scarica il catalogo della mostra cliccando qui

PITTURA COME PITTURA
A cura di:
Willy Montini
Associazione culturale Dedalo River
Coordinamento:
Stefano Orler
Segreteria di Redazione:
Beatrice Cordano
Anna Orler
Tommasina Orler
Massimiliano Romani
Ufficio stampa:
Bruna Malaguti
INDICE
Testo introduttivo di:
Simona Scopelliti
Testi Critici di:
Giorgio Bonomi
Alberto Fiz
Marco Meneguzzo
Alberto Rigoni
Elaborazioni fotografiche:
Antonino Aguanno
Impaginazione e progetto grafico:
Antonino Aguanno
Ringraziamenti
Roberto Peccolo
Michela Zilio
Francesco Fabris
Cesare Miserotti
gli Artisti
gli Archivi
tutti i prestatori delle opere
Stampato per Artetivù da:
Orizzonti
Questo catalogo è stato pubblicato in occasione della mostra
Pittura come Pittura. l’arte analitica dagli anni ‘70 presso il Marcon (VE)
25 luglio - 24 agosto 2014
Nessuna Parte di questo libro può essere
riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con
qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro
senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei
diritti
Copyight © Artetivù – Marcon (Venezia)
Introduzionepag.
5
Simona Scopelliti
Operepag.
7
Antologia critica
pag.108
INTRODUZIONE
Simona Scopelliti
Ricchezza e complessità della pittura analitica.
Da qualche anno si è sviluppato un forte interesse per gli anni
’70. Questo decennio dapprima demonizzato, soprattutto in Italia a causa della controversa situazione politica e sociale, oggi è
in fase di metabolizzazione e viene riconosciuto unanimemente
come un momento agitato, ma anche vivace e carico di intenti.
La tradizione secondo la quale le ultime avanguardie in Italia siano state l’Arte Povera prima, e la Transavangurdia poi, è da tempo
smentita, grazie alla rilettura critica dei dibattiti che animarono il
mondo dell’arte in quegli anni.
La Pittura analitica nasce verso la fine degli anni ’60, quando non
solo in Italia, ma anche in molti paesi europei tra cui in particolare
Inghilterra, Olanda, Germania e Francia, e negli Stati Uniti, un
certo numero di artisti, nel tentativo di smentire la preconizzata
morte dell’arte, riflette sulle ragioni dell’operare artistico tramite
la messa in discussione della pittura e nello specifico dell’atto del
dipingere.
I risultati di questa riflessione non sarebbero stati per nulla univoci, tanto che è più corretto definire la Pittura analitica non come
un movimento, quanto piuttosto come un momento nella storia dell’arte generato dal sentimento comune di ricomprendere
i fondamenti dell’arte, andandone a ridefinire le specificità. Se
negli Stati Uniti questo sentire porta alla nascita della cosiddetta
Astrazione Radicale o Opaca, rappresentata principalmente da
Robert Mangold, Bryce Marden, Robert Ryman, autori di una pittura aniconica, in cui il quadro rivela la struttura della sua costruzione come tabula picta, in Francia, Daniel Buren, Olivier Mosset,
Michel Parmentier e Niele Toroni esaminano la pittura in termini
quasi artigianali, mentre il gruppo Support/Surface, tra i cui rappresentati ricordiamo Louis Cane, analizza la disciplina pittorica
a partire dai suoi strumenti.
Non bisogna, inoltre dimenticare che se da un lato il nuovo bisogno di pittura nasce da una sorta di ribellione al segnico ed
in particolare negli Stati Uniti, da una volontà di allontanamento
dai pantagruelismi seriali della Pop art, dall’altro, in particolare
in Europa, essa nasce sulla scia dei fatti del ’68, quando, in conseguenza alle aspre critiche mosse al sistema di produzione e
di diffusione della cultura, molti artisti, uscendo dal solipsismo
dell’espressionismo astratto, iniziano ad interrogarsi circa il proprio ruolo nella società.
Al centro della pittura analitica c’è la pittura come rappresentante di se stessa. A questo proposito appare come una sorta
di dichiarazione di intenti la mostra di Giorgio Griffa organizzata
nel 1973 da Maurizio Fagiolo dell’Arco a Verona, che reca il titolo Iononrappresentonullaiodipingo. In questo modo gli analitici
si inseriscono in un ampio filone di dibattito storico che trova le
sue radici nella lezione di Kazimir Malevic e Piet Mondrian, che
qualche decennio prima era stata riscoperta dall’astrattismo di
Joseph Albers e Max Bill, dal concretismo di Bruno Munari ed in
tempi più recenti da Mario Nigro.
Sostenere, come si è fatto, che la Pittura analitica sia stato un
sentire più che un movimento, significa riconoscerne l’ampiezza
degli influssi e dei collegamenti non solo con l’arte del passato, ma anche e soprattutto con le altre vicende dell’arte con cui
inevitabilmente si incontrava/ scontrava. È possibile, allora, riconoscere la vicinanza con vicende come quella di Azimuth, che
puntava al grado zero dell’arte e che ritroviamo formalmente in
una tendenza alla monocromia1 e teoricamente nella rinuncia alla
tradizione artistica, per tornare alle radici dell’arte. Per gli analitici tale ritorno significa lavorare sulle strutture e sugli elementi
fondamentali della pittura ( o come dice Claudio Verna, sugli elementi minimi) ossia, colore, luce, superficie, pennello, segno) e
non va certamente confuso con un desiderio di ritornare indietro,
nel rimpianto della tradizione, ma piuttosto un ricominciare da
capo, a partire “dall’abicì del proprio lavoro2” .
Come nota Alberto Rigoni dalla metà degli anni ’50, in Europa, quando Roland Barthes aveva teorizzato il grado zero della
scrittura, si era diffuso un clima di analiticità che ambiva a “voler
smontare l’arte e la società circostanti per poterne studiare gli
elementi costituenti e le strutture portanti tramite criteri oggettivi”3 . Di fatto i pittori analitici, quasi venti anni dopo, si trovano ancora nel pieno di questa tendenza. Filiberto Menna, primo critico che opera per compattare la tendenza analitica nella
pittura italiana, nel noto saggio del 1975 Per una linea analitica
della pittura, rileva che la marcata componente critica della Pittura analitica, avvicini quest’ultima all’Arte concettuale, rientrando “queste nuove esperienze, in quel processo di autoriflessione
dell’arte che caratterizza buona parte della ricerca artistica fra
la fine degli anni sessanta e gli inizi del decennio successivo”. Il
difficile rapporto con l’Arte concettuale si nota, tuttavia, quando
di quest’ultima è ridotta ad una discussione teorica, che sebbene complessa rischia di rimanere sterile, dato l’allontanamento
dalla prassi operativa, mentre al contrario, la Pittura analitica si
basa essenzialmente sul fare: l’operare pittorico vive in stretto
rapporto col fondamento teorico e in artisti come Cotani, Cacciola e Zappettini sfocia addirittura nell’articolata disamina delle
fasi processuali dell’opera. E se Verna asserisce: “l’intenzione non
è niente in arte: infatti, è una giustificazione”4 , Cacciola scrive:
“L’intenzione del lavoro esprime una metodologia di doppio valore: valore di risoluzione regressiva e valore di scomposizione.
Il primo intende riportare e ricondurre le singole azioni ai loro
5
principi fondamentali di per se stessi evidenti. Il secondo tende a
scindere il tutto nelle sue singole parti. L’intenzione finale supera
però la semplice descrizione del lavoro e dei mezzi pittorici che
devono essere messi in rapporto in una relazione di risoluzione e
scomposizione”5.
Nonostante queste posizioni, resta fermo, invece, il punto che
nella Pittura analitica il fare si sposi ad una forte componente
artigianale. Sebbene il segno sia ridotto al minimo alcuni pittori
analitici si considerano degli esecutori , a causa di un rapporto di sincerità con i materiali, come Giorgio Griffa e Gianfranco
Zappettini, il quale si riferisce alla sua opera definendola lavoro
piuttosto che pittura, e usa il rullo al posto del pennello, e vernici
da imbianchino.
In un momento in cui uno dei nodi critici della società italiana è il
rapporto tra i produttori di cultura e il mondo industriale, oltreché
l’elitarismo dei linguaggi artistici in senso ampio, i pittori analitici
vanno quasi a proletarizzare l’arte, pur ottenendo risultati spesso
concettuali, non tramite la produzione di multipli, come fa l’Arte cinetica e programmata, ma tramite l’uso di materiali poveri,
come pietre, legni, ferri, carrube (Gastini), flanella (Pinelli), tele
in juta senza telaio (Griffa) e industriali come cementi (Cacciola,
Uncini), cellophan (Cecchini), plexiglas, bende elastiche (Cotani).
La strada dell’avvicinamento al fruitore, più che nei materiali usati, viene trovata dai pittori analitici nel richiamarlo all’attenzione
verso l’opera, infatti i segni minuti, sparsi, evanescenti, frammentati, si colgono lentamente: dalla tela bianca emergono a poco a
poco, snocciolandosi come le note di una melodia sottile le linee
colorate di Guarneri, che non a caso definisce le sue opere “quadri a lento consumo”6 ; ancora ad ambienti musicali sembra accostarsi la serie dei ton sur ton di Paolo Cotani, dal titolo A lenta
percezione, mentre è possibile cogliere ampiezze sinfoniche in
alcune opere di Claudio Olivieri; le opere di Zappettini, invece,
invitano lo spettatore ad avvicinarsi, sfidando le sue capacità percettive. Per concludere a tale proposito appare utile citare ancora
una volta Claudio Verna: “…Il colore è una parola, una convezione.
Niente è più diverso di un rosa chiaro da un rosa appena meno
chiaro (…) I clori rivelano il massimo della loro complessità e quindi dei possibili, infiniti significati, quanto più vengono liberati dei
loro attributi psicologici e letterari (…) Quando dipingo una certa
superficie di un quadro con una mano di colore, compio un’operazione profondamente diversa da quella che compirei se riempissi quella stessa superficie con tre o quattro mani di quel dato
colore. (…) Quel colore infatti, a seconda di come è stato dato,
sarà caldo o freddo, lucido o opaco, chiaro o scuro. (…) Questa
è l’ambiguità del colore(…) Il quadro è sempre stato un fatto di
percezione, ma quel che è nuovo rispetto al passato, è che abbiamo coscienza della necessità di riesaminare criticamente gli
strumenti della percezione”7.
OPERE
1
Tale monocromia non è mai totale, e lo dimostrano le declinazioni di bianco di Gianfranco Zappettini o i grigi di Enzo Cacciola e di Vincenzo Cecchini, ma anche alcuni lavori di Claudio Olivieri e
di Claudio Verna.
2
C. Verna, Il ritorno allo specifico, in “Arte come professione”, Venezia 1974.
Sullo stesso tema è utile citare uno scritti del 1983 di Rodolfo Aricò,
che afferma: “Gli archetipi sono il paesaggio del nostro passato, ma
anche della nostra cultura, se non trasfusi in linfa vitale, restano solo
edificazioni di ignobili cacofonie. Se l’arte non corre sull’autostrada
della continuità, ma ripercorre sentieri circolari, non per questo il ritrovare nuovi sguardi al passato deve voler risignificare una pedissequa ricitazione (…) L’azzeramento di Malevich e quarant’anni dopo
quello di Newman, non hanno fatto altro che affermare la continuità
dell’arte e della vita”.
3
Pittura e pittura, catalogo della mostra a cura di A. Rigoni
(Acqui terme, Palazzo Robellini 2010).
4
C. Verna, Quale pittura?, in “Flash Art”, N. 38, Milano 1973.
5
E. Cacciola, nel catalogo della mostra “Cronaca”, Galleria
Civica di Modena, 1976.
6
Nel catalogo della mostra Empirica: l’arte tra addizione e
sottrazione, tenutasi a Verona nl 1975, Guarneri scrive: “Erano quadri
bianchi, leggibili solo mediante una osservazione prolungata che provocava un raffinamento percettivo, dove i colori erano il risultato di
trasparenze luminose e mutevoli e si trasformavano in colore – luce”.
7
6
C. Verna, in “Data”, n. 32, Milano 1978.
Claudio VERNA
FOXTROT
Olio su tela
200 x 100
1978
7
Rodolfo ARICÒ
Aricò negli anni settanta diviene per l’Europa un punto di
riferimento di quella corrente internazionale che negli Stati
Uniti prende il nome di Post-Minimal Painting di cui fanno
parte Robert Ryman, Agnes Martin, Robert Mangold e Brice Marden o Pittura Analitica nella definizione italiana, nella
quale si possono includere anche Claudio Olivieri, Giorgio
Griffa ed altri, cioè una riflessione intima dell’artista sul suo
ruolo e sul fare pittura che si distacca completamente dai
condizionamenti della realtà.
