario di patema.
Mi è indispensabile un’Ossessione da coltivare
adesso, subito, oggi stesso, un assillo che possa
far ripartire questo cervello in défaillance.
Avendo esigenze realistiche accetterei di buon
grado anche un’Ossessione modesta, pervenuta
magari, casualmente, oppure, perché no,
un’Ossessione logora, provata, consumata,
di seconda mano, purché mi sottragga
all’infelicità di essere felice.
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Considero il vostro emettere soffio, atto belligerante,
proditoria dichiarazione d’ostilità nei miei confronti,
riconosco in voi il corredo genetico dei kapò.
Carnefici della tolleranza dispensano il sacramento
del rispetto, ultimo spettacolo che giustifica
il buonsenso dei tagliagola.
Laida impudenza volersi perpetuare fiacca utopia,
una sola risposta alla richiesta di putredine:
non rispettare mai chi ti manda a lavorare ogni mattina.
Incrociare lo sguardo con voi, oppure ascoltare,
seppure da un altro emisfero, il tono della vostra voce,
mi getta fra i detriti delle fosse comuni.
Ci sono istanti nei quali ho il tremendo avviso
che qualcuno stia per commettere l’imprudenza
di concedermi la sua fiducia.
Poi accade l’inevitabile, in quel mentre, ecco svanire
l’impacciata repulsione, per lasciare libero sfogo
a caldo sentore d’apostasia, che s’impadronisce
della mia intera struttura ipnotica, portandomi
in salvo dalla pur minima intesa con l’inconciliabile.
L’uomo all’epoca della vita come valore,
omertà che occulta l’endemica predilezione
della specie al Gulag.
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C’è un ragazzo nero, un gran figlio di buona donna,
altissimo, nato nel vasto territorio tra i fiumi Missouri
e Mississippi, in cui sorge la città di St. Louis,
un luogo dove nell’aria, lungo tutto il dannato delta,
puoi gustare l’energia d’attrazione ragtime, jazz, blues,
un giovane teppista da riformatorio, che negli anni
cinquanta, con i suoi assolo double-stop, note tirate,
inventa il codex, la tecnica chitarristica, tempesta
elettrica, ritmo del Diablo.
I suoi riff esplosivi fanno saltare in aria il conformismo
della scena sonora consolidata, brividi scatenati,
inconfessabili, s’impossessano del corpo diventato
scarica di lampi, fluidus di voglie a lungo represse,
la musica non è più sfera mentale, intellettuale,
separata dalla concretezza, la fisicità entra nella
musica, coinvolge ogni aspetto mondano, si ascolta
la musica col corpo, la musica diventa corpo,
putiferio, pandemonio.
Canta rapporti conturbanti, storie di teenager in cerca
d’emancipazione, ma anche d’inquietanti implicazioni
tra un tizio e una bambina di sei anni.
Al Brooklyn Paramount Theater, presenta per la prima
volta in pubblico, il Duck Walk, spassosa camminata
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saltellante, on stage, del primo poeta rock.
La sua vita è un continuo entrare e uscire di galera,
cerca di cuccare una ragazza bianca, perde la testa
per Janice, giovane imprevedibile, enigmatica,
di origine Apache, che si scoprirà avere quattordici
anni, la legge può finalmente fare giustizia, il negro
viene accusato di sfruttamento della prostituzione.
Deve risarcire cinquantanove donne perché si scopre
che ha piazzato una telecamera nel bagno femminile
del suo locale, il Southern Air, tra le immagini sembra
figurare una minorenne, grazie al patteggiamento
e l’assunzione di responsabilità per detenzione
di droga, evita l’accusa di pedofilia, ottenendo
due anni di libertà vigilata.
È fatto così Chuk Berry, l’autore
di Roll Over Beethoven, Johnny B. Goode, il figlio
di puttana del Rock and Roll, solo avvenimento
d’onore nell’ignominia del XX Secolo.
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Filosofi, guru, santi, più s’innalzano, scalano le vette
della coscienza, più disprezzano la fica, tutti pongono
a premessa di comprensione, alla rimozione dei propri
limiti, il superamento del desiderio sessuale.
La fica è sempre stato il demone degli Illuminati.
Giudicherete codesta congiunzione, di chi non può
farsi onore sulla via del sapere, con la dovuta severità,
certamente disapproverete la mancanza d’ascesi,
di nobiltà, cosa volete che vi dica, a ognuno l’illusione
che merita, io vivo per sentito dire, ragiono col cazzo,
provo gusto a spolpare miraggio, su tacco 12.
Per buona sorte ho solo bassi desideri, la generosa
ventura mi esenta da impegni snervanti, compreso
il gravoso esercizio, pensare.
Se medito mi macchio di misfatti raccapriccianti,
filosofia, dio, amore, perciò mi sono disfatto di tali
orrendi delitti alla maniera dei teddy boy, a tutta
velocità con l’auto schizzata, contromano.
Secoli di coprofagia meditativa hanno istillato
il vezzo malavitoso, discernere, vano occultamento
di coda tremula nell’avvilente, bigotta, resistenza
a tabula rasa.
Dimostrazione lampante che nessuna cognizione
è possibile, viene dal fatto che sussistiamo, recidivi,
in flagranza di reato, morbi inestirpabili, metastasi
che inglobano agenti patogeni refrattari a ogni
trattamento dissuasivo, ceppi robusti che fanno
sempre tornare la stessa infezione, vita.
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Non si può dire che vi fosse Silenzio
prima della creazione, del resto è impossibile
affermare che sarà Silenzio alla fine dei tempi,
almeno da non affidare quel poco di cervello
che ancora ci resta all’ammasso dei soliti
squilibrati dell’ascetismo ubriaco.
Non si può sentire Silenzio.
L’ansimare simoniaco di usurai dell’avvento,
la frenesia inesauribile dell’intelligenza in azione,
la caduta dei singhiozzi nel lacrimatoio,
impediscono di percepire Silenzio.
Non avremo Silenzio finché concederemo,
anche al più lieve e impercettibile battito
del cuore, di mantenere attivo l’ambizioso
congegno ritmico della sua losca funzione.
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Cerco di convincermi che un unico amore
è soddisfacente, addomesticato da voracità
e possesso, normalizzato dal timor panico
di restare solo, ma non ci riesco.
Non posso vivere con un unico amore,
non ce la faccio, sono ciò che sono,
cosa soggiogata ai capricci.
Ringraziando il cielo ho indole sgualdrina.
Me ne frego dei panegirici amorosi elaborati
nei secoli, sono oggetto usa e butta via
di guerriglia sessuale, ho ereditato appetiti
ingordi, vezzi multipli, sincronici:
il prossimo amore non si scorda mai.
È da pericolosi psicolabili idolatrare la facoltà
di leccare la stessa fica, succhiare lo stesso cazzo,
per anni, addirittura tutta la vita, e pretendere
che noia non ce la faccia pagare cara.
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Gli dèi, sfasciati dalla tediosa immortalità, amano
provocare gli umani, e in special modo giocano
con chi si batte dimostrando la tenacia di autentici
combattenti, del resto che soddisfazione è infierire
su chi vive da turista spaesato, che si arrende subito
al primo apparire del fantasma dai mille nomi?
L’ordine spontaneo, fuori controllo,
dei Vandali Coltivatori di Rose, mi fa vagabondare
tra gli ammiratori delle nuvole.
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Sono nato nei laboratori farmaceutici
da Albert Hofmann e il DNA TV, sorridente,
minaccioso, disordine nel tepore di lobotomia.
Il mio solo obiettivo è divenire tripudio,
non riesco a tenere la testa sopra le spalle,
vivo la vita sollevato per aria, cospiratore
inafferrabile, guerriero fatuo.
Spaventa più cambiare che distruggersi.
Vivo perdendo tempo, non contate su di me,
lasciatemi fuori dal democratico pogrom
umanista, sono l’Arciere Storpio gravato
dal Ritardo, che vigila i bastioni disobbedienti
di Sparta.
Gravemente colpevole per aver disertato
moderazione, equilibrio, unendomi al ruggito
della Tigre Viola, canaglia che ha irradiato
Lunghi Sogni Divini
nell’acquedotto a Sodoma e Roma.
Onniscienti e saggi, vi offro, lacrime sante,
delirio benedetto, se promettete di non rivelare
il fulcro, la quintessenza della vita, vi prego,
lo sconforto sarebbe insopportabile, non date
occasione al boia scuoiato di sfogare bestialmente
la perfidia incontrollabile, facendo accoppiare
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con i dobermann le vostre madri.
Ridatemi il buco del Culo Ovazione,
per annullarmi nella versatile unità d’oblio
velleitario, c’è letale attitudine al rifiuto
nel mio software insurrezionale,
duole la protesi di filo spinato applicato ai piedi
dei Danzatori Impensati.
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Senza origini, privo di radici attuali, invoco Saturno
perché mi renda lieve il dedalo che crea e distrugge
la bile nera, unicorno argenteo della sera immolato
sul ciglio della rupe di coscienza illusa, nella pietà
impietosa dell’assenza presenza.
Contraddittoria, indivisibile melanconia, conoscitrice
d’eventi, che non possono appartenere al mondo,
ma alle fibre stesse della fierezza errabonda e scura
del gelido fuoco, malum eccentrico, disarmonico
splendore, di una vita abbattuta, esaltata, depressa,
eccitata, congiunzione incendiaria di labbra d’estasi.
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Sto lontano dai raggiri dell’inconscio,
rifuggo dissennate introspezioni,
desisto da ogni velleità di risolvere rebus.
Vivo in quanto gioioso feretro decapitato
nel solco oltranzista di stirpe borderline.
Applico il mio ingegno, in ricreazione
permanente, in ciò che di buono so fare,
il buono a niente.
Non sono in grado di asciugare lacrime
ad alcuno, sono troppo occupato con le mie,
una sola distrazione, una impercettibile svista,
un’imperdonabile negligenza, potrebbe
irrimediabilmente sciuparle.
Credetemi, meglio così, guardate dove
finiscono coloro che non si consegnano
al disincanto: tra i clericocomunisti metafisici,
nel sudiciume conformista, coi mafiosi
dei destini ultimi.
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L’uomo, l’uomo, l’uomo, chi se ne fotte, che crepi!
Provate a domandare agli oceani cosa importerebbe
loro se venisse a mancare l’immonda placenta.
Chiedete alle stelle, all’intero universo, se potrebbero
mai cessare di brillare, fermare l’immensità,
per mancanza del dogliante inaccessibile al sublime.
Interrogate i sogni se potrebbero sospendere,
in qualche modo, il flusso phantastikòs per il vuoto
lasciato dal tronfio suino.
Ecco allora, il solo interessato all’uomo è l’uomo,
il raggiante omicida imploso per correità col superfluo.
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Non puoi domandare all’Oceano
le ragioni del suo tormentato impeto,
mentre accoglie, tra le braccia,
benevolo e devastante,
le tue lacrime d’Uragano.
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Fango psichedelico crepuscolare.
Affronto demoni possenti
con mani nude, e la sola certezza,
l’ignoto, ripudiando rimorsi
e memoria, la memoria è innocenza
compulsiva che serve a meglio
frignare, procurando alibi perché
l’essenza sanguinaria si possa
indignare in adulazione di pregevole
demenza.
