PITTURA COME PITTURA A cura di: Willy Montini Associazione culturale Dedalo River Coordinamento: Stefano Orler Segreteria di Redazione: Beatrice Cordano Anna Orler Tommasina Orler Massimiliano Romani Ufficio stampa: Bruna Malaguti INDICE Testo introduttivo di: Simona Scopelliti Testi Critici di: Giorgio Bonomi Alberto Fiz Marco Meneguzzo Alberto Rigoni Elaborazioni fotografiche: Antonino Aguanno Impaginazione e progetto grafico: Antonino Aguanno Ringraziamenti Roberto Peccolo Michela Zilio Francesco Fabris Cesare Miserotti gli Artisti gli Archivi tutti i prestatori delle opere Stampato per Artetivù da: Orizzonti Questo catalogo è stato pubblicato in occasione della mostra Pittura come Pittura. l’arte analitica dagli anni ‘70 presso il Marcon (VE) 25 luglio - 24 agosto 2014 Nessuna Parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti Copyight © Artetivù – Marcon (Venezia) Introduzionepag. 5 Simona Scopelliti Operepag. 7 Antologia critica pag.108 INTRODUZIONE Simona Scopelliti Ricchezza e complessità della pittura analitica. Da qualche anno si è sviluppato un forte interesse per gli anni ’70. Questo decennio dapprima demonizzato, soprattutto in Italia a causa della controversa situazione politica e sociale, oggi è in fase di metabolizzazione e viene riconosciuto unanimemente come un momento agitato, ma anche vivace e carico di intenti. La tradizione secondo la quale le ultime avanguardie in Italia siano state l’Arte Povera prima, e la Transavangurdia poi, è da tempo smentita, grazie alla rilettura critica dei dibattiti che animarono il mondo dell’arte in quegli anni. La Pittura analitica nasce verso la fine degli anni ’60, quando non solo in Italia, ma anche in molti paesi europei tra cui in particolare Inghilterra, Olanda, Germania e Francia, e negli Stati Uniti, un certo numero di artisti, nel tentativo di smentire la preconizzata morte dell’arte, riflette sulle ragioni dell’operare artistico tramite la messa in discussione della pittura e nello specifico dell’atto del dipingere. I risultati di questa riflessione non sarebbero stati per nulla univoci, tanto che è più corretto definire la Pittura analitica non come un movimento, quanto piuttosto come un momento nella storia dell’arte generato dal sentimento comune di ricomprendere i fondamenti dell’arte, andandone a ridefinire le specificità. Se negli Stati Uniti questo sentire porta alla nascita della cosiddetta Astrazione Radicale o Opaca, rappresentata principalmente da Robert Mangold, Bryce Marden, Robert Ryman, autori di una pittura aniconica, in cui il quadro rivela la struttura della sua costruzione come tabula picta, in Francia, Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel Parmentier e Niele Toroni esaminano la pittura in termini quasi artigianali, mentre il gruppo Support/Surface, tra i cui rappresentati ricordiamo Louis Cane, analizza la disciplina pittorica a partire dai suoi strumenti. Non bisogna, inoltre dimenticare che se da un lato il nuovo bisogno di pittura nasce da una sorta di ribellione al segnico ed in particolare negli Stati Uniti, da una volontà di allontanamento dai pantagruelismi seriali della Pop art, dall’altro, in particolare in Europa, essa nasce sulla scia dei fatti del ’68, quando, in conseguenza alle aspre critiche mosse al sistema di produzione e di diffusione della cultura, molti artisti, uscendo dal solipsismo dell’espressionismo astratto, iniziano ad interrogarsi circa il proprio ruolo nella società. Al centro della pittura analitica c’è la pittura come rappresentante di se stessa. A questo proposito appare come una sorta di dichiarazione di intenti la mostra di Giorgio Griffa organizzata nel 1973 da Maurizio Fagiolo dell’Arco a Verona, che reca il titolo Iononrappresentonullaiodipingo. In questo modo gli analitici si inseriscono in un ampio filone di dibattito storico che trova le sue radici nella lezione di Kazimir Malevic e Piet Mondrian, che qualche decennio prima era stata riscoperta dall’astrattismo di Joseph Albers e Max Bill, dal concretismo di Bruno Munari ed in tempi più recenti da Mario Nigro. Sostenere, come si è fatto, che la Pittura analitica sia stato un sentire più che un movimento, significa riconoscerne l’ampiezza degli influssi e dei collegamenti non solo con l’arte del passato, ma anche e soprattutto con le altre vicende dell’arte con cui inevitabilmente si incontrava/ scontrava. È possibile, allora, riconoscere la vicinanza con vicende come quella di Azimuth, che puntava al grado zero dell’arte e che ritroviamo formalmente in una tendenza alla monocromia1 e teoricamente nella rinuncia alla tradizione artistica, per tornare alle radici dell’arte. Per gli analitici tale ritorno significa lavorare sulle strutture e sugli elementi fondamentali della pittura ( o come dice Claudio Verna, sugli elementi minimi) ossia, colore, luce, superficie, pennello, segno) e non va certamente confuso con un desiderio di ritornare indietro, nel rimpianto della tradizione, ma piuttosto un ricominciare da capo, a partire “dall’abicì del proprio lavoro2” . Come nota Alberto Rigoni dalla metà degli anni ’50, in Europa, quando Roland Barthes aveva teorizzato il grado zero della scrittura, si era diffuso un clima di analiticità che ambiva a “voler smontare l’arte e la società circostanti per poterne studiare gli elementi costituenti e le strutture portanti tramite criteri oggettivi”3 . Di fatto i pittori analitici, quasi venti anni dopo, si trovano ancora nel pieno di questa tendenza. Filiberto Menna, primo critico che opera per compattare la tendenza analitica nella pittura italiana, nel noto saggio del 1975 Per una linea analitica della pittura, rileva che la marcata componente critica della Pittura analitica, avvicini quest’ultima all’Arte concettuale, rientrando “queste nuove esperienze, in quel processo di autoriflessione dell’arte che caratterizza buona parte della ricerca artistica fra la fine degli anni sessanta e gli inizi del decennio successivo”. Il difficile rapporto con l’Arte concettuale si nota, tuttavia, quando di quest’ultima è ridotta ad una discussione teorica, che sebbene complessa rischia di rimanere sterile, dato l’allontanamento dalla prassi operativa, mentre al contrario, la Pittura analitica si basa essenzialmente sul fare: l’operare pittorico vive in stretto rapporto col fondamento teorico e in artisti come Cotani, Cacciola e Zappettini sfocia addirittura nell’articolata disamina delle fasi processuali dell’opera. E se Verna asserisce: “l’intenzione non è niente in arte: infatti, è una giustificazione”4 , Cacciola scrive: “L’intenzione del lavoro esprime una metodologia di doppio valore: valore di risoluzione regressiva e valore di scomposizione. Il primo intende riportare e ricondurre le singole azioni ai loro 5 principi fondamentali di per se stessi evidenti. Il secondo tende a scindere il tutto nelle sue singole parti. L’intenzione finale supera però la semplice descrizione del lavoro e dei mezzi pittorici che devono essere messi in rapporto in una relazione di risoluzione e scomposizione”5. Nonostante queste posizioni, resta fermo, invece, il punto che nella Pittura analitica il fare si sposi ad una forte componente artigianale. Sebbene il segno sia ridotto al minimo alcuni pittori analitici si considerano degli esecutori , a causa di un rapporto di sincerità con i materiali, come Giorgio Griffa e Gianfranco Zappettini, il quale si riferisce alla sua opera definendola lavoro piuttosto che pittura, e usa il rullo al posto del pennello, e vernici da imbianchino. In un momento in cui uno dei nodi critici della società italiana è il rapporto tra i produttori di cultura e il mondo industriale, oltreché l’elitarismo dei linguaggi artistici in senso ampio, i pittori analitici vanno quasi a proletarizzare l’arte, pur ottenendo risultati spesso concettuali, non tramite la produzione di multipli, come fa l’Arte cinetica e programmata, ma tramite l’uso di materiali poveri, come pietre, legni, ferri, carrube (Gastini), flanella (Pinelli), tele in juta senza telaio (Griffa) e industriali come cementi (Cacciola, Uncini), cellophan (Cecchini), plexiglas, bende elastiche (Cotani). La strada dell’avvicinamento al fruitore, più che nei materiali usati, viene trovata dai pittori analitici nel richiamarlo all’attenzione verso l’opera, infatti i segni minuti, sparsi, evanescenti, frammentati, si colgono lentamente: dalla tela bianca emergono a poco a poco, snocciolandosi come le note di una melodia sottile le linee colorate di Guarneri, che non a caso definisce le sue opere “quadri a lento consumo”6 ; ancora ad ambienti musicali sembra accostarsi la serie dei ton sur ton di Paolo Cotani, dal titolo A lenta percezione, mentre è possibile cogliere ampiezze sinfoniche in alcune opere di Claudio Olivieri; le opere di Zappettini, invece, invitano lo spettatore ad avvicinarsi, sfidando le sue capacità percettive. Per concludere a tale proposito appare utile citare ancora una volta Claudio Verna: “…Il colore è una parola, una convezione. Niente è più diverso di un rosa chiaro da un rosa appena meno chiaro (…) I clori rivelano il massimo della loro complessità e quindi dei possibili, infiniti significati, quanto più vengono liberati dei loro attributi psicologici e letterari (…) Quando dipingo una certa superficie di un quadro con una mano di colore, compio un’operazione profondamente diversa da quella che compirei se riempissi quella stessa superficie con tre o quattro mani di quel dato colore. (…) Quel colore infatti, a seconda di come è stato dato, sarà caldo o freddo, lucido o opaco, chiaro o scuro. (…) Questa è l’ambiguità del colore(…) Il quadro è sempre stato un fatto di percezione, ma quel che è nuovo rispetto al passato, è che abbiamo coscienza della necessità di riesaminare criticamente gli strumenti della percezione”7. OPERE 1 Tale monocromia non è mai totale, e lo dimostrano le declinazioni di bianco di Gianfranco Zappettini o i grigi di Enzo Cacciola e di Vincenzo Cecchini, ma anche alcuni lavori di Claudio Olivieri e di Claudio Verna. 2 C. Verna, Il ritorno allo specifico, in “Arte come professione”, Venezia 1974. Sullo stesso tema è utile citare uno scritti del 1983 di Rodolfo Aricò, che afferma: “Gli archetipi sono il paesaggio del nostro passato, ma anche della nostra cultura, se non trasfusi in linfa vitale, restano solo edificazioni di ignobili cacofonie. Se l’arte non corre sull’autostrada della continuità, ma ripercorre sentieri circolari, non per questo il ritrovare nuovi sguardi al passato deve voler risignificare una pedissequa ricitazione (…) L’azzeramento di Malevich e quarant’anni dopo quello di Newman, non hanno fatto altro che affermare la continuità dell’arte e della vita”. 3 Pittura e pittura, catalogo della mostra a cura di A. Rigoni (Acqui terme, Palazzo Robellini 2010). 4 C. Verna, Quale pittura?, in “Flash Art”, N. 38, Milano 1973. 5 E. Cacciola, nel catalogo della mostra “Cronaca”, Galleria Civica di Modena, 1976. 6 Nel catalogo della mostra Empirica: l’arte tra addizione e sottrazione, tenutasi a Verona nl 1975, Guarneri scrive: “Erano quadri bianchi, leggibili solo mediante una osservazione prolungata che provocava un raffinamento percettivo, dove i colori erano il risultato di trasparenze luminose e mutevoli e si trasformavano in colore – luce”. 