Seminari Dottorato Palombi 2

Fantomachie. Jacques Derrida
e la spettralità del reale
Fabrizio Palombi
Un fantasma è la memoria di quello che non si è mai vissuto
al presente, […] che non ha mai avuto la forma della presenza.
Il cinema è una “fantomachia”.
Jacques Derrida
Nel lessico filosofico la parola “reale” è un sostantivo o un aggettivo
di valore ontologico attorno alla quale si sono combattute dure battaglie
metafisiche che hanno conosciuto fasi molto diverse. Nel Novecento, in
particolare, la fenomenologia ha contribuito a spostare il terreno dello scontro sul reale dal problema dell’esistenza degli enti verso quello delle loro
specifiche modalità d’essere. Successivamente la psicoanalisi lacaniana ha
investito il reale di un’ulteriore accezione sostantivale per indicare uno dei
registri che, insieme al simbolico e all’immaginario, costituiscono una sorta
di terza topica della psiche sovrapposta a quelle freudiane.
È curioso che Jacques Derrida, profondamente influenzato dalla fenomenologia e lettore critico di Lacan, non abbia trattato tematicamente il
problema del reale. Non intendiamo proporre un’eziologia filosofica di
questo sintomo teorico ma solo partire dalla sua constatazione per saggiare
alcuni abbozzi di riflessione derridiana sul termine. Limiteremo la nostra
indagine a Spettri di Marx, Ecografie della televisione e a Il cinema e i
suoi fantasmi nei quali sono contenuti alcune interessanti occorrenze della
parola «reale» frequentemente associate, quasi sempre in forma aggettivale,
a «spettro». Evidenziamo sin d’ora che questo diverso uso grammaticale
marca anche il diverso spessore della riflessione derridiana sul reale rispetto
a quella lacaniana poiché nel primo caso siamo innanzi a un’interessante
potenzialità da sviluppare mentre, nel secondo, a un architrave della teoria
psicoanalitica.
In seguito proveremo a collegare questa ricerca con l’analisi filosofica
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del cinema, della televisione e, in generale, degli strumenti di registrazione
audiovisiva che Derrida definisce spettrali.
Il complesso di Marcello
La pratica decostruttiva derridiana spesso si avvale di neologismi e neografismi per produrre situazioni o esperienze irriducibili alle categorie della
metafisica come esemplifica una delle sue trovate più famose costituita dalla
différance che ritroviamo anche in Spettri di Marx1. Derrida, nel medesimo
testo, ricorre al «complesso di Marcello» per riproporre un’analoga strategia
usando un particolare contesto letterario2. Questa definizione, dotata di vago
significato psicoanalitico, s’ispira al nome di uno dei membri della guardia
reale dell’Amleto shakespeariano che, incapace di parlare allo spettro del
sovrano ucciso, chiede aiuto a uno degli amici del principe danese chiedendogli: «Thou art a Scholler; speake to it Horatio»3.
Nemmeno Orazio ha più fortuna: è uno «scholar tradizionale», formatosi
all’Università di Wittenberg, incapace di comunicare con gli spettri perché
condizionato dalla metafisica e dal lungo elenco delle sue tradizionali opposizioni tra le quali la prima è costituita proprio dalla «distinzione netta tra
il reale e il non-reale». Si tratta di una delle poche occorrenze sostantivali
del termine che viene strettamente associato ad altre coppie teoriche quali
«il vero e il non-vero, l’essere e il non-essere»4. Nelle intenzioni di Derrida
questo particolare passo dell’Amleto dovrebbe fornire una messa in scena
teatrale del fallimento degli approcci metafisici innanzi a un’apparizione
spettrale.
Fenomenologia dello spettro
Nella riflessione del filosofo francese “spettro” e “fantasma” sono
esaminati sullo sfondo della sua critica decostruttiva alla metafisica della
presenza che correla i due concetti senza tuttavia identificarli. È bene definire la relazione tra questi due termini e i loro sinonimi che sono dotati
1 J. Derrida, J. Derrida, La différance, in Id., Margini della filosofia, tr. it., Einaudi, Torino
1997, pp. 25-57.
