Introduzione - Il Saggiatore

Introduzione
di Silvia De Laude e Luca Scarlini
Un celebre montaggio di bon mots, dichiarazioni e aforismi di Oscar Wilde,
realizzato da John Gay negli anni settanta, si intitolava Divagazioni e delizie. La
pièce venne portata al successo negli Stati Uniti da un decadentissimo, sulfureo
Vincent Price; in Italia, in un efficace adattamento di Masolino d’Amico, massimo studioso italiano di Wilde, da Romolo Valli, per la regia di Giorgio De
Lullo. Nel titolo, in quei due termini di piacere verbale, di seduzione mordente della battuta, si dà la ricezione dello scrittore, anche se buona parte della sua
opera va in direzione decisamente contraria. Niente da fare: malgrado le sue
favole fossero gioielli simbolisti dalla forte impronta mistica, resta l’immagine
più diffusa di Wilde, d’altra parte avallata a ogni costo dall’autore nel momento del suo massimo successo mondano, quando le signore mandavano biglietti di invito con la promettente dicitura: «È prevista la presenza di Mr Wilde».
Le lettere, per la prima volta offerte al pubblico italiano in versione integrale, ne danno un ritratto spesso diverso. Lo scrittore-performer si presenta
come stacanovista inveterato, lettore attento e acuto di tutte le novità, cercatore di occasioni e di denari, cacciatore di celebrità, appassionato di molti ambiti dello scibile, appassionatissimo di mode e di teatri. Talvolta, ovviamente, il
celebrato humour compare in momenti memorabili di rara felicità linguistica,
ma certo non è l’elemento principale, anzi. I clamorosi fatti della biografia di
Wilde sono noti per le tante versioni teatrali e cinematografiche. Gli interpreti
sullo schermo sono però diversissimi, talvolta veri e propri caratteristi: Robert
Morley, nel primo film sul tema, del 1936, in cui comparivano anche testimoni
dei fatti, come Frank Harris; Peter Finch nel notevole Garofano verde; Micheál
MacLiammóir, strepitoso Iago di Orson Welles, che scrisse un monologo destinato a largo successo negli anni sessanta: The Importance of Being Oscar; Klaus
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Maria Brandauer, Michael Gambon, Stephen Fry… Tutti sono altrettante immagini di una star letteraria e del costume, un re del camp e dell’eccesso, destinato al crollo e al precipizio. Niente di più moderno, nell’epoca in cui la rete
celebra il lato oscuro delle stelle con regolarità impressionante e allegra ferocia.
Le prime epistole raccontano gli anni della formazione universitaria: il successo precoce riconosciuto dal prestigioso premio poetico Newdigate, il legame
strettissimo con la madre, irredentista irlandese e retorica poetessa. Ci sono
amici cari, fraterni; tentennamenti tra mondo protestante e cattolico. Questo
è un elemento rilevante per tutti gli artisti e intellettuali celtici a caccia di fortuna nella capitale del più grande impero del mondo, portatori di mitologie
narrative che rappresentano un’alternativa a quelle britanniche. Lo ricostruiva
perfettamente una magnifica mostra alla National Portrait Gallery del 2005,
dall’inequivocabile titolo Conquering England.
Compaiono letture favorite, gusti, disgusti: si comincia a delineare la visione estetica del mondo, intuita nel profondo e proficuo dialogo con Walter
Pater, il cui saggio Rinascimento è l’annuncio di un nuovo mondo percettivo,
di una fiducia nella bellezza come possibile salvezza messianica. Negli stessi
anni altri scrittori insistono ossessivamente sul tema, elusivo e terribile: l’epoca
industriale che tutto trasforma in scambio economico, in attribuzione arbitraria di valore. Per il giovane Wilde questa dinamica si identifica nello scandalo
della vendita dei sacri testi di John Keats, messi all’asta. Ne scrive un sonetto accorato, su cui torna per tutta la vita. A quell’evento paragona tutta la sua
esistenza, negli anni di grandioso successo e in quelli della disgrazia, dopo l’eclatante processo.
Segue un vasto gruppo di documenti che illustrano le vicende di un giovane autore che le prova tutte per emergere. Come sempre, il vivere inimitabile
prevede un lavoro frenetico per procurare denari per le continue necessità dimessinscena: non si contano le note sul fashion, sulle stoffe, sugli oggetti decorativi. La fin de siècle europea poté contare su borghesi in vena di allestimenti
grandiosi, con grandi poteri d’ingegno e scarso controllo delle economie: in
questo Wilde e D’Annunzio sono gemelli, a fianco della divina marchesa Luisa
Casati Stampa. Non bastano mai i bric-à-brac, i bibelots, gli oggetti e oggettini di ogni tipo. Come Henry James aveva acutamente notato in una sua tempestiva lettura del Piacere, è come se in questa messe di fiori rari si avvertisse
un aroma poco gradevole: una fuga di gas.