7 6 C. Verna, in “Data”, n. 32, Milano 1978. Claudio VERNA FOXTROT Olio su tela 200 x 100 1978 7 Rodolfo ARICÒ Aricò negli anni settanta diviene per l’Europa un punto di riferimento di quella corrente internazionale che negli Stati Uniti prende il nome di Post-Minimal Painting di cui fanno parte Robert Ryman, Agnes Martin, Robert Mangold e Brice Marden o Pittura Analitica nella definizione italiana, nella quale si possono includere anche Claudio Olivieri, Giorgio Griffa ed altri, cioè una riflessione intima dell’artista sul suo ruolo e sul fare pittura che si distacca completamente dai condizionamenti della realtà. Nel 1959 tiene la sua prima mostra personale al Salone Annunciata di Milano. Nel 1964, invitato alla Biennale di Venezia, espone un’opera formata da tre grandi tele in cui le forme quadrate sono disposte diagonalmente. E’ un anticipo del primo “oggetto” del 1966, quando la sua pittura comincerà ad acquistare consistenza, organizzandosi su strutture sagomate. Solo nel 1968 però, con la sala personale alla XXXIV Biennale di Venezia, il carattere strutturale dei suoi quadri-oggetti si manifesterà nella sua piena tridimensionalità. Nel 1970, al Salone Annunciata e allo Studio Marconi, espone opere realizzate spruzzando vari strati di gocce di colore. Il risultato pianamente monocromo è tale solo in apparenza in quanto, secondo Gillo Dorfles, la sua pittura resta “cromaticamente ambigua”. Infatti come le sagome, grandi o piccole, generano una sorta di “incertezza percettiva” quasi come se “prendessero in giro la continuità prospettica”, allo stesso modo i colori uniformi presentano in realtà molteplici sfumature, per cui i blu, i lilla, i viola trasmigrano uno nell’altro, rendendo il risultato finale tutt’altro che circoscrivibile, ma piuttosto “un atto di attesa, di ipotesi”. Nel 1974 tiene un’antologica a Palazzo Grassi a Venezia dove riunisce il corpus delle sue opere, tutte tra i quattrosei metri di base, e concepite sin dal 1968 come un work in progress. Nel 1980 si tiene a Mantova, nella casa del Mantegna la mostra “Rodolfo Aricò. Mito e architettura”. Il curatore Gianni Contessi descrive “gli inganni architettonici” dell’Artista, riprendendo il discorso da quella sensazione di ambiguità già descritta da Dorfles, non come costruzioni concrete e rigidamente definite, ma piuttosto come il tentativo di dar corpo al mito dell’architettura. Nel 1986 è invitato a partecipare ad una mostra itinerante “1960/1985 Aspetti dell’arte italiana” al Kunstverein di Francoforte, Berlino, Hannover, Bregenz e Vienna. Sempre nello stesso anno invia una struttura alla Biennale di Venezia nella sezione “Il colore”. L’anno dopo viene invitato da L. Meneghelli ad una mostra intitolata “20 anni fa” con Boetti, Gilardi, Kounellis, Paolini e Pistoletto allo Studio La Città di Verona. Partecipa anche all’esposizione intitolata “Emotion und method” a cura di Eberard Simons alla Galerie der Kunstler a Monaco. Negli anni Novanta si succedono numerose esposizioni in Italia e all’estero tra cui quelle di Milano, Stoccolma, Schwaz, Koln, Bergish Gladbach, Venezia, Urbino, Roma SENZA TITOLO Tecnica mista su carta 70 x 100 1968 SENZA TITOLO Tecnica mista su cartone 70 x 100 1971 - 1973 SENZA TITOLO Tecnica mista su cartone 70 x 100 1971 - 1973 9 TOPOS SUITES II Tecnica mista su tela 220 x 170 x 5 1975 10 11 SENZA TITOLO Acrilico su tela 180 x 180 1976 12 13 Luciano BARTOLINI Luciano Bartolini nasce a Fiesole il 23 luglio 1948. Non frequenta una scuola d’arte ma compie per un certo periodo sistematici studi linguistici. A partire dal 1971 viaggia regolarmente in Oriente, in particolare nell’India del Nord e in Nepal. Nel 1973-74 esegue i primi lavori utilizzando prevalentemente carta da pacchi. Nel 1974 inizia la serie dei Kleenex utilizzando carta da pacchi e Kleenex incollati in modo da formare patterns regolari. Questa serie di lavori porteranno nel 1975 alle Cartepaglie. La carta sarà il materiale privilegiato di tutta l’opera bartoliniana. L’artista rivolgerà anche i suoi interessi alla creazione di numerosi libri d’artista: uno di questi intitolato Sogni, ombre è particolarmente significativo perché introduce il tema dell’ombra all’interno del tema più generale del vedere e dell’essere visto. Non a caso i lavori successivi sono ispirati a un personaggio mitico come Arianna, tessitrice di ombre, regina e custode del labirinto di Creta. Nel 1980 trascorre l’estate nell’isola greca di Santorini che gli suggerirà una nuova, importante tematica: quella di Atlantide. Viene invitato alla Biennale di Venezia. Nel 1982 visita il monte Athos: il simandron, il gong utilizzato dai monaci diventerà, soprattutto durante il suo soggiorno berlinese (1983), il segno in assoluto più ricorrente. Gli viene dedicata un’importante mostra personale alla Neue Nationalgalerie di Berlino. Dal 1986 prende avvio un nuovo ciclo di opere intitolate Kosmische Visionen: le immagini vengono costruite intorno a un asse verticale, segno dell’albero del mondo. Questo ciclo prelude alla serie degli Alberi iniziata nel 1988, delle Ascensioni (1989) e della serie intitolata Foresta di vetro, opere di piccole dimensioni dove il materiale di fondo è costruito da fogli di carta vetrata. Nel 1990 inizia una nuova serie d lavori, dedicata all’orizzontalità e intitolata Emblematische Blumen a cui segue la serie intitolata O sporos(seme): la forma allungata del seme richiama la mandorla di luce tipica della tradizione cristiana ortodossa. Nel 1992 ritorna, con il nuovo ciclo intitolato Soffi di luce a opere di piccole dimensioni: sono piccoli dittici dove un elemento dipinto è affiancato a un altro a collage che sono piccoli dittici dove un elemento dipinto è affiancato a un altro a collage che richiamano le “icone portatili” o da viaggio caratteristiche della tradizione bizantina. Luciano Bartolini scompare prematuramente nell’aprile del 1994. AL VOLO Tecnica mista su carta 147 x 101 1989 15 Carlo BATTAGLIA Carlo Battaglia nasce il 28 gennaio 1933 nell’isola della Maddalena, ma trascorre l’infanzia a Genova. Vivrà alla Maddalena soltanto dal 1943 al 1947, poi a Roma. Proprio quegli anni in Sardegna vissuti in solitudine lasceranno indelebili tracce nella sua memoria visiva. Dopo la trafila dell’obbligatorio servizio militare si dedica definitivamente a dipingere. Cosciente del proprio mediocre talento manuale, si sottopone a un lungo tirocinio di apprendistato e, confortato dall’esempio del diletto Gorky, copia i maestri e soprattutto Matisse. In Italia l’unica possibilità di vedere quadri contemporanei era rappresentata dalla sola Biennale di Venezia. Comincia quindi a viaggiare: Kassel, Parigi, Londra. Per capire veramente è necessario vedere la manualità e la dimensione degli originali: fuorviante limitarsi alle sole riproduzioni. Comincia a esporre tardi, a Roma nel 1964, cosciente della propria pittura ancora non personale; con la mostra del 1966 al Salone Annunciata di Milano, compie l’esorcismo finale. Carlo Battaglia ricorda con affetto e gratitudine Carlo Grossetti che aveva avuto il coraggio di esporre un artista così palesemente fuori moda nella sua galleria d’avanguardia. Nel 1967 soggiorna per sei mesi a New York, lavora in uno studio a Canal Street e si lega di amicizia con Reinhardt, Motherwell e soprattutto Mark Rothko il cui studio frequenta quotidianamente. Nel 1970, invitato con una sala personale alla Biennale di Venezia, espone per la prima volta le Maree, tema che lo coinvolgerà per tutta la vita. L’ambiguità, l’illusione, la malia del paesaggio marino coincidono con il suo sconfinato amore per il mare. Dagli anni 70 partecipa a tutte le più importanti mostre in Italia e in Europa, della “Nuova Pittura” o “Pittura analitica” che dir si voglia, provando però un sempre più crescente disagio nei confronti di quelle formulazioni teoriche in cui non si riconosce: ciò nonostante, risulta essere percentualmente l’artista più presente nelle mostre che si rifanno a vario titolo a questa tendenza. Nel 1980 è nuovamente invitato con una sala personale alla Biennale di Venezia. Muore alla Maddalena il 17 gennaio 2005. SENZA TITOLO Olio su tela 200 x 100 1978 17 Enzo CACCIOLA Enzo Cacciola nasce ad Arenzano (GE) il 12 dicembre 1945; vive e opera a Rocca Grimalda (AL). Tiene la sua prima mostra personale nel 1971 a Genova presso la Galleria La Bertesca concenfrando l’attenzione sulle dinamiche dei rapporti piano-forme-colore. Nel 1973 inizia ad operare su nuovi materiali alternativi all’olio su tela e crea i primi pezzi materici prendendo in esame esclusivamente la superficie e i suoi dati linguistici. Nel giugno 1975 partecipa alla mostra Pittura analitica curata da Klaus Honnef e Catherine Millet con quadri in cemento tali da rilevare le problematiche relative allo spazio d’analisi offerto dalla matericità dell’opera. La partecipazione a Documenta 6 (Kassel, 1977) segna una parziale rottura con il lavoro precedente, in ragione di una reinterpretazìone in chiave concettuale dell’operato (e della funzione) dell’artista. A partire dal 1979, su queste basi, intraprende un percorso di riflessione e di ricerca che lo conduce a lavorare ed esporre oltreoceano, fra Washington, Città del Messico e Panama City. Nel 1981 si confronta con le tematiche della Transavanguardia partecipando alla mostra Pittura in radice di Achille Bonito Oliva e aprendosi così alla figurazione, che tuttavia è percepita e resa soprattutto nei suoi aspetti volumetrici e spaziali. Un passo ulteriore in direzione della compenetrazione fra figurativo e concettuale è compiuto con l’esperienza di Short memory painting (Milano, 1982), curata da Viana Conti, rivolta a registrare le “incursioni” dell’artista che inserisce la sua figura e la sua ottica in alcuni capolavori dell’arte otto- e novecentesca. Nel 1986 riprende la ricerca sulla materia che cerca di misurare in chiave intimistica scandendo il ritmo dell’interiorità sulla partitura segnica della superficie. Intorno alla metà degli anni Novanta si situa il suo ritorno alla pittura di matrice concettuale, pittura in cui si trovano sedimentate e risolte molte delle esperienze pregresse: il cemento del concettuale, le forme di una lunga frequentazione dell’astratto geometrico, le asperità di una superficie memore dei travagli della Transavanguardia, un inedito connubio fra materia e geometria in grado di sondare e palesare l’intima natura algebrica, razionale, del reale. Gli ultimi lavori, presentati in mostre collettive, rivelano un’apertura a soluzioni compositive guidate dal concetto dell’accumulazione (L. Lecci, Una ricerca in costante evoluzione, catalogo Excalibur Arte Contemporanea e Galleria 911, 2005). Attualmente la sua sperimentazione è rivolta all’impiego di materiali nuovi concepiti per l’uso industriale. SENZA TITOLO Cemento e abesto su tela 120 x 150 1974 10 - 12 - 75 Cemento su tela tamburata 53 x 93 1975 20 SENZA TITOLO Multigum su tela 120 x 70 2008 21 È allievo della Scuola delle Arti figurative di Nizza, e dal 1968 Dell’École des Beaux-Arts di Parigi. Nel 1969, è uno dei membri fondatori del gruppo Support-Surface. Partecipa alla Biennale des Jeunes di Parigi nel 1971 e nel 1973. Sempre nel 1973, espone all’Istitute of Contemporary Art di Londra. È anche, nel 1971, cofondatore, con Marc Devade, della rivista “Peinture. Cahiers théorique”. Importanti mostre delle sue opere sono state organizzate nel 1971 dalla Galleria Daniel Templon a Parigi; nel 1972 dalla Galleria Yvon Lambert a Parigi; nel 1977 dalla Galleria Leo Castelli a New York; nel 1973 dalla Fondation Maeght a Saint-Paul-de-Vence; nel 1989 dalla Galleria Gill Favre a Parigi; nel 1990 all’Espace Fortant de Sète e Musée Saint-Roch a Issoudun; 1995 al Palais des Congrès di Parigi; nel 1996 al Manoir de Cologny a Ginevra, etc. MUSEI: Montréal (Museo d’Arte Contemporanea), Marseille (Museo Cantini) e altri. Louis Cane et divers, in: “Peinture. Cahiers Théoriques”, Parigi. Jacques Henric, Catalogue de l’exposition de Louis Cane, Gal. Daniel Templon, Paris, 1985. Philippe Sollers e altri, Catalogue de l’exposition Louis Cane, Chapelle Saint-Louis de la Salpétrière, Parigi 1990. Louis CANE È allievo della Scuola delle Arti figurative di Nizza, e dal 1968 Dell’École des Beaux-Arts di Parigi. TOILE SOL/MUR Tecnica mista su tessuto Parete 256 x 241,5 Suolo 212 x 241,5 1973 23 Vincenzo CECCHINI Vincenzo Cecchini nasce a Cattolica nel 1934. Dopo un periodo di attività nell’impresa familiare, sente la passione per la pittura e la poesia trasmessagli dal padre ed inizia a frequentare l’avanguardia artistica degli anni ‘60 e ’70. Abita a Milano ed a Roma partecipando al fermento culturale di quegli anni con esposizioni che lo porteranno anche all’insegnamento della pittura e della scultura. Negli anni ‘80 sente il richiamo della propria terra