Rapace dai rostri e adunchi artigli
al titanio, sbandato, in balia
della sorte, braccato dal castigo.
Ho una sola chance alla nausea,
che le tentazioni mi perseguitino.
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Sono stato fidanzato per un lungo periodo
con una ragazza che non era la mia fidanzata,
con la quale ero fidanzato, anche se non proprio
fidanzato, stavamo insieme, anche se lontani,
facevamo coppia non avendolo mai stabilito,
a nostra insaputa, innamorati?
In tredici anni nessuno ne parlò mai.
Per gli amici e conoscenti Emily era la mia
fidanzata, e del resto ci vedevano nella stessa
topaia, dormivamo nello stesso letto,
ci occupavamo dei medesimi interessi.
Emily era quasi sempre distante, stava con me
senza stare con me, stando con chi voleva,
viaggiava continuamente, trascorse la maggior
parte degli anni in diverse città, altri continenti.
Per improrogabili impegni di lavoro?
No, per suo piacere.
Attraversava Bolivia, Colombia, poteva fermarsi
a New York, oppure impegnata a inseguire
un uomo che le piaceva in Messico, entrare
in Brasile, visitare Cuba.
Spesso alle prese con emozioni e incontri
che la catturavano emotivamente,
e che la portavano in situazioni minacciose,
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estreme, sperimentando stati d’animo ed episodi
di cui discorrevamo con una certa consuetudine.
Ogni suo viaggio poteva durare tre, cinque, otto mesi.
Andò avanti così per tutti gli anni della nostra intesa.
I ritorni di Emily comunque erano occasione di piaceri
travolgenti, nuovi progetti artistici.
Capitò di accompagnare Emily al consultorio
e all’ospedale, vedendomi in sala d’attesa
le dottoresse chiedevano.
“È lui il padre?”
“No, non è lui.”
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*
Compiere gesta d’ordinaria divinazione sportiva,
arte lisergica di prendere la metro, almeno per una
volta, senza piagnucolarsi addosso.
Sì lo so, c’è da salvare l’umanità, ma qui troppa
gente è convinta che basti essere deboli per stare
dalla parte giusta.
Sterminati campi di sterminio, sconfinati campi di dominio.
Mio padre mi ha insegnato come affrontare il plotone
d’esecuzione: morto per morto, mi raccomando,
sempre ben pettinato.
Alla vigilia dello scontro impari alle Termopili,
fu inviato un cavaliere persiano in perlustrazione
col compito di scrutare l’accampamento di Leonida.
Il cavaliere riuscì a scorgere l’attendamento
dei guerrieri spartani, alcuni dei quali facevano
esercizi ginnici, mentre altri si pettinavano.
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*
Sono di sola Carne,
tutto ciò che mi serve è ciò
che si può comprare, il resto non ha
incantazione in cattività fugace.
Il disfacimento della materia è la fine,
fine completa, polvere su polvere,
senza ricompensa, né ritorno.
Mi sta bene così, non mi serve altro,
lungi da me stuzzicare i centri
d’energia psichica cosmica,
non sarò certo io a effettuare
la risalita cosciente, consapevole,
kundalini, tengo com’è la base
della colonna vertebrale, la corona
nella testa, inutile fomentare discordia
tra me e il mio io, non sono geloso.
Mi dissocio dal voler raggiungere
supernova, il colmo felicità,
pura beatitudine, altezze inusitate,
soffro di vertigini.
Niente bodhi,
condizione che non è giudizioso
affidare a un tipo smodato come me,
il Risveglio potrebbe procurarmi fulgori
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onnipotenti, capaci d’aizzare il pitbull
in agguato nella mia rabbia suburra.
Ho bisogno almeno di un po’ di fanatismo
per meglio sopportare vicinanze antropomorfe.
Nessun corpo esoterico di pietra preziosa,
corpo glorioso, né attraversamento
di comprensione finita, che mi tramuti
nel sé trascendente, lasciatemi al primo
Chakra, livello sul quale intono mantra
del cazzo duro, nel plesso sacro
tra l’ano e i genitali.
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*
Non posso stare con una sola donna,
m’innamoro appena esco da casa,
attraverso piazze, supero vie,
un balordo come me diventa pazzo
osservando incedere ondulatorio,
modulazione sismica, passo tellurico,
rigido assetto da combattimento.
Fasciate da soffice chiffon,
carezzevole satin, curve svettanti
su cattedrali con tacchi a spillo,
mi consegnano a lubrifico fervore
votato a deriva, furibondo,
insaziabile stordimento, feroce idolatria,
il Corpo Femminile, è la sola, autentica
prova che, anche privi di fede,
si può assurgere a preghiera.
Cupidigia inestinguibile, sfrenata servitù
volontaria, visibilio assurto a suscitatore
di supremo vizio osannante, feticcio,
morbosa venerazione.
Un bel paio di gambe non si discutono,
realizzano l’unanimità, creano significanza,
ci dicono chi siamo, costringendoci
ad alzare le braccia impotenti,
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ad arrenderci per manifesta inferiorità.
Nella ghiotta vampa bordello,
carne e sangue si fanno verbo, umido, anale,
postribolo frusta, esaltato nel reciproco plagio
di voluttà e grido, nell’ebbrezza del volo,
lo strazio della rovina, invoco genuflesso coitus
perpetuum, e che a nessuno venga in mente
di venirmi a soccorrere, trovereste il sibarita
vituperio, sperma demiurgo, daemonium infoiato
da commozione e pornografia.
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*
Splendidum vitium, splendidum vitium, splendidum vitium.
Non ho una ragione per esistere, ci pensa il corpo
a farmi riprendere i contatti, ci pensa il corpo
a ricordarmi perché mi sono così necessario.
Splendidum vitium, splendidum vitium, splendidum vitium.
Resterò elegante debosciato che evita di sciogliersi
nella grevità, autocreandosi presenza ridondante,
squilibrio che implora di essere disturbato.
Splendidum vitium, splendidum vitium, splendidum vitium.
Assimilo capacità di prodotto sintetico, artificiale,
vedo macchine con intelligenza biologica scrivere
biografie degli arcangeli.
Splendidum vitium, splendidum vitium, splendidum vitium.
Guai per me se il mondo non fosse così,
l’insoddisfazione non potrebbe più alimentare
la mia efferata avidità.
Splendidum vitium, splendidum vitium, splendidum vitium.
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*
Sì, io vivo nel regno dello stupendamente
inutile, sì, è lì che risulto formidabile.
Ascolto l’urlo del prolungato indugio,
gusto la mia triviale alterigia di scotennato
in tempeste traboccanti rischi da spendere,
inconcepibili gesta di strepitosi accidenti.
Evirato del mio isterismo di bestia in calore,
lascio che la vita s’insinui nelle piaghe
pruriginose di ferventi deviazioni barbariche.
Non c’è gioco d’azzardo che possa capovolgere
le sorti viscerali dei miei viluppi labirintici.
La speranza ha il compito di far funzionare i morti.
Mi agito scarnificato da coltelli di redenzione,
eunuco voglioso, rappresaglia nevrastenica
in esercizio d’igiene tra inutile teschio
e liturgia degli addii.
Rivendico il precetto che predispone
il ripristino del comandamento, tanto in voga
ai bei tempi andati, quando bastava una sola
parola sbagliata, per sprigionare
congenita fragranza di Sabba Rosso.
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*
Chissà qual è il meccanismo psicologico
per cui la donna decida di aderire a religione,
da cosa è spinta la sua mente per farle
accettare tanta mortificazione?
Nel Corano si proclama che l’uomo
è superiore alla donna, poiché dio ha fatto
eccellere alcuni sopra altri, e che le donne
buone sono quelle ubbidienti,
per chi non vuole capacitarsi della propria
condizione, dio ordina di porle in letti
separati e di batterle.
La Torah impone tassativamente al fedele
di ringraziare ogni giorno il Creatore
per avergli risparmiato l’obbrobrio
di nascere donna.
La donna soggiace a religione nel gioco
di piacere colpevole: non mi piace,
ma lo voglio, non mi piace ma m’interessa,
ripugna, disgusta, ma seduce.
Nell’Antico Testamento, la donna porta
il peccato, la morte, femina instrumentum
diaboli, la sua sopravvivenza dipende
dalla generosità maschile, colei che si
macchia di tradimento deve subire
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l’infibulazione, la macellazione dell’utero.
Farsi volontariamente tanto danno
con religione, escogitata dal maschio a suo
uso e interesse, col marchio di fabbrica
della violenza, per stare vicino all’uomo
è possibile che occorra condividere così
tanta efferatezza?
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*
A volte ho esigenza di Vento, necessità di vanesio
stordito senza terra né cielo, raffica che sradichi
il deleterio scetticismo, sconvolga le mie ispirazioni
adulterate, scaldi i rigori dei Misteri, del non so cosa
sia, un Vento capace di spazzare via l’irascibile
espiazione, il miope lacchè rappresentato nello show
della mia stessa messa in scena.
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*
Niente di me è certo, sicuro, provato, esisto solo
nel mio cervello bacato, ma anche questo
non lo giurerei, identificarmi è impresa che supera
ogni mia reale capacità, lo sfavillio della mia smorfia
di bagascia beffarda infatuata d’inconcepibile,
m’impedisce di citare il nulla, il vuoto, le lande
impervie del distacco.
Nella tormenta ho provato a interiorizzare clemenza,
ma il tentativo ha prodotto in me tribolazioni
da fuggiasco colto nel naufragio.
Le fiamme mi circondano veementi,
anche il firmamento è minato, l’ultima scusa
si è arresa, non ho più un posto dove fuggire.
Non so cosa farmene di me.
Potessi costruirmi un cosmo personale nel quale
riversare idee, superstizioni, qualsiasi esse siano,
invece resto carcassa fasulla, pianto atavico truffaldino.
Non voglio nascondermi dietro il pretesto del dolore,
agnello sacrificale d’ogni nostalgico patimento,
la mistica del dolore implica visione, aspettativa,
tensione morale, che io sicuramente non sono in grado
di sostenere, mi resta solamente l’ammasso ambiguo
d’ossa e nervi incapaci di vincere, tanto meno aspirare
a gloria della sconfitta.
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*
Grazie, a chi ha inventato televisione, computer,
perché fagocitati dai simulacri evitiamo di parlarci,
d’interrompere il muto silenzio smorzato,
che allontana ogni pericoloso slancio d’intimità.
Ci sopportiamo solo restando ombre vuote,
squartate, rivolgersi al proprio simile è di per sé
terrifica epifania, fetida unio mystica doversi
anche riconoscere per ciò che siamo, davvero,
cortina virale del dolorismo spastico condiviso.
Io non esisto, tu non ci sei.
Possiamo così legittimare il fasto della nostra
inservibilità, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno
è curiositas, la cognizione l’uno dell’altro,
dei nostri abbracci d’odio.
Il vero delitto dell’uomo è avvenire, patologica
necrofilia nel bazar dell’impudicizia di esserci.
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*
Vorrei crescere infedele, tradire me stesso, l’assurda
piovra capace di frenare la spia che si agita in me,
vendere al miglior offerente la chimica neurologica,
spostata, degenere, che trattiene la mia fuoriuscita.
Consegnare al nemico la linfa dei pensieri espressi,
impedendo l’insolenza di un altro soprassalto puerile
estorto all’ingenuità di cedevolezza.