Nel 1959 tiene la sua prima mostra personale al Salone Annunciata di Milano. Nel 1964, invitato alla Biennale di Venezia, espone un’opera formata da tre grandi tele in cui le
forme quadrate sono disposte diagonalmente. E’ un anticipo del primo “oggetto” del 1966, quando la sua pittura
comincerà ad acquistare consistenza, organizzandosi su
strutture sagomate. Solo nel 1968 però, con la sala personale alla XXXIV Biennale di Venezia, il carattere strutturale
dei suoi quadri-oggetti si manifesterà nella sua piena tridimensionalità. Nel 1970, al Salone Annunciata e allo Studio
Marconi, espone opere realizzate spruzzando vari strati di
gocce di colore. Il risultato pianamente monocromo è tale
solo in apparenza in quanto, secondo Gillo Dorfles, la sua
pittura resta “cromaticamente ambigua”. Infatti come le sagome, grandi o piccole, generano una sorta di “incertezza
percettiva” quasi come se “prendessero in giro la continuità
prospettica”, allo stesso modo i colori uniformi presentano
in realtà molteplici sfumature, per cui i blu, i lilla, i viola trasmigrano uno nell’altro, rendendo il risultato finale tutt’altro
che circoscrivibile, ma piuttosto “un atto di attesa, di ipotesi”.
Nel 1974 tiene un’antologica a Palazzo Grassi a Venezia
dove riunisce il corpus delle sue opere, tutte tra i quattrosei metri di base, e concepite sin dal 1968 come un work in
progress. Nel 1980 si tiene a Mantova, nella casa del Mantegna la mostra “Rodolfo Aricò. Mito e architettura”. Il curatore Gianni Contessi descrive “gli inganni architettonici”
dell’Artista, riprendendo il discorso da quella sensazione di
ambiguità già descritta da Dorfles, non come costruzioni
concrete e rigidamente definite, ma piuttosto come il tentativo di dar corpo al mito dell’architettura.
Nel 1986 è invitato a partecipare ad una mostra itinerante
“1960/1985 Aspetti dell’arte italiana” al Kunstverein di Francoforte, Berlino, Hannover, Bregenz e Vienna. Sempre nello stesso anno invia una struttura alla Biennale di Venezia
nella sezione “Il colore”. L’anno dopo viene invitato da L.
Meneghelli ad una mostra intitolata “20 anni fa” con Boetti,
Gilardi, Kounellis, Paolini e Pistoletto allo Studio La Città di
Verona. Partecipa anche all’esposizione intitolata “Emotion
und method” a cura di Eberard Simons alla Galerie der Kunstler a Monaco.
Negli anni Novanta si succedono numerose esposizioni in
Italia e all’estero tra cui quelle di Milano, Stoccolma, Schwaz,
Koln, Bergish Gladbach, Venezia, Urbino, Roma
SENZA TITOLO
Tecnica mista su carta
70 x 100
1968
SENZA TITOLO
Tecnica mista su cartone
70 x 100
1971 - 1973
SENZA TITOLO
Tecnica mista su cartone
70 x 100
1971 - 1973
9
TOPOS SUITES II
Tecnica mista su tela
220 x 170 x 5
1975
10
11
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
180 x 180
1976
12
13
Luciano BARTOLINI
Luciano Bartolini nasce a Fiesole il 23 luglio 1948.
Non frequenta una scuola d’arte ma compie per un certo
periodo sistematici studi linguistici. A partire dal 1971 viaggia regolarmente in Oriente, in particolare nell’India del
Nord e in Nepal. Nel 1973-74 esegue i primi lavori utilizzando prevalentemente carta da pacchi.
Nel 1974 inizia la serie dei Kleenex utilizzando carta da pacchi e Kleenex incollati in modo da formare patterns regolari.
Questa serie di lavori porteranno nel 1975 alle Cartepaglie.
La carta sarà il materiale privilegiato di tutta l’opera bartoliniana. L’artista rivolgerà anche i suoi interessi alla creazione
di numerosi libri d’artista: uno di questi intitolato Sogni, ombre è particolarmente significativo perché introduce il tema
dell’ombra all’interno del tema più generale del vedere e
dell’essere visto. Non a caso i lavori successivi sono ispirati
a un personaggio mitico come Arianna, tessitrice di ombre,
regina e custode del labirinto di Creta. Nel 1980 trascorre l’estate nell’isola greca di Santorini che gli suggerirà una
nuova, importante tematica: quella di Atlantide. Viene invitato alla Biennale di Venezia. Nel 1982 visita il monte Athos:
il simandron, il gong utilizzato dai monaci diventerà, soprattutto durante il suo soggiorno berlinese (1983), il segno in
assoluto più ricorrente. Gli viene dedicata un’importante
mostra personale alla Neue Nationalgalerie di Berlino. Dal
1986 prende avvio un nuovo ciclo di opere intitolate Kosmische Visionen: le immagini vengono costruite intorno a un
asse verticale, segno dell’albero del mondo. Questo ciclo
prelude alla serie degli Alberi iniziata nel 1988, delle Ascensioni (1989) e della serie intitolata Foresta di vetro, opere di
piccole dimensioni dove il materiale di fondo è costruito da
fogli di carta vetrata. Nel 1990 inizia una nuova serie d lavori, dedicata all’orizzontalità e intitolata Emblematische Blumen a cui segue la serie intitolata O sporos(seme): la forma
allungata del seme richiama la mandorla di luce tipica della
tradizione cristiana ortodossa.
Nel 1992 ritorna, con il nuovo ciclo intitolato Soffi di luce
a opere di piccole dimensioni: sono piccoli dittici dove un
elemento dipinto è affiancato a un altro a collage che sono
piccoli dittici dove un elemento dipinto è affiancato a un altro a collage che richiamano le “icone portatili” o da viaggio
caratteristiche della tradizione bizantina. Luciano Bartolini
scompare prematuramente nell’aprile del 1994.
AL VOLO
Tecnica mista su carta
147 x 101
1989
15
Carlo BATTAGLIA
Carlo Battaglia nasce il 28 gennaio 1933 nell’isola della Maddalena, ma trascorre l’infanzia a Genova. Vivrà alla Maddalena soltanto dal 1943 al 1947, poi a Roma. Proprio quegli anni
in Sardegna vissuti in solitudine lasceranno indelebili tracce
nella sua memoria visiva.
Dopo la trafila dell’obbligatorio servizio militare si dedica
definitivamente a dipingere. Cosciente del proprio mediocre talento manuale, si sottopone a un lungo tirocinio di
apprendistato e, confortato dall’esempio del diletto Gorky,
copia i maestri e soprattutto Matisse. In Italia l’unica possibilità di vedere quadri contemporanei era rappresentata
dalla sola Biennale di Venezia. Comincia quindi a viaggiare:
Kassel, Parigi, Londra. Per capire veramente è necessario
vedere la manualità e la dimensione degli originali: fuorviante limitarsi alle sole riproduzioni. Comincia a esporre tardi,
a Roma nel 1964, cosciente della propria pittura ancora non
personale; con la mostra del 1966 al Salone Annunciata di
Milano, compie l’esorcismo finale. Carlo Battaglia ricorda
con affetto e gratitudine Carlo Grossetti che aveva avuto il
coraggio di esporre un artista così palesemente fuori moda
nella sua galleria d’avanguardia. Nel 1967 soggiorna per sei
mesi a New York, lavora in uno studio a Canal Street e si
lega di amicizia con Reinhardt, Motherwell e soprattutto
Mark Rothko il cui studio frequenta quotidianamente. Nel
1970, invitato con una sala personale alla Biennale di Venezia, espone per la prima volta le Maree, tema che lo coinvolgerà per tutta la vita. L’ambiguità, l’illusione, la malia del
paesaggio marino coincidono con il suo sconfinato amore
per il mare. Dagli anni 70 partecipa a tutte le più importanti
mostre in Italia e in Europa, della “Nuova Pittura” o “Pittura
analitica” che dir si voglia, provando però un sempre più
crescente disagio nei confronti di quelle formulazioni teoriche in cui non si riconosce: ciò nonostante, risulta essere
percentualmente l’artista più presente nelle mostre che si
rifanno a vario titolo a questa tendenza. Nel 1980 è nuovamente invitato con una sala personale alla Biennale di Venezia. Muore alla Maddalena il 17 gennaio 2005.
SENZA TITOLO
Olio su tela
200 x 100
1978
17
Enzo CACCIOLA
Enzo Cacciola nasce ad Arenzano (GE) il 12 dicembre 1945;
vive e opera a Rocca Grimalda (AL).
Tiene la sua prima mostra personale nel 1971 a Genova presso la Galleria La Bertesca concenfrando l’attenzione sulle
dinamiche dei rapporti piano-forme-colore.
Nel 1973 inizia ad operare su nuovi materiali alternativi all’olio su tela e crea i primi pezzi materici prendendo in esame esclusivamente la superficie e i suoi dati linguistici. Nel
giugno 1975 partecipa alla mostra Pittura analitica curata
da Klaus Honnef e Catherine Millet con quadri in cemento
tali da rilevare le problematiche relative allo spazio d’analisi
offerto dalla matericità dell’opera.
La partecipazione a Documenta 6 (Kassel, 1977) segna una
parziale rottura con il lavoro precedente, in ragione di una
reinterpretazìone in chiave concettuale dell’operato (e della
funzione) dell’artista. A partire dal 1979, su queste basi, intraprende un percorso di riflessione e di ricerca che lo conduce a lavorare ed esporre oltreoceano, fra Washington,
Città del Messico e Panama City. Nel 1981 si confronta con
le tematiche della Transavanguardia partecipando alla mostra Pittura in radice di Achille Bonito Oliva e aprendosi così
alla figurazione, che tuttavia è percepita e resa soprattutto
nei suoi aspetti volumetrici e spaziali. Un passo ulteriore in
direzione della compenetrazione fra figurativo e concettuale è compiuto con l’esperienza di Short memory painting
(Milano, 1982), curata da Viana Conti, rivolta a registrare le
“incursioni” dell’artista che inserisce la sua figura e la sua
ottica in alcuni capolavori dell’arte otto- e novecentesca.
Nel 1986 riprende la ricerca sulla materia che cerca di misurare in chiave intimistica scandendo il ritmo dell’interiorità
sulla partitura segnica della superficie.
Intorno alla metà degli anni Novanta si situa il suo ritorno
alla pittura di matrice concettuale, pittura in cui si trovano
sedimentate e risolte molte delle esperienze pregresse: il
cemento del concettuale, le forme di una lunga frequentazione dell’astratto geometrico, le asperità di una superficie
memore dei travagli della Transavanguardia, un inedito connubio fra materia e geometria in grado di sondare e palesare l’intima natura algebrica, razionale, del reale.
Gli ultimi lavori, presentati in mostre collettive, rivelano
un’apertura a soluzioni compositive guidate dal concetto
dell’accumulazione (L. Lecci, Una ricerca in costante evoluzione, catalogo Excalibur Arte Contemporanea e Galleria 911, 2005). Attualmente la sua sperimentazione è rivolta
all’impiego di materiali nuovi concepiti per l’uso industriale.
SENZA TITOLO
Cemento e abesto su tela
120 x 150
1974
10 - 12 - 75
Cemento su tela tamburata
53 x 93
1975
20
SENZA TITOLO
Multigum su tela
120 x 70
2008
21
È allievo della Scuola delle Arti figurative di Nizza, e dal
1968 Dell’École des Beaux-Arts di Parigi. Nel 1969, è uno
dei membri fondatori del gruppo Support-Surface. Partecipa alla Biennale des Jeunes di Parigi nel 1971 e nel 1973.
Sempre nel 1973, espone all’Istitute of Contemporary Art di
Londra. È anche, nel 1971, cofondatore, con Marc Devade,
della rivista “Peinture. Cahiers théorique”. Importanti mostre delle sue opere sono state organizzate nel 1971 dalla
Galleria Daniel Templon a Parigi; nel 1972 dalla Galleria Yvon
Lambert a Parigi; nel 1977 dalla Galleria Leo Castelli a New
York; nel 1973 dalla Fondation Maeght a Saint-Paul-de-Vence; nel 1989 dalla Galleria Gill Favre a Parigi; nel 1990 all’Espace Fortant de Sète e Musée Saint-Roch a Issoudun; 1995
al Palais des Congrès di Parigi; nel 1996 al Manoir de Cologny a Ginevra, etc. MUSEI: Montréal (Museo d’Arte Contemporanea), Marseille (Museo Cantini) e altri. Louis Cane
et divers, in: “Peinture. Cahiers Théoriques”, Parigi. Jacques
Henric, Catalogue de l’exposition de Louis Cane, Gal. Daniel
Templon, Paris, 1985. Philippe Sollers e altri, Catalogue de
l’exposition Louis Cane, Chapelle Saint-Louis de la Salpétrière, Parigi 1990.
Louis CANE
È allievo della Scuola delle Arti figurative di Nizza, e dal
1968 Dell’École des Beaux-Arts di Parigi.
TOILE SOL/MUR
Tecnica mista su tessuto
Parete 256 x 241,5 Suolo 212 x 241,5
1973
23
Vincenzo CECCHINI
Vincenzo Cecchini nasce a Cattolica nel 1934.
Dopo un periodo di attività nell’impresa familiare, sente la
passione per la pittura e la poesia trasmessagli dal padre
ed inizia a frequentare l’avanguardia artistica degli anni ‘60
e ’70. Abita a Milano ed a Roma partecipando al fermento
culturale di quegli anni con esposizioni che lo porteranno
anche all’insegnamento della pittura e della scultura.