d’origine, inizia a scrivere poesie in dialetto romagnolo e si trasferisce dal Liceo Artistico di Latina all’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna. Successivamente passa all’Istituto d’Arte di Pesaro ed infine all’Istituto d’Arte di Riccione, ove termina l’attività di insegnante. Attualmente vive a Cattolica e partecipa con le sue opere a quelle esposizioni d’arte nelle quali il colore è il principale protagonista, scrive poesie in dialetto, tiene corsi di lettura dell’opera d’arte, prende parte a progetti scolastici e gioca a biliardo. OCEANINA Tecnica mista su tela 100 x 100 1994 25 TRITTICO Tecnica mista su tela 35 x 135 1974 26 27 Paolo COTANI Paolo COTANI è nato a Roma nel 1940. Frequenta, tra il 1959 e il 1961, l’Accademìa di Arti Decorative di Parigi. Ritornato in Italia vi svolge insieme al poeta Valentini Zeichen ricerche sull’integrazione dei linguaggi. Dal 1964 al 1970 soggiorna a Londra. Frequenta a fasi alterne gli ambienti delle avanguardie negli Stati Uniti d’America. La prima mostra è alla Galleria Ferro di Cavallo di Roma nel 1968, che presenta una produzione collocabile tra il minimalismo e il neocostruttivismo, ma sempre legata alla dimensione pittorica. Nel 1973, oltre ad alcune personali, partecipa alle mostre collettive Un futuro possibile. Nuova Pittura, Palazzo dei Diamanti, Ferrara; poi Rocca Sforzesca, Imola curata da G. Cortenova e La riflessione sulla pittura, Palazzo Comunale, Acireale. Nel 1974 inizia la collaborazione con la Galleria La Bertesca, partecipa nel 1975 a Analytische Malerei, a Milano, Düsseldorf e Genova, collaborazione che proseguirà fino al 1977. Sempre nel 1975 prende parte a Empirica, mostra che si tiene a Rimini e al Museo di Castelvecchio, Verona, e alla l) (Biennale dei Giovani di Parigi e Nizza. ln questi anni realizza le “bende elastiche”. Sempre del 1977 è la personale alla Galleria Arco d’Alibert di Roma, dove esporrà in seguito molte volte. Del 1980 è la personale al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, dove presenta la serie degli “archi”. Nel 1981 partecipa alla mostra Linee della ricerca artistica in Italia 1960-80, al Palazzo delle Esposizioni di Roma. La produzione artistica degli anni ‘80 viene presentata in antologiche alla Casa del Mantegna a Mantova nel 1982 e poi alla Pinacoteca Civica di Jesi l’anno successivo. Nel 1988 è la volta della sua partecipazione alla mostra Astratta. Secessioni astratte in Italia del dopoguerra al 1991 realizzata a cura di G. Cortenova e F. Menna, prima a Palazzo Forti a Verona, poi al Palazzo della Permanente a Milano. Seguono ancora numeroso altre esposizioni, tra le quali Vantologica sempre a Palazzo Forti nel 1990 e la mostra Castellani, Cotani, Scarpitta alla Galleria Niccoli di Parma nel 1992. Nel 2004 ha esposto nella personale L’immagine negata all’Universidad de Castilla-La Mancha, a Cuenca (Spagna), in cura dell’lstituto Italiano di Cultura di Madrid. Vive e lavora a Roma. SENZA TITOLO Tecnica mista su tela 60 x 60 1989 29 SENZA TITOLO Olio su tela 60 x 30 1993 30 SENZA TITOLO Olio su tela 60 x 60 2009 31 Sandro De Alexandris è nato a Torino il 31 dicembre 1939, città dove vive lavora e insegna “Disegno dal vero” al Liceo Artistico. Sandro DE ALEXANDRIS La prima personale è del 1963 a Torino. Nel 1964 realizza le prime carte bianche, ricerca sulla modulazione graduata di spazi bidimensionali: la serie “Misure di spazio” viene esposta a Monaco nel 1967. Tra il 1966 e il 1969 progetta e realizza i “TS”, superfici e spessori spostati, esposti in numerose mostre in varie città tra cui Parigi, Modena e Milano. Tra il 1967 e il 1974 le superfici a spessore minimo e ad articolazioni elementari divulgate in esposizioni a Verona, Roma e Colonia, nonché in personali a Coblenza, Verona, Livorno, Bergamo e Genova. Dal 1974 gli “Un”, superfici graffiate e articolate sistematicamente secondo un andamento verticale, nelle quali si attua un forte abbassamento percettivo. Esposte in mostre a Ravenna, Milano, Graz, Gelesenkirchen e in personali a Colonia, Livorno, Torino, Milano e Como. Nel 1981 realizza i trittici, superfici tripartite in cui all’abbassamento percettivo delle superfici graffiate si uniscono, in rapporto di tensione contrapposizione, campi di trasparenze cromatiche: esposte a Torino. Nel 1983 le tavole con sovrapposizioni e stratificazioni di superfici a caduta, carte e tele organicamente disposte per scansioni, contrapposizioni, consonanze cromatiche, trasparenze. Esposte in personali a Torino, Milano, Bologna e Finale Ligure. TRASPARENTE XIII Olio e pastelli 100 X 81,5 2009 33 VERSO CINABRO Olio e pastelli 70 x 81 2009 34 FORME DEL VENTO Olio e pastelli 70 x 81 2009 35 Marc DEVADE Siudioso di filosofia fin da giovane, appresa dai più importanti professori della Sorbona di Parigi, Marc Devade sceglie di dedicarsi totalmente alla pittura nel l967, poco tempo dopo aver scoperto di essere affetto da una malattia incurabile che lo condurra alla prematura morte all’età di auarant’anni. Approfondisce lo studio dell’Estremo Oriente, come mondo e sistema e di valori più vitali rispetto all’Occidente; studia il Taoismo e il valore della pittura come antico metodo di elevazione interiore, ma si appassiona anche alla Rivoluzione cinese e alla lettura che Mao Tze Tung da del comunismo: l’adozione dell’inchiostro di china per le sue opere (in parlicolare dal 1972 al 1978) e un rimando a quelle esperienze che, seppur lontane geograficamente, negli anni attorno al 1968 hanno grande impatto anche in Europa. I suoi primi lavori ricordano tuttavia alcuni esiti degli americani Noland, Newman, Stella. Studia il colore di Matisse e l’impostazione di Mondrian: nei poligoni rettangolari, in particolare nel quadrato, trova un campo potenzialmente inesauribile di sperimentazione, nel quale il colore diventa elemento costitutivo della pura forma. L’inchiostro viene applicato con una precisa procedura e seguendo rigide suddivisioni della superficie. Nel 1970 tiene la sua prima mostra personale, alla Galerie Le Haut Pavé di Parigi, e nello stesso anno espone al Museo d’Arte Moderna di Parigi nella collettiva “Supports/ Surfaces“, gruppo di cui sarà assieme a Louis Cane uno dei teoricl e degli animatori più incisivi. L’anno seguenle è infatti protagonista alle moslre cardine del gruppo, alla Citè Universitaire di Parigi e al Teatro Municipale di Nizza e in giugno da vita al primo numero della rívisla teorica “Peinture”. ln ltalia esordisce nel 1972 con una personale alla Galleria Daniel Templon di Milano, e dal 1973 sara invitato a partecipare alle colleilive di situazione su Nuova Pittura e Pittura Analitica: tra queste vanno ricordate “La riflessione sulla pittura“ (Acireale, 1973), “Analytische Malerei” (Düsseldorf, i975), “Cronaca” (Modena, 1976) e “l colori della Pittura” (Roma, l976). Nel 1978 il Museo d’Arte Moderna di Parigi gli dedica un’importante personale. Dopo quell’anno, e fino alla fine, recupera l’olio, ritorno ad una tecnica che conserva in se secoli di storia della pittura occidenlale. Sue opere sono state esposte in due recenti esposizioni storiche, “Le superfici apache della Pittura Analitica“ (Fondazione Zappettini, Chiavari, 2009) e “Pensare Pittura“ (Museo d’Arte Coniemporanea Villa Croce, Genova, 2009). UNTITLED Inchiostri su tela 100 x 100 1976 37 Marco GASTINI Marco GASTINI è nato a Torino nel 1938. Studia all’Accademia Albertina di Torino e, nel 1963,partecipa alla storica mostra Cinque pittori torinesi alla Galleria La Bussola di Torino. A partire dalla fine degli anni Sessanta, dopo una pittura ad olio monocromatica - e del 1968 la personale alla Galleria Il Punto di Torino - sperimenta una pittura materica realizzata su varie tipologie di supporti, plexiglas (anche in forma di bacchette) o fogli plastici di diversa consistenza e trasparenza su cui l’artista interviene opacizzando alcune zone, smaltandone altre e graffiandone poi la superficie. Al plexiglas prediletto, Gastini affiancherà in seguito i tubi fluorescenti, già immersi in bagni di colore. Nel 1970 inizia a produrre fusioni in piombo, le “macchie”, distribuite su superfici trasparenti o direttamente sulle pareti, poi su tela. In questi anni, tra il 1971 e il 1975, la sua ricerca è orientata al principio costruttivo della disseminazione del punto, che persegue sempre sia agendo direttamente sulla parete che su tela. Del 1972 è l”opera ambientale Lavoro,pittura eseguita direttamente su muro alla Galleria Fiori di Firenze. Nel 1973 è tra gli artisti di Un futuro possibile. Nuova Pittura e La riflessione sulla pittura e nel 1974-’75 tra quelli di Geplante Malerei. Nel 1976 partecipa alla XXXVII Biennale di Venezia. Seguono le opere in pergamena e stagno su tela e una complessa ricerca su materiali attraverso le numerose personali, da quella al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano nel 1984, a quelle alla John Weber Gallery di New York e quella di Villa delle Rose a Bologna nel 1992. Ancora altre personali: nel 1993, alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Trento, al Kunstverein di Francoforte ed a quello di St. Gallen - la grande antologica all’Orangerie im Schlosspark Belvedere a Weimar nel 1999 - alla GAM di Torino e alla Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau di Monaco nel 2001. La sua riflessione è parallelamente anche teorica, con la produzione di libri-opera. SENZA TITOLO Collage e tecnica mista su tela 150 x 250 1974 39 Winfred GAUL Dal 1949-1950 Winfred Gaul ha studiato Storia dell’Arte e German studies presso l’Università di Colonia. Più tardi l’artista ha trascorso tre anni presso l’Accademia di Stoccarda sotto Willi Baumeister e Rolf Henniger. Durante la sua prima visita a Parigi, Winfred Gaul ha incontrato Jean-Pierre Wilhelm, Pierre Restany e Julien Alvard. Nel 1955 si trasferisce in uno studio a Düsseldorf-Kaiserswerth/Ratingen. Gaul fece amicizia con Manfred de la Motte e Peter Brüning. Nel 1956 inaugurò la sua prima mostra personale alla galleria “Gurlitt” di Monaco. Insieme con l’amico Brüning compie esperimenti con la fotografia. Winfred Gaul conobbe Karl Otto Götz, Bernard Schultze e Heinz Kreutz. Nel 1962 creò i primi cartelli stradali lungo l’autostrada da Milano a Monza. Dal 1964-1965 l’artista ha lavorato come docente ospite presso la “Staatliche Kunstschule Brema”. Dal 1967-1969 Winfred Gaul ha vissuto ad Anversa. Durante questo periodo ha realizzato il progetto di una variabile di sistema per un ambiente geometrico. Dal 1969-1972 ha realizzato tre sculture in acciaio colorato per la “Südasien Institut” presso l’Università di Heidelberg. Una grande mostra itinerante ha avuto luogo nel 1973, visitando le città tedesche da Münster a Ludwigshafen, Ulm e Bielefeld. Nel 1978 il Kiel “Kunsthalle” ha organizzato una mostra delle sue stampe complete e oggetti in connessione con la pubblicazione del suo catalogo ragionato. Nel 1982 la “Pinacoteca di Macerato” ha ospitato una retrospettiva dei suoi disegni. Dopo il 1983 Winfred Gaul ha creato singole immagini, disegni e acquerelli e una serie di immagini e trittici composti da più parti, che si ispirano a Claude Monet. SENZA TITOLO Acrilico su tela 40 x 30 1969 MARKIERUNGEN XXXXVII Tecnica mista su tela 180 x 180 1973 41 SENZA TITOLO Acrilico su tela 50 x 50 1981 SENZA TITOLO Tecnica mista su tela 50 x 200 1974 42 43 Giorgio GRIFFA Giorgio GRIFFA è nato a Torino nel 1936. Dopo una prima formazione artistica, si laurea in legge, per poi riprendere gli studi artistici frequentando, sino al 1963, lo studio torinese di Filippo Scroppo. Dopo un esordio in campo figurativo con una serie di lavori di gusto neoliberty, i fiori e gli insetti e delle opere del debutto artistico, attorno al 1960 tendono a scomparire, eliminando di conseguenza il gusto decorativo, fino a escludere ogni dato figurativo, già in occasione della prima personale, presentata nel 1968 a Torino. Negli anni Settanta Griffa si inserisce a pieno titolo tra gli sperimentatori più attenti del linguaggio della pittura, che si propone quale momento di