Diventare delatore del mio sistema nervoso centrale,
vendicare l’indebita occupazione di spazio nelle vene,
attraverso la quale faccio leva sul tarlo malsano
del diritto a manifestarmi.
Tradire, perché io possa ingiuriare io, tradire, affinché
niente resti intentato, tradire, per non alimentarmi
d’acredine compiacente, tradire, per desistere da ogni
convincimento, denunciare il furore banditesco
di perdurare.
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Sono assurto a luogo comune, piegato ai colpi di sferza
che mi hanno reso autopsia flagellata, rumore di fondo
nell’inconsulto anelito di meglio cadere nell’odierno.
Non proteggo la mente, non la dirigo, la faccio andare
dove vuole, pacificato nell’accidia iconoclasta,
oltrepasso l’estremità dell’inviolato, sposto il limite,
sposto il limite, sposto il limite.
Mi rallegro, finalmente la vita è cripta vuota,
senza ossigeno, benvenuta alba di giubilo, la vita
è resa inservibile, perciò non potrà più angustiare
la piccola cagna, non è più dovuta nessuna risposta
a vocazioni, il finalismo ha cessato di umiliare,
d’ora in avanti l’incandescenza si occuperà del perfido
maligno segregato nel mio singulto tiranno.
Le parole sono il risultato di ferrea disciplina,
addestramento al pestaggio, bastonatura impietosa,
poiché non è possibile assecondare la convivenza
pacifica: le parole che non uccidono lavorano
per il nemico.
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*
Sulle labbra di Lautréamont sangue e camelie,
eloquenti linciaggi, fiele d’absentia, avvoltoi
tengono nei becchi serpenti stellati della notte,
reminiscenze ad accesso peyote, battito d’ali
lungo la linea d’orizzonte, brivido che precede
la perdita di sé, ritrovandosi, co’ sang, riverbero
d’argento su sfondo di scenari laser da primo
mattino del mondo, turpitudine ludica,
edonismo, Ode a Diserzione.
Miles Davis, levitazione, no gravity, musica
che non c’è, stormi di bianchi falchi nel vento.
Jimi Hendrix, Fender Stratocaster bianca,
feedback, tumulto di battaglia, talismano
d’accensione, dardo orgiastico, regalità
impetuosa, fastosa luxuria, macchina-rumore
nel crepitio d’acciaio e seta, Woodoo Child,
acid trip, ogiva psicochimica.
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*
Progressisti e conservatori si rubano i marciapiedi
a vicenda, ottenebrati negli obitori del consenso,
nelle strade idillio inverecondo tra presenze
ingiustificate e annientate, il vantaggio di vivere
in un mondo corrotto è dato dal fatto che prima
o poi incontro sempre qualcuno più corrotto di me.
Ascolto enfasi per idioti: sei vivo, prezioso, utile,
indispensabilità del solito minchione, incensamento
per nobile causa: efficienza produttiva del bestiame
prostituito, più si agita l’ideologico marcescente
della nostra corale attestazione, più coliamo a picco
nell’informe danza sepolcrale del sé.
Vedo lazzaretti utopici, necropoli di gaudio morale,
e mi convinco di sapere sempre meno della mia vita,
condizione irrilevante se non fossi continuamente
molestato dalla superbia degli squadristi di dio.
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*
All’improvviso vidi accanto a me mio fratello Antonio,
allora quindicenne, sgomitare per farsi largo nella
baraonda creatasi intorno al Vigorelli, entro cui era
stato organizzato, da emeriti imbecilli, il concerto
dei Led Zeppelin.
Si trattava della serata finale di una kermesse canora
nazionale, durante la quale, una folta pattuglia
di miserrimi cantanti nostrani, avrebbero dovuto
propinare i loro gracchianti gargarismi.
Questi imbarazzanti schiamazzatori appena salivano
sul palco, venivano sbeffeggiati, presi di mira
con lanci di oggetti vari, tant’è che ben presto
desistevano, squagliandosela a gambe levate,
coperti da una marea d’insulti provenienti
dal pubblico confluito al Velodromo milanese
da diverse città per la prima esibizione italiana
del Dirigibile.
Noi stavamo col solito gruppuscolo di bulli,
privi di biglietto, che pretendevano di entrare gratis,
giovanismo ingenuo di chi credeva che il mondo
potesse dare ancora qualcosa.
I Led Zeppelin suonarono ventisei minuti,
quel cinque luglio millenovecentosettantuno,
poi dovettero arrendersi, abbandonare la scena
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nella confusione, sarabanda, bolgia di sirene,
manganellate, lancio di fumogeni irritanti,
stacco della corrente elettrica, pioggia di sassi,
cariche dentro e fuori di oltre duemila agenti
in assetto antisommossa.
Il fumo dei candelotti lacrimogeni si propagava
nell’aria, superando il perimetro del Vigorelli,
espandendo l’aspra nube nelle strade adiacenti.
Io e Antonio, per sfuggire alle aggressioni
poliziesche, metterci al sicuro dai caroselli delle
camionette di celere e carabinieri, trovammo riparo
accucciati dietro una siepe in Corso Sempione.
Fu in questo nascondiglio, sotto arbusti
provvidenziali, che guardando mio fratello,
pensai a molti anni prima, a quando condividevamo
la cantina con un’altra famiglia, e per sfuggire
all’umido tugurio infestato dai topi, il pomeriggio
andavo al bar a guardare la TV dei Ragazzi,
a volte passava mia madre con Antonio in braccio.
Notai a quel tempo che appena mia madre arrivava,
un uomo di mezza età, ben vestito, dai modi cordiali
e signorili, l’avvicinava facendole sempre la stessa
proposta.
Signora, rifletta, nelle vostre condizioni...io e mia
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moglie siamo disposti a offrirle tanto oro quanto
pesa il bambino.
Penso con infausto avvilimento, apprensione
sgomenta, alla congiuntura in cui mia madre
avesse accettato il baratto.
Il panico mi opprime ancora oggi, rigetta il mio
piagnisteo meschino nella più lugubre costernazione,
non in quanto scosso da remore d’ordine etico,
ma bensì per convenienza, mero opportunismo.
La cara mancanza, avrebbe infatti significato, per me,
dovermi affaticare in prima persona per respirare,
far scorrere sangue nelle vene, incarico micidiale
che in tutti questi anni mio fratello ha svolto al posto
mio, dandomi la possibilità d’interpretare
il personaggio che meglio mi si attaglia, il pappone.
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Dubito di ogni volontà che lotta contro i mali
del mondo, un uomo accorto, custode prudente
del suo esibizionismo acclamante, detesta la sola
idea di gettarsi via per così poco.
Mi rifiuto di battermi per un mondo migliore,
un mondo migliore non è possibile,
il mondo è sempre peggiore.
Allora perché mai dovrebbe diventare migliore
proprio adesso, cos’ha di speciale questo
millennio che non abbiano avuto Mesopotamia,
Grecia e Roma?
E poi la responsabilità risulterebbe oltremodo
gravosa se dovessi, per un malcapitato intrigo,
ricoprire il ruolo disdicevole d’insegnare,
trasmettere idee, risultare presente.
Vorrei scongiurare di trovarmi a dettare messaggi
contribuendo all’orrenda proliferazione di spiriti
liberi, alla calamità angosciosa di moltiplicare,
per dolo e colpa grave, gli stramaledetti processi
interiori, la bieca creazione di una nuova anima.
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Non dico che verità sia inesistente, affermo solo
che non so cosa sia, c’è chi lo sa anche per me?
Certi spavaldi affermano che essa ci sopravviverà,
può darsi, non lo escludo, vorrei soltanto che costoro,
mentre proferiscono il suo nome, si ricordassero
che troppo spesso confondiamo le certezze
con i nostri disturbi neurologici.
Altri sostengono che verità sia più grande, più alta
di noi, non fatico per niente a crederlo, non ci vuole
poi molto a stare un palmo sopra la merda.
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Sembra vi sia una regola ormai scritta, non si sa bene
da chi, da osservare tassativamente, preferibilmente
quando si è giovani, fare i rivoltosi deficienti.
Generazioni imbottite di tritolo ideologico, che hanno
fatto uso di slogan ribellisti, indotti, manus militaris,
a sogni per coglioni.
Sono i danni collaterali, le armi di distruzione
di massa, del vaticinare lo sventrato, il malfattore
colto da passione fideistica, che si sente il prescelto,
con ciò chiamato a edificare il nuovo vivente,
ulteriore versione dello schiavo elettrizzato.
Quanto tempo sprecato, avrei più utilmente impiegato
gli anni della mia giovinezza sbattendo il cranio contro
il muro, addestrandomi per la rapina definitiva,
oppure andando a prenderlo nel culo da qualche parte.
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Il destino predilige l’essenziale, imbolsiti affondiamo
per soverchia eccedenza, scoppiamo d’invincibile,
non resta che perdere.
Profusi in effusioni con l’eternità, dimentichiamo
che il nostro segno distintivo è il vigore decrepito
dei furfanti in flagranza di lapidazione analgesica,
epigoni ammaestrati abbiamo marchiato nelle carni
e negli occhi l’asfissia dei sorpassati, cui non rimane
che il sollievo di venire liquidati.
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*
Capelli corvini a ciocche, sopracciglia scurissime,
occhi neri sporgenti, naso un po’ schiacciato,
labbra tumide.
Voglio uccidere! Uccidere!
Stanerò voi che prevedete l’imprevedibile,
smaschererò voi che schedate i sospiri,
ucciderò senza distinzione di razze.
Mi avete imposto centinaia di doveri,
concedetemi un solo diritto, uccidere!
Chiedo forse troppo?
I miei amici più giovani di me uccidono da anni,
anch’io voglio uccidere, ucciderei con tatto e obiettività.
Sferisterio, pallacorda, Campo Marzio, Roma.
Caravaggio affronta Ranuccio Tomassoni con la spada
e lo uccide nella polvere, per debiti di gioco.
Martirio di San Matteo.
Nelle osterie fra bagordi e scandali, in mezzo
a bastardi, feccia, arrogante, rissoso, sempre pronto
a insultare, aggredire, barbaro visionario
della Luce Tagliente.
Fanciullo Morso dal Ramarro.
Duelli all’arma bianca tra bande rivali, Colosseo,
Trinità dei Monti, Saint Louis des Français.
Caravaggio si lancia nella mischia, ferito alla gola
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e all’orecchio, angelo sterminatore eretico, fazioso,
eversivo Medusa urlante col capo cinto d’aspidi.
Voglio uccidere! Uccidere!
Non ci tengo a far star bene, voglio innescare
lo scompiglio, a sentirla nominare la pace
mi fa l’effetto di Hiroshima.
Voglio uccidere! Uccidere! Per sapere se esisto realmente.
Luce che squarcia l’ordine costituito, accentua
l’intensità, l’oltraggiosa beatitudine dei corpi infocati.
Decollazione del Battista, Sacrificio d’Isacco.
Ricercato, inseguito dagli sbirri, costretto a fuggire
da Roma, Napoli, Valletta, in fuga sulla Chevrolet
ruggine alla ricerca del rifugio sicuro.
Fasci luminosi intermittenti fendono drammatici
la Statale 666, che dalla città di Cortez porta fino
a Gallup, New Mexico.