Negli anni ‘80 sente il richiamo della propria terra d’origine,
inizia a scrivere poesie in dialetto romagnolo e si trasferisce
dal Liceo Artistico di Latina all’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna. Successivamente passa all’Istituto d’Arte di
Pesaro ed infine all’Istituto d’Arte di Riccione, ove termina l’attività di insegnante. Attualmente vive a Cattolica e
partecipa con le sue opere a quelle esposizioni d’arte nelle
quali il colore è il principale protagonista, scrive poesie in
dialetto, tiene corsi di lettura dell’opera d’arte, prende parte
a progetti scolastici e gioca a biliardo.
OCEANINA
Tecnica mista su tela
100 x 100
1994
25
TRITTICO
Tecnica mista su tela
35 x 135
1974
26
27
Paolo COTANI
Paolo COTANI è nato a Roma nel 1940. Frequenta, tra il 1959
e il 1961, l’Accademìa di Arti Decorative di Parigi. Ritornato
in Italia vi svolge insieme al poeta Valentini Zeichen ricerche
sull’integrazione dei linguaggi. Dal 1964 al 1970 soggiorna
a Londra. Frequenta a fasi alterne gli ambienti delle avanguardie negli Stati Uniti d’America. La prima mostra è alla
Galleria Ferro di Cavallo di Roma nel 1968, che presenta
una produzione collocabile tra il minimalismo e il neocostruttivismo, ma sempre legata alla dimensione pittorica.
Nel 1973, oltre ad alcune personali, partecipa alle mostre
collettive Un futuro possibile. Nuova Pittura, Palazzo dei
Diamanti, Ferrara; poi Rocca Sforzesca, Imola curata da G.
Cortenova e La riflessione sulla pittura, Palazzo Comunale,
Acireale. Nel 1974 inizia la collaborazione con la Galleria La
Bertesca, partecipa nel 1975 a Analytische Malerei, a Milano,
Düsseldorf e Genova, collaborazione che proseguirà fino al
1977. Sempre nel 1975 prende parte a Empirica, mostra che
si tiene a Rimini e al Museo di Castelvecchio, Verona, e alla
l) (Biennale dei Giovani di Parigi e Nizza. ln questi anni realizza le “bende elastiche”.
Sempre del 1977 è la personale alla Galleria Arco d’Alibert
di Roma, dove esporrà in seguito molte volte. Del 1980 è
la personale al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, dove presenta la serie degli “archi”. Nel 1981 partecipa alla mostra
Linee della ricerca artistica in Italia 1960-80, al Palazzo delle
Esposizioni di Roma. La produzione artistica degli anni ‘80
viene presentata in antologiche alla Casa del Mantegna a
Mantova nel 1982 e poi alla Pinacoteca Civica di Jesi l’anno
successivo. Nel 1988 è la volta della sua partecipazione alla
mostra Astratta. Secessioni astratte in Italia del dopoguerra
al 1991 realizzata a cura di G. Cortenova e F. Menna, prima a
Palazzo Forti a Verona, poi al Palazzo della Permanente a
Milano. Seguono ancora numeroso altre esposizioni, tra le
quali Vantologica sempre a Palazzo Forti nel 1990 e la mostra Castellani, Cotani, Scarpitta alla Galleria Niccoli di Parma nel 1992. Nel 2004 ha esposto nella personale L’immagine negata all’Universidad de Castilla-La Mancha, a Cuenca
(Spagna), in cura dell’lstituto Italiano di Cultura di Madrid.
Vive e lavora a Roma.
SENZA TITOLO
Tecnica mista su tela
60 x 60
1989
29
SENZA TITOLO
Olio su tela
60 x 30
1993
30
SENZA TITOLO
Olio su tela
60 x 60
2009
31
Sandro De Alexandris è nato a Torino il 31 dicembre 1939,
città dove vive lavora e insegna “Disegno dal vero” al Liceo
Artistico.
Sandro DE ALEXANDRIS
La prima personale è del 1963 a Torino. Nel 1964 realizza le
prime carte bianche, ricerca sulla modulazione graduata di
spazi bidimensionali: la serie “Misure di spazio” viene esposta a Monaco nel 1967. Tra il 1966 e il 1969 progetta e realizza i “TS”, superfici e spessori spostati, esposti in numerose
mostre in varie città tra cui Parigi, Modena e Milano. Tra il
1967 e il 1974 le superfici a spessore minimo e ad articolazioni elementari divulgate in esposizioni a Verona, Roma e
Colonia, nonché in personali a Coblenza, Verona, Livorno,
Bergamo e Genova. Dal 1974 gli “Un”, superfici graffiate e
articolate sistematicamente secondo un andamento verticale, nelle quali si attua un forte abbassamento percettivo.
Esposte in mostre a Ravenna, Milano, Graz, Gelesenkirchen
e in personali a Colonia, Livorno, Torino, Milano e Como.
Nel 1981 realizza i trittici, superfici tripartite in cui all’abbassamento percettivo delle superfici graffiate si uniscono, in
rapporto di tensione contrapposizione, campi di trasparenze cromatiche: esposte a Torino. Nel 1983 le tavole con sovrapposizioni e stratificazioni di superfici a caduta, carte e
tele organicamente disposte per scansioni, contrapposizioni, consonanze cromatiche, trasparenze. Esposte in personali a Torino, Milano, Bologna e Finale Ligure.
TRASPARENTE XIII
Olio e pastelli
100 X 81,5
2009
33
VERSO CINABRO
Olio e pastelli
70 x 81
2009
34
FORME DEL VENTO
Olio e pastelli
70 x 81
2009
35
Marc DEVADE
Siudioso di filosofia fin da giovane, appresa dai più importanti professori della Sorbona di Parigi, Marc Devade sceglie di dedicarsi totalmente alla pittura nel l967, poco tempo dopo aver scoperto di essere affetto da una malattia
incurabile che lo condurra alla prematura morte all’età di
auarant’anni. Approfondisce lo studio dell’Estremo Oriente,
come mondo e sistema e di valori più vitali rispetto all’Occidente; studia il Taoismo e il valore della pittura come antico
metodo di elevazione interiore, ma si appassiona anche alla
Rivoluzione cinese e alla lettura che Mao Tze Tung da del
comunismo: l’adozione dell’inchiostro di china per le sue
opere (in parlicolare dal 1972 al 1978) e un rimando a quelle
esperienze che, seppur lontane geograficamente, negli anni
attorno al 1968 hanno grande impatto anche in Europa.
I suoi primi lavori ricordano tuttavia alcuni esiti degli americani Noland, Newman, Stella. Studia il colore di Matisse
e l’impostazione di Mondrian: nei poligoni rettangolari, in
particolare nel quadrato, trova un campo potenzialmente
inesauribile di sperimentazione, nel quale il colore diventa elemento costitutivo della pura forma. L’inchiostro viene applicato con una precisa procedura e seguendo rigide
suddivisioni della superficie.
Nel 1970 tiene la sua prima mostra personale, alla Galerie
Le Haut Pavé di Parigi, e nello stesso anno espone al Museo
d’Arte Moderna di Parigi nella collettiva “Supports/
Surfaces“, gruppo di cui sarà assieme a Louis Cane uno dei
teoricl e degli animatori più incisivi. L’anno seguenle è infatti
protagonista alle moslre cardine del gruppo, alla Citè Universitaire di Parigi e al Teatro Municipale di Nizza e in giugno da vita al primo numero della rívisla teorica “Peinture”.
ln ltalia esordisce nel 1972 con una personale alla Galleria
Daniel Templon di Milano, e dal 1973 sara invitato a partecipare alle colleilive di situazione su Nuova Pittura e Pittura Analitica: tra queste vanno ricordate “La riflessione sulla
pittura“ (Acireale, 1973), “Analytische Malerei” (Düsseldorf,
i975), “Cronaca” (Modena, 1976) e “l colori della Pittura”
(Roma, l976). Nel 1978 il Museo d’Arte Moderna di Parigi
gli dedica un’importante personale. Dopo quell’anno, e fino
alla fine, recupera l’olio, ritorno ad una tecnica che conserva
in se secoli di storia della pittura occidenlale.
Sue opere sono state esposte in due recenti esposizioni storiche, “Le superfici apache della Pittura Analitica“ (Fondazione Zappettini, Chiavari, 2009) e “Pensare Pittura“ (Museo d’Arte Coniemporanea Villa Croce, Genova, 2009).
UNTITLED
Inchiostri su tela
100 x 100
1976
37
Marco GASTINI
Marco GASTINI è nato a Torino nel 1938. Studia all’Accademia Albertina di Torino e, nel 1963,partecipa alla storica mostra Cinque pittori torinesi alla Galleria La Bussola di
Torino. A partire dalla fine degli anni Sessanta, dopo una
pittura ad olio monocromatica - e del 1968 la personale alla
Galleria Il Punto di Torino - sperimenta una pittura materica
realizzata su varie tipologie di supporti, plexiglas (anche in
forma di bacchette) o fogli plastici di diversa consistenza
e trasparenza su cui l’artista interviene opacizzando alcune zone, smaltandone altre e graffiandone poi la superficie.
Al plexiglas prediletto, Gastini affiancherà in seguito i tubi
fluorescenti, già immersi in bagni di colore. Nel 1970 inizia a
produrre fusioni in piombo, le “macchie”, distribuite su superfici trasparenti o direttamente sulle pareti, poi su tela.
In questi anni, tra il 1971 e il 1975, la sua ricerca è orientata
al principio costruttivo della disseminazione del punto, che
persegue sempre sia agendo direttamente sulla parete che
su tela. Del 1972 è l”opera ambientale Lavoro,pittura eseguita direttamente su muro alla Galleria Fiori di Firenze. Nel
1973 è tra gli artisti di Un futuro possibile. Nuova Pittura e La
riflessione sulla pittura e nel 1974-’75 tra quelli di Geplante
Malerei. Nel 1976 partecipa alla XXXVII Biennale di Venezia.
Seguono le opere in pergamena e stagno su tela e una complessa ricerca su materiali attraverso le numerose personali,
da quella al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano nel
1984, a quelle alla John Weber Gallery di New York e quella
di Villa delle Rose a Bologna nel 1992. Ancora altre personali: nel 1993, alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Trento,
al Kunstverein di Francoforte ed a quello di St. Gallen - la
grande antologica all’Orangerie im Schlosspark Belvedere a
Weimar nel 1999 - alla GAM di Torino e alla Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau di Monaco nel 2001. La
sua riflessione è parallelamente anche teorica, con la produzione di libri-opera.
SENZA TITOLO
Collage e tecnica mista su tela
150 x 250
1974
39
Winfred GAUL
Dal 1949-1950 Winfred Gaul ha studiato Storia dell’Arte e
German studies presso l’Università di Colonia. Più tardi l’artista ha trascorso tre anni presso l’Accademia di Stoccarda
sotto Willi Baumeister e Rolf Henniger. Durante la sua prima visita a Parigi, Winfred Gaul ha incontrato Jean-Pierre
Wilhelm, Pierre Restany e Julien Alvard. Nel 1955 si trasferisce in uno studio a Düsseldorf-Kaiserswerth/Ratingen. Gaul
fece amicizia con Manfred de la Motte e Peter Brüning. Nel
1956 inaugurò la sua prima mostra personale alla galleria
“Gurlitt” di Monaco. Insieme con l’amico Brüning compie
esperimenti con la fotografia. Winfred Gaul conobbe Karl
Otto Götz, Bernard Schultze e Heinz Kreutz. Nel 1962 creò
i primi cartelli stradali lungo l’autostrada da Milano a Monza. Dal 1964-1965 l’artista ha lavorato come docente ospite presso la “Staatliche Kunstschule Brema”. Dal 1967-1969
Winfred Gaul ha vissuto ad Anversa. Durante questo periodo ha realizzato il progetto di una variabile di sistema per
un ambiente geometrico.
Dal 1969-1972 ha realizzato tre sculture in acciaio colorato
per la “Südasien Institut” presso l’Università di Heidelberg.
Una grande mostra itinerante ha avuto luogo nel 1973, visitando le città tedesche da Münster a Ludwigshafen, Ulm e
Bielefeld.
Nel 1978 il Kiel “Kunsthalle” ha organizzato una mostra delle
sue stampe complete e oggetti in connessione con la pubblicazione del suo catalogo ragionato. Nel 1982 la “Pinacoteca di Macerato” ha ospitato una retrospettiva dei suoi
disegni.
Dopo il 1983 Winfred Gaul ha creato singole immagini, disegni e acquerelli e una serie di immagini e trittici composti
da più parti, che si ispirano a Claude Monet.
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
40 x 30
1969
MARKIERUNGEN XXXXVII
Tecnica mista su tela
180 x 180
1973
41
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
50 x 50
1981
SENZA TITOLO
Tecnica mista su tela
50 x 200
1974
42
43
Giorgio GRIFFA
Giorgio GRIFFA è nato a Torino nel 1936. Dopo una prima
formazione artistica, si laurea in legge, per poi riprendere gli
studi artistici frequentando, sino al 1963, lo studio torinese
di Filippo Scroppo. Dopo un esordio in campo figurativo
con una serie di lavori di gusto neoliberty, i fiori e gli insetti
e delle opere del debutto artistico, attorno al 1960 tendono
a scomparire, eliminando di conseguenza il gusto decorativo, fino a escludere ogni dato figurativo, già in occasione
della prima personale, presentata nel 1968 a Torino. Negli
anni Settanta Griffa si inserisce a pieno titolo tra gli sperimentatori più attenti del linguaggio della pittura, che si
propone quale momento
di riflessione sugli elementi stessi del dipingere, in particolare la linea ed il colore. Espone alle mostre Un futuro possibile. Nuova pittura, Riflessione sulla pittura nel 1973, Geplante Malerei nel 1974-’75, Analytische Malerei, 1975, Arte
in Italia 1960-1977, Torino, Galleria Civica d’Arte Moederna
(1977). Una ricerca che prosegue nei decenni a venire con
due significative presenze alla XXXVII Biennale di Venezia
nel 1978 e alla XXXIX edizione della prestigiosa rassegna
nel 1980.