riflessione sugli elementi stessi del dipingere, in particolare la linea ed il colore. Espone alle mostre Un futuro possibile. Nuova pittura, Riflessione sulla pittura nel 1973, Geplante Malerei nel 1974-’75, Analytische Malerei, 1975, Arte in Italia 1960-1977, Torino, Galleria Civica d’Arte Moederna (1977). Una ricerca che prosegue nei decenni a venire con due significative presenze alla XXXVII Biennale di Venezia nel 1978 e alla XXXIX edizione della prestigiosa rassegna nel 1980. Le linee orizzontali parallele sono oggetto di studio e costituiscono il punto di partenza per indagare la pittura dal punto di vista del linguaggio “I segni - come spiega l’artista stesso - attraversano lo spazio della tela, uno dopo l’altro, come i piedi quando si cammina. Non c’è mai un punto d’arrivo, i lavori non sono mai portati a termine, vengono sospesi prima di essere finiti. In modo che anche il tempo rimanga sospeso e che lo spazio non abbia definizione se non tramite il suo attraversamento”. Gli esiti di questa ricerca ricondurranno Griffa ancora verso il decorativismo, se pur caricato di un significato lontano da quello di partenza. Nelle opere dopo il 1982, l’artista torinese renderà così omaggio alla pittura fauve e, in particolare, a Matisse. SENZA TITOLO Acrilico su tela 34,5 x 47,5 1978 45 SENZA TITOLO Acrlico su tela 150 x 395 1974 46 47 SENZA TITOLO Tecnica mista su carta 75,5 x 55,5 2009 SENZA TITOLO Acrilico 107 x 115 1982 SENZA TITOLO Tecnica mista su carta 33 x 40,5 2009 SENZA TITOLO Acrilico su tela 43,5 x 58 1981 48 SENZA TITOLO Tecnica mista su carta 33 x 40,5 2009 49 Riccardo GUARNERI Riccardo GUARNERI è nato a Firenze nel 1933. Dopo esperienze musicali, nel 1953 si avvicina alla pittura, esordendo nel 1960 con una personale alla Galerie de Posthoorn deIl’Aia. La sua ricerca, distante dalle poetiche gestuali, inizialmente si sviluppa in ambito astratto-informale con opere dove zone colorate ed interventi grafici si incontrano dialetticamente. Nel 1963 è cofonndatore insieme a Gian Carlo Bargoni, Attilio Carreri e Gianni Stirone del gruppo “Tempo 3”, il cui programma, partendo dalla lezione di Rothko, prevede il superamento della contrapposizione tra concretismo e informale. Produce opere, a seguito di una riflessione sulla percezione visiva, dalla superficie chiarissima, segnata da inten/enti a grafite colorata, in cui la trama geometrica affiora appena dal fondo monocromatico. In questi anni partecipa alle mostre del gruppo “Tempo 3” a Venezia, Firenze, Genova e alle mostre di “Nuova Tendenza”, tra le quali, Nuova tendenza/Arte programmata, Modena, Reggio Emilia nel 1967, organizzata da Umbro Apollonio. Ma soprattutto è invitato alla XXXIII Biennale di Venezia del 1966. Sempre nel 1967, invece, realizza perla Biennale di Parigi uno Spazio cinetico sonoro organizzato. È del 1972 una personale alla Galleria Peccolo di Livorno e, l’anno successivo, partecipa a Tempi di percezione e a Un futuro possibile. Nuova pittura e nel 1974-’75 a Geplante Malerei. Nei decenni successivi Guarneri approfondisce ancora il suo lavoro nell”ambito della pittura concreta, quale luogo di incontro programmato del colore con la geometria e la luce. Tra le esposizioni più recenti: Die andere Richtung der Kunst. Abstrakte Kunst Italiens ‘60-’90 del ‘97 (Colonia), Continuità-Arte in Toscana 1945-2000 tenutasi a Palazzo Strozzi (Firenze) nel 2002, e Pantologica Riccardo Guarneri Contrappuntoluce, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti (Firenze) nel 2004. GEOMETRIA COME POESIA Olio e tecnica mista su tela 80 x 80 1972 NEL QUADRO: CELESTE, AZZURRO E GIALLO Tecnica mista su tela 50 x 35 1974 LINEE/COLORI Olio e tecnica mista su tela 40 x 35 1979 51 DUE STRISCE A LUCE FREDDA Tecnica mista su tela 80 x 180 1974 52 53 Vivien ISNARD Nato in una famiglia di grande sensibilita artistica (il padre è disegnatore, la madre musicista), si appassiona fin da ragazzo al jazz. A Nizza frequenta il liceo Masséna, a pochi passi dall’atelier di Ben Vautier, presso cui nei primi anni Sessanta si incrociano molti sentieri artistici della Francia mediterranea. Si iscrive nel 1965 all’École Nationale des Arts Décoratifs di Nizza, dove incontra un Claude Viallat giovanissimo insegnante: l’incontro lo spinge verso una pittura di sperimentazione, di ricerca, di semplificazione dei mezzi. Nel decisivo anno 1968 si trova però in Germania a svolgere il servizio di leva; al suo ritorno, porta a termine i suoi studi artistici ad Aix-en-Provence, dove conosce Bioulès, altro protagonista di Supporis/Surfaces. Concentrato sul problema forma-colore-supporto, lsnard tiene la sua prima personale alla Galerie Ben doute de Tout di Nizza. Stringe amicizia con Chacallis, Charvolen, Maccaferri e Miguel e i cinque danno vita al Groupe ‘70, di cui si svolge la prima collettiva al Teatro Municipale di Nizza e di cui sarà protagonista in ripetute uscite fino allo scioglimento del gruppo tre anni più tardi. Incontra e frequenta il critico Bernard LamarcheVadel e partecipa alla rassegna “École de Nice 1963-1973” (Galerie Ferrero, Nizza), e dal 1973 il suo lavoro attira l’attenzione della Galleria La Bertesca di Genova, che ne espone le opere per la prima volta in quell’anno assieme a quelle di Dolla e Viallat. I suoi lavori sono tele per lo più segnate in diagonale con sostanze generalmente corrosive (acidi, olio per motori eccelera) che continuono ad agire sulla superficie anche tempo dopo la stesura. Una parte del supporto così lavorato viene poi ritagliato e riposizionato tramite cuciture al centro dell’opera: la struttura interna delle diagonali è messa a confronto con il rettangolo che ritorna dall’esterno. Con questi lavori partecipa nel biennio 1975-1975 a numerose mostre in ltalia e all’estero: “Pittura” (Palazzo Ducale, Genova), “Empirica” (Museo Castelvecchio, Rimini), il Salon de Mai (Biennale di Parigi), “Analylische Malerei” (Galerie La Bertesca, Düsseldorf), “Cronaca” (Galleria Civica, Modena), ‘colori della pittura” (lstituto ltalo-Latino Americano, Roma). Nel 1979 espone in due importanti rassegne al Centre Pompidou di Parigi (“Aspect de la nouvelle peinture en France” e “À propos de Nice”) e inizia ad insegnare all’École Superieure des Beaux Arts di Tours. La sua sperimentazione sul colore prosegue: si interessa di Buddismo, di astrologia e del valore simbolico del colore, delle forme e della materia, su cui ancora oggi riflette nei suoi lavori. Mostre personali gli sono state dedicate a Nizza dalla Galerie d’Art Contemporain des Musées e dal Museo d’Arte Contemporanea, nonché dalla Galerie Sapone presso la quale, dal 1989 ad oggi, ha esposto numerose volte e la quale gli ha dedicaio una corposa monografia nel 2007. SENZA TITOLO Tela support-surface 280 x 210 1973 55 Elio MARCHEGIANI Nasce a Siracusa nel 1929 da genitori siciliani. Inizia a dipingere da autodidatta. Dopo l’incontro con Mario Nigro inizia a organizzare mostre ed incontri culturali, ma è la conoscenza e l’amicizia con Gianni Bertini che gli suggerisce di lasciare la provincia per Parigi, Milano, Roma, Bologna. Nel ‘59 partecipa all’8° Quadriennale di Roma. A Firenze fa parte del “Gruppo 70”, iniziando una solidale amicizia con Giuseppe Chiari. L’attenzione a Giacomo Balla, Marcel Duchamp e Lucio Fontana ed ai legami fra scienza e immagine costituiscono la base del lavoro che, negli anni sessanta, sarà gestito da Guido Le Noci della Galleria Apollinaire a Milano e da Gaspero del Corso della Galleria L’Obelisco di Roma. Insegna dal 1969 all’Accademia di Belle Arti di Urbino “Tecnologia dei materiali e ricerche di laboratorio” successivamente sarà nominato alla cattedra di Pittura. Nel 1968 è alla Biennale di Venezia insieme alla ricostruzione dei fiori futuristi ed altre opere lasciate inconmpiute da Balla Dopo la ricerca sul movimento e la luce e la ricostruzione di Feu d’Artifice l’idea di “tecnologia come poesia” lo porta ad un’analisi ancora più attenta del suo lavoro con opere ed ambientazioni; la serie delle Gomme, destinate a morire nel tempo, (eseguite tra il ‘71 e il ‘73) portate anche alla Biennale di Venezia del 1972 con la ricostruzione in scala del campanile di San Marco, precede il periodo in cui si dedica alle Grammature di colore e alle ricerche sui supporti (Intonaco, Lavagna, Pelle, Pergamena esposte allo Studio Sant’Andrea di Milano da Gianfranco Bellora col quale ha avuto un lungo sodalizio). Una Grammatura di colore è attualmente esposta nella Collezione Arte Contemporanea Italiana alla Farnesina (Ministero degli Esteri, Roma) ed altre in vari Musei Italiani ed Esteri. Nel 1986 Giorgio Celli lo invita alla Biennale di Venezia “Sezione Biologia”. Nel 1997 partecipa alla mostra “Dadaismo Dadaismi – da Duchamp a Warhol – 300 capolavori” a Palazzo Forti di Verona, con l’opera “Deus ex machina, 1965” invitato dal curatore Giorgio Cortenova. Nel 1998 il Comune di Livorno, nello spazio del Museo Fattori, gli dedica un’ampia antologica che comprende le opere più significative dei diversi periodi della sua ricerca artistica con la pubblicazione di un catalogo dal titolo: “Fare per far pensare”, logo del suo lavoro. Nel gennaio 2012 la Galleria Allegra Ravizza Art Project allestisce la prima esposizione di opere storiche a partire da un progetto del 1971 “La cultura è energia”, una mostra in 5 azioni tenutasi alla Galleria Apollinaire di Milano con Pierre Restany. La cura è di Marco Meneguzzo che in un’intervista televisiva dice: “Marchegiani è il futuro fatto in casa”. sezione Nuove Tecniche-Nuovi materiali”. GRAMMATURE DEL COLORE N. 7 Tecnica mista su lavagna 100 x 80 1976 GRAMMATURE DEL COLORE Tecnica mista 100 x 80 1976 57 Carmengloria MORALES Carmengloria MORALES è nata a Santiago del Cile nel 1942, ma vive in Italia dal 1953,residenza che alterna, a partire dal 1979, con numerosi soggiorni newyorkesi. Fin dal suo debutto nel campo delle arti figurative l’attenzione dell’artista è concentrata sul linguaggio della pittura. Nel 1969 espone il suo primo Dittico che consiste in due tele monocrome affiancate, entrambe dipinte. Due anni dopo la Morales riproporrà la sua riflessione sulla forma a dittico, questa volta impostando solo una tela dipinta: l’altra è lasciata grezza, a indicare l’azzeramento della pittura, quale superamento del concetto romantico dell’ane e presentando quello che diventerà nel corso della sua vita artistica una sorta di paradigma. “È l’artista più monocorde che ho conosciuto”, diceva di lei Filiberto Menna, tanto che risulta assai complesso tentare una periodizzazione del suo lavoro. Con i Dittici l’artista è presente alla storica rassegna Geplante Malerei di Münster e a documenta 6, la prima del 1974, la seconda del 1977. Questa volta la tela di sinistra, quella della rappresentazione, è percorsa in tutta la sua superficie da una maglia graffita e, dunque, oltre alla monocromia c’e una concessione alla gestualità. Quest’ultima variante apre un discorso che la Morales coltiva in senso analitico, come rivelatore delle fasi costruttive della pittura. La conferma di questa impostazione arriva nelle opere seguenti, scandite dalle sequenze di colori primari ai quali si aggiunge un’altra variazione poetica con l’intervento del colore metallico che caratterizza anche la produzione più recente. La sua pittura è ora caratterizzata da una nuova gestualità sottolineata dall’utilizzo dei pigmenti metallici e da altri formati privilegiati tra i quali il tondo. Una procedura che viene confermata nel campo circolare che compare per la prima volta nell’86 e nelle diverse “pale”, tele centinate, mirate sempre a rifondare la struttura del dipinto riducendone all’osso le funzioni rappresentative. Tra le mostre storiche a cui ha partecipato: Un futuro possibile. Nuova pittura, La riflessione sulla pittura, 1973, Analytische Ma/erei, 1975, I colori della pittura, 1976. Nel 1985 ha partecipato a Artisti Italiani degli anni Settanta nelle collezioni della Galleria Civica d”Aile Moderna al Castello di Rivoli. Numerose anche le personali tra le quali quella alla Galleria Plurima di Udine