2 Ivi, p. 20.
3 Amleto, atto primo, scena prima; cfr. J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 20.
4 Ivi, p. 20, corsivi nostri.
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di significati articolati nel lessico derridiano. La parola francese spectre
deriva, come quella italiana, dal latino spectrum, costituito dalla radice
del verbo specere, con significato di “vedere” o “guardare”, e possiede, in
entrambe le lingue, una vasta area semantica entro la quale può indicare
sia l’apparizione spaventosa di un morto sia concetti scientifici. Il termine
può essere tradotto anche con “simulacro” come fa la psicopatologia per
coniare il termine spettrofobia che classifica la paura patologica di alcuni
soggetti per gli specchi e la propria immagine riflessa.
Derrida recepisce la polisemia dello spettro per trasformare questa parola
in una sorta di “strumento per vedere” come si evince anche da un paragrafo,
intitolato “Spettrografie”, che evoca sia una tecnica d’indagine, sia la sua
ricerca filosofica sulla scrittura5. Valorizzeremo questa interpretazione dello
spettro come strumento concettuale, o concetto strumentale, per vedere e
decostruire alcuni elementi della tradizione filosofica nel contesto della
contemporanea società delle immagini.
La retorica derridiana adombra l’accezione fisica di spettro e, in particolare, la decomposizione di un’onda nelle sue componenti, quando lo definisce
come «la frequenza di una certa visibilità» caratterizzata da un «ritmo»6.
Queste accezioni si riverberano sull’uso comune del termine che indica un
campo d’applicazione e una gamma di opzioni articolate, che permettono di
definirlo come «possibilità»7. I suoi sinonimi, dotati di differenti sfumature
di significato, sono apparizione, fantasma e revenant. Il primo è usato nel
senso di «visione» e, talvolta, è proposto con il prefisso ri- per evidenziare
che la «prima apparizione» segna già una forma di «ripetizione»8 e che
esso è associato al problema dell’origine, a lungo investigato da Derrida9.
Il fantasma indica una creazione bizzarra della fantasia, sia nel linguaggio comune sia in quello psicoanalitico10, ma, nel lessico derridiano, la sua
importanza è legata all’etimologia: il sostantivo greco phantasma, «figura»
e «visione», è da ricondurre al «phainesthai» e alla «fenomenalità»11. In
questo passo l’analisi del fantasma incrocia la ricerca fenomenologica heiJ. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1997,
p. 127.
6 J. Derrida, Spettri di Marx, cit., pp. 129, 137, corsivo dell’autore.
7 Ivi, p. 21.
8 Ivi, p. 19.
9 J. Derrida, La scrittura e la differenza, tr. it., Einaudi, Torino 2002, p. 320.
10 Cfr. J. Laplanche, J. B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, tr. it., Laterza, RomaBari 1968, vol. I, pp. 180-186.
11 J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, cit., p. 131.
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deggeriana in un celeberrimo paragrafo di Essere e tempo che, sebbene non
citato nei testi considerati, ricostruisce alcuni aspetti della stessa etimologia
per evidenziare la relazione del “fenomeno” con la “luce”12.
Questo richiamo potrebbe servire a comprendere come Derrida intenda
proporre «una logica […] del phantasma» affermando temerariamente che
«ogni fenomenologia» riguarderebbe, in qualche modo, lo spettro13. Husserl
e Heidegger sono evocati per trattare in modo raffinato la questione del reale
e illustrare il possibile «effetto di un trattamento ontologico della spettralità
del fantasma» che sia irriducibile alle opposizioni concettuali tra presenza
e assenza, visibile e invisibile, vivente e morto14.
Il tempo del revenant
In una lunga nota di Spettri di Marx il revenant, che lasciamo in francese per
evidenziare il suo «essenziale riferimento alla ripetizione e al ritorno»15, viene
proposto come un elemento fondamentale della «logica della spettralità»16.
Usiamo la frequenza con la quale il revenant ritorna per interpretare uno snodo
particolarmente difficile della riflessione derridiana sulla temporalità che è
costituito dalla «anacronia ritmata»17. Sono i brani nei quali Derrida esamina
l’«effetto visiera» che consente al fantasma del Re di vedere «senza essere
visto», attraverso l’elmo della sua armatura, e costringe Orazio a riconoscerlo
indirettamente per mezzo del suo portamento18. La possibilità di capire come
una relazione di sguardi asimmetrici possa richiamare un’anacronia dotata di
un ritmo potrebbe essere mediata dall’interpretazione ebraica della temporalità che è rovesciata rispetto a quella consueta19. Solitamente raffiguriamo il
tempo come un campo visivo con il futuro dispiegato innanzi ai nostri occhi
e il passato posto alle nostre spalle mentre, nella tradizione ebraica, queste
posizioni sono scambiate. Il futuro è collocato alle nostre terga, in una prospettiva nascosta alla vista, perché non pre-vedibile, caratterizzato da una
M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it., Longanesi, Milano 1976, p. 47.