Le linee orizzontali parallele sono oggetto di studio e costituiscono il punto di partenza per indagare la pittura dal
punto di vista del linguaggio “I segni - come spiega l’artista stesso - attraversano lo spazio della tela, uno dopo l’altro, come i piedi quando si cammina. Non c’è mai un punto
d’arrivo, i lavori non sono mai portati a termine, vengono
sospesi prima di essere finiti. In modo che anche il tempo
rimanga sospeso e che lo spazio non abbia definizione se
non tramite il suo attraversamento”. Gli esiti di questa ricerca ricondurranno Griffa ancora verso il decorativismo, se
pur caricato di un significato lontano da quello di partenza. Nelle opere dopo il 1982, l’artista torinese renderà così
omaggio alla pittura fauve e, in particolare, a Matisse.
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
34,5 x 47,5
1978
45
SENZA TITOLO
Acrlico su tela
150 x 395
1974
46
47
SENZA TITOLO
Tecnica mista su carta
75,5 x 55,5
2009
SENZA TITOLO
Acrilico
107 x 115
1982
SENZA TITOLO
Tecnica mista su carta
33 x 40,5
2009
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
43,5 x 58
1981
48
SENZA TITOLO
Tecnica mista su carta
33 x 40,5
2009
49
Riccardo GUARNERI
Riccardo GUARNERI è nato a Firenze nel 1933. Dopo esperienze musicali, nel 1953 si avvicina alla pittura, esordendo
nel 1960 con una personale alla Galerie de Posthoorn deIl’Aia. La sua ricerca, distante dalle poetiche gestuali, inizialmente si sviluppa in ambito astratto-informale con opere
dove zone colorate ed interventi grafici si incontrano dialetticamente. Nel 1963 è cofonndatore insieme a Gian Carlo
Bargoni, Attilio Carreri e Gianni Stirone del gruppo “Tempo
3”, il cui programma, partendo dalla lezione di Rothko, prevede il superamento della contrapposizione tra concretismo e informale. Produce opere, a seguito di una riflessione
sulla percezione visiva, dalla superficie chiarissima, segnata
da inten/enti a grafite colorata, in cui la trama geometrica
affiora
appena dal fondo monocromatico. In questi anni partecipa
alle mostre del gruppo “Tempo 3” a Venezia, Firenze, Genova e alle mostre di “Nuova Tendenza”, tra le quali, Nuova tendenza/Arte programmata, Modena, Reggio Emilia
nel 1967, organizzata da Umbro Apollonio. Ma soprattutto
è invitato alla XXXIII Biennale di Venezia del 1966. Sempre
nel 1967, invece, realizza perla Biennale di Parigi uno Spazio
cinetico sonoro organizzato. È del 1972 una personale alla
Galleria Peccolo di Livorno e, l’anno successivo, partecipa a
Tempi di percezione e a Un futuro possibile.
Nuova pittura e nel 1974-’75 a Geplante Malerei. Nei decenni successivi Guarneri approfondisce ancora il suo lavoro
nell”ambito della pittura concreta, quale luogo di incontro
programmato del colore con la geometria e la luce. Tra le
esposizioni più recenti: Die andere Richtung der Kunst.
Abstrakte Kunst Italiens ‘60-’90 del ‘97 (Colonia), Continuità-Arte in Toscana 1945-2000 tenutasi a Palazzo Strozzi
(Firenze) nel 2002, e Pantologica Riccardo Guarneri Contrappuntoluce, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti (Firenze) nel 2004.
GEOMETRIA COME POESIA
Olio e tecnica mista su tela
80 x 80
1972
NEL QUADRO: CELESTE, AZZURRO E GIALLO
Tecnica mista su tela
50 x 35
1974
LINEE/COLORI
Olio e tecnica mista su tela
40 x 35
1979
51
DUE STRISCE A LUCE FREDDA
Tecnica mista su tela
80 x 180
1974
52
53
Vivien ISNARD
Nato in una famiglia di grande sensibilita artistica (il padre
è disegnatore, la madre musicista), si appassiona fin da ragazzo al jazz. A Nizza frequenta il liceo Masséna, a pochi
passi dall’atelier di Ben Vautier, presso cui nei primi anni
Sessanta si incrociano molti sentieri artistici della Francia
mediterranea. Si iscrive nel 1965 all’École Nationale des Arts
Décoratifs di Nizza, dove incontra un Claude Viallat giovanissimo insegnante: l’incontro lo spinge verso una pittura
di sperimentazione, di ricerca, di semplificazione dei mezzi.
Nel decisivo anno 1968 si trova però in Germania a svolgere
il servizio di leva; al suo ritorno, porta a termine i suoi studi artistici ad Aix-en-Provence, dove conosce Bioulès, altro
protagonista di Supporis/Surfaces. Concentrato sul problema forma-colore-supporto, lsnard tiene la sua prima personale alla Galerie Ben doute de Tout di Nizza. Stringe amicizia con Chacallis, Charvolen, Maccaferri e Miguel e i cinque danno vita al Groupe ‘70, di cui si svolge la prima collettiva al Teatro Municipale di Nizza e di cui sarà protagonista
in ripetute uscite fino allo scioglimento del gruppo tre anni
più tardi. Incontra e frequenta il critico Bernard LamarcheVadel e partecipa alla rassegna “École de Nice 1963-1973”
(Galerie Ferrero, Nizza), e dal 1973 il suo lavoro attira l’attenzione della Galleria La Bertesca di Genova, che ne espone le opere per la prima volta in quell’anno assieme a quelle
di Dolla e Viallat. I suoi lavori sono tele per lo più segnate in
diagonale con sostanze generalmente corrosive (acidi, olio
per motori eccelera) che continuono ad agire sulla superficie anche tempo dopo la stesura. Una parte del supporto
così lavorato viene poi ritagliato e riposizionato tramite cuciture al centro dell’opera: la struttura interna delle diagonali è messa a confronto con il rettangolo che ritorna dall’esterno. Con questi lavori partecipa nel biennio 1975-1975
a numerose mostre in ltalia e all’estero: “Pittura” (Palazzo
Ducale, Genova), “Empirica” (Museo Castelvecchio, Rimini), il Salon de Mai (Biennale di Parigi), “Analylische Malerei” (Galerie La Bertesca, Düsseldorf), “Cronaca” (Galleria
Civica, Modena), ‘colori della pittura” (lstituto ltalo-Latino
Americano, Roma). Nel 1979 espone in due importanti rassegne al Centre Pompidou di Parigi (“Aspect de la nouvelle
peinture en France” e “À propos de Nice”) e inizia ad insegnare all’École Superieure des Beaux Arts di Tours. La sua
sperimentazione sul colore prosegue: si interessa di Buddismo, di astrologia e del valore simbolico del colore, delle
forme e della materia, su cui ancora oggi riflette nei suoi
lavori. Mostre personali gli sono state dedicate a Nizza dalla Galerie d’Art Contemporain des Musées e dal Museo d’Arte Contemporanea, nonché dalla Galerie Sapone presso la
quale, dal 1989 ad oggi, ha esposto numerose volte e la
quale gli ha dedicaio una corposa monografia nel 2007.
SENZA TITOLO
Tela support-surface
280 x 210
1973
55
Elio MARCHEGIANI
Nasce a Siracusa nel 1929 da genitori siciliani. Inizia a dipingere da autodidatta. Dopo l’incontro con Mario Nigro inizia
a organizzare mostre ed incontri culturali, ma è la conoscenza e l’amicizia con Gianni Bertini che gli suggerisce di
lasciare la provincia per Parigi, Milano, Roma, Bologna.
Nel ‘59 partecipa all’8° Quadriennale di Roma. A Firenze fa
parte del “Gruppo 70”, iniziando una solidale amicizia con
Giuseppe Chiari. L’attenzione a Giacomo Balla, Marcel Duchamp e Lucio Fontana ed ai legami fra scienza e immagine costituiscono la base del lavoro che, negli anni sessanta,
sarà gestito da Guido Le Noci della Galleria Apollinaire a
Milano e da Gaspero del Corso della Galleria L’Obelisco di
Roma. Insegna dal 1969 all’Accademia di Belle Arti di Urbino
“Tecnologia dei materiali e ricerche di laboratorio” successivamente sarà nominato alla cattedra di Pittura.
Nel 1968 è alla Biennale di Venezia insieme alla ricostruzione dei fiori futuristi ed altre opere lasciate inconmpiute da
Balla
Dopo la ricerca sul movimento e la luce e la ricostruzione
di Feu d’Artifice l’idea di “tecnologia come poesia” lo porta
ad un’analisi ancora più attenta del suo lavoro con opere ed
ambientazioni; la serie delle Gomme, destinate a morire nel
tempo, (eseguite tra il ‘71 e il ‘73) portate anche alla Biennale di Venezia del 1972 con la ricostruzione in scala del campanile di San Marco, precede il periodo in cui si dedica alle
Grammature di colore e alle ricerche sui supporti (Intonaco,
Lavagna, Pelle, Pergamena esposte allo Studio Sant’Andrea
di Milano da Gianfranco Bellora col quale ha avuto un lungo
sodalizio). Una Grammatura di colore è attualmente esposta nella Collezione Arte Contemporanea Italiana alla Farnesina (Ministero degli Esteri, Roma) ed altre in vari Musei
Italiani ed Esteri.
Nel 1986 Giorgio Celli lo invita alla Biennale di Venezia “Sezione Biologia”. Nel 1997 partecipa alla mostra “Dadaismo
Dadaismi – da Duchamp a Warhol – 300 capolavori” a Palazzo Forti di Verona, con l’opera “Deus ex machina, 1965”
invitato dal curatore Giorgio Cortenova. Nel 1998 il Comune
di Livorno, nello spazio del Museo Fattori, gli dedica un’ampia antologica che comprende le opere più significative dei
diversi periodi della sua ricerca artistica con la pubblicazione di un catalogo dal titolo: “Fare per far pensare”, logo del
suo lavoro.
Nel gennaio 2012 la Galleria Allegra Ravizza Art Project allestisce la prima esposizione di opere storiche a partire da
un progetto del 1971 “La cultura è energia”, una mostra in 5
azioni tenutasi alla Galleria Apollinaire di Milano con Pierre
Restany. La cura è di Marco Meneguzzo che in un’intervista
televisiva dice: “Marchegiani è il futuro fatto in casa”. sezione Nuove Tecniche-Nuovi materiali”.
GRAMMATURE DEL COLORE N. 7
Tecnica mista su lavagna
100 x 80
1976
GRAMMATURE DEL COLORE
Tecnica mista
100 x 80
1976
57
Carmengloria MORALES
Carmengloria MORALES è nata a Santiago del Cile nel 1942,
ma vive in Italia dal 1953,residenza che alterna, a partire dal
1979, con numerosi soggiorni newyorkesi. Fin dal suo debutto nel campo delle arti figurative l’attenzione dell’artista
è concentrata sul linguaggio della pittura. Nel 1969 espone
il suo primo Dittico che consiste in due tele monocrome
affiancate, entrambe dipinte. Due anni dopo la Morales riproporrà la sua riflessione sulla forma a dittico, questa volta
impostando solo una tela dipinta: l’altra è lasciata grezza,
a indicare l’azzeramento della pittura, quale superamento
del concetto romantico dell’ane e presentando quello che
diventerà nel corso della sua vita artistica una sorta di paradigma. “È l’artista più monocorde che ho conosciuto”,
diceva di lei Filiberto Menna, tanto che risulta assai complesso tentare una periodizzazione del suo lavoro.
Con i Dittici l’artista è presente alla storica rassegna Geplante Malerei di Münster e a documenta 6, la prima del 1974, la
seconda del 1977. Questa volta la tela di sinistra, quella della
rappresentazione, è percorsa in tutta la sua superficie da
una maglia graffita e, dunque, oltre alla monocromia c’e una
concessione alla gestualità. Quest’ultima variante apre un
discorso che la Morales coltiva in senso analitico, come rivelatore delle fasi costruttive della pittura. La conferma di
questa impostazione arriva nelle opere seguenti, scandite
dalle sequenze di colori primari ai quali si aggiunge un’altra
variazione poetica con l’intervento del colore metallico che
caratterizza anche la produzione più recente. La sua pittura è ora caratterizzata da una nuova gestualità sottolineata
dall’utilizzo dei pigmenti metallici e da altri formati privilegiati tra i quali il tondo.
Una procedura che viene confermata nel campo circolare che compare per la prima volta nell’86 e nelle diverse
“pale”, tele centinate, mirate sempre a rifondare la struttura
del dipinto riducendone all’osso le funzioni rappresentative.