Sui rilievi circostanti, battuti nella sera dal diluvio,
scie lucenti lasciano intravedere Estasi di San Francesco,
Narciso, Riposo nella fuga in Egitto.
Entra nel bar della stazione di rifornimento,
rappresentazioni vive, Giuditta che Decapita Oloferne,
Amore Vittorioso,
Salomè con la Testa del Battista.
La radio trasmette composizioni liturgiche a più voci,
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in fondo al locale aggredisce Mickey e Mallory Knox,
Natural Born Killers.
Si aggrappa al collo di Mickey impegnato a schiacciarsi
foruncoli dal mento riflesso nel vetro della bottiglia
di whisky, lo scaglia sul pavimento, cammina sopra
la sua faccia con gli stivali cromati.
Scaraventa Mallory tra il bancone e i videogame,
colpisce col cacciavite nel basso ventre, bambina
selvatica, compassionevole.
Je t’adore, baby.
Caravaggio lascia la Statale addentrandosi
nel centro abitato.
Madonna dei Palafrenieri, Bacco, Vocazione di San Matteo.
Costeggia il caseggiato col liuto sotto il braccio,
nota una finestra spalancata, balza dentro.
Le due donne presenti sono atterrite, ingaggiata
una breve colluttazione, lega la giovane al lavandino,
poi tenta di penetrare col suo membro l’anziana,
ma fallisce a causa dell’eccessiva eccitazione,
allora blocca pure lei.
Sfodera il liuto, stupendo, ed esegue un brano
delicatissimo, le donne strillano come dannate,
non riesce a suonare, il chiasso impedisce
la concentrazione, constatato che la buona musica
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non è apprezzata si cala da dove era salito
e se la svigna.
Blue screen in tutta la strada.
Cattura di Cristo, Ragazzo con Canestro di Frutta, David.
Si nasconde sotto il pullman ma, probabilmente,
qualcuno deve averlo intercettato dato
che da lì a poco sente le canne dei mitra della polizia
premere nelle costole.
Voglio uccidere! Uccidere!
Chi vuole provare per primo?
Fatevi avanti, non siate timidi, date il buon esempio,
abbattete l’ultima riserva, lasciatevi andare al fremito
smisurato, avete tutto da guadagnare,
visto che non sapete vivere, avrete, almeno,
l’opportunità d’imparare a morire.
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Il male non si può scalfire, egli, nel tempo, si è rivelato
coriaceo, arcigno, invulnerabile, manifestando,
lungo l’arco dei millenni, ottima salute: nessuno è mai
riuscito a gettarlo nel crinale ribollente dell’eterna
dannazione, l’Emmanuele, che sappiamo ragazzo
capace di auto da fé strazianti, deve riconoscere
che, visto l’eccellente stato di forma di cui ha sempre
goduto il male, egli è stato ingannato dal suo padrino,
non avendogli trasmesso il messaggio consustanziale:
la vita è ordita, orchestrata da Dada, sul Boulevard
dei mai pervenuti.
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Non ho messo al mondo figli, perciò non contribuisco
all’aumento di spesa pubblica, non incremento
il deficit sanitario, non chiedo aiuto scolastico,
non reclamo posti.
Riduco l’inquinamento, il consumo d’acqua,
non incremento il numero di automobili,
evito il sovraccarico del sistema pensionistico,
non occupo terra al cimitero.
Responsabilmente ho maturato le mie scelte di vita
a esclusivo vantaggio dell’intera collettività, perciò,
ritengo che tale rettitudine debba ricevere adeguata
riconoscenza senza indugio alcuno, salutata virtute
civica altamente formativa, pertanto esigo che al mio
passaggio s’intonino laudi, si levino applausi,
grida di travolgente infatuazione, implorazioni
di maestà sempiterna.
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Sono fregato, ho un punto di vista, peggio per me,
così imparo, sentimenti, passioni, misticismo,
ognuno s’inietta la sua overdose col pathos,
il veleno che predilige.
Noi, sì, proprio noi, siamo disposti a credere
in qualsiasi cosa, seguire qualunque rabdomante,
ogni falsatore, scambiamo qualunque anelito,
aderiamo a tutte le sozzure, lusingati da ogni nascita,
hallelujah, requiem, qualsiasi mannaia
dell’imponderabile.
L’imprudente maneggio dello sgomento di morte,
espone noi babbei a scorribande belluine
del confortorio.
Mi salverò da questa pestilenza quando gli dèi
imporranno su di me il loro imperativo categorico,
che cancelli il ripugnante grugnito saccente,
concedendomi il vantaggio di cecità sociale.
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Se vi capita d’incamminarvi lungo la strada che porta
alla città d’Alessandria, dove, probabilmente,
vi prefiggete di percorrere, per vostro lodevole
interesse, il IV secolo, e vi addentrerete tra le sue mura
con spiccata curiosità, fate attenzione, potreste avere
l’ineguagliabile sorte di trovarvi dinnanzi alla Signora
della Scuola Neoplatonica, che insegna matematica,
astronomia, filosofia, sappiate che ella è Ipazia,
la Suprema Altezza.
Se vedrete che incute timore reverenziale di Maestra
della hellenike diagoge, la via ellenica, e si muove
con gesto nobile, siate certi di trovarvi al cospetto
di Ipazia, l’Eminenza.
Quando resterete incantati da occhi d’oliva nera,
da un volto seducente e misterioso, dal colorito
della pelle a sfumature brune, impreziosito da fluente
chioma di lucido corvino, considerate che avete
incontrato Ipazia, l’Acutezza.
La figlia di Teone indossa il tribon, mantello grezzo
dei predicatori Cinici, i Cani.
Guardatela nel Serapeo, lo splendido santuario
del dio Serapide, formato da colonnati infiniti,
statue che paiono vive.
Gli ammiratori adoranti si accalcano per ascoltarla,
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lei si mantiene equilibrata e austera, a uno studente
innamorato porge, di fronte all’intero uditorio,
il panno usato per il sangue mestruale mettendoglielo
sotto il naso a simbolo d’impurità della procreazione,
e gli dice: in definitiva è di questo che ti sei innamorato,
ragazzino, di niente di sublime.
Il cristianesimo, imposto con la spada da Teodosio,
proibisce i sacrifici agli dèi, i riti pagani equiparati,
con legge speciale, a lesa maestà, chi non accetta
l’amore di Stato del Cristo, viene condannato a morte.
Scrive Paolo nella prima lettera ai Corinzi: tacciano
le donne in assemblea.
Ma Ipazia non ha timore di levare la voce nel corso
di riunioni, durante le quali si trova a dissertare
in mezzo alla folla degli uomini.
Veni daemon ferox, veni daemon ferox, veni daemon ferox.
Su Alessandria imbrunire carico di sentore,
stormire di vento tra gli alberi, dal deserto la sabbia
s’insinua nelle strade, ricopre i volti, secca la bocca
di Ipazia, mentre i carnefici di dio impugnano
attrezzi di carità.
Veni daemon ferox, veni daemon ferox, veni daemon ferox.
Su ordine del vescovo Cirillo, il gruppo cristiano,
guidato dal monaco lettore Pietro, si apposta
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per sorprendere Ipazia nel suo ritorno a casa.
Veni daemon ferox, veni daemon ferox, veni daemon ferox.
Aggredita sul carro, la trascinano giù fino alla chiesa
Cesareo, le strappano la veste, la scarnificano con cocci
affilati, e nel momento in cui respira appena, le cavano
gli occhi, quindi viene smembrata, fatta a pezzi,
gettata nel Cinerone, dove si brucia la spazzatura.
Veni daemon ferox, veni daemon ferox, veni daemon ferox.
Gli assassini esultano con le parole del padre della
loro chiesa, Agostino: la donna è immondizia.
Veni daemon ferox, veni daemon ferox, veni daemon ferox.
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Canti sia preferibile il letame ai diamanti,
perché dal letame nascono i fiori, mentre
dai diamanti non nasce niente.
Magniloquenza fatta circolare per meglio imbonire.
Già che da qualcosa non nasca finalmente
niente è motivo rassicurante, considerato
che noi malviventi, con placet di riproduzione
coattiva, abbiamo posto nascimento a tabù euforico.
Non vuoi barattare i tuoi valori con le lusinghe
del materialismo consumista?
Il diamante è pietra alchemica filosofale, il vajra,
fulmine e diamante della potenza spirituale,
per Platone l’Asse della Terra è fatto di diamante.
I tuoi principi non sono negoziabili?
Almeno non dimenticare che i diamanti sono
i migliori amici delle ragazze, non so se mi spiego!
E poi, te la immagini Lucy in the Sky col letame?
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Ho incontrato me stesso e non l’ho riconosciuto,
anzi, per dirla tutta, sono andato in fissa.
Mi ha fatto incazzare il megalomane!
Così, non sapendo cosa dirgli, faccio girare la voce
che è una spia della polizia.
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Adelaide ama i fiori, ma non si accorge
che suo figlio Giacomo non vuole guardarsi
allo specchio, mater tenebrosa, agisce nel buio
con polso ferreo, gelida lama che recide
ogni accenno di pulsione emozionale.
Puritana, integralista, impone ai figli
il suo ciarpame religioso, i vostri dolori
offriteli a Gesù, quando alcuni di essi
muoiono, per Adelaide è giorno lieto,
gioioso, saperli volati nel paradiso.
Giacomo, intimorito, rinunzia ai piaceri
giovanili, è dono a Gesù, nella biblioteca
di Recanati cresce, si sviluppa deforme,
gobba davanti, gobba dietro,
la madre è felice, lo vuole Gesù.
D’aspetto dispregevolissimo, non si lava
per non scorgere, seppure nella penombra,
il corpo raccapricciante, alto 1 metro
e 41 centimetri.
Parenti, conoscenti, lo schifano,
verme impestato, deriso, insultato in strada,
angustiato da patimenti smisurati,
che si sviluppano in aggiunta
a gibbosità umilianti:
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insufficienza respiratoria, impotenza,
male agli occhi da renderlo quasi cieco,
disturbi digerenti, emicranie, reumi a gola e petto,
emorragia al naso, stitichezza, asma, bronchite,
accumulo liquidi, dolori addominali,
gonfiore a ginocchia e caviglie, liquido purulento
nel cavo pleurico, inattività ghiandolare,
tubercolosi ossea, depressione psicotica.
Leopardi a Napoli, passeggia con indosso
il soprabito consunto, il bavero alzato,
diretto al Caffè delle Due Sicilie,
per gustare una granita, l’amatissimo gelato.
Percorre il lungo mare, si ferma davanti
la ricevitoria del lotto, gli scommettitori
si accalcano intorno alla gobba veneranda,
si fanno dare da ´o ranavuottolo i numeri fortunati.
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Decido di vivere nel mondo sospeso tra baratro,
asfalto magnetico su pelle irrequieta, mani randagie
che disegnano geografie ingovernabili,
l’aria ipnotizzante della sorpresa fatale, inutilmente
religioni e società, cancrene della guerra interna, cercano
di aprirsi un varco nel mio irriducibile egoismo.
Ed ecco la potenza, possedere me stesso ricavandone
l’indifferenza di essere unico.
Sono equivoco impeccabile, puro agglomerato
d’anchilosi, embolia predatoria, inezia subdola,
abiura sfibrata, forfait inappuntabile,
verve cauterizzata nel capestro.