J. Derrida, Spettri di Marx, cit., pp. 159, 169.
14 Ivi, p. 118, e J. Derrida, Artefattualità, in J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, cit., pp. 24, 27.
15 Ivi, pp. 11, 221 n.1 e 185 n. 5.
16 J. Derrida, Spettri di Marx, cit., pp. 222-223.
17 Ivi, pp. 142-143.
18 Ivi, pp. 14-16 e cfr. pp. 128-129, 136, 144, 161, 176, 193.
19 J. Derrida, Artefattualità, cit., p. 10.
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funzione propulsiva che motiva le nostre azioni, e il passato anteriormente,
in una regione visibile alla memoria.
Questa interpretazione della temporalità trova una sua prima giustificazione nella complessa coniugazione dei verbi nella lingua ebraica e
nell’etimologia dell’avverbio ebraico lephanim, che può essere tradotto
dai termini italiani “davanti”, “prima” e “passato”20 . Un altro interessante
accostamento è costituito da una citazione heideggeriana, proposta da
Stiegler per valorizzare la relazione tra revenant e Dasein, secondo la quale
«il passato dell’Esserci, che sta sempre a significare il passato della “sua”
generazione, non segue l’Esserci ma lo precede sempre»21. Ritroviamo questi
riferimenti culturali anche nella complicata prognosi derridiana sull’evoluzione del marxismo che propone il suo spettro come esempio storico di
«anacronia ritmata»22.
Spettri mediatici
Derrida evidenzia l’importanza di un’interpretazione spettrale delle immagini e, in particolare, di quelle cinematografiche e televisive23,
quando prende le distanze dalla moda d’interpretarle come «qualcosa di
rappresentabile»24 che ignora l’eredità della riflessione heideggeriana sulla
semplice presenza e la morte. Alcuni tradizionali temi derridiani sono ripresi
e generalizzati per constatare che ogni tipo d’archivio audiovisivo è «una
sorta di pompa funebre che registra […] dei momenti di cui si sa a priori
che […] resteranno “viventi” […]: restituzione come “presente vivente” di
ciò che è morto»25.
La struttura chiasmatica degli audiovisivi produce uno scambio incrociato
del presente con il passato caratteristico della «esperienza della morte»26 e
della spettralità. Tutte le forme della registrazione provocano un peculiare
effetto sull’orizzonte temporale che oblitera il presente e la sincronicità per
S. Facioni, Per un approccio ebraico all’innominabile nome di Dio, in AA.VV., Filosofia &
Linguaggio in Italia, Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria, Rende 2002, p. 280.
21 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 38; cfr. J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della
televisione, cit., pp. 146, 191, n. 11.
22 J. Derrida, Spettri di Marx, cit., pp. 5-6.
23 Id., Il cinema e i suoi fantasmi, tr. it., in “aut aut”, n. 309 (2002), p. 55.
24 J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, cit., p. 137.
25 Ivi, pp. 42-43.
26 Ivi, p. 117.
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produrre un’esperienza temporale paradossale e, per così dire, contemporaneamente, anticipata e ritardata. Così i moderni strumenti di registrazione
mostrerebbero «come il nostro presente vivente si divida in se stesso»27.
Il presente, da un lato, è generato come passato perché ogni registrazione
audiovisiva contempla un differimento riguardante l’inquadratura e una
qualche forma di regia che è ineliminabile, seppure in forma minimale e
inconsapevole. A tale fenomeno non si sottrae nemmeno la “diretta” televisiva che è impossibile in senso assoluto perché è sempre il frutto di un
sofisticato differimento28.
Dall’altro lato, tuttavia, la registrazione proietta il presente in un «futuro anteriore» nel quale l’attualità sarà riprodotta e ricostituita, in forma di
memoria che si propone «come a venire». Lo «stesso movimento» crea un
«effetto di orizzonte» che contemporaneamente apre e chiude l’avvenire
producendo l’esperienza aporetica di un evento che è registrato dalla telecamera come qualcosa di «già accaduto»29.