Tra le mostre storiche a cui ha partecipato: Un futuro possibile. Nuova pittura, La riflessione sulla pittura, 1973, Analytische Ma/erei, 1975, I colori della pittura, 1976. Nel 1985 ha
partecipato a Artisti Italiani degli anni Settanta nelle collezioni della Galleria Civica d”Aile Moderna al Castello di
Rivoli. Numerose anche le personali tra le quali quella alla
Galleria Plurima di Udine nel 1983 con presentazione di Filiberto Menna (dove torna nell’88 e nel ‘92) e alla Rupert
Walser di Monaco nel 2001.
DITTICO
Tecnica mista su due tele
90 x 90
1972
59
Mario NIGRO
Si trasferisce prima ad Arezzo e poi a Livorno, dove mette in
evidenza le sue prime qualità artistiche sia pure in composizioni largamente pervase da uno stanco tradizionalismo
pittorico. Ha modo però di evidenziare un notevole eclettismo culturale che lo porta a suonare due strumenti (pianoforte e violino) ed a laurearsi in due diverse discipline (
Chimica e Farmacia). E’ assistente di Mineralogia all’Università di Pisa e successivamente ottiene un impiego presso la
farmacia dell’Ospedale di Livorno.
Nel 1945 fonda insieme a Voltolino Fontani e altri pittori livornesi il Gruppo artistico moderno (G.A.M.). La sua attenzione è in un primo tempo orientata verso i grandi maestri
della pittura italiana, come Sironi e De Chirico, anche se poi
l’interesse per l’astrazione prende il sopravvento. Nel 1949
aderisce al Movimento Arte Concreta (MAC) di Gillo Dorfles.
Nel 1950 realizza i “Pannelli a scacchi iterativi e simultanei”
che vengono esposti a Parigi. Nel 1952 esegue le iterazioni
ritmiche progressive simultanee in variazione monocroma.
Il suo astrattismo geometrico assume dunque forma reticolare. La sua attività artistica non è fatta soltanto di opere
d’arte ma anche di scritti, tanto che nel 1954 riesce a pubblicare il suo primo lavoro teorico sullo “Spazio totale”.
Nel 1961 esegue i “Collages vibratili modulari”. Nel 1964 è
invitato alla Biennale di Venezia. Nel 1965 realizza le strutture del “Tempo totale”, le colonne ambientali e i componibili modulari. L’anno dopo pubblica lo scritto sul “Tempo
totale”.
Nel 1968 ottiene una sala personale alla Biennale di Venezia,
a cui parteciperà varie volte negli anni successivi. A metà
anni ’70 realizza le “strutture fisse con licenza cromatica”.
Seguono la serie del Terremoto, quella degli Orizzonti, delle
Orme, dei Cipressi , dei Dipinti Satanici, delle Meditazioni ad
acrilico e delle Strutture ad inchiostro.
La sua opera decisamente originale sconfina nel campo
dell’arte optical e a partire da metà anni sessanta in quella “minimal”, mostrando tangenze anche con una disciplina
come l’architettura, tanto che in gergo alcune sue produzioni degli anni ’50 sono denominate “grattacieli”. Celebrato più volte in rassegne artistiche internazionali, tra cui si
ricorda quella del 1971 a Münster ( “Arte concreta. Die Italienische Konstruktivismus”) Mario Nigro si spegne a Livorno, sua città di adozione, nel 1992. Nel 1993 la Biennale di
Venezia gli rende onore con una mostra che dà il via ad una
nuova rilettura della sua opera.
SPAZIO TOTALE
Tecnica mista su carta
35 x 50
anni ‘60
61
TERREMOTO
Carboncino su carta
50 x 20
1982
62
MEDITAZIONE
Acquerello su carta
40 x 31
1991
63
Claudio OLIVIERI
Claudio OLIVIERI, nato a Roma nel 1934, si trasferisce a Milano nel 1953, dove frequenta
l’Accademia di Belle Arti. Formatosi nell’ambito delle ricerche informali di quegli anni, esordisce con opere caratterizzate dal colore, usato dinamicamente e steso tramite complesse stratificazioni, e, spesso, anche interrotto da percorsi
segnici. Allestisce la sua prima personale nel 1959.
con Enrico Della Torre, alla British School di Bologna. L’anno seguente espone al Salone Annunciata di Milano. Con il
passare del tempo approfondisce con i suoi lavori i rapporti
tra forma e colore, tra segno e spazio, lavori che porterà alla
XXXIII Biennale di Venezia del 1966. Nel 1967 realizza invece
una serie di sculture in alluminio, nelle quali i segni-colori
dei suoi dipinti si trasformano in filamenti colorati che fluttuano nello spazio. Nella seconda metà degli anni Sessanta
questa distinzione tra il fondo pittorico ed i segni-colore si
fa più distinta, creando diverse profondità spaziali. Nel decennio successivo i quadri di Olivieri assumono sempre più
la fisionomia di uno schermo, dove vengono determinate,
dai soliti elementi di segno, gesto e colore, oltre a
variazioni di profondità, anche diversi gradi di intensità luminosa, rendendo evidente anche gesto stesso del dipingere ed il pensiero che lo determina. Numerose sono le
rassegne internazionali cui ha partecipato, tra queste, nel
1974-’75 Geplante Malerei, la documenta 6 di Kassel nel
1977; ancora la Biennale di Venezia, nel 1980, 1986 e 1990;
le mostre Linee della ricerca artistica in Italia 1960-1980 al
Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1981, Arte in Italia
1960-1982 alla Hayward Gallery di Londra l”anno seguente
e successivamente ltalienische Kunst a Kunstverein di Francoforte e Arte italiana 1970-1980 alla Kunsthalle di Budapest. Numerose anche le mostre personali tra le quali quella
al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano nel 1982, alla
Galleria Civica di Modena nel 1983 e alla Galleria milanese ll
Milione nel 1988. Più recentemente ha partecipato alla Quadriennale di Roma (1999), mentre nel 2001 Palazzo Sarcinelli di Conegliano (Treviso) gli ha dedicato una importante
retrospettiva.
SENZA TITOLO
Olio su tela
200 x 100
1978
65
LUCE ANCORA
Tecnica mista su tela
80 x 110
1991
66
MELODICO
Tecnica mista su tela
80 x 110
1989
67
Giorgio OLIVIERI
Giorgio Olivieri, tra i primi ad aderire al realizzarsi della
prassi pittorica all’interno di una grammatica e di una sintassi minimali che hanno caratterizzato una larga parte degli anni settanta, si distingue per una sua ricerca espressiva
approfondita in lunghi anni, una ricerca che presuppone
certi sviluppi spaziali, ma attraverso il rapporto tra colore
e superficie, segno pittorico. Le proposte e le soluzioni di
Lucio Fontana per andare oltre il quadro sono da lui assimilate, ma non per la creazione di “ambienti”: il quadro resta, anche se in un primo tempo diventa quadro-oggetto, e
resta il valore sottile del colore, che non perde le risonanze
venete, pur risolvendosi in nitido timbro.
Inizia la sua attività espositiva alla fine degli anni Cinquanta,
riuscendo nel giro di alcuni anni a farsi interprete di quel
clima di azzeramento aniconico che segue l’onda calda
dell’azione informale e che privilegia la pittura come procedimento analitico, indagine intorno alla sua sintassi, alle
sue specificità. Nei primi anni ‘70 realizza una serie di quadri-oggetto, geometrici, strutture nitide hard-edge, dove la
superficie monocroma à plat è interrotta da strisce dipinte,
spaghi o dai profili dei diversi telai sagomati e giustapposti.
Superata la metà del decennio, bande multicolori prendono
ad animare i fondi monocromi e purissimi dei dipinti, ponendosi ai loro margini, sui risvolti fissati al telaio di legno;
esse sottolineano il vuoto che si apre al centro dell’opera e
rimandano - proprio in virtù della loro natura periferica - oltre la superficie.
Bastoncini di colore fanno il loro ingresso nelle superfici
acriliche dei primi anni ‘80, sempre a connotare i bordi del
campo, aste geometriche che intorno all’ 84-’85 si dispongono dentro o intorno a stesure cromatiche liquide, immagini trascoloranti in distese di azzurri, verdi, rossi e viola.
Il colore – un’onda fluida, trasparente e leggera - si libera
rompendo gli argini del rigore, eludendo ogni configurazione rigidamente formale, coinvolgendo anzi le bande colorate nell’ eccitata epifania della pittura.
I dipinti più recenti – monocromi raffinatissimi dove il colore
è insieme compatto e lieve, capace di restituire velature e
trasparenze – recuperano il motivo degli spaghi, qui vere
e proprie corde impreziosite da nappe che si dispongono
lungo il perimetro della tela o che attraversano la superficie
dell’opera.
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
70 x 70
1975 - ’76
69
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
40 x 40
1977
70
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
60 x 60
1979
71
Gottardo ORTELLI
Gottardo Ortelli è uno dei più originali protagonisti della
pittura italiana degli ultimi trent’anni, e uno dei più rappresentativi esponenti della Pittura-Pittura o Pittura Analitica,
impegnato a sostenere la pratica del dipingere come analisi ed emozione del colore, attraverso la verifica dei mezzi
cromatici e la loro trasfigurazione lirica nel movimento di
espansione dello spazio
La sua opera attraversa diverse fasi di ricerca: dall’accertamento della superficie alla memoria della città, dalle regole
della geometria al rapporto luce-ombra, dal ritmo spaziale
dei segni al respiro mutevole dei colori, dalla soglia della
natura alle derive inesplorate dello sguardo.
In questo viaggio sul filo del visibile Ortelli predilige il movimento errante della pittura, gli slittamenti della percezione
e la rivelazione di orizzonti sconosciuti, alternando l’evocazione solare della luce alle profondità notturne dell’ombra.
Una profonda continuità guida le differenti stagioni espressive mostrando una coerenza creativa che si sviluppa dai
rigorosi ritmi geometrici degli anni Settanta fino alle fluttuazioni emotive del colore che caratterizzano l’ultimo periodo di lavoro.
“Dipingere – ha scritto l’artista- significa riaffermare con
forza i valori della spiritualità e misurarsi con l’intemporalità.
Dipingere significa affinare le capacità intellettuali e l’abilità
manuale che le rende visibili: obiettivi che si raggiungono
solo con intensa applicazione e lungo esercizio. Dipingere
significa affidare all’opera la testimonianza intera del suo
senso, riportarla nella sfida del tempo”.
SUPERFICIE DI ACCERTAMENTO
Acrilico su tela su tavola
130 x 158
1976
73
Pino PINELLI
Pino PINELLI è nato a Catania nel 1938. Si trasferisce a Milano nel 1964, dove tiene la sua prima mostra personale alla
Galleria Bergamini e dove vive e lavora anche attualmente. Inizia a esporre con continuità, in Italia e all’estero, dai
primissimi anni Settanta. ll suo lavoro risente allora dell’influen2a di Lucio Fontana e delle ricerche attorno al Minimalismo. Nel decennio 1975-1985 compaiono le prime forme
modulari accostate, costituite da una struttura rivestita di
stoffa o di pelle di animale. Caratteristica fondamentale di
queste opere - che sono la costante dell’opera di
Pinelli - e la loro disseminazione sulla parete, con una disposizione che segue una linea ideale.
Partecipa, fra l’altro, alla XLll Biennale di Venezia nel 1986.
A partire dai primi anni Settanta, si interessa della pittura
come forma. La pennellata di colore, solidificata e frammentata viene ripetuta, prima all’interno di una superficie,
poi sulla parete o nell”ambiente. Si comprende così perché
Pinelli sarà considerato uno dei principali esponenti della
Nuova pittura o Pittura analitica, di cui sarà uno degli anisti più rigorosi. Nel 1975 appaiono le prime forme modulari
accostate, per esempio tre quadrati, costruite con un telaio
rivestito di flanella o, in qualche caso, di pelle di
daino, che introducono un altro elemento che sarà fondamentale nell’opera del pittore, la tattilità.
Del 1976 è la rottura dell’unità del quadro: “Pittura GR” è
costituito da quattro elementi che sono gli angoli di un rettangolo che risulta, in tal modo, con i lati tagliati. Si sviluppa
qui sia la dialettica tra opera e muro che l’idea di disseminazione, di “frammentità”, secondo la definizione del poeta
Carlo Invernizzi. D’ora in poi il lavoro di Pinelli sarà tutto
incentrato su questa dislocazione sulla
parete di elementi che indicano la rottura della struttura
quadro, della superficie e della bidimensionalità. Le strutture (fino al 1983) sono rivestite di flanella, poi Pinelli inventa
una “tecnica mista”, risultante da vari materiali amalgamati
che, dipinti, assumono una pelle sensualmente tattile, quasi
un velluto. Tra le numerosissime mostre personali e collettive si cita la retrospettiva che gli ha dedicato nel ‘90 la Galleria d’Arte Plurima di Udine e quella al Kunstmuseum di Bonn
nel ‘96. Nell’88 ha esposto all’interno di Astratta. Seoessioni
astratte in Italia dal dopoguerra al
1990 a Palazzo Forti a Verona e nel 1998-’99 a Arte italiana. Ultimi quarant’anni. Pittura aniconica alla Galleria d’Arte
Moderna di Bologna.
