54 ENOGEA - II SERIE - N. 50 Un bianco per l’estate di Giampaolo Gravina ...o quel che ne resta! tra galline fischione e guerce, in un cortocircuito di assaggi sudisti (e sudati), il resoconto sgangherato dell’estate di Giampòl, l’ennesima in bianco. La gallina fischiona Che estate sarebbe, senza riviste? Non so voi, ma a me d’estate se non mi capita di restare intrappolato nella lettura di qualche rivista, vecchia o nuova che sia, purché un po’ stravagante, non mi sembra una vera estate. Mi illudo che almeno in parte sappiate di cosa sto parlando, dal momento che avete per le mani Enogea e magari siete già schizzati all’ultima pagina, per compulsare le più recenti disavventure del prode Persichetti. Ma io posso spingermi anche oltre. E quello che vado cercando d’estate nelle riviste, alle volte sono certe stravaganze che al confronto Persichetti e il suo on the road rischiano perfino di apparire come storie prevedibili, robetta di pretura. Prendiamo ad esempio l’Accalappiacani: quest’estate la mia rivista è stata l’Accalappiacani, un “settemestrale di letteratura comparata al nulla”, di cui purtroppo sono usciti solo cinque numeri e poi, da un paio d’anni, se ne sono perse le tracce. In particolare, nel numero 4 dell’Accalappiacani mi sono appassionato alla lettura della ritraduzione in italiano di quella storia a fumetti in cui Braccio di Ferro compare per la prima volta: Bernice la gallina fischiona (Whiffle hen, conosciuta fin qui come La gallina sbuffante) pubblicato da E.C. Segar alla fine degli anni Venti. Io non lo sapevo, ma pare che Braccio di Ferro nell’originale americano – almeno fin quando fu disegnato e animato da Segar, che è morto nel 1938 – parlasse una lingua difficilissima da tradurre, deliberatamente sgrammaticata e con una sua valenza per così dire sperimentale. Una lingua strampalata ma piena di invenzioni e come ispirata a una sorta di raffinata cialtroneria, che i suoi allievi non hanno saputo riprodurre e che è andata del tutto persa nelle traduzioni in italiano, dove Braccio di Ferro resta per lo più schiacciato sui cliché linguistici di un fumetto per bambini. Ecco, c’è voluta la sensibilità di uno scrittore come Daniele Benati – uno che ha tradotto Joyce, tanto per intenderci – per restituire al Popeye degli esordi il piglio surreale e stralunato, lo spaesamento delle ellissi, le impennate dei non-sense e delle iperboli che ne vitalizzano l’impasto linguistico originario. Perché se lo osserviamo in questa prospettiva, Braccio di Ferro è un po’ come l’Ulisse di Joyce, nasce cioè per un pubblico adulto, ma disponibile a una sorta di “smaliziata” regressione infantile, a un continuo cortocircuito tra pancia e cervello. Che poi è il modo migliore per godersene appieno tutta la spiazzante comicità. Inutile dire che a me questa gallina fischiona mi ha fatto piegare dal ridere. E l’ho subito collocata sul podio ideale delle mie galline preferite, accanto alla gallina di Cochi e Renato – che «solo di piume è ricoperta e sta sempre rinchiusa all’aria aperta» – e alla gallina guercia e zampettante che, dopo due pagine di evoluzioni gorgheggianti, sgancia il suo gianduiotto catabolico tra le scarpe di un allibito brigadiere Pestalozzi, nell’esuberante capitolo ottavo del Pasticciaccio di Gadda. Un piacere bilingue Ma lasciamo da parte le galline e avviciniamoci al vino: in questa manovra di avvicinamento può tornarci utile richiamare quel cortocircuito tra pancia e cervello che abbiamo inquadrato poco sopra come una condizione non dico necessaria ma di certo molto utile a comprendere lo spirito più genuino di certe sperimentazioni linguistiche, come quelle che lampeggiano in Bernice la gallina fischiona, nell’Ulisse di Joyce e in qualche altro capolavoro del Novecento letterario. Mi vado facendo infatti sempre più persuaso che anche nel caso di quei vini
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