Per comprendere l’argomentazione derridiana è utile ripensare alle
trasmissioni in diretta di grandi eventi mediatici ai quali si assiste con la
passione dell’attualità e con l’oggettività di un testo di storia: lo spettatore
della caduta del muro di Berlino oppure di un’olimpiade assiste non solo
all’evento in diretta televisiva ma anche a quello della sua archiviazione.
L’analisi della struttura della temporalità, prima necessariamente delegata
a sofisticate analisi filosofiche o letterarie, ora si esplica nella quotidianità
televisiva30.
Pensiamo, inoltre, alla sempre più diffusa pratica delle riprese audiovisive realizzate con i telefoni cellulari e la loro diffusione attraverso i social
network che era praticamente sconosciuta quando Derrida scriveva i testi
che stiamo considerando. Tali strumenti condizionano le relazioni interpersonali e moltiplicano i fenomeni spettrali al punto che molti aspetti della vita
vengono quasi totalmente filtrati e riprodotti in un’esistenza in differita. Una
simile «riproducibilità tecnica straordinariamente estesa serve a mimare il
flusso vivente»31 e propone una singolare analogia con lo spettro che imita
la vita e alcuni dei suoi momenti fondamentali32.
Ivi, pp. 56, 118.
Ivi, p. 43.
29 Ivi, p. 117.
30 Ivi, p. 144.
31 Ivi, p. 99.
32 J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, cit., p. 107 e J. Derrida, Il cinema e i
suoi fantasmi, cit., p. 55.
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Ricostruendo il contesto della riflessione di Derrida su questi temi non
si deve trascurare che essa è fortemente influenzata non solo dalla lettura di
Benjamin e Barthes ma anche dai suoi personali trascorsi cinematografici.
Infatti, il filosofo francese ha interpretato se stesso in tre film rispettivamente
intitolati Ghost dance (Mc Mullen, 1983), D’ailleurs Derrida (Fathy, 1999)
e Derrida (Kofman, Dick, 2002)33.
La prima esperienza, sebbene molto limitata e parziale, è stata particolarmente importante sul piano esistenziale per la scena nella quale il filosofo
francese colloquia con Pascale Ogier, una giovane attrice francese morta
l’anno successivo all’uscita del film, e da cui abbiamo estrapolato l’esergo
di questo contributo. Ecografie della televisione ritorna su questa sequenza
che è stata realizzata come un’improvvisazione basata su una sola battuta,
imposta dal regista, che Derrida rivolge alla Ogier: «E lei allora, ci crede
ai fantasmi?». Il filosofo francese descrive il turbamento provato quando,
rivedendo il film, l’attrice, già morta, gli risponde dallo schermo dicendo:
«Sì, adesso sì»34. In questo contesto biografico la parola «adesso» fornisce
un esempio illuminante della natura spettrale del cinema e ci propone il
problema di comprendere filosoficamente l’avverbio pronunciato dalla
Ogier. Quell’«adesso» si trova nel fulcro dell’inquietante esperienza della
temporalità cinematografica e del suo chiasmo mortale che trasforma gli
attori ripresi dalla cinepresa in revenant. Una spettralità che non è efficace solo après-coup, dopo la scomparsa dell’attrice e la distribuzione del
film, ma è già operante durante le riprese nella consapevolezza che le sue
immagini potranno essere riprodotte in assenza dei soggetti ripresi, anche
dopo la loro morte35.
Il fuoco teorico del nostro tentativo di esplicitare un’analisi derridiana
della «spettralità del reale» si trova in una pagina nella quale si ritorna sul
mancato incontro degli sguardi della Ogier, ormai morta, e di Derrida che si
staglia sullo sfondo dello schermo cinematografico. Una simile esperienza
mostrerebbe che «la parola “reale” […] significa l’irriducibile singolarità
dell’altro in quanto […] apre un mondo, […] con lo sguardo dell’altro,
implica una spettralità»36.
Si tratta di uno dei pochi brani dove Derrida pone, direttamente ed
esplicitamente, in relazione il reale e la spettralità e che proponiamo d’interpretare come una sorta di corollario dell’«effetto visiera» e della sua
33 34 35 36 Ivi, pp. 55-57, 63-65.