Wilde nelle lettere si presenta come lavoratore instancabile: scrive missive a
tutti gli artisti e agli scrittori che ama. Vuole conoscerli a tutti i costi, entrare in
relazione con loro. Si propone alle riviste, grande arena degli autori esordienti,
dimostra da subito una notevole verve di polemista. Il mercato delle idee cerx
ca una figura in grado di catalizzare l’attenzione, benevola o malevola che sia.
Il dandy è in azione a spasso per Piccadilly, con girasole d’ordinanza in mano: iniziano le parodie, spesso mordaci (e, come vuole l’adagio inglese, in esse si trova il maggiore e sicuro segno del successo), si discute di lui. L’operetta,
intrattenimento borghese per eccellenza, si impadronisce del caso. Patience di
Gilbert e Sullivan, capolavoro d’ironia, rappresentato nel 1881 al Teatro Savoy
di Londra: è la via del successo. Si disse che Bunthorne, il protagonista, modellato in realtà su Rossetti e Swinburne, fosse Wilde. Di fatto egli incarnò autorevolmente quell’immagine nella tournée americana, nata per pubblicizzare un
argomento ignoto oltreoceano, anche per volontà degli autori. Nasce una stella: le lettere permettono di seguire un Wilde inebriato dalle grandi platee, sempre più esigente con i suoi impresari. Insomma, una star: da una città all’altra
cresce il clamore, echeggiato a dovere anche nella madrepatria.
Quando Wilde torna è pronto ad aggiungere un ulteriore tassello alla propria celebrità: la direzione della rivista femminile The Woman’s World, di cui
determinerà il successo. Per questo si mette in contatto con tutte le dame di
rilievo nel mondo anglosassone, chiedendo compulsivamente articoli, interviste, noterelle, ricette, appunti di diario. Com’è ovvio, la posizione sociale si
consolida con il matrimonio, seguito da complicati allestimenti della dimora famigliare. Non bastano mai le stoffe pregiate, gli oggetti artistici: le missive sull’arredamento sono molte, minuziose, circostanziate. Il gran teatro del
mondo è pronto al prodigioso spettacolo di Mr Wilde, l’esteta perfetto.
Tra le sue opere, nelle missive che abbiamo degli anni ottanta, egli insiste
specialmente sul teatro. Non si contano gli attori e specialmente le attrici celebri con cui è in contatto (George Alexander, Mary Anderson, Henry Irving,
Lillie Langtry, Ellen Terry). Insomma, il meglio del teatro anglosassone, con
molti addentellati francesi. In prima fila, ovviamente, Sarah Bernhardt, per
cui scrive Salomé nella sua seconda lingua. In queste fittissime reti di scambio,
egli cerca soprattutto di vendersi come moderno tragediografo, ma in questo
è meno fortunato di D’Annunzio: non trova una Duse a patrocinarlo, artisticamente ed economicamente. La sua infelice Duchessa di Padova non troverà
facilmente dimora sulle due sponde dell’Atlantico, il macchinoso Vera o i nichilisti, di ispirazione russa, avrà eguale destino. Il suo grandissimo successo
sarà nella commedia, perfetta macchina di rappresentazione, fino all’esito supremo dell’Importanza di chiamarsi Ernesto. Il palcoscenico è il luogo, d’altra
parte, che abita più spesso anche nella sua strepitosa carriera di conferenziere.
Nel trionfo e nel tripudio di polemiche, attacchi e affondi, Wilde è un successo di scandalo, e si fa molti nemici, specialmente nel 1891, all’uscita (a puntate sul Lippincott’s Magazine) del Ritratto di Dorian Gray, che i benpensanti
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reputano osceno. I saggi, mondanissimi dialoghi platonici per il mondo di fine
secolo, insistono su tasti simili: la bellezza è la chiave di tutto, ciò che non le si
sottomette è in fondo scoria, ininfluente avanzo di niente. Poco resta di questi
momenti nelle lettere che abbiamo dei primi anni 1890, riassunti soprattutto
in numerosi interventi pubblici su quotidiani e riviste. Poi, per solito presentato dai biografi, perfetto oggetto liberty di perdizione, velenoso cavaliere della rosa, incantevole araldo della catastrofe, arriva Bosie, al secolo Lord Alfred
Douglas. Il coup de foudre è in ogni caso letterale: certo non è il giovane fin de
race a rivelare allo scrittore la propria omosessualità. I due insieme si dedicano
a un’esistenza senz’altro dispendiosa, splendente: Wilde, nella dissennata sequenza dei party, licenzia nel frattempo capolavori di prosa saggistica e di teatro. Sullo sfondo c’è sempre Robbie Ross, letterato canadese, amante e amico,
che si incaricherà della sua eredità letteraria, negli anni in cui l’opera wildiana sarà decisamente reputata scandalosa, quasi in odore di zolfo. Come molti
altri omosessuali, anche lui lascerà per lunghi periodi la soffocante Gran Bretagna, al momento dei processi. Il suo amico Reggie Turner si trasferirà a Firenze, dove in viale Milton, fino agli anni trenta, sarà animatore di un vero e
proprio tempio wildiano.
