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ENOGEA - II SERIE - N. 50
Un bianco
per l’estate
di Giampaolo Gravina
...o quel che ne resta!
tra galline fischione e guerce, in un cortocircuito di
assaggi sudisti (e sudati), il resoconto sgangherato
dell’estate di
Giampòl, l’ennesima in bianco.
La gallina fischiona
Che estate sarebbe, senza riviste? Non
so voi, ma a me d’estate se non mi
capita di restare intrappolato nella lettura di qualche rivista, vecchia o nuova
che sia, purché un po’ stravagante,
non mi sembra una vera estate. Mi
illudo che almeno in parte sappiate di
cosa sto parlando, dal momento che
avete per le mani Enogea e magari
siete già schizzati all’ultima pagina, per
compulsare le più recenti disavventure
del prode Persichetti. Ma io posso spingermi anche oltre. E quello che vado
cercando d’estate nelle riviste, alle volte
sono certe stravaganze che al confronto
Persichetti e il suo on the road rischiano
perfino di apparire come storie prevedibili, robetta di pretura.
Prendiamo ad esempio l’Accalappiacani: quest’estate la mia rivista è stata
l’Accalappiacani, un “settemestrale
di letteratura comparata al nulla”, di
cui purtroppo sono usciti solo cinque
numeri e poi, da un paio d’anni, se ne
sono perse le tracce. In particolare, nel
numero 4 dell’Accalappiacani mi sono
appassionato alla lettura della ritraduzione in italiano di quella storia a fumetti
in cui Braccio di Ferro compare per la
prima volta: Bernice la gallina fischiona
(Whiffle hen, conosciuta fin qui come
La gallina sbuffante) pubblicato da E.C.
Segar alla fine degli anni Venti.
Io non lo sapevo, ma pare che Braccio di
Ferro nell’originale americano – almeno
fin quando fu disegnato e animato da
Segar, che è morto nel 1938 – parlasse una lingua difficilissima da tradurre,
deliberatamente sgrammaticata e con
una sua valenza per così dire sperimentale. Una lingua strampalata ma piena di
invenzioni e come ispirata a una sorta
di raffinata cialtroneria, che i suoi allievi
non hanno saputo riprodurre e che è
andata del tutto persa nelle traduzioni in
italiano, dove Braccio di Ferro resta per
lo più schiacciato sui cliché linguistici di
un fumetto per bambini.
Ecco, c’è voluta la sensibilità di uno scrittore come Daniele Benati – uno che ha
tradotto Joyce, tanto per intenderci – per
restituire al Popeye degli esordi il piglio
surreale e stralunato, lo spaesamento
delle ellissi, le impennate dei non-sense
e delle iperboli che ne vitalizzano l’impasto linguistico originario. Perché se
lo osserviamo in questa prospettiva,
Braccio di Ferro è un po’ come l’Ulisse
di Joyce, nasce cioè per un pubblico
adulto, ma disponibile a una sorta di
“smaliziata” regressione infantile, a un
continuo cortocircuito tra pancia e cervello. Che poi è il modo migliore per
godersene appieno tutta la spiazzante
comicità.
Inutile dire che a me questa gallina
fischiona mi ha fatto piegare dal ridere.
E l’ho subito collocata sul podio ideale
delle mie galline preferite, accanto alla
gallina di Cochi e Renato – che «solo di
piume è ricoperta e sta sempre rinchiusa
all’aria aperta» – e alla gallina guercia
e zampettante che, dopo due pagine di
evoluzioni gorgheggianti, sgancia il suo
gianduiotto catabolico tra le scarpe di un
allibito brigadiere Pestalozzi, nell’esuberante capitolo ottavo del Pasticciaccio
di Gadda.
Un piacere bilingue
Ma lasciamo da parte le galline e avviciniamoci al vino: in questa manovra di
avvicinamento può tornarci utile richiamare quel cortocircuito tra pancia e
cervello che abbiamo inquadrato poco
sopra come una condizione non dico
necessaria ma di certo molto utile a
comprendere lo spirito più genuino di
certe sperimentazioni linguistiche, come
quelle che lampeggiano in Bernice la
gallina fischiona, nell’Ulisse di Joyce e in
qualche altro capolavoro del Novecento
letterario.
Mi vado facendo infatti sempre più persuaso che anche nel caso di quei vini