PITTURA BL
Tecnica mista (due elementi)
1998
PITTURA R
Tecnica mista (tre elementi)
2001
75
PITTURA R
Tecnica mista (cinque elementi)
2004
76
77
PITTURA BL
Tecnica mista (quattro elementi)
2008
78
79
Lucio POZZI
Lucio Pozzi nasce a Milano nel 1935. Si trasferisce a Roma
per stu­di­are architet­tura e suc­ces­si­va­mente, nel 1962, approda negli Stati Uniti, ospite dell’Harvard Inter­
na­
tional
Sum­mer Sem­i­nar. Verso la fine degli anni ’60 si sta­bilisce a
New York, diven­tando cit­tadino amer­i­cano e fre­quen­tando
assid­u­am
­ ente il vivace mondo artis­tico della Grande Mela.
Ben presto le sue opere ven­gono esposte in diverse gal­lerie
sia in Amer­ica che in Europa, tra cui l’Ariete, John Weber,
Gia­nenzo Sper­one, Yvon Lam­bert e Leo Castelli. Uti­liz­zando
dif­fer­enti media, Pozzi si inserisce nel solco dell’arte con­
cettuale per poi sper­im
­ entare stili e for­mule espres­sive pro­
fon­da­mente diversi fra loro, com­bi­nando inces­san­te­mente
lin­
guaggi e mate­
ri­
ali. Questo suo eclet­
tismo unito a una
atti­tu­dine provo­ca­to­ria è tes­ti­mo­ni­ato in par­ti­co­lare dalla
serie di mostre conosciute come Provo­ca­tion Shows, che
ancora oggi ven­gono allestite in musei e gal­lerie. Tra i vari
riconosci­menti, nel 1983 Lucio Pozzi è stato pre­mi­ato con il
National Endow­ment for the Arts e nel 2010 ha rice­vuto un
Diploma Hon­oris Causa all’Accademia di Verona. Nel 1977 è
invi­tato a Doc­u­menta 6 a Kas­sel e nel 1980 alla Bien­nale di
Venezia, dove espone nel Padiglione Amer­i­cano. Ha inseg­
nato al Sculp­ture Grad­u­ate Pro­gram della Yale Uni­ver­sity,
alla Prince­ton Uni­ver­sity e al Mary­land Insti­tute of Art. È
inoltre pro­fes­sore alla School of Visual Arts di New York,
all’Accademia Cig­naroli di Verona e alla Lib­era Accad­e­mia
di Bres­cia. Le opere di Pozzi fanno parte di numerose collezioni pub­bliche e pri­vate, tra cui The New York Pub­lic Library; MoMA, New York; The Whit­ney Museum of Amer­i­can
Art, New York; The Museum of Con­tem­po­rary Art, Chicago;
PS1 Con­tem­po­rary Art Cen­ter, New York; Cen­tro per l’Arte
Con­
tem­
po­
ranea Luigi Pecci, Prato; Collezione Maramotti,
Reg­gio Emilia. Attual­mente Lucio Pozzi vive e lavora tra
Hud­son e Valeg­gio sul Min­cio (VR).
FIELDS
Olio su tela
57 x 50
1990
GEMMA
Olio su tela
57 x 50
1990
81
UTOPIA
Olio su tela
61 X 61
1991
82
LONGIN
Olio su tela
61 X 61
1991
83
Tomas RAJLICH
Tomas Rajlich nasce nel 1940 e si forma nell’ambito delle
arti visive, prima alla Scuola di Arti Decoralive, poi all’Accademia di Belle Arti a Praga. Si dedica inizialmente alla scultura, e ben presto sceglie il filone astratto-geometrico. Nel
1966, insieme ad altri fonda il “Klub Konkretistü” - l’equivalente ceco dei gruppi ”Nul” o ”Zero”- procurandosi così la
fama a livello nazionale.
Circa due anni dopo, il mondo internazionale dell’arte scopre il suo lavoro al Museo Rodin di Parigi, nell’ambito di una
mostra collettiva dedicala alla ScuItura Cecoslovacca.
Nel l969, Rajlich decide di lasciare il suo paese a causa
dell’occupazione sovietica, ed emigra in Olanda, dove viene nominato Professore alla Vrije Academie, e nello stesso
tempo scopre la sua vocazione di pittore.
Rappresentato dalla Galleria Art & Project di Amsterdam,
dalla Galleria Yvonne Lambert di Parigi e dalla Galleria
Françoise Lambert di Milano, il suo lavoro inizia presto ad
essere apprezzato su scala internazionale, e Rajlich è invitato a parlecipare a grandi esposizioni profondamente innovative, come Fundamental Painting (1975) allo Stedelijk
Museum di Amsterdam. La prima retrospeltiva di Rajlich si
è tenuta al Palazzo Martinengo di Brescia nel 1993. La sua
nazione adottiva, l’Olanda, ha conferito all’artista il prestigioso Premio Ouborg per la carriera, nel 1994, e in quesla
occasione il Gemeentemuseum di L’Aia ha ospitato la sua
seconda retrospettiva. Nel 2006, in occasione del suo 65°
compleanno, presso lo stesso Museo si è tenuta una retrospettiva dei lavori su carta di Rajlich.
Nella nativa Repubblica Ceca, il Düm Umèni Mésta di Brno
gli ha dedicato una retrospeltiva nel 1998 e la Galleria Nazionale di Praga nel 2008.
I lavori di Rajlich fanno parte di prestigiose collezioni internazionali, e l’artista ha ricevuto parecchie commissioni per
la realizzazione di opere monumentali, come l’installazione
costituita da sei grandi tele per il Road van State di l’Aia
(Olanda).
Dal 1999 al 2002 Rajlich è stato uno degli artisti in residenza
presso il Centre Georges Pompidou a Parigi.
Oggi vive e lavora fra L’Aia, Praga e Parigi.
MONOTIPO
Monotipo su carta
65 x 50
1974
85
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
80 x 80
1975
86
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
100 x 100
1972 - ‘73 - ‘74
87
Marco TIRELLI
Marco Tirelli nasce a Roma nel 1956.
Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma dove si diploma in scenografia con Toti Scialoja.
Attualmente vive e lavora in Umbria. Al 1978 risale la sua
prima mostra personale presso la Galleria De Ambrogi di
Milano.
Tra le prime mostre collettive di Tirelli ricordiamo la partecipazione alla collettiva “Italiana. Nuova immagine” a Ravenna (1980) e alla Biennale di Venezia del 1981 e, tra le mostre
personali, quelle presso la Galleria Bernier di Atene (1979) e
la Galleria De Crescenzo di Roma (1980).
Al 1984 risale la prima mostra personale presso Galleria
L’Attico di Fabio Sargentini di Roma.
Marco Tirelli espone di nuovo alla Galleria L’Attico nel 1985,
1987, 1988 e, con una personale, nel 1989.
A metà degli anni ‘80 trasferisce lo studio nei locali dell’ex
pastificio Cerere in Via degli Ausoni, nel quartiere romano
di San Lorenzo, che diventa in quel periodo un vitale centro propulsore della cultura artistica. Qui si tiene, nel 1984,
la mostra “Ateliers” in occasione della quale Tirelli, Bianchi,
Ceccobelli, Dessì, Gallo, Nunzio, Pizzi Cannella, aprono i loro
studi al pubblico.
A partire dalla seconda metà degli anni ‘80 la sua ricerca
formale e cromatica tende ad una maggiore essenzialità.
Nel 1985 partecipa alla collettiva “Anniottanta” presso la
Galleria d’Arte Moderna di Bologna e tiene per la prima volta una mostra personale alla Annina Nosei Gallery di New
York, dove espone nuovamente nel 1986 e nel 1989.
Nel 1990 partecipa con una mostra personale alla Biennale di Venezia e la Galleria Civica di Modena gli dedica una
mostra personale. Nello stesso anno espone, con Sol Lewitt,
all’American Academy di Roma e partecipa alla Biennale di
Sidney.
Ricordiamo inoltre le mostre personali alla Galleria Triebold
di Basilea (1991), alla Galleria Gian Ferrari di Milano (nel 1992
e, più recentemente, nel 1997 insieme alla Galleria Baldacci),
presso la Galleria Hilger di Vienna e Francoforte (1992), la
Galleria dell’Oca di Roma (1993), la Galleria Di Meo a Parigi
(1995).
Tirelli ha vinto il premio Michetti 1997.
Nel 1998 è a Verona con una personale allestita alla Galleria
dello Scudo.
SENZA TITOLO
Tempera su tavola (sei elementi)
150 x 140
2002
89
Giuseppe UNCINI
Giuseppe Uncini si trasferisce a Roma nei primi anni Cinquanta incoraggiato dall’ scultore Edgardo Mannucci dal
quale prenderà lo studio. Qui nasce la serie delle Terre (‘57’58), opere realizzate con cemento, carbone, terre. Le prime
opere con il cemento armato risalgono all’ fine del decennio; queste segnano il passaggio da una fase informale ad
un’altra caratterizzata da un alfabeto elementare; la materia
non è più informe ma dotata di un senso proprio, una materia essenziale, propositiva di una nuova fase che intende
staccarsi dall’ precedente. Nel 1958 espone all’ Gall’ria Appia Antica a Roma con Lo Savio, Manzoni e Schifano. Nel
1962 è uno dei componenti del Gruppo 1, movimento appoggiato da Argan, che si propone di superare l’informale, perch, Già storicizzato e incapace di essere socialmente
funzionale. Dopo lo scioglimento del gruppo, avvenuto nel
‘67, l’artista ha un periodo di sperimentazione con le strutturespazio e l’applicazione di componenti geometriche. La
successiva ricerca scaturisce dall’ riflessione riguardo a Ciò
che non è corporeo, come nel caso della costruzione delle ombre, ma l’artista prosegue oltre e indaga nel silenzio
delle forme pensate; dopo questa lunga ricerca l’attenzione
viene nuovamente posta sulla componente spaziale. Si ricordano le mostre principali: nel 1961 si tiene una personale
presso la gall’ria L’Attico a Roma; nel ‘64 è a Venezia presso
la gall’ria del Cavall’no; nel ‘68 espone a Torino presso la
gall’ria Stein; seguono diverse personali all’ gall’ria Marconi
a Milano (‘73, ‘76, ‘80, ‘95); nell’83 espone all’ Pinacoteca di
Macerata; nell’87 è da Mara Coccia a Roma; nell’89 espone
da Banchi Nuovi a Roma, è poi presente a Torino in due diverse gall’rie, Ippolito Simonis e Eva Menzio, quindi a Roma
presso Mara Coccia; nel ‘91 è le sue opere sono presenti
in due gall’rie, da Tega e da Cavellini; nel 1995 espone all’
gall’ria Fumagall’ a Bergamo e all’ Studio Marconi a Milano.
COLLAGE
Collage su plexiglass
70 x 100
1973
91
Claudio VERNA
92
Claudio VERNA nasce a Guardiagrele in Abruzzo nel 1937.
Autodidatta, a vent’anni si trasferisce a Firenze dove entra
in contatto con l’ambiente dell’astrattismo classico, come
testimonia la prima personale alla Galleria Numero nel 1960.
Nel 1961, laureatosi in sociologia, va a vivere a Ftoma e si
awicina all’informale. Seguono alcuni anni di riflessione sul
proprio linguaggio pittorico, una pausa espositiva interrotta
solo nel 1967, con la personale alla Galleria “Il Paladino” di
Palermo dove Verna allestisce una serie di tele monocrome
inten/allate da linee irregolari. “Forme geometriche bloccate - ha scritto Menna in quella occasione - (la prevalenza dei
quadrati e dei rettangoli), simmetricamente disposte sulla
superficie del quadro, cedono a forme più libere, disposte
questa volta sulle diagonali, a bande di colore aggressive
come segnali”. Dagli inizi degli anni Settanta si concentra
sulla geometria e sul colore e sul rapporto che intercorre
tra questi due elementi. “L’assunto analitico di Verna - scrive invece Giovanni Maria Accame - e già, immediatamente,
calato nella sua esigenza di mantenere uno stretto rapporto con il colore, di farne comunque il protagonista, dichiarato o implicito”. Invitato ad alcune edizioni della Biennale
di Venezia (1970, 1978, 1980) e della Quadriennale romana
(1973, 1986), sempre nel 1973 espone alle storiche rassegne
Tempi di percezione e Un futuro possibile. Nuova Pittura
al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Nel 1975 a Analytische
Malerei. La produzione pittorica di Verna dagli inizi degli
anni Ottanta, sempre ordinata nella tramatura, apre di nuovo la strada a un certo lirismo, anche se non più riconducibile all’informale. Nei decenni successivi conferma ancora la
linea intrapresa, aggiungendo un’attenzione particolare alle
trasparenze e alla luce che ne scaturisce e facendo sua, ancora una volta, la celebre formula di Valery “ll vero pittore,
per tutta la vita, cerca la pittura; il vero poeta la poesia”. Tra
i diversi riconoscimenti ottenuti: il Premio Acireale nel 1968,
il Premio Città di Gallarate nel 1973 e nel 1995, il Premio Michetti nel 1973 e nel 1983, il Premio Suzzara nel 1999. Tra le
mostre più recenti si segnalano: L’altra linea dell’arte italiana (Du MontKunsthalle, Colonia, 1997) e la partecipazione a
Arte italiana. Ultimi quaranfanni. Pittura aniconica tenutasi
nel 1998 alla Galleria d’arte moderna di Bologna.