nel 1983 con presentazione di Filiberto Menna (dove torna nell’88 e nel ‘92) e alla Rupert Walser di Monaco nel 2001. DITTICO Tecnica mista su due tele 90 x 90 1972 59 Mario NIGRO Si trasferisce prima ad Arezzo e poi a Livorno, dove mette in evidenza le sue prime qualità artistiche sia pure in composizioni largamente pervase da uno stanco tradizionalismo pittorico. Ha modo però di evidenziare un notevole eclettismo culturale che lo porta a suonare due strumenti (pianoforte e violino) ed a laurearsi in due diverse discipline ( Chimica e Farmacia). E’ assistente di Mineralogia all’Università di Pisa e successivamente ottiene un impiego presso la farmacia dell’Ospedale di Livorno. Nel 1945 fonda insieme a Voltolino Fontani e altri pittori livornesi il Gruppo artistico moderno (G.A.M.). La sua attenzione è in un primo tempo orientata verso i grandi maestri della pittura italiana, come Sironi e De Chirico, anche se poi l’interesse per l’astrazione prende il sopravvento. Nel 1949 aderisce al Movimento Arte Concreta (MAC) di Gillo Dorfles. Nel 1950 realizza i “Pannelli a scacchi iterativi e simultanei” che vengono esposti a Parigi. Nel 1952 esegue le iterazioni ritmiche progressive simultanee in variazione monocroma. Il suo astrattismo geometrico assume dunque forma reticolare. La sua attività artistica non è fatta soltanto di opere d’arte ma anche di scritti, tanto che nel 1954 riesce a pubblicare il suo primo lavoro teorico sullo “Spazio totale”. Nel 1961 esegue i “Collages vibratili modulari”. Nel 1964 è invitato alla Biennale di Venezia. Nel 1965 realizza le strutture del “Tempo totale”, le colonne ambientali e i componibili modulari. L’anno dopo pubblica lo scritto sul “Tempo totale”. Nel 1968 ottiene una sala personale alla Biennale di Venezia, a cui parteciperà varie volte negli anni successivi. A metà anni ’70 realizza le “strutture fisse con licenza cromatica”. Seguono la serie del Terremoto, quella degli Orizzonti, delle Orme, dei Cipressi , dei Dipinti Satanici, delle Meditazioni ad acrilico e delle Strutture ad inchiostro. La sua opera decisamente originale sconfina nel campo dell’arte optical e a partire da metà anni sessanta in quella “minimal”, mostrando tangenze anche con una disciplina come l’architettura, tanto che in gergo alcune sue produzioni degli anni ’50 sono denominate “grattacieli”. Celebrato più volte in rassegne artistiche internazionali, tra cui si ricorda quella del 1971 a Münster ( “Arte concreta. Die Italienische Konstruktivismus”) Mario Nigro si spegne a Livorno, sua città di adozione, nel 1992. Nel 1993 la Biennale di Venezia gli rende onore con una mostra che dà il via ad una nuova rilettura della sua opera. SPAZIO TOTALE Tecnica mista su carta 35 x 50 anni ‘60 61 TERREMOTO Carboncino su carta 50 x 20 1982 62 MEDITAZIONE Acquerello su carta 40 x 31 1991 63 Claudio OLIVIERI Claudio OLIVIERI, nato a Roma nel 1934, si trasferisce a Milano nel 1953, dove frequenta l’Accademia di Belle Arti. Formatosi nell’ambito delle ricerche informali di quegli anni, esordisce con opere caratterizzate dal colore, usato dinamicamente e steso tramite complesse stratificazioni, e, spesso, anche interrotto da percorsi segnici. Allestisce la sua prima personale nel 1959. con Enrico Della Torre, alla British School di Bologna. L’anno seguente espone al Salone Annunciata di Milano. Con il passare del tempo approfondisce con i suoi lavori i rapporti tra forma e colore, tra segno e spazio, lavori che porterà alla XXXIII Biennale di Venezia del 1966. Nel 1967 realizza invece una serie di sculture in alluminio, nelle quali i segni-colori dei suoi dipinti si trasformano in filamenti colorati che fluttuano nello spazio. Nella seconda metà degli anni Sessanta questa distinzione tra il fondo pittorico ed i segni-colore si fa più distinta, creando diverse profondità spaziali. Nel decennio successivo i quadri di Olivieri assumono sempre più la fisionomia di uno schermo, dove vengono determinate, dai soliti elementi di segno, gesto e colore, oltre a variazioni di profondità, anche diversi gradi di intensità luminosa, rendendo evidente anche gesto stesso del dipingere ed il pensiero che lo determina. Numerose sono le rassegne internazionali cui ha partecipato, tra queste, nel 1974-’75 Geplante Malerei, la documenta 6 di Kassel nel 1977; ancora la Biennale di Venezia, nel 1980, 1986 e 1990; le mostre Linee della ricerca artistica in Italia 1960-1980 al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1981, Arte in Italia 1960-1982 alla Hayward Gallery di Londra l”anno seguente e successivamente ltalienische Kunst a Kunstverein di Francoforte e Arte italiana 1970-1980 alla Kunsthalle di Budapest. Numerose anche le mostre personali tra le quali quella al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano nel 1982, alla Galleria Civica di Modena nel 1983 e alla Galleria milanese ll Milione nel 1988. Più recentemente ha partecipato alla Quadriennale di Roma (1999), mentre nel 2001 Palazzo Sarcinelli di Conegliano (Treviso) gli ha dedicato una importante retrospettiva. SENZA TITOLO Olio su tela 200 x 100 1978 65 LUCE ANCORA Tecnica mista su tela 80 x 110 1991 66 MELODICO Tecnica mista su tela 80 x 110 1989 67 Giorgio OLIVIERI Giorgio Olivieri, tra i primi ad aderire al realizzarsi della prassi pittorica all’interno di una grammatica e di una sintassi minimali che hanno caratterizzato una larga parte degli anni settanta, si distingue per una sua ricerca espressiva approfondita in lunghi anni, una ricerca che presuppone certi sviluppi spaziali, ma attraverso il rapporto tra colore e superficie, segno pittorico. Le proposte e le soluzioni di Lucio Fontana per andare oltre il quadro sono da lui assimilate, ma non per la creazione di “ambienti”: il quadro resta, anche se in un primo tempo diventa quadro-oggetto, e resta il valore sottile del colore, che non perde le risonanze venete, pur risolvendosi in nitido timbro. Inizia la sua attività espositiva alla fine degli anni Cinquanta, riuscendo nel giro di alcuni anni a farsi interprete di quel clima di azzeramento aniconico che segue l’onda calda dell’azione informale e che privilegia la pittura come procedimento analitico, indagine intorno alla sua sintassi, alle sue specificità. Nei primi anni ‘70 realizza una serie di quadri-oggetto, geometrici, strutture nitide hard-edge, dove la superficie monocroma à plat è interrotta da strisce dipinte, spaghi o dai profili dei diversi telai sagomati e giustapposti. Superata la metà del decennio, bande multicolori prendono ad animare i fondi monocromi e purissimi dei dipinti, ponendosi ai loro margini, sui risvolti fissati al telaio di legno; esse sottolineano il vuoto che si apre al centro dell’opera e rimandano - proprio in virtù della loro natura periferica - oltre la superficie. Bastoncini di colore fanno il loro ingresso nelle superfici acriliche dei primi anni ‘80, sempre a connotare i bordi del campo, aste geometriche che intorno all’ 84-’85 si dispongono dentro o intorno a stesure cromatiche liquide, immagini trascoloranti in distese di azzurri, verdi, rossi e viola. Il colore – un’onda fluida, trasparente e leggera - si libera rompendo gli argini del rigore, eludendo ogni configurazione rigidamente formale, coinvolgendo anzi le bande colorate nell’ eccitata epifania della pittura. I dipinti più recenti – monocromi raffinatissimi dove il colore è insieme compatto e lieve, capace di restituire velature e trasparenze – recuperano il motivo degli spaghi, qui vere e proprie corde impreziosite da nappe che si dispongono lungo il perimetro della tela o che attraversano la superficie dell’opera. SENZA TITOLO Acrilico su tela 70 x 70 1975 - ’76 69 SENZA TITOLO Acrilico su tela 40 x 40 1977 70 SENZA TITOLO Acrilico su tela 60 x 60 1979 71 Gottardo ORTELLI Gottardo Ortelli è uno dei più originali protagonisti della pittura italiana degli ultimi trent’anni, e uno dei più rappresentativi esponenti della Pittura-Pittura o Pittura Analitica, impegnato a sostenere la pratica del dipingere come analisi ed emozione del colore, attraverso la verifica dei mezzi cromatici e la loro trasfigurazione lirica nel movimento di espansione dello spazio La sua opera attraversa diverse fasi di ricerca: dall’accertamento della superficie alla memoria della città, dalle regole della geometria al rapporto luce-ombra, dal ritmo spaziale dei segni al respiro mutevole dei colori, dalla soglia della natura alle derive inesplorate dello sguardo. In questo viaggio sul filo del visibile Ortelli predilige il movimento errante della pittura, gli slittamenti della percezione e la rivelazione di orizzonti sconosciuti, alternando l’evocazione solare della luce alle profondità notturne dell’ombra. Una profonda continuità guida le differenti stagioni espressive mostrando una coerenza creativa che si sviluppa dai rigorosi ritmi geometrici degli anni Settanta fino alle fluttuazioni emotive del colore che caratterizzano l’ultimo periodo di lavoro. “Dipingere – ha scritto l’artista- significa riaffermare con forza i valori della spiritualità e misurarsi con l’intemporalità. Dipingere significa affinare le capacità intellettuali e l’abilità manuale che le rende visibili: obiettivi che si raggiungono solo con intensa applicazione e lungo esercizio. Dipingere significa affidare all’opera la testimonianza intera del suo senso, riportarla nella sfida del tempo”. SUPERFICIE DI ACCERTAMENTO Acrilico su tela su tavola 130 x 158 1976 73 Pino PINELLI Pino PINELLI è nato a Catania nel 1938. Si trasferisce a Milano nel 1964, dove tiene la sua prima mostra personale alla Galleria Bergamini e dove vive e lavora anche attualmente. Inizia a esporre con continuità, in Italia e all’estero, dai primissimi anni Settanta. ll suo lavoro risente allora dell’influen2a di Lucio Fontana e delle ricerche attorno al Minimalismo. Nel decennio 1975-1985 compaiono le prime forme modulari accostate, costituite da una struttura rivestita di stoffa o di pelle di animale. Caratteristica fondamentale di queste opere - che sono la costante dell’opera di Pinelli - e la loro disseminazione sulla parete, con una disposizione che segue una linea ideale. Partecipa, fra l’altro, alla XLll Biennale di Venezia nel 1986. A partire dai primi anni Settanta, si interessa della pittura come forma. La pennellata di colore, solidificata e frammentata viene ripetuta, prima all’interno di una superficie, poi sulla parete o nell”ambiente. Si comprende così perché Pinelli sarà considerato uno dei principali esponenti della Nuova pittura o Pittura analitica, di cui sarà uno degli anisti più rigorosi. Nel 1975 appaiono le prime forme modulari accostate, per esempio tre quadrati, costruite con un telaio rivestito di flanella o, in qualche caso, di pelle di daino, che introducono un altro elemento che sarà fondamentale nell’opera del pittore, la tattilità. Del 1976 è la rottura dell’unità del quadro: “Pittura GR” è costituito da quattro elementi che sono gli angoli di un rettangolo che risulta, in tal modo, con i lati tagliati. Si sviluppa qui sia la dialettica tra opera e muro che l’idea di disseminazione, di “frammentità”, secondo la definizione del poeta Carlo Invernizzi. D’ora in poi il lavoro di Pinelli sarà tutto incentrato su questa dislocazione sulla parete di elementi che indicano la rottura della struttura quadro, della superficie e della bidimensionalità. Le strutture (fino al 1983) sono rivestite di flanella, poi Pinelli inventa una “tecnica mista”, risultante da vari materiali amalgamati che, dipinti, assumono una pelle sensualmente tattile, quasi un velluto. Tra le numerosissime mostre personali e collettive si cita la retrospettiva che gli ha dedicato nel ‘90 la Galleria d’Arte Plurima di Udine e quella al Kunstmuseum di Bonn nel ‘96. Nell’88 ha esposto all’interno di Astratta. Seoessioni astratte in Italia dal dopoguerra al 1990 a Palazzo Forti a Verona e nel 1998-’99 a Arte italiana. Ultimi quarant’anni. Pittura aniconica alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna. PITTURA BL Tecnica mista (due elementi) 1998 PITTURA