J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, cit., p. 129.
Ivi, pp. 131, 134.
Ivi, p. 134.
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anacronistica temporalità. La citazione è molto importante perché evidenzia
come l’impossibilità dell’incontro degli sguardi dei protagonisti e dello
spettatore, ovvero il loro carattere asimmetrico, sia strettamente correlato
all’anacronia strutturale delle immagini. Inoltre, dobbiamo segnalare come
essa segni anche la mancanza di una nozione influente di spettralità del
reale nella produzione derridiana che costituisce una sorta di spettro dello
spettro ovvero di potenzialità che, proprio per questo, appartiene all’eredità
del pensiero decostruttivo.
Inquadrature
La nostra riflessione sugli spettri mediatici è stata delineata attraverso due
percorsi autonomi: uno riguardante il processo onnipervasivo dell’archiviazione audiovisiva e, l’altro, caratteristico del processo di spettralizzazione
di ogni fotogramma intrecciato alla vicenda di Ghost Dance.
Vorremmo concludere ipotizzando come questi itinerari possano raccordarsi in un tema costituito dal concetto derridiano di cadre che troviamo già
ne Il fattore della verità, un testo degli anni Settanta, dove si esamina un
celebre seminario di Lacan dedicato a La lettera rubata di Poe37. Il termine in
francese significa “quadro” e “cornice”, con particolare riferimento al lessico
della fotografia e della cinematografia, e da esso deriva la parola cadrage
nell’accezione tecnica di “inquadratura”38. La posta del testo derridiano è
costituita dall’interpretazione del percorso della lettera rubata che Lacan
aveva scomposto e rimontato in una struttura di cornici narrative per dimostrare che essa «arriva sempre a destinazione»39. Derrida svela il montaggio
lacaniano, lo decostruisce e ne propone uno alternativo per mostrare che una
lettera è tale solo se essa ha la possibilità di non giungere a destinazione40.
Il lavoro testuale derridiano possiede analogie con le tecniche del montaggio cinematografico che la scelta del termine cadre e il suo linguaggio
allusivo tendono deliberatamente a evidenziare. Gli «effetti di cornice»,
usati per decifrare la narrazione di Poe e smontare l’interpretazione lacaniana, li ritroviamo in Ecografie della televisione dove si sostiene che la
trasmissione di immagini e filmati sia necessariamente il frutto di «scelte,
inquadrature, selettività» e per questo costituisca una forma di produzione
37 38 39 40 212
J. Lacan, Scritti, tr. it., Einaudi, Torino 1974, pp. 7-58.
J. Derrida, Il fattore della verità, tr. it., Adelphi, Milano 1978, p. 127, n. 10 del traduttore.
J. Lacan, Scritti, cit. p. 38.
J. Derrida, Il fattore della verità, cit., p. 59.
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Fantomachie. Jacques Derrida e la spettralità del reale
piuttosto che una «riproduzione fedele»41. Non s’intende criticare la mancanza di oggettività ma, piuttosto, evidenziare la funzione fondamentale
dell’inquadratura come condizione di possibilità di immagini e filmati e
la cooriginarietà di produzione e riproduzione sintetizzata nel neologismo
della «artefattualità»42. Così il «montaggio di elementi discreti» diventa il
generalissimo minimo comun denominatore tra scrittura e riproduzione
audiovisiva, archiviazione e spettralità, vita e morte, per richiamare la riflessione derridiana sulla différance43.
Le immagini cinematografiche e televisive appaiono caratterizzate, in
massimo grado, da quel carattere testamentario che Derrida aveva già individuato nella scrittura. Per questo il cinema consente di coltivare […] degli
“innesti” di spettralità, cioè iscrive delle tracce di fantasmi su una trama
generale, […] la pellicola proiettata, essa stessa un fantasma […]. Memoria
spettrale, il cinema è un lutto perfetto, è l’esaltazione del lavoro del lutto
[…]. Esso ci racconta ciò da cui non si torna […] la morte44.
41 42 43 44 Ivi, p. 58 e J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, cit., p. 43, corsivo nostro.
Ivi, cit., pp. 45, 54.
Ivi, pp. 64, 120.
J. Derrida, Il cinema e i suoi fantasmi, cit., pp. 57-60.
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