PITTURA
Olio su tela
100 x 100
1975
93
FOXTROT
Olio su tela
200 x 100
1978
94
NILO VIOLA
Olio su tela
70 x 80
2003
95
SENZA TITOLO
Olio su tela
200 x 190
1986
96
97
ClaUde VIALLAT
Claude Viallat, gia dal 1964, all’età di 28 anni, insegna all’École des Aris Décoraiifs a Nizza. Proprio a Nizza esordisce nel
1966, con la personale alla Galleria A. ln auesli anni si forma
la cosidde††a École de Nice, sotto la cui egida Viallai espone
a Vence (Galleria de la Salle), Lione (Palais de Bondy, Galleria L’CEil ecoule, Galleria Guinoichel), Bordeaux (Galleria
des Beaux Aris) e naluralmente Nizza (Club An†onin Arlaua). Abbandona presto il cavalletto e dipinge lete al suolo
o all’aria aperta, sottoponendole a interventi decisi col colore, visibili anche sul verso. Alla ?ne degli anni Sessania è gia
riconoscibile il suo “marchio“ a forma di fagiolo.
Díven†a direttore dell’École des Beaux-Aris di Nimes e professore all’École Nationale Superieure de Beaux-Arts
di Parigi.
È uno dei più precoci maestri del gruppo Supporis/Surfaces e partecipa alle mostre ad esso dedicale dal Musee
a’Art Moderne di Parigi (1970), al Théatre di Nizza e alla Cile
universitaire di Parigi (1971). Gia nel 1974 il Musée d’Art et
d’industrie di Saint Étienne gli dedica una “Retrospective“.
Opera anche una ri?essione sul supporio, fino a liberare la
tela dal telaio. Negli anni ottanta il colore diventa protagonista delle sue lete, appese al muro libere da cornice. Espone al Musee Nationale d’Art Moderne, Centre Pompidou, di
Parigi (1982), alla Fundació Joan Miro di Barcellona (1983),
alla Galleria Kamakura di Tokyo (1981, 1986 e 1989) e alla
Galleria Leo Caslelli di New York (1982).
In Italia esordisce in una personale a Milano nel 1973 (Galleria Templon) e nello slesso anno è invitato a “La ri?essione
sulla pittura”, ad Acireale. Nel 1975 par†ecipa alla collettiva
itineran†e “Analytische Malerei“ (Galleria La Bertesca, a Genova, Milano e Düsseldorf). Nel 1988 rappresenta la Francia
alla XLlll Biennale di Venezia.
SENZA TITOLO
Acrilico su carta
100 x 70
1999
SENZA TITOLO
Acrilico su carta
100 x 70
1999
99
Gianfranco ZAPPETTINI
Gianfranco ZAPPETTINI è nato a Genova nel 1939. Tra il
1962 e il`1964 espone ad Albisola e poi a Bologna e a Verona. Nel 1964 approda alla galleria La Polena di Genova,
dove l’anno seguente tiene la prima personale. Nel 1967 a
Parigi visita gli studi di Alberto Magnelli e di Sonia Delaunay e a Zurigo quello di Max Bill. Frequenta i pittori Mauro
Reggiani, anch’egli legato alla galleria La Polena, e Mario Nigro, di cui diventa amico e con il quale intrattiene una lunga
corrispondenza. Nel 1968 conosce Winfred Gaul, a Genova
per una personale alla Polena: con lui Zappettini instaura
una fraterna amicizia e tramite Gaul comincia a frequentare
l’ambiente artistico tedesco e olandese.
Partecipa nel 1971 alla mostra Arte Concreta al Westfälischer Kunstverein di Münster, nel 1973 a Tempi di percezione a Livorno e Un futuro possibile - Nuova Pittura presso il
Palazzo del Diamanti a Ferrara, nel 1974 a Geplante Ma/ere/,
organizzata da Klaus Honnef al Westfälischer Kunstverein
di Münster, nel 1975 a A proposito della pittura, mostra itinerante in vari musei olandesi, e a Analytische Ma/erei di Klaus
Honnef e Catherine Millet. Sempre nel 1975 espone in una
personale alla Galleria Karsten Greve di Köln. L’anno successivo espone a Cronaca nella Galleria Civica di Modena e
a I colori della pittura all’lstituto Latino-americano di Ftoma.
Nel 1977 partecipa a 1960-77 Arte in Italia alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino. Viene invitato a esporre a
documenta 6 di Kassel. Dopo Kassel i suoi lavori vengono
esposti anche a Bilder ohne Bilder (a cura di Klaus Honnef)
al Ftheinisches Landesmuseum di Bonn. Con lavon tra foto
e pittura partecipa sempre nel 1977 a Photo Ma/ere/ alla
Galleria Peccolo di Koln e a Aphoto allo Studio Marconi di
Milano. Nel 1978 espone nella mostra Abstraction Ana/ytique al Museo d’Arte Moderna di Parigi e in una personale
dal titolo Coincidenze percettive tra Genova e Anversa all’|.C.C. di Anversa. Nel 1981 partecipa a Linee della ricerca
artistica in Italia - 1960-1980, a Palazzo delle Esposizioni,
Roma, e a Pittura in radice (a cura di Achille Bonito Oliva)
alla Galleria Artra Studio di Milano. Nel 1983 è invitato ad
esporre a Critica ad Arte (anch’essa a cura di Bonito Oliva)
che ha luogo a Palazzo Lanfranchi, Pisa.
Nel 1998 tiene la sua prima mostra antologica al Museo
d’arte contemporanea di Villa Croce di Genova, a cura di G.
Giubbini. Nel 2005 ha esposto nelle personali alla Galleria
Plurima (L’oro e il blu, con P. Cotanl) e al Centro per l’arte
contemporanea della Rocca di Umbertide.
Vive e lavora a Chiavari, dove, nel 2003, costituisce la Fondazione Zappettini per l’arte contemporanea.
SENZA TITOLO
Acrilico su tela
100 x 100
1973
101
SUPERFICI ANALITICHE
Tele sovrapposte
60 x 60
1975
SUPERFICIE ACRILICA N.236
Acrilico su tela
80 x 80
1974
102
CONFINE N.22
Acrilico e tecnica mista su tela
50 x 50
2007
103
SUPERFICIE ACRILICA
Tecnica mista su tela (4 tele)
82 x 328
1974
104
105
LA TRAMA E L’ORDITO N.92
Acrilico e tecnica mista su tela
100 x 100
2007
106
LA TRAMA E L’ORDITO
Acrilico e tecnica mista su tela
160 x 110
2006
107
ANTOLOGIA
CRITICA
108
Il corpo fluido della pittura analitica
Pittura d’analisi
Alberto Fiz
Giorgio Bonomi
Non c’e piu un prima o un dopo; non c’e più un oltre in quanto la pittura, negli anni settanta, rappresenta un luogo concreto in base a un vento che spira
per tutta l’Europa e coinvolge, oltre all’ltalia, la Germania, l’Olanda, il Belgio,
l’Inghilterra e soprattutto la Francia con gli artisti del gruppo Support-Surface che dichiarano: “La peinture comme pratique signifiante relativement
autonome accompagnant l’histoire materielle qui la determine en dernière
istance”. ln bilico tra virtualita e fisicità, la pittura, presa di mira dalle avanguardie, rappresenta un’alternativa sia nei confronti della prevalenza dell’oggetto concettuale (la thingness) sia della meccanicità seriale propria della
pop art e, pur mantenendo una sua assoluta coerenza, sottopone se stessa
a un profondo rinnovamento dove l’atto del dipingere diventa un’estensione
dell’esperienza.
“Tutti gli artisti degli anni settanta lavorano sulle strutture, sugli elementi
fondanti e fondamentali della pittura: colore,luce, superficie, segno, quadro,
cornice, corpo, gesto, pennellata e così via”, ha affermato Giorgio Bonomi.
La pittura, insomma, in qualunque modo la si voglia leggere, è la verifica
dell’esistenza nel momento del suo farsi, lo specchio riflesso della memoria,
il principio attivo della creazione. La semplice tautologia (Pittura Pittura) o
la riduttiva definizione di metapittura non sono sufficienti per evidenziare
un percorso che si definisce secondo un autonomo procedimento sintattico
in grado di costruire una propria lingua. Per dirla con le parole di Ferdinand
de Saussure, dunque, è “la somma delle impronte depositate”. “La pittura è
un corpo che ha mandato fuori da se gli occhi e ha cominciato a percepirsi,
oltre a chiedere di essere percepito”, ha dichiarato Paolo Fossati con una
certa dose di visionarietà.
Tornando al nostro discorso, la Pittura Analitica prende le mosse negli anni
sessanta e nasce come reazione alla significazione. Non c’è nulla prima
dell’opera se non l’idea dell’opera stessa.
Decisive a questo proposito le parole di Claudio Verna: “Con certi artisti ero
in sintonia, credevamo nella pittura, ma ognuno cercava la sua strada. invece, alcuni vollero individuare a tutti i costi l’elemento che ci univa esteticamente, credendo di riconoscerlo in una sorta di azzeramento del linguaggio
pittorico, dal momento che utilizzavamo pochi pigmenti. Nacque un grosso
equivoco: personalmente desideravo superare il pittoricismo, ripartire da
capo per riconquistare la mia libertà, mentre altri costruirono una teoria
conclusa laddove non esisteva nulla del genere”.
Va, poi, sottolineato il desiderio di non perdere di vista l’aspetto processuale a scapito di una produzione seriale e il più possibile asettica: “La base
del mio lavoro è l’identificazione della struttura e del processo”, scriveva
Claudio Olivieri nel 1974. “Non sono d’accordo sulle separazioni tra analisi
e operatività, tra contenuto e forma, tra linguaggio e specifico disciplinare.
Non m’interessa l’arte come specialità. La pittura non è manifestazione di
un rito “retorico”, non è manifestazione di un prestigio tecnico o peggio di
autoritarismo corporativo; la pittura non è certezza”.
Ecco, la Pittura Analitica rappresenta un movimento aperto, direi postmoderno, che trasmette un’immagine moltiplicata dove la pittura non è un
assioma assoluto, un a priori da dimostrare scientificamente ma un accadimento.
Ben diverso dalla posizione di Sol Lewitt, che sui celebri Paragraphs on Conceptual Art pubblicati su “Artforum” nel giugno 1967 affermò: “Nell`Arte
Concettuale l’idea o concetto e l`aspetto più importante del lavoro. Quando un artista utilizza una forma concettuale di arte, vuol dire che tutte le
programmazioni e decisioni sono stabilite in anticipo e l’esecuzione è una
faccenda meccanica. L’idea diventa una macchina che crea l`arte. Questo
tipo di arte non è teorico o esplicativo di teorie; è intuitivo, e coinvolto in
tutti i tipi di processo mentale ed e afinalistico”. E ancora: “Lavorare con un
programma prestabilito è un sistema per evitare la soggettività”. La Pittura
Analitica, dunque, non può essere soffocata da una lettura formalista che la
renderebbe un’appendice dell’Arte Concettuale (ben maggiori sono, invece,
le consonanze con l’arte povera e con l’opera di Giulio Paolini in particolare)
ma va analizzata nella sua antidogmaticità e nella sua ambiguità formativa: il
significato va a coincidere con il significante all’interno di un processo dove
l’opera d’arte non rinuncia a una riflessione sulla propria natura che passa attraverso la produzione, il tempo e la memoria, ma anche la concretizzazione
dello spazio nella continua esigenza di creare, come ha scritto Carmengloria
Morales, una “nuova condizione di pittura”.
Così ci pare che, all’interno del movimento analitico, possiamo discernere
tre “filoni” che possono riallacciarsi con quelli più generali che attraversano buona parte dell’arte contemporanea: l’astrattismo, l’informale, il poverismo.
Nel primo gruppo possiamo comprendere Battaglia, Ortelli, Pinelli, Zappettini; nel secondo Cecchini, Cacciola, Cotani, Guarneri, Morales, Olivieri,
Verna; nel terzo Gastini e Griffa, ma anche per certi aspetti, Cacciola e
Cecchini.
Certamente questa suddivisione è schematica, come tutte le classificazioni, ma la proponiamo perche’ da un lato, dimostra la ricchezza dell’analiticità e, dall’altro, la complessità di questi artisti che spesso si contaminano
con l’uno o con l’altro filone, nello stesso periodo del loro fare o nei loro
sviluppi. Si pensi all’evoluzione di Claudio Verna che da una monocromaticità e da un astrattismo, con linee ortogonali o quadrettature, sviluppa poi
una pittura piena di colori, di pennellate che spandono colori molteplici e
sovrapposti; oppure a Cotani che percorre varie fasi che si differenziano
dal “calvinismo” delle bende per ricchezza nella composizione, nella materia pittorica, nella iconografia. Ugualmente Carmengloria Morales che,
pur lasciando neutro l’elemento di destra, riempie di colori l’altra parte del
dittico o, non essendo più questo esclusivo, del tondo o del quadro di altra
forma. Cecchini dilata il colore che scivola sulla tela creando una sorta di
“chiazza” larga e luminosa, similmente Guarneri che poi amplifica il colore
sacrificando un po’ il segno. Olivieri, a sua volta, sviluppa la sua pittura,
fatta tutta di colore e non di segno, fino a comporre delle situazioni quasi
antropomorfe. Ortelli, infine, dopo il suo “astrattismo” si cimenterà con una
pittura “fiammeggiante”, forte e impetuosa.