R Tecnica mista (tre elementi) 2001 75 PITTURA R Tecnica mista (cinque elementi) 2004 76 77 PITTURA BL Tecnica mista (quattro elementi) 2008 78 79 Lucio POZZI Lucio Pozzi nasce a Milano nel 1935. Si trasferisce a Roma per studiare architettura e successivamente, nel 1962, approda negli Stati Uniti, ospite dell’Harvard Inter na tional Summer Seminar. Verso la fine degli anni ’60 si stabilisce a New York, diventando cittadino americano e frequentando assiduam ente il vivace mondo artistico della Grande Mela. Ben presto le sue opere vengono esposte in diverse gallerie sia in America che in Europa, tra cui l’Ariete, John Weber, Gianenzo Sperone, Yvon Lambert e Leo Castelli. Utilizzando differenti media, Pozzi si inserisce nel solco dell’arte con cettuale per poi sperim entare stili e formule espressive pro fondamente diversi fra loro, combinando incessantemente lin guaggi e mate ri ali. Questo suo eclet tismo unito a una attitudine provocatoria è testimoniato in particolare dalla serie di mostre conosciute come Provocation Shows, che ancora oggi vengono allestite in musei e gallerie. Tra i vari riconoscimenti, nel 1983 Lucio Pozzi è stato premiato con il National Endowment for the Arts e nel 2010 ha ricevuto un Diploma Honoris Causa all’Accademia di Verona. Nel 1977 è invitato a Documenta 6 a Kassel e nel 1980 alla Biennale di Venezia, dove espone nel Padiglione Americano. Ha inseg nato al Sculpture Graduate Program della Yale University, alla Princeton University e al Maryland Institute of Art. È inoltre professore alla School of Visual Arts di New York, all’Accademia Cignaroli di Verona e alla Libera Accademia di Brescia. Le opere di Pozzi fanno parte di numerose collezioni pubbliche e private, tra cui The New York Public Library; MoMA, New York; The Whitney Museum of American Art, New York; The Museum of Contemporary Art, Chicago; PS1 Contemporary Art Center, New York; Centro per l’Arte Con tem po ranea Luigi Pecci, Prato; Collezione Maramotti, Reggio Emilia. Attualmente Lucio Pozzi vive e lavora tra Hudson e Valeggio sul Mincio (VR). FIELDS Olio su tela 57 x 50 1990 GEMMA Olio su tela 57 x 50 1990 81 UTOPIA Olio su tela 61 X 61 1991 82 LONGIN Olio su tela 61 X 61 1991 83 Tomas RAJLICH Tomas Rajlich nasce nel 1940 e si forma nell’ambito delle arti visive, prima alla Scuola di Arti Decoralive, poi all’Accademia di Belle Arti a Praga. Si dedica inizialmente alla scultura, e ben presto sceglie il filone astratto-geometrico. Nel 1966, insieme ad altri fonda il “Klub Konkretistü” - l’equivalente ceco dei gruppi ”Nul” o ”Zero”- procurandosi così la fama a livello nazionale. Circa due anni dopo, il mondo internazionale dell’arte scopre il suo lavoro al Museo Rodin di Parigi, nell’ambito di una mostra collettiva dedicala alla ScuItura Cecoslovacca. Nel l969, Rajlich decide di lasciare il suo paese a causa dell’occupazione sovietica, ed emigra in Olanda, dove viene nominato Professore alla Vrije Academie, e nello stesso tempo scopre la sua vocazione di pittore. Rappresentato dalla Galleria Art & Project di Amsterdam, dalla Galleria Yvonne Lambert di Parigi e dalla Galleria Françoise Lambert di Milano, il suo lavoro inizia presto ad essere apprezzato su scala internazionale, e Rajlich è invitato a parlecipare a grandi esposizioni profondamente innovative, come Fundamental Painting (1975) allo Stedelijk Museum di Amsterdam. La prima retrospeltiva di Rajlich si è tenuta al Palazzo Martinengo di Brescia nel 1993. La sua nazione adottiva, l’Olanda, ha conferito all’artista il prestigioso Premio Ouborg per la carriera, nel 1994, e in quesla occasione il Gemeentemuseum di L’Aia ha ospitato la sua seconda retrospettiva. Nel 2006, in occasione del suo 65° compleanno, presso lo stesso Museo si è tenuta una retrospettiva dei lavori su carta di Rajlich. Nella nativa Repubblica Ceca, il Düm Umèni Mésta di Brno gli ha dedicato una retrospeltiva nel 1998 e la Galleria Nazionale di Praga nel 2008. I lavori di Rajlich fanno parte di prestigiose collezioni internazionali, e l’artista ha ricevuto parecchie commissioni per la realizzazione di opere monumentali, come l’installazione costituita da sei grandi tele per il Road van State di l’Aia (Olanda). Dal 1999 al 2002 Rajlich è stato uno degli artisti in residenza presso il Centre Georges Pompidou a Parigi. Oggi vive e lavora fra L’Aia, Praga e Parigi. MONOTIPO Monotipo su carta 65 x 50 1974 85 SENZA TITOLO Acrilico su tela 80 x 80 1975 86 SENZA TITOLO Acrilico su tela 100 x 100 1972 - ‘73 - ‘74 87 Marco TIRELLI Marco Tirelli nasce a Roma nel 1956. Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma dove si diploma in scenografia con Toti Scialoja. Attualmente vive e lavora in Umbria. Al 1978 risale la sua prima mostra personale presso la Galleria De Ambrogi di Milano. Tra le prime mostre collettive di Tirelli ricordiamo la partecipazione alla collettiva “Italiana. Nuova immagine” a Ravenna (1980) e alla Biennale di Venezia del 1981 e, tra le mostre personali, quelle presso la Galleria Bernier di Atene (1979) e la Galleria De Crescenzo di Roma (1980). Al 1984 risale la prima mostra personale presso Galleria L’Attico di Fabio Sargentini di Roma. Marco Tirelli espone di nuovo alla Galleria L’Attico nel 1985, 1987, 1988 e, con una personale, nel 1989. A metà degli anni ‘80 trasferisce lo studio nei locali dell’ex pastificio Cerere in Via degli Ausoni, nel quartiere romano di San Lorenzo, che diventa in quel periodo un vitale centro propulsore della cultura artistica. Qui si tiene, nel 1984, la mostra “Ateliers” in occasione della quale Tirelli, Bianchi, Ceccobelli, Dessì, Gallo, Nunzio, Pizzi Cannella, aprono i loro studi al pubblico. A partire dalla seconda metà degli anni ‘80 la sua ricerca formale e cromatica tende ad una maggiore essenzialità. Nel 1985 partecipa alla collettiva “Anniottanta” presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna e tiene per la prima volta una mostra personale alla Annina Nosei Gallery di New York, dove espone nuovamente nel 1986 e nel 1989. Nel 1990 partecipa con una mostra personale alla Biennale di Venezia e la Galleria Civica di Modena gli dedica una mostra personale. Nello stesso anno espone, con Sol Lewitt, all’American Academy di Roma e partecipa alla Biennale di Sidney. Ricordiamo inoltre le mostre personali alla Galleria Triebold di Basilea (1991), alla Galleria Gian Ferrari di Milano (nel 1992 e, più recentemente, nel 1997 insieme alla Galleria Baldacci), presso la Galleria Hilger di Vienna e Francoforte (1992), la Galleria dell’Oca di Roma (1993), la Galleria Di Meo a Parigi (1995). Tirelli ha vinto il premio Michetti 1997. Nel 1998 è a Verona con una personale allestita alla Galleria dello Scudo. SENZA TITOLO Tempera su tavola (sei elementi) 150 x 140 2002 89 Giuseppe UNCINI Giuseppe Uncini si trasferisce a Roma nei primi anni Cinquanta incoraggiato dall’ scultore Edgardo Mannucci dal quale prenderà lo studio. Qui nasce la serie delle Terre (‘57’58), opere realizzate con cemento, carbone, terre. Le prime opere con il cemento armato risalgono all’ fine del decennio; queste segnano il passaggio da una fase informale ad un’altra caratterizzata da un alfabeto elementare; la materia non è più informe ma dotata di un senso proprio, una materia essenziale, propositiva di una nuova fase che intende staccarsi dall’ precedente. Nel 1958 espone all’ Gall’ria Appia Antica a Roma con Lo Savio, Manzoni e Schifano. Nel 1962 è uno dei componenti del Gruppo 1, movimento appoggiato da Argan, che si propone di superare l’informale, perch, Già storicizzato e incapace di essere socialmente funzionale. Dopo lo scioglimento del gruppo, avvenuto nel ‘67, l’artista ha un periodo di sperimentazione con le strutturespazio e l’applicazione di componenti geometriche. La successiva ricerca scaturisce dall’ riflessione riguardo a Ciò che non è corporeo, come nel caso della costruzione delle ombre, ma l’artista prosegue oltre e indaga nel silenzio delle forme pensate; dopo questa lunga ricerca l’attenzione viene nuovamente posta sulla componente spaziale. Si ricordano le mostre principali: nel 1961 si tiene una personale presso la gall’ria L’Attico a Roma; nel ‘64 è a Venezia presso la gall’ria del Cavall’no; nel ‘68 espone a Torino presso la gall’ria Stein; seguono diverse personali all’ gall’ria Marconi a Milano (‘73, ‘76, ‘80, ‘95); nell’83 espone all’ Pinacoteca di Macerata; nell’87 è da Mara Coccia a Roma; nell’89 espone da Banchi Nuovi a Roma, è poi presente a Torino in due diverse gall’rie, Ippolito Simonis e Eva Menzio, quindi a Roma presso Mara Coccia; nel ‘91 è le sue opere sono presenti in due gall’rie, da Tega e da Cavellini; nel 1995 espone all’ gall’ria Fumagall’ a Bergamo e all’ Studio Marconi a Milano. COLLAGE Collage su plexiglass 70 x 100 1973 91 Claudio VERNA 92 Claudio VERNA nasce a Guardiagrele in Abruzzo nel 1937. Autodidatta, a vent’anni si trasferisce a Firenze dove entra in contatto con l’ambiente dell’astrattismo classico, come testimonia la prima personale alla Galleria Numero nel 1960. Nel 1961, laureatosi in sociologia, va a vivere a Ftoma e si awicina all’informale. Seguono alcuni anni di riflessione sul proprio linguaggio pittorico, una pausa espositiva interrotta solo nel 1967, con la personale alla Galleria “Il Paladino” di Palermo dove Verna allestisce una serie di tele monocrome inten/allate da linee irregolari. “Forme geometriche bloccate - ha scritto Menna in quella occasione - (la prevalenza dei quadrati e dei rettangoli), simmetricamente disposte sulla superficie del quadro, cedono a forme più libere, disposte questa volta sulle diagonali, a bande di colore aggressive come segnali”. Dagli inizi degli anni Settanta si concentra sulla geometria e sul colore e sul rapporto che intercorre tra questi due elementi. “L’assunto analitico di Verna - scrive invece Giovanni Maria Accame - e già, immediatamente, calato nella sua esigenza di mantenere uno stretto rapporto con il colore, di farne comunque il protagonista, dichiarato o implicito”. Invitato ad alcune edizioni della Biennale di Venezia (1970, 1978, 1980) e della Quadriennale romana (1973, 1986), sempre nel 1973 espone alle storiche rassegne Tempi di percezione e Un futuro possibile. Nuova Pittura al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Nel 1975 a Analytische Malerei. La produzione pittorica di Verna dagli inizi degli anni Ottanta, sempre ordinata nella tramatura, apre di nuovo la strada a un certo lirismo, anche se non più riconducibile all’informale. Nei decenni successivi conferma ancora la linea intrapresa, aggiungendo un’attenzione particolare alle trasparenze e alla luce che ne scaturisce e facendo sua, ancora una volta, la celebre formula di Valery “ll vero pittore, per tutta la vita, cerca la pittura; il vero poeta la poesia”. Tra i diversi riconoscimenti ottenuti: il Premio Acireale nel 1968, il Premio Città di Gallarate nel 1973 e nel 1995, il Premio Michetti nel 1973 e nel 1983, il Premio Suzzara nel 1999. Tra le mostre più recenti si segnalano: L’altra linea dell’arte italiana (Du MontKunsthalle, Colonia, 1997) e la partecipazione a Arte italiana. Ultimi quaranfanni. Pittura aniconica tenutasi nel 1998 alla Galleria d’arte moderna di Bologna. PITTURA Olio su tela 100 x 100 1975 93 FOXTROT Olio su tela 200 x 100 1978 94 NILO VIOLA Olio su tela 70 x 80 2003 95 SENZA TITOLO Olio su tela 200 x 190 1986 96 97 ClaUde VIALLAT Claude Viallat, gia dal 1964, all’età di 28 anni, insegna all’École des Aris Décoraiifs a Nizza. Proprio a Nizza esordisce nel 1966, con la personale alla Galleria A. ln auesli anni si forma la cosidde††a École de Nice, sotto la cui egida Viallai espone a Vence (Galleria de la Salle), Lione (Palais de Bondy, Galleria L’CEil ecoule, Galleria Guinoichel), Bordeaux (Galleria des Beaux Aris) e naluralmente Nizza (Club An†onin Arlaua). Abbandona presto il cavalletto e dipinge lete al suolo o all’aria aperta, sottoponendole a interventi decisi col colore, visibili anche sul verso. Alla ?ne degli anni Sessania è gia riconoscibile il suo “marchio“ a forma di