Un tipo come me, facile a vacillare, ritrova il suo
centro gravitazionale in rappresaglie d’affanni,
raptus rigeneranti al calor bianco, scisma fecondo
di soccorrevoli rovesciamenti.
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Non è mia prerogativa realizzare il pieno fallimento,
sapete, non giungere mai al traguardo, fallito
per grazia ricevuta.
Il vero fallimento esclude la pur minima traccia
d’opportunità, io invece, a ben vedere,
combino sempre qualcosa.
Malgrado la massima disponibilità ad arrendermi,
qualcosa in me riesce, si realizza, non fosse altro
che per l’accettazione del trascorrere delle ore,
dei mesi, degli anni.
Non avendo perciò predisposizione per il totale
fallimento, mi ritrovo un quasi non definito,
un quasi non vivente, un quasi non niente.
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Embolo letale, supponente, abusivo del pensare,
pazzo di verità, medicalizzato dall’umanesimo,
fetente altero, borioso, che spadroneggia
su interminabili cortei striscianti di cervelli marci,
fine esegeta dell’epilessia bovina, malarazza scannata
avviluppata in chimera inestricabile,
costi quel che costi.
Non sono tenuto ad alcuna corrispondenza
tra le parole che pronunzio e le mie azioni.
Coerenza è triste, noiosa, lapidea.
Mi prendo astuta licenza d’imbrogliare, mi curo
di non risultare sincero, per eludere la iattura
di venir preso sul serio, scambiato per un altro.
Voglio dirla fino in fondo, non mi è chiaro
ciò che dico, non per quel che dico, ma piuttosto
perché si sono via via ampliate nel mio
discernimento pruderie, che infondo infondo
indicano che anche il contrario di ciò
che affermo non è detto che non mi vada
a meraviglia, perciò l’inverso, il contrario
di ciò che penso potrebbe risultare lusinghiero
al manigoldo sicofante.
Mi sono gettato in pasto alla follia quando
ho accettato di vivere con me stesso,
rectum estorsivo, sbocco di sangue infingardo.
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Stare al mondo senza paranoia sarebbe come vivere
senza respirare, trovarsi privo di malesseri
in un mondo che abbia superato angosce sarebbe
un duro colpo, il delitto perfetto ai miei danni,
vivere liberato da crucci brucianti, insidiosi spettri,
nemesi malevola, mai più afflitto da mitomanie
cruenti, indotto ad andare contro natura
per la cacciata di terrori ancestrali, infiniti sfaceli,
estinzione del tragico.
La vita in forma smagliante.
È questo il pericolo più grosso che corro,
trovarmi nel mondo, che volendo risolvere problemi,
corra il rischio di riuscirci.
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Giorgia, intrigante, alta, testa carica di riccioli rossi,
gonfi lapilli roventi, occhi verdi, carnagione
bianchissima d’alabastro.
Un giorno d’inverno nebbioso andai a prenderla
all’università, andammo al bar Ragno, in Brera,
evidentemente stimolata da alcolici vari, non esitò
ad accettare la proposta di trasferirci a casa mia,
inutile dire che per il mio cervello trifolato
fu il segnale indubitabile che ci sarebbe stata.
Loquace e ammiccante, la fissavo affascinato,
pregustando il momento in cui l’avrei succhiata
prendendola da dietro, lavorandole il buco del culo
con lingua prensile, ma Giorgia seppe tenere a freno
i miei ormoni sconsiderati, cominciò a raccontarmi
ciò che la eccitava sessualmente, piaceri carnali
che mi lasciarono sbigottito.
Ho per amanti due vecchi nani alti così.
Tentai di restare impassibile, non far trasparire
lo sconcerto, come potevo immaginare, e poi,
fosse stato tutto lì.
Mi piacciono anche le donne, però irsute, molto pelose,
adoro la bruttezza, per eccitarmi devo toccare il mostruoso,
tu sei troppo un bel ragazzo per i miei gusti.
Da coglione rintronato, come se la situazione non fosse
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già sufficientemente compromessa, giusto per franare
definitivamente.
“A me sembra di essere normale”.
Appunto, hai detto giusto, normale, non fai per me,
non sei abbastanza deforme, io voglio addosso un uomo
a due teste, che con una mi sussurri dolci frasi sul collo,
mentre con l’altra inciti il branco alla penetrazione
plurima, squartandomi.
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Non c’entriamo niente con la vita, non siamo adatti
a esistere, la vita non ci vuole, siamo nocivi ai nostri
simili, privi di freni inibitori riveliamo innata,
genuina attrazione dell’assassino che è in noi
per l’arcano istinto crematorio.
Incapaci di lealtà agonistica, che impedisce
l’ammissione di manifesta futilità, produciamo
atroce seme, beffa cremosa, supplizio spermatico,
narcisismo da testosterone macabro con obbligo
di futuro.
In un mondo responsabile lo shock primigenio
sarebbe vietato, interdetto, invece circola
ammirato, posto improvvidamente a fondamento
dell’inganno gaudioso.
La vita non dona la vita, fornisce animali alla greppia.
Chiedo che il vagito, il primo spalancarsi
degli occhi, siano proibiti, inseriti tra gli atti
dinamitardi, dichiarati illegali, fuori legge,
droghe pesanti.
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A Quarto Oggiaro, c’era da saccheggiare
il supermercato, non sapevo altro,
nessuno pianificò l’operazione, girò la voce,
il passaparola.
Entrammo a scaglioni di tre, quattro alla volta,
in pochi minuti ci ritrovammo a decine,
che prendevano, arraffavano sui ripiani,
ripulimmo gli scaffali con tale velocità
che la direzione, colta di sorpresa,
non ebbe modo di adottare prontamente
contromisure efficaci.
Stavo guadagnando l’uscita quando vidi
un energumeno in camice bianco, il macellaio,
afferrare una delle nostre ragazze proprio
sull’uscio.
Cercammo invano di portargliela via tirandola
per le braccia, ma il colosso non mollava
la presa, allora, senza neanche pensarci,
gli sferrai un tremendo calcione nei testicoli
che lo fece piegare in due, stramazzare al suolo.
Avevamo così tanta roba nei carrelli, nelle auto,
da non sapere più dove metterla,
così decidemmo di rifornire amici e parenti,
quindi ci liberammo del bottino avanzato
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distribuendolo ai passanti.
I riscontri sulle pagine dei giornali alimentarono
dibattiti e polemiche, nelle settimane successive
sorsero gruppi d’imitatori, presto lo scontro
ideologico prese una piega che non piacque
a nessuno di noi, fascisti rossi in attesa
della dittatura del proletariato, piazzisti dell’olio
di ricino, zombie della proprietà privata,
iniziarono ad accapigliarsi, incominciò a circolare
la giustificazione moralistica dell’esproprio
proletario.
A noi la propaganda populista disgustava perché
sapevamo fin troppo bene chi fosse il proletariato,
un padrone lancia l’osso da rosicchiare e subito
si mettono a cuccia.
Noi avevamo agito per divertimento,
creato situazioni, solo per divertimento!
Il ballo lisergico dei Gatti Selvaggi.
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Venezia scintillante, rinascimentale,
splendida Veronica Franco, gentildonna
honorata, datrice di gioia,
dispensiera d’amore, scudi 2.
Cortigiana a Santa Maria Formosa,
raffinata scrittrice, Lettere Familiari,
gaudente poetessa, Terze Rime.
Fulcro in conversazioni tra artisti,
feste, suonatrice di liuto,
esperta di spettacoli, concerti,
immortalata da Tintoretto.
Meretrice priva di travestimenti,
affinava l’arte erotica, studiava latino,
conosceva la prosodia.
Dissoluti, ricchi, potenti,
rispettabili protettori, nutrivano
venerazione, fossero amanti o clienti.
Ella si arrendeva volentieri
ai licenziosi appetiti, descrivendo,
con scrittura priva d’imbarazzo,
i disonesti amori.
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Sesto Vario Avito Bassiano, dalla Siria, Gran Sacerdote
nel Tempio del dio Sole a Emesa, prestante, di rara
bellezza, seppur effeminata, conosciuto nei secoli
con l’appellativo El-Gabal, Eliogabalo.
Acclamato dalle truppe orientali, Imperatore Romano
all’età di quattordici anni col nome Marco Aurelio
Antonino, grazie alle macchinazioni spregiudicate
della nonna, Giulia Mesa.
Il Senato ricevette dal giovane Imperatore, in viaggio
dalla Siria col caravanserraglio al seguito, un suo
ritratto: abiti da Supremo Sacerdote nella foggia tipica
dei Fenici, in seta, ricamati d’oro, alta tiara sul capo,
adornato da collane e ciondoli d’inestimabile valore,
il volto appariva con le sopracciglia marcate di nero,
le guance imbellettate di rosso e di bianco, la troia
orientale stava arrivando a Roma.
La madre Giulia Semiamira aveva fascino esotico,
sapori, profumi sensuali, libera di costumi,
oltremodo dissoluta, considerava la pudicizia
femminile inutile, ridicolo retaggio, modi di vivere
che le valsero critiche severe, senz’appello, di vera
e propria sgualdrina.
Fu a causa della condotta licenziosa di sua madre
che si apostrofò Eliogabalo col nome Vario, di padre
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incerto, figlio di padri vari.
L’occupazione principale di Eliogabalo era convogliare
a Palazzo i ragazzi più dotati per godere delle loro
prestazioni sessuali, divideva le sue libidini
con la madre, mentre affidò il governo di Roma
alla nonna, prima donna a sedere sugli scranni
senatoriali.
Le sue perversioni risultavano insopportabili persino
ai più dissoluti viziosi, viveva fremebondo, alla ricerca
continua di amanti maschili che chiamava onobeli,
uomini forniti di attributi virili simili agli asini.
Vestiva da donna, indossava parrucche, si depilava,
lo vedevi girare nelle taverne e nei bordelli
per prostituirsi.
Nel Palazzo Imperiale stava sempre nudo,
ammiccava sulla porta della camera, e con voce
melliflua provocava chiunque passasse.
Ebbe una relazione con Ierocle, schiavo biondo,
auriga proveniente dalla Caria, che sposò, del quale
si deliziava a farsi chiamare moglie, regina.
Sposò anche Zotico, atleta di Smirne, per il quale
organizzò la cerimonia nuziale pubblica nel centro
di Roma.
Schifati dalla lercia belva immonda, i Pretoriani,
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istigati dalla regia lungimirante della nonna
dell’Imperatore, si schierarono contro Eliogabalo,
e al Castro Pretorio lo assassinarono insieme
alla madre, complice e partecipe delle sue dissolutezze,
raggiungendolo nel luogo in cui si era rifugiato,
e che spesso frequentava, la latrina.
Aveva diciotto anni.
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Merce sa cosa mi ci vuole, più cose possiedo,
maggiore è la mia significanza, non sono persona
che vuole farsi apprezzare per la sua esperienza
vitale, ma per quello che ha, quando mai
la garrotta di giaculatorie etiche d’invasati
hanno saziato?
La necessità pleonastica nobilita,
genera fervida vivezza, indica precipua arché,
la causa prima, il limo originario,
sublime transito magnificato nei cessi.
Consiglieresti la vita a chi ancora non è venuto
al mondo?