Sul versante “poverista” abbiamo uno sviluppo coerente, con un uso plurimo di materiali “poveri” in Gastini che aggiunge pietre, legni, ferri, carrube
e quant’altro sulla tela; mentre Griffa, rigorosamente fedele alla tela senza
telaio, introduce un segno di forte impatto storico-simbolico, l’arabesco.
Cacciola, dopo avere fatto altro, riprenderà quell’immagine “povera” nella
monocromaticità ripetuta, realizzata con colori industriali.
Nel campo dell’astrazione, intesa geometricamente ma non in maniera assoluta, solo Pinelli vi resterà coerentemente aderente: anche quando le sue
forme diverranno scaglie e saranno più frattali, sfrangiate, queste avranno
sulla parete una disseminazione e un ritmo geometrici, ascensionali o lineari o anche con intrecci di linee. Zappettini dopo aver praticato altre vie e
territori, ritornerà a un geometrismo che vuole fondarsi sulla simbologia
della trama e dell’ordito.
Intrecci: Analisi globali e radici nazionali
Marco Meneguzzo
(...) In Europa, l’unico cemento che si potrebbe individuare nella vicenda
analitica degli anni settanta, è proprio la forte concettualizzazione del lavoro, seguita immediatamente a ruota da un’altrettanto solida teorizzazione critica, volta a contestualizzare ideologicamente e politicamente
una simile ricerca. È probabilmente questo il motivo principale per cui la
Pittura Analitica americana è stata vissuta come “laterale” rispetto al pieno esplicarsi dell’analiticità pittorico-concettuale nel Vecchio continente.
Se a questa percezione di fondo si unisce poi una oggettiva difficoltà di
conoscenza e di scambio, un sostanziale disinteresse americano a essere
rappresentati in mostre “ideologiche”, un sentimento europeo ancora di
possibile superiorità o almeno d’eguaglianza con le idee d’oltreoceano, e
una leggera sfasatura generazionale, per cui gli americani o erano troppo
“vecchi”, avendo maturato quelle idee già negli anni sessanta - Ryman,
Marden, Mangold e Martin, soprattutto - o erano leggermente attardati
rispetto al pieno manifestarsi europeo - Hafif, Cole e tutta la cosiddetta Radical e Fundamental Painting statunitense -, si comprenderà meglio come
gli artisti americani, per quanto rispettati e singolarmente importantissimi,
fossero considerati alla stregua di comprimari sulla scena
della Pittura Analitica mondiale.Stessa sorte, se non peggiore per il versante europeo del mondo anglosassone, cioè per gli inglesi, che non avevano
alle spalle nessun tipo di tradizione astratta di marca fortemente geometrica, elemento che sembra essere stato per quasi tutti il punto di parten-
109
za più vicino al punto d’arrivo analitico. Dei quattro nomi maggiormente
ricorrenti in quegli anni - David Leverett, Alan Green, Robyn Denny e Alan
Charlton - solo quest’ultimo ha saputo proseguire in quella direzione analitica, guadagnandosi la reputazione - oggi - di unico “minimalista” britannico, essendosi persa anche la nozione di una possibilità di Pittura Analitica
in Gran Bretagna. Del resto, in quel Paese, si percepiva il mondo attraverso
una serie di inclinazioni molto simili a quelle americane (solo poche generazioni prima si sarebbe detto il contrario: che gli americani vivevano con
le stesse inclinazioni degli inglesi...), con la differenza che in quel momento
la Gran Bretagna mancava in questo territorio linguistico di individualità spiccate. Cosi, il pragmatismo che informa sia la parte americana che
inglese della Pittura Analitica porta a considerare quella ricerca come un
campo esperienziale marcatamente individuale, un cammino da un lato di
autocoscienza, dall’altro quasi di “tecnica pittorica” portata all`estremo,
ma senza la necessità di un’interfaccia collettiva o, se si vuole, latamente
“politica”.
Eppure, il termine “pragmatismo” gioca un ruolo importante in tutta la
vicenda analitica, soprattutto se lo si considera nel suo significato di necessaria verifica nella pratica di ipotesi teoretiche e di valore totalizzante
dell’azione: la coscienza della “pratica” della pittura è infatti il punto di
partenza di ogni artista, di qualsiasi nazionalità, che si sia definito “pittore”
e “analitico” negli anni settanta. È solo da questo momento - una volta cioe
assodata la domanda preventiva, coincidente o conseguente sulla propria
azione di pittore - che le posizioni si diversificano, e anche di molto, e forse
assumono persino dei connotati “nazionali”, ma sicuramente la coscienza
di indagare su di un campo che non era più neppure assimilabile alla “tradizione del nuovo” nella sua variante astratta e razionale, costituisce tuttora
l’esile legame generale che decine e decine di mostre internazionali hanno
cercato di indicare, di capire e di rafforzare durante quel decennio.
Ma se questa è la base su cui tutti - dagli americani agli inglesi, ai tedeschi,
ai belgi e agli olandesi, ai francesi e agli italiani - possono collocarsi e riconoscersi, è vero anche che si tratta solo di una condizione troppo vaga, vasta e iniziale, perché ne possa nascere anche solo un’inclinazione comune.
Perché l’ambito analitico potesse configurarsi come tale, è stata necessaria
la forte teorizzazione messa in atto in Europa, sia dagli stessi artisti che dai
critici. È questo l’elemento fondamentale della Pittura Analitica degli anni
settanta. È questo l’elemento che consente poi di individuare, al di là del
comune cemento teorico, le peculiarità culturali delle singole nazioni, dei
singoli gruppi di artisti.
Non sarà inutile ricordare che gli anni settanta in Europa sono stati gli
anni del|’ideologia, della contestazione, del materialismo storico elevato a
modello prerivoluzionario (non negli Stati Uniti, nè in Gran Bretagna, dove
prevaleva la rivoluzione del costume e dei comportamenti, soprattutto nella sfera sessuale): a quel modello si sono rivolti, a vario titolo, sia gli analitici francesi, che i tedeschi con la loro appendice olandese e fiamminga, che
gli italiani, i tre grandi gruppi che per numero, qualità e consapevolezza
teorica hanno costituito i tre “ceppi” culturali su cui è stata costruita la
vicenda della Pittura Analitica.
Tra i tre, il gruppo tedesco/olandese/fiammingo è quello per certi versi
più vicino all’atteggiamento individualista che abbiamo gia indicato per
gli americani, e ciò deriva probabilmente dalla loro tradizione in fondo
scarsamente incline all’avanguardismo (non all’avanguardia!): l’analiticità
tedesca dei Gotthard Graubner, dei Raimund Girke, dei Rupprecht Geiger,
dei Winfred Gaul veniva da una pratica legata alla lezione astratta, che non
veniva rinnegata, e trascolorava nei più giovani - e aggressivi, e “arrabbiati” - Blinky Palermo, Ulrich Erben, Lynn Umlauf, Edgar Hofschen, Jürgen
Paatz, Jerry Zeniuk; allo stesso modo, rifacendosi sempre alla lezione neoplastica, accadeva lo stesso per i fiammingo/olandesi come Jaap Berghuis,
Rudi van de Wint, J. van der Heyden, Jan Schoonhoven, Dan Van Severen,
Tomas Rajlich, ma è solo la robusta insistenza teorica di un critico come
Klaus Honnef (e in subordine di Ewelyn Weiss) a creare le premesse e a
stabilire una continuità critica e operativa culminata, come si diceva, nell’edizione 1977 di documenta, e preparata con il concorso di galleristi come
Konrad Fisher o Hans Strelow, o gli italiani Francesco Masnata e Roberto
Peccolo che avevano aperto loro filiali in Germania.
Honnef aveva iniziato a definire questa pittura attorno al 1972, e già nel
1974 con la mostra Geplante Malerei (pittura progettata) al Westfälischer
Kunstverein di Münster, poi portata alla Galleria del Milione di Milano, il
campo d’indagine era definito. Nonostante tutto, la sua teorizzazione non
arriva mai a una sintesi semplice (perché probabilmente non era possibile),
ma l’analisi è sicuramente articolata e dettagliata. Postulati la differenza
tra arte e mondo, e tra estetica e arte, Honnef propone un’opera d’arte
autonoma: autonoma rispetto ai contenuti, che devono essere trovati
all’interno del linguaggio della pittura, il cui processo produttivo è parte
110
integrante dell’opera, quasi che la “Pittura Analitica” costituisca una sorta
di “sottoinsieme” dell’“arte concettuale” così come, tradizionalmente, la
pittura era una branca deIl’arte. ll porsi un limite - quello dell’uso della pittura - costituiva anche la garanzia dell’analisi di uno “specifico” preciso, da
cui si sarebbero facilmente espunte tutte le deviazioni emotive, decorative
o anche quelle più allettanti del contenuto politico. Una pittura, dunque, da
“trattato di semiologia pura”.
Da questa impostazione sarebbero restati fuori ben più della metà degli
artisti che oggi vengono in varia misura accomunati alla Pittura Analitica,
e che anche allora partecipavano a tutte le mostre, persino a quelle organizzate dallo stesso Honnef, ma evidentemente l”operatività all’interno del
sistema dell’arte necessitava di compromessi, per cercare di affermare una
tendenza che già di per sé sceglieva un territorio molto limitato d’azione,
rispetto a quello che avevano a disposizione anche i più puri tra i concettuali. Da questa concezione, ad esempio, sarebbero stati esclusi tutti gli
artisti francesi, in quanto portatori dichiarati di quei “contenuti politici”
bollati come devianti dall’analiticità pura, così come gran parte degli artisti
italiani, divisi tra una “poetica della luce” (il caso di Antonio Calderara,
pittore così amato in Germania, e sintomatica...) o comunque di emotività
residuale, le seduzioni della processualità politica (che in un modo o nell’altro, avevano interessato praticamente l’intera comunità artistica italiana in
questione) e, unico gruppo accettabile, una processualità linguistica autonoma. Ma sono gli artisti francesi a costituire il contraltare teorico della
“purezza linguistica” dei
tedeschi.
Un breve riassunto storico deve rammentare che sin dal 1966 era stato
fondato il gruppo parigino B.M.P.T. - Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel
Parmentier, Niele Toroni (con Mosset e Toroni svizzeri di nascita) - mentre
nel 1970 si forma il gruppo di Support/Surface, dalla fortunatissima e sintetica definizione, che comprende a vario titolo André-Pierre Arnal, Vincent
Bioulès, Pierre Buraglio, Louis Cane, Marc Devade, Daniel Dezeuze, Noël
Dolla, Toni Grand, Christian Jaccard, Jean-Michel Meurice, Bernard Pages,
Jean-Pierre
Pincemin, François Rouan, Patrick Saytour, André Valensi e Claude Viallat.
I due gruppi, in concorrenza tra loro (il primo a Parigi, il secondo nel Sud
della Francia), erano caratterizzati da una fortissima tensione teorica, ritenuta indispensabile al completamento concettuale dell’opera stessa, attraverso strumenti tipici dell’avanguardia, come la rivista “Peinture. Cahiers
théoriques”, organo teorico del gruppo provenzale, di cui uscirono nove
numeri sino al 1978. “Supporti” e “superfici”, dunque, come attenzione
all’aspetto oggettuale dell’opera, mentre solo in un secondo momento si
pensa a un oggetto pittorico (non a caso nella produzione francese di questi autori si trovano sperimentazioni di materiali e di tecniche che esulano
anche di molto dalla pittura, che pure rimane la pratica principale): oggetto come produzione, anzi come pratica di una teoria, secondo il percorso
concettuale marxista della “prassi-teoria-prassi“, così ripetutamente invocato in quegli anni per indicare una teorizzazione che avesse le sue basi
nella realtà fattuale e, talvolta, nell’esperienza fabrile delle classi lavoratrici.
Ma la tradizione intellettuale francese di quel momento - e non solo - tentava di coniugare a questa specie di ineluttabilità materialistica anche gli
aspetti di quella branca della psicanalisi che, grazie a Jacques Lacan, aveva lasciato l’individuo per occuparsi soprattutto di linguaggio: ciò che le
teorie surrealiste avevano tentato tra Marx e Freud, ora si tentava tra Mao
Tze Tung (così si scriveva il nome del capo cinese nei settanta...) e Lacan.
In questo senso sono numerosissime le analogie riscontrabili tra “Support/
Surface” e la corrispondente e coeva “Pittura Analitica” italiana, proprio
a partire dal contesto politico, alla litigiosità interna al movimento (“Support/Surface” si scioglierà due o tre volte a pochissimi anni di distanza
dalla fondazione, tra i terribili anatemi incrociati dei partecipanti), sino ad
arrivare al rapporto con le altre tendenze artistiche e con una teoria artistica da costruire quasi a giustificazione di una pratica che, in fin dei conti, si
potrebbe definire pittorica (e che in Italia lo era molto più che in Francia...).
E tuttavia, l’impianto teorico francese appare in certo qual modo più robusto, perché, forse, più elastico, oltre che sostenuto da una quantità di scritti
e da un’abitudine alla teoria più marcata che in Italia.
In conclusione, il panorama della Pittura Analitica anni settanta appare
tutt’altro che granitico, e forse non è stato neppure internamente dialettico (uno scontro in tal senso tra convinzioni tedesche e francesi sarebbe
riuscito inconciliabilel), ma certo è stato concettualmente variegato.
111
112