fagiolo. Díven†a direttore dell’École des Beaux-Aris di Nimes e professore all’École Nationale Superieure de Beaux-Arts di Parigi. È uno dei più precoci maestri del gruppo Supporis/Surfaces e partecipa alle mostre ad esso dedicale dal Musee a’Art Moderne di Parigi (1970), al Théatre di Nizza e alla Cile universitaire di Parigi (1971). Gia nel 1974 il Musée d’Art et d’industrie di Saint Étienne gli dedica una “Retrospective“. Opera anche una ri?essione sul supporio, fino a liberare la tela dal telaio. Negli anni ottanta il colore diventa protagonista delle sue lete, appese al muro libere da cornice. Espone al Musee Nationale d’Art Moderne, Centre Pompidou, di Parigi (1982), alla Fundació Joan Miro di Barcellona (1983), alla Galleria Kamakura di Tokyo (1981, 1986 e 1989) e alla Galleria Leo Caslelli di New York (1982). In Italia esordisce in una personale a Milano nel 1973 (Galleria Templon) e nello slesso anno è invitato a “La ri?essione sulla pittura”, ad Acireale. Nel 1975 par†ecipa alla collettiva itineran†e “Analytische Malerei“ (Galleria La Bertesca, a Genova, Milano e Düsseldorf). Nel 1988 rappresenta la Francia alla XLlll Biennale di Venezia. SENZA TITOLO Acrilico su carta 100 x 70 1999 SENZA TITOLO Acrilico su carta 100 x 70 1999 99 Gianfranco ZAPPETTINI Gianfranco ZAPPETTINI è nato a Genova nel 1939. Tra il 1962 e il`1964 espone ad Albisola e poi a Bologna e a Verona. Nel 1964 approda alla galleria La Polena di Genova, dove l’anno seguente tiene la prima personale. Nel 1967 a Parigi visita gli studi di Alberto Magnelli e di Sonia Delaunay e a Zurigo quello di Max Bill. Frequenta i pittori Mauro Reggiani, anch’egli legato alla galleria La Polena, e Mario Nigro, di cui diventa amico e con il quale intrattiene una lunga corrispondenza. Nel 1968 conosce Winfred Gaul, a Genova per una personale alla Polena: con lui Zappettini instaura una fraterna amicizia e tramite Gaul comincia a frequentare l’ambiente artistico tedesco e olandese. Partecipa nel 1971 alla mostra Arte Concreta al Westfälischer Kunstverein di Münster, nel 1973 a Tempi di percezione a Livorno e Un futuro possibile - Nuova Pittura presso il Palazzo del Diamanti a Ferrara, nel 1974 a Geplante Ma/ere/, organizzata da Klaus Honnef al Westfälischer Kunstverein di Münster, nel 1975 a A proposito della pittura, mostra itinerante in vari musei olandesi, e a Analytische Ma/erei di Klaus Honnef e Catherine Millet. Sempre nel 1975 espone in una personale alla Galleria Karsten Greve di Köln. L’anno successivo espone a Cronaca nella Galleria Civica di Modena e a I colori della pittura all’lstituto Latino-americano di Ftoma. Nel 1977 partecipa a 1960-77 Arte in Italia alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino. Viene invitato a esporre a documenta 6 di Kassel. Dopo Kassel i suoi lavori vengono esposti anche a Bilder ohne Bilder (a cura di Klaus Honnef) al Ftheinisches Landesmuseum di Bonn. Con lavon tra foto e pittura partecipa sempre nel 1977 a Photo Ma/ere/ alla Galleria Peccolo di Koln e a Aphoto allo Studio Marconi di Milano. Nel 1978 espone nella mostra Abstraction Ana/ytique al Museo d’Arte Moderna di Parigi e in una personale dal titolo Coincidenze percettive tra Genova e Anversa all’|.C.C. di Anversa. Nel 1981 partecipa a Linee della ricerca artistica in Italia - 1960-1980, a Palazzo delle Esposizioni, Roma, e a Pittura in radice (a cura di Achille Bonito Oliva) alla Galleria Artra Studio di Milano. Nel 1983 è invitato ad esporre a Critica ad Arte (anch’essa a cura di Bonito Oliva) che ha luogo a Palazzo Lanfranchi, Pisa. Nel 1998 tiene la sua prima mostra antologica al Museo d’arte contemporanea di Villa Croce di Genova, a cura di G. Giubbini. Nel 2005 ha esposto nelle personali alla Galleria Plurima (L’oro e il blu, con P. Cotanl) e al Centro per l’arte contemporanea della Rocca di Umbertide. Vive e lavora a Chiavari, dove, nel 2003, costituisce la Fondazione Zappettini per l’arte contemporanea. SENZA TITOLO Acrilico su tela 100 x 100 1973 101 SUPERFICI ANALITICHE Tele sovrapposte 60 x 60 1975 SUPERFICIE ACRILICA N.236 Acrilico su tela 80 x 80 1974 102 CONFINE N.22 Acrilico e tecnica mista su tela 50 x 50 2007 103 SUPERFICIE ACRILICA Tecnica mista su tela (4 tele) 82 x 328 1974 104 105 LA TRAMA E L’ORDITO N.92 Acrilico e tecnica mista su tela 100 x 100 2007 106 LA TRAMA E L’ORDITO Acrilico e tecnica mista su tela 160 x 110 2006 107 ANTOLOGIA CRITICA 108 Il corpo fluido della pittura analitica Pittura d’analisi Alberto Fiz Giorgio Bonomi Non c’e piu un prima o un dopo; non c’e più un oltre in quanto la pittura, negli anni settanta, rappresenta un luogo concreto in base a un vento che spira per tutta l’Europa e coinvolge, oltre all’ltalia, la Germania, l’Olanda, il Belgio, l’Inghilterra e soprattutto la Francia con gli artisti del gruppo Support-Surface che dichiarano: “La peinture comme pratique signifiante relativement autonome accompagnant l’histoire materielle qui la determine en dernière istance”. ln bilico tra virtualita e fisicità, la pittura, presa di mira dalle avanguardie, rappresenta un’alternativa sia nei confronti della prevalenza dell’oggetto concettuale (la thingness) sia della meccanicità seriale propria della pop art e, pur mantenendo una sua assoluta coerenza, sottopone se stessa a un profondo rinnovamento dove l’atto del dipingere diventa un’estensione dell’esperienza. “Tutti gli artisti degli anni settanta lavorano sulle strutture, sugli elementi fondanti e fondamentali della pittura: colore,luce, superficie, segno, quadro, cornice, corpo, gesto, pennellata e così via”, ha affermato Giorgio Bonomi. La pittura, insomma, in qualunque modo la si voglia leggere, è la verifica dell’esistenza nel momento del suo farsi, lo specchio riflesso della memoria, il principio attivo della creazione. La semplice tautologia (Pittura Pittura) o la riduttiva definizione di metapittura non sono sufficienti per evidenziare un percorso che si definisce secondo un autonomo procedimento sintattico in grado di costruire una propria lingua. Per dirla con le parole di Ferdinand de Saussure, dunque, è “la somma delle impronte depositate”. “La pittura è un corpo che ha mandato fuori da se gli occhi e ha cominciato a percepirsi, oltre a chiedere di essere percepito”, ha dichiarato Paolo Fossati con una certa dose di visionarietà. Tornando al nostro discorso, la Pittura Analitica prende le mosse negli anni sessanta e nasce come reazione alla significazione. Non c’è nulla prima dell’opera se non l’idea dell’opera stessa. Decisive a questo proposito le parole di Claudio Verna: “Con certi artisti ero in sintonia, credevamo nella pittura, ma ognuno cercava la sua strada. invece, alcuni vollero individuare a tutti i costi l’elemento che ci univa esteticamente, credendo di riconoscerlo in una sorta di azzeramento del linguaggio pittorico, dal momento che utilizzavamo pochi pigmenti. Nacque un grosso equivoco: personalmente desideravo superare il pittoricismo, ripartire da capo per riconquistare la mia libertà, mentre altri costruirono una teoria conclusa laddove non esisteva nulla del genere”. Va, poi, sottolineato il desiderio di non perdere di vista l’aspetto processuale a scapito di una produzione seriale e il più possibile asettica: “La base del mio lavoro è l’identificazione della struttura e del processo”, scriveva Claudio Olivieri nel 1974. “Non sono d’accordo sulle separazioni tra analisi e operatività, tra contenuto e forma, tra linguaggio e specifico disciplinare. Non m’interessa l’arte come specialità. La pittura non è manifestazione di un rito “retorico”, non è manifestazione di un prestigio tecnico o peggio di autoritarismo corporativo; la pittura non è certezza”. Ecco, la Pittura Analitica rappresenta un movimento aperto, direi postmoderno, che trasmette un’immagine moltiplicata dove la pittura non è un assioma assoluto, un a priori da dimostrare scientificamente ma un accadimento. Ben diverso dalla posizione di Sol Lewitt, che sui celebri Paragraphs on Conceptual Art pubblicati su “Artforum” nel giugno 1967 affermò: “Nell`Arte Concettuale l’idea o concetto e l`aspetto più importante del lavoro. Quando un artista utilizza una forma concettuale di arte, vuol dire che tutte le programmazioni e decisioni sono stabilite in anticipo e l’esecuzione è una faccenda meccanica. L’idea diventa una macchina che crea l`arte. Questo tipo di arte non è teorico o esplicativo di teorie; è intuitivo, e coinvolto in tutti i tipi di processo mentale ed e afinalistico”. E ancora: “Lavorare con un programma prestabilito è un sistema per evitare la soggettività”. La Pittura Analitica, dunque, non può essere soffocata da una lettura formalista che la renderebbe un’appendice dell’Arte Concettuale (ben maggiori sono, invece, le consonanze con l’arte povera e con l’opera di Giulio Paolini in particolare) ma va analizzata nella sua antidogmaticità e nella sua ambiguità formativa: il significato va a coincidere con il significante all’interno di un processo dove l’opera d’arte non rinuncia a una riflessione sulla propria natura che passa attraverso la produzione, il tempo e la memoria, ma anche la concretizzazione dello spazio nella continua esigenza di creare, come ha scritto Carmengloria Morales, una “nuova condizione di pittura”. Così ci pare che, all’interno del movimento analitico, possiamo discernere tre “filoni” che possono riallacciarsi con quelli più generali che attraversano buona parte dell’arte contemporanea: l’astrattismo, l’informale, il poverismo. Nel primo gruppo possiamo comprendere Battaglia, Ortelli, Pinelli, Zappettini; nel secondo Cecchini, Cacciola, Cotani, Guarneri, Morales, Olivieri, Verna; nel terzo Gastini e Griffa, ma anche per certi aspetti, Cacciola e Cecchini. Certamente questa suddivisione è schematica, come tutte le classificazioni, ma la proponiamo perche’ da un lato, dimostra la ricchezza dell’analiticità e, dall’altro, la complessità di questi artisti che spesso si contaminano con l’uno o con l’altro filone, nello stesso periodo del loro fare o nei loro sviluppi. Si pensi all’evoluzione di Claudio Verna che da una monocromaticità e da un astrattismo, con linee ortogonali o quadrettature, sviluppa poi una pittura piena di colori, di pennellate che spandono colori molteplici e sovrapposti; oppure a Cotani che percorre varie fasi che si differenziano dal “calvinismo” delle bende per ricchezza nella composizione, nella materia pittorica, nella iconografia. Ugualmente Carmengloria Morales che, pur lasciando neutro l’elemento di destra, riempie di colori l’altra parte del dittico o, non essendo più questo esclusivo, del tondo o del quadro di altra forma. Cecchini dilata il colore che scivola sulla tela creando una sorta di “chiazza” larga e luminosa, similmente Guarneri che poi amplifica il colore sacrificando un po’ il segno. Olivieri, a sua volta, sviluppa la sua pittura, fatta tutta di colore e non di segno, fino a comporre delle situazioni quasi antropomorfe. Ortelli, infine, dopo il suo “astrattismo” si cimenterà con una pittura “fiammeggiante”, forte e impetuosa. Sul versante “poverista” abbiamo uno sviluppo coerente, con un uso plurimo di materiali “poveri” in Gastini che aggiunge pietre, legni, ferri, carrube e quant’altro sulla tela; mentre Griffa, rigorosamente fedele alla tela senza telaio, introduce un segno di forte impatto storico-simbolico, l’arabesco. Cacciola, dopo avere fatto altro, riprenderà quell’immagine “povera” nella monocromaticità ripetuta, realizzata con colori industriali. Nel campo dell’astrazione, intesa geometricamente ma non in maniera assoluta, solo Pinelli vi resterà coerentemente aderente: anche quando le sue forme diverranno scaglie e saranno più frattali, sfrangiate, queste avranno sulla parete una disseminazione e un ritmo geometrici, ascensionali o lineari o anche con intrecci di linee. Zappettini dopo aver praticato altre vie e territori, ritornerà a un geometrismo che vuole fondarsi sulla simbologia della trama e dell’ordito. Intrecci: Analisi globali e radici nazionali Marco Meneguzzo (...) In Europa, l’unico