Io non toccherei la vita nemmeno col bastone
elettrico per i porci, per quelli che ci sono già,
consiglierei di vivere ignari, consumando
consumandosi, e venti milioni di euro ciascuno
posati sotto la culla, da grandi, ogni qualvolta
si porranno quesiti esistenziali, avranno modo
di mitigare la brutale delusione andando
a fare shopping.
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Considero benefico il non avere colloquio
dell’anima, nessuna vociferazione col divino,
valuto la fortuna di non sapere mai come
comportarmi, sottraendomi alla minaccia
di restare invischiato nella guerra civile
del senso di colpa.
Non credo nel peccato perché non credo in me.
Se non fossi impegnato a rincorrere
desiderio passerei le giornate a guardare
il vostro volto, non conosco condizione
più degradante!
Meglio le catene di mille desideri
che l’affrancamento amorfo, monacale,
contagiato da perfezione, io appena sento
odore di perfezione metto mano alla pistola.
Soltanto perché inseguo desiderio capita
di lenire, almeno per alcuni istanti,
i rantoli che precedono cenere.
Ogni volta che lascio gli arresti domiciliari
commetto l’imperdonabile frivolezza di cedere
alle lusinghe del cupo riflettente, pretenzioso
soliloquio bastardo.
La liberazione dal desiderio è l’ennesima
religione dello stupro.
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La vista degli efficienti, dinamici, ambiziosi
incarogniti rampanti, suscita la mia supplica
a napalm, perché svolga scrupoloso
la sua missione.
Nessuna concessione all’eutanasia perbenista,
niente pietas per i forzati della consolazione,
hanno saputo concepire persino la vita,
a questo punto si abbatta su di essi la collera
micidiale di lucidità.
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Il sogno della razza umana è l’esercizio del potere
di vita e di morte, l’universale caccia grossa
al proprio simile.
Solo il timore delle manette, la paura della galera,
esercitato dalle leggi dei ricchi sugli sfruttati,
tenuti al guinzaglio dal sistema del debito,
limitano la proclive volontà d’ammazzamento.
Studi effettuati ipotizzano che la razza umana
derivi dai pesci.
Ritengo l’eventualità alquanto bizzarra,
stravagante, non fosse per altro che i pesci
puzzano dopo tre giorni, mentre il genere
umano emana tanfo imputridito molto prima,
da subito, nasce già andato a male.
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Sgomento di moralisti indignati: a questo
mondo apparire è più importante che essere!
E allora?
Essere, onanismo trash, tenia inquinata
da sensum finis, prefigurazione che si muove
nello schema speculativo del pensiero
precettato, che enuncia requisitoria allevata
nel porcaio.
Essere, sperso nella nube sulfurea
nozionistica, alimenta infondate aspettative
d’entità mistificata, è memento venefico
dialogico, ignobile sedimento riflessivo,
dislessia sofista.
Apparire, essere,
esibizionismi d’escrescenze tumorali,
evacuazioni purulente di turlupinatori,
mazzieri che trascorrono i secoli piantando
chiodi nell’insolubile, cosche malversatrici
impegnate nella compra vendita del reale
infestato da vipere d’eloquio.
Giusto per scongiurare vergognose risse
tra bifolchi, avanzo la proposta conciliante,
che potrebbe risultare assai utile
a entrambe le fazioni: l’autocombustione.
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Evoluzione, hobby fetish, allegria luttuosa d’intrapresa
che banchetta tutti i giorni grazie al potere d’apartheid
planetario messo in sicurezza dalla supremazia
degli eserciti.
Cos’è questa fregola di voler inventare nuovi mondi,
non ne avete avuto a sufficienza di quello che abbiamo
per capire che è preferibile non uscire da casa
per evitare di fare altri danni?
Non vi è bastato Zeus che ha partorito Atena
nel mondo già adulta, senza che vi fosse intervento
femminile, facendola uscire dalla propria testa, e che
ella, con un sol colpo, appiattisse
il gigante Encelado, facendolo diventare un’isola,
la Sicilia?
O che l’orrendo mostro Tifone, scagliasse contro il re
dell’Olimpo lunghissime fiammate che non andarono
a segno, ma che in conseguenza formarono i deserti
del Sahara e dell’Arabia Saudita?
L’avanguardismo evoluzionista mutante si scalmana
sempre nelle retrovie: Zeus, dopo essersi unito
a Semele, strappò il frutto del congiungimento
non ancora maturo, cucendoselo in una coscia,
portando egli stesso a termine la gestazione,
e cavando il dio del Delirio dalla coscia
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dopo il periodo regolare.
Nessuna evoluzione nella caverna web per gli
antropofagi finanziari, i primati on-line accasciati
su display.
Se al supposto evoluto giunge voce che sua moglie
si fa sbattere da un altro, impugna ancora la clava.
Cos’è questa foia di cambiamento antropologico,
non basta l’uomo così come lo conosciamo,
cane rabbioso, per comprendere che una sua ennesima
versione non potrebbe altro che rinnovare
mal de vivre?
È una calamità poter disporre di ulteriori spettacoli
umani prodotti con nuova carne, riproduzioni mutanti,
contaminazioni, neo-organismi, espansioni cellulari,
intelligenze cibernetiche, replicazioni di personalità,
biotecnologie transumane: raccapriccianti virus
creazionisti, portatori della vecchia fistola patogena,
vita.
Il favoreggiamento da parte degli evoluzionisti fautori
di entità ibride, che imprimono nell’individuo
il marchio a forte impatto mutante, e che vogliano
altresì offrire copertura sociale, artistica, religiosa,
all’infame marmaglia, sappiano che si rendono
complici del reato più abiectus:
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allestire sale di rianimazione.
Tecnica, Arte, commoventi, propizî divertissement,
che non possono farci scordare che non c’è evoluzione,
avanzamento, poiché siamo sopraffatti da teologie
tribali d’homo ideologicus preregistrato, masterizzato,
remixato.
I modernisti fautori del genere splatter, dal corpo
inquinato, squarciato, cicatrizzato, amputato,
smembrato, sottoposto a decine di interventi chirurgici
necessitano di continua manutenzione per modificare
identitas.
Che tutte le identità vadano a farsi fottere!
Scordiamoci che ci sia alcunché da fare, tanto meno
da essere, progettare mondi, sognare mutazioni
della specie in una realtà più reale del reale,
da non saperla distinguere dal reale.
Non c’è bisogno di altra realtà, veramente la realtà
è il nostro unico problema, bisognerebbe infatti
non accedere ad alcuna realtà, ritornare al nulla che fu.
Non riusciamo a evolverci, siamo così, inabili a ogni
palingenesi, razza senescente, beoti hi-tech,
interneticus, oppositori della sola vera forma
d’evoluzione: il blocco del perpetuo circuito.
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Fermate il tracimatore d’amore prezzolato,
bloccate il turpe vanitoso, che crea a sua
immagine e somiglianza, popolando la terra
di fan spocchiosi, sinistri apoplettici,
invertebrati satanisti deboli di mente, dei quali
decreta l’assassinio nascosto in torbida foschia
di sicario schizofrenico.
Egli non è riuscito a concretizzare l’annuncio
del paradisiaco, non ha mantenuto la promessa
del Giardino di Delizia, realtà che invece hanno
saputo cagionare i sensi, pulsioni deliquio
svelano visioni dell’Eden, il coito è l’eucarestia,
la mensa salvifica, cannibale.
Egli resta il più mostruoso manufatto voluto
dal genere umano, pur non essendo mai stato
avvistato da alcuno, presenzia, pervade,
determina la substantia della nostra mente, c’è.
Per suo crudele disegno è già ora di andarmene
e ancora non ho capito se esisto, ogni giorno
infatti chiedo il permesso di circolazione
in quanto presunto.
Forse avevo altre opzioni, ma è andata così,
riesco a vivere privo di visione mistica,
pur mancando di coscienza conservo
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il mio buon umore.
Il torvo Signore ci lascia parola sempre sotto
dettatura, è chiaro che egli non sa scrivere,
quindi si tratta di un analfabeta.
Che ne sa un analfabeta di ciò che è scritto?
Chi l’ha inventato, incrementando il terrorismo,
ha ideato la formula capace di metterlo nel culo
a moltitudini, iniziando dalla più tenera età,
pedofilo con lingua biforcuta nel giro di poker
del bluff metaphysico.
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*
Ho un solo modo per scongiurare imbarazzanti
complicità, vivere da disadattato.
Quale onta reagire, ribattere, quale oscenità
spingersi all’attacco, che mortificazione realizzare
che non puoi stare fermo.
Mi hanno riadattato in politica di riduzione
del danno, privato dell’ora d’aria nel coma
dinamico ambizioso, segregato nel vagone
piombato del pensiero cinereo fidente.
Ho consegnato le mie mani a un portiere di calcio,
affinché dimostri al pubblico degli stadi,
che non si può afferrare ciò che non è mai stato.
Distogliersi dai percorsi obbligati, instaurare
condizioni di precipizio, attraversare padiglioni
itineranti di mente inespiabile, frammenti
di sudditanza scagliati nell’unità di misura
del tempo disciplinato.
Il visibile è la manifestazione del patibolo ritrovato.
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*
Sia lode agli dèi per tanta prodigalità, volgiamo i nostri
deferenti omaggi alle attribuzioni copiose, universali,
di miserie, esse ci significano, sostanziano, prefigurano
finitudine, mostrano che la nostra propensione
alle miserie ci dà qualità, forma, consistenza,
induce a relazioni, fonda comunità, incensano le nostre
potentissime nevrastenie, paradigmi insulsi entro cui
stimarsi occorrenza del fato.
Bassezze irrinunciabili, miserie che accudiscono
neuropatologie disperanti, scongiurano l’abbandono,
colmano d’attenzione, sgretolano i muri d’esclusione,
privi di miserie il nostro volto scompare, lasciati
insostanziali, inorganici, non troviamo destino alcuno
che accarezzi la bragia reietta, renda sopportabile
il collare di pietra dei tumulati.
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*
C’è chi trovandosi lontano dalle bombe ha balenato
stupefacente scoperta, la guerra esiste, allora,
còlti da vigliaccheria, si fa largo in loro l’entusiastica
esaltazione pacifista.
La guerra non ha mai risolto nessun problema.
Impostura!
Solo la mattanza ha determinato qualcosa, inutile
ogni compiacimento, non l’ho voluto io l’uomo.
C’è chi raglia perché si è accorto della povertà,
ma di certo non è disposto a concedere nessuna
quota di benessere personale, nessuno intende
rinunziare ai crassi privilegi, nonostante
si prodighino in ogni sordido imbroglio
per convincerci di voler diventare compassione,
disgustosa prosopopea, psicopatologia dell’opulenza.
Attendo fiducioso che il prossimo lampo rivelatore
confermi loro che esistere non è obbligatorio,
potranno così, in uno slancio d’ammirevole altruismo,
di pietà per la mia fragile capacità misericordiosa,
decidersi a compiere, l’ultimo balzo.
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*
Diffido dei programmi formativi, giudico biasimevole
impegnare la vista sottoponendola a scurrili esercizi
d’investigazione e studio.
Analizzare, indagare, sviscerare, apprendere, possono
condurci a scoprire chi siamo, sicuri che ci convenga?
Decisamente meglio applicarsi con maestria nell’arte
del furto con destrezza, perfezionarsi per fregare
gli allocchi, distinguersi nelle opere speculative
mandando a lavorare gli altri.
