preview - Parallaxis

la fotografia di classe
di Dan Simmons
Dall’alto del suo punto di osservazione, il balcone della torre della vecchia scuola, la signora Geiss guardò il suo
nuovo studente attraversare l’area giochi riservata ai bambini
di prima elementare. Abbassò la canna del suo Remington
.30-06 finché il bambino non fu nel mezzo del reticolo del
mirino telescopico. Nella luce di prima mattina, l’immagine
era piuttosto limpida. Si trattava di un bambino, non era uno
di quelli che lei già conosceva, e doveva avere avuto intorno
ai nove o dieci anni quando morì. La maglietta verde delle
Tartarughe Ninja che indossava era stata strappata fino al
centro e spruzzi di sangue si erano seccati lungo i tagli sfilacciati. La signora Geiss riuscì a scorgere il pallido bagliore di
una costola esposta.
L’insegnante esitò un attimo, alzando l’occhio dal mirino
per guardare quella piccola figura mentre avanzava barcollando ed inciampando attraverso le altalene e gli scivoli del
cortile. L’età del bambino sarebbe stata giusta, ma lei aveva
già ventidue studenti. Qualcuno in più, lo sapeva, e la classe sarebbe diventata difficile da gestire. E oggi era il giorno
della fotografia di classe, quindi non aveva certo bisogno di
questa ulteriore complicazione. Inoltre, l’aspetto del bambino
era ai limiti di quello che avrebbe ammesso nella sua classe
di quarta... specialmente nel giorno della fotografia di classe.
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la bara sbagliata
di Kelly Link
Tutto questo accadde perché un ragazzo che una volta
conoscevo, chiamato Miles Sperry, decise di entrare nel business delle resurrezioni e disseppellire la bara della sua ragazza, Bethany Baldwin, che non era morta da nemmeno un
anno. Miles aveva preso questa decisione in modo da poter
recuperare una manciata di poesie che, con quello che aveva
creduto un gesto bello e romantico, aveva appunto deposto
nella bara della sua ragazza. Probabilmente era stata proprio
la cosa più stupida che potesse fare. Non aveva tenuto delle
copie per sé. Miles era sempre stato un tipo impulsivo. Penso
proprio che questa sia la prima cosa che dobbiate sapere
riguardo Miles.
Aveva infilato quei fogli, scritti a mano, bagnati di pianto e
con tanto di cancellature, tra le mani di Bethany. Le sue dita
gli erano sembrate delle candele, grasse e cerose e piacevolmente fredde, fino a quando non s’era ricordato che erano
delle dita. E poi Miles non aveva potuto fare a meno di notare che c’era qualcosa che non andava nei suoi seni, sembravano più grossi. Se Bethany avesse saputo che stava per
morire, sarebbe andata fino in fondo con lui? Una delle sue
poesie parlava proprio di questo, di come ora non l’avrebbero
fatto mai più, era troppo tardi adesso. Cogli l’attimo, prima di
ritrovarti a corto di attimi.
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pioggia senza fine
di Ray Bradbury
La pioggia continuava. Era una pioggia perenne, una
pioggia dura e fumante, una pioggia ch’era sudore; un prorompere, un irrompere, un precipitare d’acque, una sferza
sugli occhi, una trazione subdola alle caviglie sommerse; una
pioggia da inondare ogni altra pioggia, insieme col ricordo di
tutte le altre piogge. Pioveva a tonnellate una pioggia tambureggiante, che decapitava la giungla, tagliava gli alberi come
una enorme cesoia, tosava i prati e scavava gallerie nella terra e dissolveva i cespugli. Rattrappiva le mani degli uomini
in mani grinzose di scimmie; pioveva una pioggia vitrea, una
pioggia che non aveva mai fine.
«È ancora molto lontano, tenente?»
«Non lo so. Forse un miglio, o dieci, o anche mille.»
«Non lo sapete di sicuro?»
«Come posso saperlo di sicuro?»
«Non mi piace questa pioggia. Se almeno sapessimo
quanto ancora distiamo dalla Cupola Solare, mi sentirei
meglio.»
«Un’ora o due di qua.»
«Lo credete davvero, tenente?»
«Ma certo.»
«O mentite per tenerci su il morale.»
«Sì, mento per tenervi su il morale! Piantala!»
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quindici tic
di Emanuele Kraushaar
Che forse gli somigliava
I miei guai sono cominciati la scorsa settimana.
Proprio il lunedì sera della scorsa settimana, infatti, accomodatomi sul divano in procinto di guardare la televisione,
mi sono accorto che non c’era più il telecomando. E che non
era neppure nei posti possibili dove avrei potuto metterlo. E
neanche in quelli improbabili dove sarebbe potuto finire.
Fatto sta che ho passato un’intera settimana a cercarlo e
così anche per una settimana me ne sono stato senza televisione. Mi secca alzarmi per cambiare canale e, se non posso
cambiare canale, la televisione mi fa schifo.
«Perché forse quello che mi piace è proprio il fatto di
poter cambiare canale,» ho detto al mio nuovo vicino Alessio
Elfi, prima di accorgermi che il mio telecomando era sul tavolo del suo soggiorno.
«Quello non è certo il tuo telecomando, come vedi funziona con il mio televisore.» Ha fatto per accendere, ma io me
ne sono andato sbattendo la porta.
L’altra sera il mio telecomando è come spuntato fuori dal
nulla e così sono corso dal mio vicino. Ma ad aprirmi è venuta una signora sulla settantina, che forse gli somigliava,
ma che mi ha detto di non aver mai sentito nominare Alessio
Elfi. E poi ha aggiunto che lei lì ci abitava da una vita e che
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l’uomo artificiale
di Antonio Caronia
1. Eroi di metallo
Nel 1836 Edgar Allan Poe
scriveva un articolo nel quale tentava di dare una risposta agli interrogativi suscitati
dall’apparizione in America del
Turco Giocatore di Scacchi. Il
Turco era un automa che giocava a scacchi con il pubblico,
quasi sempre vincendo, ideato
diversi decenni prima in Europa dal barone von Kempelen e
portato in America da Maelzel.
Ci si chiedeva naturalmente se
l’automa fosse veramente una
macchina o se ospitasse all’interno, abilmente dissimulato,
un uomo. Poe argomenta in favore di questa seconda ipotesi,
e lo fa non in modo induttivo,
ma deduttivo, enunciando con
lucidità un criterio di demarcazione fra uomo e macchina che
vale la pena di riportare per intero. Confrontando l’automa di
von Kempelen con la macchina calcolatrice di Babbage, da
poco costruita, egli scriveva:
I calcoli aritmetici e algebrici sono
per loro stessa natura fissi e determinati. Una volta immessi certi
dati, ne conseguono necessaria
mente e inevitabilmente determinati risultati
(…). Possiamo facilmente concepire la possibilità di organizzare
un congegno che, predisposto
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