cemento che si potrebbe individuare nella vicenda analitica degli anni settanta, è proprio la forte concettualizzazione del lavoro, seguita immediatamente a ruota da un’altrettanto solida teorizzazione critica, volta a contestualizzare ideologicamente e politicamente una simile ricerca. È probabilmente questo il motivo principale per cui la Pittura Analitica americana è stata vissuta come “laterale” rispetto al pieno esplicarsi dell’analiticità pittorico-concettuale nel Vecchio continente. Se a questa percezione di fondo si unisce poi una oggettiva difficoltà di conoscenza e di scambio, un sostanziale disinteresse americano a essere rappresentati in mostre “ideologiche”, un sentimento europeo ancora di possibile superiorità o almeno d’eguaglianza con le idee d’oltreoceano, e una leggera sfasatura generazionale, per cui gli americani o erano troppo “vecchi”, avendo maturato quelle idee già negli anni sessanta - Ryman, Marden, Mangold e Martin, soprattutto - o erano leggermente attardati rispetto al pieno manifestarsi europeo - Hafif, Cole e tutta la cosiddetta Radical e Fundamental Painting statunitense -, si comprenderà meglio come gli artisti americani, per quanto rispettati e singolarmente importantissimi, fossero considerati alla stregua di comprimari sulla scena della Pittura Analitica mondiale.Stessa sorte, se non peggiore per il versante europeo del mondo anglosassone, cioè per gli inglesi, che non avevano alle spalle nessun tipo di tradizione astratta di marca fortemente geometrica, elemento che sembra essere stato per quasi tutti il punto di parten- 109 za più vicino al punto d’arrivo analitico. Dei quattro nomi maggiormente ricorrenti in quegli anni - David Leverett, Alan Green, Robyn Denny e Alan Charlton - solo quest’ultimo ha saputo proseguire in quella direzione analitica, guadagnandosi la reputazione - oggi - di unico “minimalista” britannico, essendosi persa anche la nozione di una possibilità di Pittura Analitica in Gran Bretagna. Del resto, in quel Paese, si percepiva il mondo attraverso una serie di inclinazioni molto simili a quelle americane (solo poche generazioni prima si sarebbe detto il contrario: che gli americani vivevano con le stesse inclinazioni degli inglesi...), con la differenza che in quel momento la Gran Bretagna mancava in questo territorio linguistico di individualità spiccate. Cosi, il pragmatismo che informa sia la parte americana che inglese della Pittura Analitica porta a considerare quella ricerca come un campo esperienziale marcatamente individuale, un cammino da un lato di autocoscienza, dall’altro quasi di “tecnica pittorica” portata all`estremo, ma senza la necessità di un’interfaccia collettiva o, se si vuole, latamente “politica”. Eppure, il termine “pragmatismo” gioca un ruolo importante in tutta la vicenda analitica, soprattutto se lo si considera nel suo significato di necessaria verifica nella pratica di ipotesi teoretiche e di valore totalizzante dell’azione: la coscienza della “pratica” della pittura è infatti il punto di partenza di ogni artista, di qualsiasi nazionalità, che si sia definito “pittore” e “analitico” negli anni settanta. È solo da questo momento - una volta cioe assodata la domanda preventiva, coincidente o conseguente sulla propria azione di pittore - che le posizioni si diversificano, e anche di molto, e forse assumono persino dei connotati “nazionali”, ma sicuramente la coscienza di indagare su di un campo che non era più neppure assimilabile alla “tradizione del nuovo” nella sua variante astratta e razionale, costituisce tuttora l’esile legame generale che decine e decine di mostre internazionali hanno cercato di indicare, di capire e di rafforzare durante quel decennio. Ma se questa è la base su cui tutti - dagli americani agli inglesi, ai tedeschi, ai belgi e agli olandesi, ai francesi e agli italiani - possono collocarsi e riconoscersi, è vero anche che si tratta solo di una condizione troppo vaga, vasta e iniziale, perché ne possa nascere anche solo un’inclinazione comune. Perché l’ambito analitico potesse configurarsi come tale, è stata necessaria la forte teorizzazione messa in atto in Europa, sia dagli stessi artisti che dai critici. È questo l’elemento fondamentale della Pittura Analitica degli anni settanta. È questo l’elemento che consente poi di individuare, al di là del comune cemento teorico, le peculiarità culturali delle singole nazioni, dei singoli gruppi di artisti. Non sarà inutile ricordare che gli anni settanta in Europa sono stati gli anni del|’ideologia, della contestazione, del materialismo storico elevato a modello prerivoluzionario (non negli Stati Uniti, nè in Gran Bretagna, dove prevaleva la rivoluzione del costume e dei comportamenti, soprattutto nella sfera sessuale): a quel modello si sono rivolti, a vario titolo, sia gli analitici francesi, che i tedeschi con la loro appendice olandese e fiamminga, che gli italiani, i tre grandi gruppi che per numero, qualità e consapevolezza teorica hanno costituito i tre “ceppi” culturali su cui è stata costruita la vicenda della Pittura Analitica. Tra i tre, il gruppo tedesco/olandese/fiammingo è quello per certi versi più vicino all’atteggiamento individualista che abbiamo gia indicato per gli americani, e ciò deriva probabilmente dalla loro tradizione in fondo scarsamente incline all’avanguardismo (non all’avanguardia!): l’analiticità tedesca dei Gotthard Graubner, dei Raimund Girke, dei Rupprecht Geiger, dei Winfred Gaul veniva da una pratica legata alla lezione astratta, che non veniva rinnegata, e trascolorava nei più giovani - e aggressivi, e “arrabbiati” - Blinky Palermo, Ulrich Erben, Lynn Umlauf, Edgar Hofschen, Jürgen Paatz, Jerry Zeniuk; allo stesso modo, rifacendosi sempre alla lezione neoplastica, accadeva lo stesso per i fiammingo/olandesi come Jaap Berghuis, Rudi van de Wint, J. van der Heyden, Jan Schoonhoven, Dan Van Severen, Tomas Rajlich, ma è solo la robusta insistenza teorica di un critico come Klaus Honnef (e in subordine di Ewelyn Weiss) a creare le premesse e a stabilire una continuità critica e operativa culminata, come si diceva, nell’edizione 1977 di documenta, e preparata con il concorso di galleristi come Konrad Fisher o Hans Strelow, o gli italiani Francesco Masnata e Roberto Peccolo che avevano aperto loro filiali in Germania. Honnef aveva iniziato a definire questa pittura attorno al 1972, e già nel 1974 con la mostra Geplante Malerei (pittura progettata) al Westfälischer Kunstverein di Münster, poi portata alla Galleria del Milione di Milano, il campo d’indagine era definito. Nonostante tutto, la sua teorizzazione non arriva mai a una sintesi semplice (perché probabilmente non era possibile), ma l’analisi è sicuramente articolata e dettagliata. Postulati la differenza tra arte e mondo, e tra estetica e arte, Honnef propone un’opera d’arte autonoma: autonoma rispetto ai contenuti, che devono essere trovati all’interno del linguaggio della pittura, il cui processo produttivo è parte 110 integrante dell’opera, quasi che la “Pittura Analitica” costituisca una sorta di “sottoinsieme” dell’“arte concettuale” così come, tradizionalmente, la pittura era una branca deIl’arte. ll porsi un limite - quello dell’uso della pittura - costituiva anche la garanzia dell’analisi di uno “specifico” preciso, da cui si sarebbero facilmente espunte tutte le deviazioni emotive, decorative o anche quelle più allettanti del contenuto politico. Una pittura, dunque, da “trattato di semiologia pura”. Da questa impostazione sarebbero restati fuori ben più della metà degli artisti che oggi vengono in varia misura accomunati alla Pittura Analitica, e che anche allora partecipavano a tutte le mostre, persino a quelle organizzate dallo stesso Honnef, ma evidentemente l”operatività all’interno del sistema dell’arte necessitava di compromessi, per cercare di affermare una tendenza che già di per sé sceglieva un territorio molto limitato d’azione, rispetto a quello che avevano a disposizione anche i più puri tra i concettuali. Da questa concezione, ad esempio, sarebbero stati esclusi tutti gli artisti francesi, in quanto portatori dichiarati di quei “contenuti politici” bollati come devianti dall’analiticità pura, così come gran parte degli artisti italiani, divisi tra una “poetica della luce” (il caso di Antonio Calderara, pittore così amato in Germania, e sintomatica...) o comunque di emotività residuale, le seduzioni della processualità politica (che in un modo o nell’altro, avevano interessato praticamente l’intera comunità artistica italiana in questione) e, unico gruppo accettabile, una processualità linguistica autonoma. Ma sono gli artisti francesi a costituire il contraltare teorico della “purezza linguistica” dei tedeschi. Un breve riassunto storico deve rammentare che sin dal 1966 era stato fondato il gruppo parigino B.M.P.T. - Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel Parmentier, Niele Toroni (con Mosset e Toroni svizzeri di nascita) - mentre nel 1970 si forma il gruppo di Support/Surface, dalla fortunatissima e sintetica definizione, che comprende a vario titolo André-Pierre Arnal, Vincent Bioulès, Pierre Buraglio, Louis Cane, Marc Devade, Daniel Dezeuze, Noël Dolla, Toni Grand, Christian Jaccard, Jean-Michel Meurice, Bernard Pages, Jean-Pierre Pincemin, François Rouan, Patrick Saytour, André Valensi e Claude Viallat. I due gruppi, in concorrenza tra loro (il primo a Parigi, il secondo nel Sud della Francia), erano caratterizzati da una fortissima tensione teorica, ritenuta indispensabile al completamento concettuale dell’opera stessa, attraverso strumenti tipici dell’avanguardia, come la rivista “Peinture. Cahiers théoriques”, organo teorico del gruppo provenzale, di cui uscirono nove numeri sino al 1978. “Supporti” e “superfici”, dunque, come attenzione all’aspetto oggettuale dell’opera, mentre solo in un secondo momento si pensa a un oggetto pittorico (non a caso nella produzione francese di questi autori si trovano sperimentazioni di materiali e di tecniche che esulano anche di molto dalla pittura, che pure rimane la pratica principale): oggetto come produzione, anzi come pratica di una teoria, secondo il percorso concettuale marxista della “prassi-teoria-prassi“, così ripetutamente invocato in quegli anni per indicare una teorizzazione che avesse le sue basi nella realtà fattuale e, talvolta, nell’esperienza fabrile delle classi lavoratrici. Ma la tradizione intellettuale francese di quel momento - e non solo - tentava di coniugare a questa specie di ineluttabilità materialistica anche gli aspetti di quella branca della psicanalisi che, grazie a Jacques Lacan, aveva lasciato l’individuo per occuparsi soprattutto di linguaggio: ciò che le teorie surrealiste avevano tentato tra Marx e Freud, ora si tentava tra Mao Tze Tung (così si scriveva il nome del capo cinese nei settanta...) e Lacan. In questo senso sono numerosissime le analogie riscontrabili tra “Support/ Surface” e la corrispondente e coeva “Pittura Analitica” italiana, proprio a partire dal contesto politico, alla litigiosità interna al movimento (“Support/Surface” si scioglierà due o tre volte a pochissimi anni di distanza dalla fondazione, tra i terribili anatemi incrociati dei partecipanti), sino ad arrivare al rapporto con le altre tendenze artistiche e con una teoria artistica da costruire quasi a giustificazione di una pratica che, in fin dei conti, si potrebbe definire pittorica (e che in Italia lo era molto più che in Francia...). E tuttavia, l’impianto teorico francese appare in certo qual modo più robusto, perché, forse, più elastico, oltre che sostenuto da una quantità di scritti e da un’abitudine alla teoria più marcata che in Italia. In conclusione, il panorama della Pittura Analitica anni settanta appare tutt’altro che granitico, e forse non è stato neppure internamente dialettico (uno scontro in tal senso tra convinzioni tedesche e francesi sarebbe riuscito inconciliabilel), ma certo è stato concettualmente variegato. 111 112
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