Incrocio le carte, lancio i dadi, sarei contento
di tenermi fuori dai pasticci una volta per tutte,
ma finisce sempre così, appena adotto escamotage
non faccio altro che esasperare la mia sorte
di sbranato con mordacchia.
Il pensiero umano è un lungo, tortuoso ricovero
psichiatrico, controllato dai gendarmi evolutivi,
impegnati nella caccia alla preda scettica, guardiani
che hanno sancito la vita bene venerabile,
accusandomi di sabotaggio, lasciando scivolare
nelle mie tasche tre bossoli d’avvertimento.
Non voglio compromissioni con la cultura,
il suo scopo è leccare il culo a speranza,
rendere eterno il disastro.
Pago con l’insania scorgere che non c’è compiutezza
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vivibile dove sedimenta l’intelletto.
Ammattisco nel constatare che finché c’è vita
non c’è speranza.
Mi accorgo che non è questione di quale idea
in particolare, ma che in ogni caso è sempre nocivo
offrire eccellenza all’idea in quanto tale.
Pensare, teorizzare, è sempre ingiurioso, esiziale,
mendace, possiamo enunciare ottimismo, divulgare
pessimismo, farci alfieri del piagnisteo materialista,
oppure farsi irretire da fatalità radiose, vivremo
sempre vessati da torbidi felloni, che accatastano
cadaveri dopo averli gasati d’idealismo.
Possiamo esistere intelligenti o morire scemi,
è lo stesso, la vita, non ha preferenze, non fa caso,
se ne fotte di noi, se ne fotte di ciò che abbiamo
nel cervello, essa ha incontestabilmente cose
più importanti di cui occuparsi che curare
i nostri te deum geriatrici.
Non c’è niente di raffinato nell’esercitare la vita,
la vita è volgare, lercio esercizio di trucidazione,
sconcio madrigale d’avvilimento, poltiglia
neuroanale che rigurgita dal pozzo di chiavica.
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Non ne posso più dell’anima, Ibis Egizia, cardine
intramontabile, basta sovranità Ba, fonte spirituale,
facciamola finita, vi scongiuro, coi morti stesi sul dorso
affinché anima possa volare via dalla bocca, Popol Vuh.
A sentire gli Indiani d’America del Sud, forse potrei
scamparla, per un po’, a loro dire sonno, estasi,
catalessi, provocano temporanea perdita d’anima,
e io, modestamente, quando si tratta di cadere
in catalessi non temo rivali.
Nessuna requie, devo tornare a realtà, riprendermi
dalla pia illusione di farla franca, infatti vengo subito
malmenato da Ubyr, anima dei Tartari del Volga,
che esala dai cadaveri per succhiare sangue
agli esseri addormentati, lugubre fascinazione.
Basta, con la duplice anima cinese: Kuei, desiderio
che rende la vita pesante, e che per tanto resta
sempre nei paraggi, nei dintorni della tomba,
e Shen, particella divina, genio elevato,
insopportabile dualismo yin-yang.
Finiamola con l’anima una volta per tutte, nessuno
può giurare d’averla mai toccata, o dimostrare
d’averla mai posseduta.
Socrate inventa psyché, indica nella cura dell’anima
il primo compito dell’uomo, ma almeno ha il ritegno
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di limitare la frode astenendosi dal riconoscerla
immortale, Platone invece, più presuntuoso
del Maestro, definisce anima simbolo di purezza
e spiritualità, ne conosce pure la provenienza,
il soffio divino, la descrive non avente inizio,
ingenerata, incorporea, immortale.
Come faccia a dirlo con tale sicumera lo sa solo lui,
io ritengo che egli sia la dimostrazione evidente
di come troppo talento possa dare alla testa.
Ognuna delle nostre anime compone l’universale
anima mundi, spappolamento mentale proveniente
da Oriente, Atman, per Platone grande anima,
megàle psyché, qui il lestofante afferma che anima,
calata da dio nel corpo, risulta contaminata
da malvagità intrinseca alla materia stessa.
Così bestemmiando serve su piatto d’argento
aggressioni, rastrellamenti, cervello per cervello,
scatenati dai cristiani che stabilirono, al Concilio
di Efeso, la Condizione Maligna della Carne.
Basta Logos, è ora di finirla, basta anima, terza
ipostasi di Plotino, vi esorto, finiamola,
abbandoniamola sulle autostrade in pasto ai lupi
e agli sciacalli, facciamola finita con l’anima,
panico sgomento del farabutto Senso.
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*
Si può avere la fortuna di nascere pietra, pur tuttavia
è ovvio riconoscere, che miriadi sono le pietre
nel mondo, anche detenere il vanto inestimabile
di essere acqua, ma pure la presenza di questa nobiltà
la si riconosce abbondante nei fiumi, nei mari,
nel fresco nettare di Castalia.
Potresti persino, da dio, incarnarti uomo, nascere
Salvatore, Messia, Profeta, da una virgo intacta,
elargire miracoli, morire crocifisso e resuscitare
per liberare dai peccati gli umani, ma pure codesta
missione è stata affidata numerose volte attraverso
i millenni: Virishna, Beddou, Mitra, Quetzalcoatl,
Sakia, Cadmo, Zoroastro, Osiride, Odino, Quirino,
Gesù, Maometto.
Il solo fatto strabiliante, mai visto nella storia
dell’umanità è capitato a me, sì, a me, proprio a me,
che ho trascorso gran parte dell’esistenza
lamentandomi per la condizione ordinaria, calma
piatta avvilita dalla banalità dell’ordine, conseguenza
straziante del tirare a campare.
Sia chiaro, nessuna leggenda, metafora di perdizione
umana, io e il mio Socio, sin dal primo contatto
con la Roulette e le Carte, abbiamo avuto chiaro
l’intento da perseguire, raccogliere i soldi e fiondarsi
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a spenderli nei lupanari.
Gli dèi pietosi hanno voluto colmarmi, oltre ogni
mio auspicio, attirando su di me l’invidia
di Fëdor Michajlovic Dostoevskij, inginocchiato,
in lacrime, ai piedi della giovane moglie
Anna Grigor’evna, che chiede il denaro sufficiente
per giocare al Casinò.
Egli ha di che lacerarsi nell’incredulità, avendo
avuto dettagliata notizia del mio inimmaginabile
caso unico nella storia dei giocatori: il mio Socio
mette i suoi soldi per giocare, se perdiamo,
perdiamo i suoi soldi, se vinciamo, dividiamo a metà.
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*
Darsana, visione indiana del mondo, non può fare
a meno d’indicarci supposti metodi, pratiche,
formulare significato, non ce l’ha fa a starsene zitta,
a farsi i cazzi suoi, anche lei pretende di dirci
chi siamo, come dobbiamo vivere.
Tutte le volte che si effonde scibile, avanzano teogonie,
conflitti, si scavano trincee, non fanno eccezione
le Upanisad e i Veda, che in evidente paranoia,
hanno brevettato le Quattro Varna: caste che attestano,
senza ipocrisie, la fissazione della razza umana
per l’odio reciproco.
Il tutto è Uno, e Uno è tutto.
Ci serve a stare meglio?
Questi sconvolti vogliono convincermi che soltanto
rinunziando all’io, quindi ottenendo il distacco, potrei
raggiungere liberazione, moska.
Ma per me è vitale non abbandonare l’io, il solo
trauma che mi caratterizza, privato del mio
più acerrimo inimicus, cosa potrei mai essere,
come potrei mai vivere?
Non canto inni Rgveda, non declamo la Sruti,
la rivelazione, contorsioni cerebrali per acquisire
sciocca minuzia: beatitudine.
Senza tante estenuanti nenie spiritiste consiglio
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dei metodi molto più rapidi, efficaci, spararsi LSD 25,
che ha il merito di viaggio assai divertente risultando
nel contempo massimamente cimentoso.
Oppure aderire all’unica beatitudine conosciuta:
la testa tra le cosce di una diciottenne mentre miagola
vogliosa, mi direte, ma è banale, tutti sono stati tra le
gambe di una diciottenne!
Sì, è vero, ma non è detto che tutti abbiano capito
cosa ci stavano a fare.
Nemmeno Siddartha Gotama ce l’ha fatta a trattenersi,
si accanisce contro la donna il misogino razzista,
ritenendola soggetto incompatibile con l’ascesi.
La seduzione che esercita la fica porta all’attaccamento,
alla bramosia, al desiderio, attraverso la donna
instauriamo la perpetua condizione d’incatenare
l’individuo al mondo, quindi al suo dolore, alla torbida
ignoranza, mantenendo in circolo la ruota di rinascite.
Il Risvegliato considera l’unione sessuale la forma
primordiale nella quale più si manifesta la sete di vita,
per cui nega che la donna possa giungere al Nirvana,
almeno che non estingua, dentro di sé, tutto quanto
è femminile, sviluppando al contempo un pensiero
maschile, al fine di poter ottenere il dono
di rinascere uomo.
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Postfazione di Carmine Mangone
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Carmine Mangone
L’amore del possibile e l’odio della poesia
a Dino e a tutti i
“vandali coltivatori di rose”
I
Conobbi Dino diversi anni fa, incappando sul web in un
suo progetto poetico-musicale intitolato a Maldoror, il
protagonista della saga lautréamontiana, nostra comune
passione, ed ebbi poi l’immenso piacere di ospitarlo per
qualche giorno nella mia dimora fiorentina di allora.
Inutile aggiungere che siamo diventati da subito
dei grandi amici. E qui parlo di un’amicizia elettiva,
folgorante, che non è mai stata in discussione, malgrado
le centinaia di chilometri che si frappongono e la durezza
della vita di entrambi.
Parlo quindi di Dino con una parzialità che potrà
apparire sfacciata, quasi disturbante; ma io non faccio
critica letteraria per dovere, né mi perdo in sterili
intellettualismi allorché si tratti di amicizia o amore.
Se mi guardo indietro, e penso a ciò che è stata la mia vita,
non ho alcun dubbio: grazie a certi incontri “capitali”,
quando cioè m’è capitato d’incrociare e riconoscere i
miei veri simili, la mia idea di poesia si è come realizzata,
come concretizzata nell’unione egoistica che conduceva
al godimento di me stesso e della bellezza degli altri,
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diventando così l’intelligenza della carne, della materia
viva che affidavamo al mondo.
Al di là di questo, la parte residuale della poesia, vale
a dire la poesia scritta, è composta solo da parole che
tentano di rilanciare l’avventura e l’esperienza del
vivere aggrappandosi al puerile bisogno di una durata.
Inutile nascondersi dietro un dito.
Nel nostro caso specifico, io e Dino siamo “simili” nella
stessa fondamentale abiura di un mondo – un mondo che
tenta di ghermirci e che noi non riconosciamo. Però con
una differenza sostanziale: lui ha perso ogni speranza
di accomodarsi più o meno fortuitamente accanto agli
altri – e lo dice con un’ironia che ti irrita, che a volte
te lo fa quasi detestare – mentre io credo ancora che ci
siano margini per costruire una comunità, un “branco”,
un’associazione umana da opporre all’esistenza
banalizzata e ai poteri che ci stritolano. Ciononostante,
benché le nostre rispettive Weltanschauungen possano
divergere in diversi punti, io e il mio amico ci portiamo
in giro un ghigno sornione e una tenerezza “virile” che
ci legano al di là di ogni parola. E son sicuro che nessuno
mai potrà ingarbugliare i nostri percorsi, per il semplice
motivo che noi non abbiamo più strade maestre – e forse
mai le abbiamo avute.