I fatti precipitano nel 1893, e qui le lettere permettono di ricostruire esattamente tutte le complesse vicende: il marchese di Queensberry, padre della
boxe moderna oltreché di Bosie, con cui si detesta, sferra il suo attacco, disseminando Londra di biglietti infamanti. Wilde lo denuncia. Ne nascono i celebri processi per gross indecency – omosessualità e atti osceni: Wilde perde
tutto, va in prigione, i figli cambiano nome, la sua vita è spezzata. L’amore che
non osa dire il proprio nome, vietato per legge in Inghilterra, punito con pene
detentive severe, viene associato indelebilmente alla ricerca estetica. I moralisti danno ragione al violento marchese di Queensberry, mentre lo scrittore è
scaraventato nei più infimi gironi dell’opinione pubblica. Da questa esperienza
tremenda nasce quella lettera-monstrum che è insieme memoria, opera letteraria sublime e requisitoria tremenda nei confronti di Bosie e delle sue responsabilità. Certo non semplice epistola, piuttosto visione autobiografica e tentativo
di inventare una nuova identità, questo testo magnifico racconta un disastro
e una catarsi, nell’acquisizione di una fede agnostica nella potenza dell’amore, in dialogo con un’interpretazione di Cristo profondamente debitrice alla
Vita di Gesù di Ernest Renan. L’invettiva, la disperazione per la perdita dei figli, la scoperta del dolore ne sono le note principali: Wilde nella lettera si sfoga
scrivendo un capolavoro, ma Bosie ne farà le spese, in fondo, diventando nella memoria collettiva il responsabile unico delle tragiche vicende wildiane. Lo
scrittore segnala amaramente come Lord Douglas (ma certo gli sarebbe stato
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in ogni caso difficile, se non impossibile) non seppe trovare gli strumenti per
promuovere le opere del suo amore, ormai dimenticato come creatore di stile
e citato solo con riprovazione in veste di criminale.
Gli ultimi anni vedono lo scrittore distrutto, in bolletta, ma anche splendido. Le lettere ci permettono di seguire il mutamento del suo carattere, quando
la figura pubblica è indicata da molti come emblema della decadenza letteraria
e fonte di ogni possibile malvagità. Ormai la sua omosessualità non è da nascondere: con grande modernità egli si vanta della propria collezione di marchette. Vive prima da solo, in Francia, cercando quiete, dopo gli anni orrendi
del carcere, sullo sfondo marino di Berneval, nell’Alta Normandia. Qui nasce
la mirabile Ballata del Carcere di Reading, ma Wilde scrive del carcere anche
sui giornali, e sembra aver lasciato per sempre la propria immagine di dandy.
Afferma, come l’improbabile eroe di una sua tragedia giovanile, che non vedrà
mai più Bosie, il quale peraltro conosce solo in parte il contenuto di De Profundis, ma che per tutti i già numerosi lettori ha già assunto il suo ruolo di carnefice. Anche se Wilde dichiara di volerne stare lontano, i due si rivedono presto
e tornano, nella riprovazione generale, a vivere insieme. Viaggiano al Sud, in
Italia meridionale spesso vengono cacciati dai locali, danno scandalo. A Napoli Il Mattino, forse a firma di Matilde Serao (ma non è certo), mette in guardia le autorità contro i pericoli del fenomeno «oscarwildismo»; a Capri Wilde
e Bosie vengono allontanati dal ristorante. Pressati dall’opinione pubblica, ricattati dall’autorità della moglie, a lungo paziente, ma infine infuriata, e dalla famiglia Douglas che taglia i viveri al bel rampollo, i due infine si separano.
Wilde continua a chiedere agli amici comprensione per il suo amore rovinoso,
ma soprattutto, nelle lettere che abbiamo, chiede in modo ossessivo denaro a
tutti i contatti che gli restano. Alla fine rimane isolato, a Parigi: è marchiato a
fuoco da questa separazione, la malattia contratta in carcere lo tormenta, compare nelle cronache (tra cui l’impietoso ritratto di Gide) nelle fattezze gonfie e
livide del tremendo ritratto di Toulouse-Lautrec.
Grazie a Massimo Bacigalupo, Magdalena Barile, Masolino d’Amico, Clara
Schiaffini.
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