La scrittura di Dino è disarmante, netta, senza carità, con
quel pizzico di retorica beffarda e autocompiacente che
può irritare i più, ma che rimane come un suo marchio
distintivo, forte, ineludibile.
I suoi testi hanno infatti un timbro inconfondibile:
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è come se qualcuno avesse messo in una betoniera i
Sillogismi dell’amarezza di Cioran, le Poesie di Isidore
Ducasse, qualche testo punk e frammenti di dialogo
tratti da B-movie americani.
Eppure, non fatevi ingannare dal tono esacerbato di
certi passaggi. Cataldo Dino Meo è un vero dandy, uno
dei pochi esseri che per me oggi incarnano la poesia,
un uomo irrimediabile, sempre nerovestito ed elegante,
anche nel bel mezzo di quelle ordinarie apocalissi
quotidiane che fanno la vita degli uomini civilizzati.
D’altronde, come giustamente prescriveva suo padre,
citato in un testo di Nihil: «morto per morto, mi
raccomando, sempre ben pettinato».
II
Non è affatto un esercizio azzardato, né tanto meno
lezioso, criticare radicalmente la poesia, benché ci
sia la diffusa credenza, tra i letterati, che la poesia
basti a se stessa e che quindi si possa solo falsificarla
interpretandola o ponendola di fronte alle sue
contraddizioni.
Beninteso, io non riduco l’idea e la pratica della poesia
all’interno dell’omonimo genere letterario.
La poesia storicamente determinata, a partire dal
superamento della tradizione orale, si può definire
come l’organizzazione delle parole, della loro origine
e del loro fine dentro una cornice estetica – fondata
sulla valorizzazione delle forme – che ne fissa il
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senso separandolo dal flusso della vita quotidiana e
liquidando (o rinnovando) i luoghi comuni sociali senza
necessariamente superarli nella realtà di chi produce o
consuma elementi poetici.
La critica radicale della poesia non è una forma
particolare di letteratura, né tanto meno si risolve in
una teoria o si limita ad essa. Una tale critica prepara
semmai la fine della poesia e inizia là dove la poesia si
arresta in quanto dimensione separata, esistente solo a
parole.
Se partiamo da un’idea di poesia come collante o
detonatore delle possibili bellezze del mondo, bisogna
ammettere che la poesia dei letterati non unisce gli
uomini, se non in modo fittizio e banalmente culturale,
separando in realtà la parola poetica da un mondo di
relazioni sociali che ha davvero ben poco di poetico.
Mostrare il movimento della poesia – all’opera nello
sviluppo storico dell’umanità – ci porta dunque ad
evidenziarne la progressiva fuga da questo mondo e,
allo stesso tempo, ad escogitare nuove situazioni per
restituirlo concretamente alla bellezza ancora possibile
dei rapporti.
Qui non si nega certo che la poesia – in quanto pratica
separata o mero genere letterario – possa ancora
scatenare un brivido, una sensazione di apertura
sovrana sull’esistente, ma questo avviene solo in ciò
che la nostra vita e il mondo hanno di manchevole, di
perduto, di non ancora vissuto.
La poesia come genere letterario è una forma del mistero
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– e si rivela parte integrante di un sistema che alimenta
o ridefinisce il mistero mantenendolo al di sopra degli
uomini.
Il mistero è una lacuna, un deficit nella nostra capacità di
vivere e pensare il mondo; genera l’impotenza, la paura,
il sacro, la fede, la progressiva inabilità a riconoscere le
manifestazioni autentiche dei viventi. Il mistero è la
merce, il denaro, l’ombra di un Dio licenziato da tempo
e che ormai lavora in nero per potersi permettere almeno
un finto paradiso a prezzi da discount.
In un contesto socio-culturale che la riproduce ai
margini dell’esistente proprio a partire dalla sua stessa
marginalità autoreferenziale, la poesia è e rimane
insufficiente finché si limita a imbellettare – e a tollerare
– le sufficienze di coloro che la relegano in un mero
genere letterario per paura che tutto il mondo possa
diventare improvvisamente poetico e rivoltarsi contro
di loro.
In effetti, se si risolvesse il “mistero”, l’unità fittizia
del mondo andrebbe in frantumi, e ogni momento,
ogni piano del mondo assumerebbe un’importanza
essenziale e si vivrebbe infine per ciò che è: rilegatura e
bellezza possibile dell’umano, nonché pratica condivisa
della bellezza, a tu per tu con la singolarità dei viventi,
volontà contro volontà (per dirla con Stirner), e
ricostituendo potentemente l’immediatezza del vivere.
Insomma, la poesia è un’attività particolare dell’uomo,
ma l’uomo non è un’attività particolare della poesia.
Non si può confondere l’aratro con la mano di chi ara,
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né credere di poter ovviare alle mancanze dell’uomo
organizzandole o dicendole in un modo diverso.
L’organizzazione delle parole è fondamentale, certo, ma
le fondamenta dell’edificio sono ben più complesse dei
tanti castelli di parole che se ne diramano. Tali fondazioni
sono gettate sull’esperienza umana della realtà –
esperienza che produce anche le parole e che spesso,
paradossalmente, viene elusa proprio da queste.
Appare chiaro di come la poesia, in quanto ambito
separato, vada oltrepassata, realizzata nel suo stesso
annientamento. Occorre tornare all’oralità; risparmiare
carta, alberi; riscoprire le voci al di qua del Libro;
parlarsi addosso, leccarsi, urlarsi contro, spidocchiare
ogni aggettivo superfluo. Rimbaud è morto per i suoi
peccati, non per i nostri. Bisogna ricominciare da dove
si sono fermate le avanguardie estetiche e sovversive del
Novecento (Dada, surrealisti, situazionisti) rifondando
in senso libertario le loro pratiche dell’intesa, dell’amore,
dell’insorgenza. Bisogna costruire comunità amorose,
combattenti, ingovernabili – come culmini possibili della
migliore umanità –, a partire dalle ceneri della poesia,
e per farla rinascere in quanto volontà unica, comune e
irrimediabile dentro il mondo che fluisce con noi.
L’alternativa, una volta di più, è tra chi difende
questo mondo, facendosi paladino dei suoi dettagli
insignificanti (per quanto lucrosi), e chi si muove invece
nel flusso degli eventi e delle parole per cercare di
sovvertire la banalità dell’esistente, o per separarsene
drasticamente.
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PRODUZIONI
VIDEO - RECORD - BOOK
NOTE DVD
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L’UOMO, L’UOMO, L’UOMO
...il solo interessato all’uomo e l’uomo,
il raggiante omicida imploso per correità col superfluo.
A Emil M. Cioran
Testo e voce
Cataldo Dino Meo
Performer
Luca Bergamo, Cameron Angelo
Kozak, Cataldo Dino Meo
Musica
Arasonus
Operatori video
Luigi Dragone, Roberto Contini,
Gino Ginelli, Piernicola Rigoldi,
Antonio Meo
Registrazione audio
Marco Castiglioni
Spazio Monica Artifoni, Pianengo (CR)
Photo
Roberta Meo
Organizzazione set
Alberto Bruschieri, Piernicola Rigoldi
Ringraziamenti
Monica Artifoni, Pina Iacovino,
Eleonora Trimboli, Cosimo Massafra
L’opera pittorica “Cuore” è di Piernicola Rigoldi
Regia
Milano, 2013
Antonio Meo
Testo pag. 29
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GENTILUOMO
Non siamo condannati all’amore, possiamo vivere senza,
così com’è possibile spassarsela molto bene anche senza dio.
Testo e voce
Cataldo Dino Meo
Musica
Arasonus
Performer
Ginevra Sanguigno,WilmaZamboli,
Roberta Meo, Miriam Rocchetta
Registrazione audio
Marco Castiglioni
Regia
Antonio Meo
Milano, 2011
Testo pag. 16
124
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OSSESSIONE
Non ce la faccio a vivere senza Ossessione,
mi è insopportabile l’assenza di psicosi...
Testo e voce
Cataldo Dino Meo
Musica
Arasonus
Registrazione audio
Marco Castiglioni
Regia
Antonio Meo
Si ringrazia per i contributi visivi
Thank you for the various visual contributions
Milano, 2011
Testo pag. 17
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INDIVISIBILE MELANCONIA
...fierezza errabonda e scura del gelido fuoco...
congiunzione incendiaria di labbra d’estasi.
Testo e voce
Cataldo Dino Meo
Performer
Monica Artifoni
Musica
Raffaele serra
Regia
Antonio Meo
Milano, 2001
Testo pag. 27
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COMANDAMENTO
Sì, io vivo nel regno dello stupendamente inutile,
sì, è lì che risulto formidabile.
Testo e voce
Cataldo Dino Meo
Maschera
Antonio Meo
Musica
Arasonus
Ospedale psichiatrico Giuseppe Antonini,
ex manicomio Mombello, Limbiate, Milano
Riprese maschera
Alberto Carcangiu
Registrazione audio
Marco Castiglioni
Regia
Antonio Meo
Milano, 2012
Testo pag. 41
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TENTAZIONI
Ho una sola chance alla nausea, che le tentazioni mi perseguitino.
Ad Andrea Tait, Dioniso.
Testo e voce
Cataldo Dino Meo
Musica
Arasonus
Performer
Clare Ann Matz, Andrea Tait,
Cataldo Dino Meo
Riprese video
Alberto Carcangiu, Luigi Dragone,
Antonio Meo
Registrazione audio
Marco Castiglioni
Regia
Antonio Meo
Ringraziamenti Studio Fotografico Emanuele Iuculano
Wicked in flight high speed camera. Amazing slow motion camera.
Milano, 2012
Testo pag. 32
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SPLENDIDUM VITIUM
Non ho una ragione per esistere,
ci pensa il corpo a farmi riprendere i contatti...
Testo e voce
Cataldo Dino Meo
Musica
Raffaele Serra
Photo
Pietro Borsi
Regia
Antonio Meo
Milano, 2000
Testo pag. 40
129
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CARAVAGGIO
...arrogante, rissoso, sempre pronto a insultare,
aggredire, barbaro visionario della Luce Tagliente.
Testo e voce
Cataldo Dino Meo
Musica
Raffaele Serra
CHICAGO
Thanks to
Roberta Meo, Cameron Angelo
Kozak, Family Williams,
Taylor and Kelsey KozaK
Regia
Antonio Meo
Milano, 2004
Testo pag. 59
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BONUS
VOGLIO UCCIDERE
Voglio uccidere, uccidere, per sapere se esisto realmente.
Premio film-maker, Milano, 1982.
Testo e voce
Cataldo Dino Meo
Musica e cori
Giancarlo Sessa
Riprese 8 mm
Raffaele Schito
Reloaded
Antonio Meo
Photo
Pietro Borsi
Regia
Raffaele Schito
Quarto Oggiaro
Produzione Maldoror
Milano, 1982
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INDICE
NIHIL
5 - 107
POSTFAZIONE di Carmine Mangone
113 - 118
NIHIL Note DVD
123 - 131
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