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La spada ferisce
Quaderno Blu
Lettera dal Minsolsoc
Cara famiglia, è giunto il momento di svelare la verità
sul bonus che avete ricevuto l’anno precedente. Voi
immigrati non preoccupatevi, anche voi sarete serviti.
Abbiamo deciso che per essere ancora più invasivi e
subdoli nell’esercizio del nostro legittimo controllo
sociale (ciò delle vostre vite, dato che una società si
fonda sui singoli individui) siamo disposti ad offrirvi un
sistema più efficace per rendere la famiglia più felice.
Oltre a farvi indebitare per la casa, e a non offrirvi
buone prospettive per il futuro come da precedente
bonus famiglia, questa volta abbiamo pensato di
delegarvi la funzione di pubblica sicurezza. In allegato
troverete il kit con le istruzioni di un test per rilevare la
tossicodipendenza. Non allarmatevi, il test non lo
somministriamo a voi, ma sarete voi a somministrarlo
ai vostri figli. Non lasciatevi ingannare da un falso
senso di fiducia, nell'eventualità abbiamo pensato
anche a questo.
Cominciate a porre la questione droghe a cena o nei
pochi momenti in cui vi vedete. Abbiamo stampato
nuovi opuscoli scientifici, abbiamo convocato
conferenze per i media. Insceneremo false polemiche
mediatiche, poi quelle politiche e improvvisamente
avrete l’asfissiante bisogno di una nuova legge. Quindi
anche voi vi sentirete impegnate nel pubblico e nel
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sociale e sarete legittimati a somministrare vostro figlio
al test. In fondo, se è un bravo ragazzo come vi fa
credere di essere, cos’ha da perderci? Se non ha nulla
da nascondere non c'è niente che possa temere.
Ricordate sempre che è per il suo bene. Si pone
inoltre la questione di salute pubblica. Pensate, i ragazzi
che fumano il cosiddetto ‘spinello’, possono avere
diversi problemi. Anche a distanza di 10-15 anni, si è
riscontrato un aumento delle malattie mentali e delle
turbe psichiche relazionato all’uso della cannabis.
Forse è per questo che ora siete così rincitrulliti…
magari… sarà per quella volta che avete provato!
Il Presidente del Quartiere, del Comune di Residenza,
della Provincia, della Regione, dei Ministeri
della Salute
di Grazia e Giustizia
dell’Interno
delle Finanze
della Difesa
dello Sport e delle Politiche Giovanili
del Tesoro
Commissione antimafia
della Famiglia
della Repubblica Italiana, dell’Unione Europea, del
WTO.
Min. della Sol. Soc.
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Agilulfo Bonzi
Bella la letterina sparata a tutto volume dal
telegiornale. Seguono notizie di autobus sfracellati,
rapinati, incendiati da guidatori e passeggeri imbottiti di
cannabis. Ragazzi morti per spinelli, violenze e
descrizione degli effetti fulminanti dello spinello.
“Avevate mai sentito una cosa del genere” Vinsanto
spirò il fumo.
“Passami la canna. Ma perché abbiamo riparato quel
televisore?”
“Ah, l’hai riparato tu”
“Ma l’avete portato voi due a casa…”
“Ma perché dicono queste stronzate sulle canne?”
“Guarda la legge. Punisce la cannabis molto meno
della cocaina. Guarda come sono cresciuti i consumi di
cocaina.”
“Allora?”
“Ma che razza di tossico sei?” mi ringhia Marco.
“Quanto ti costa comprare del fumo? Quattro, sei euro
a grammo? Per una striscia di coca paghi 80 euro.”
Vinsanto prende il pacco dello zucchero. “Guarda,
immagina questo pieno di erba. In quanti giorni ce lo
fumiamo? Ci metteremmo due settimane appena, no?
Immaginalo pieno di coca.”
“Ah, ah, ah. Quant’è un grammo, due strisce? Ci
facciamo duemila pippate”
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“Immagina a rivenderlo.”
“Ci faremmo 80.000 euro. Però… che roba.
Ottantamila euro con solo un chilo di droga.”
“Quello che stanno cercando di fare i signori FTFG è
criminalizzare la cannabis per incentivare il consumo di
cocaina.”
“Già, più facile da trasportare, più facile da
nascondere… più costosa”
“Ma cosa ci paghi con 80 euro?”
Vinsanto non ci mette molto a pensarci. Sta per
rispondere ma poi si ferma.
“Sono affari. Affari grossi. Il capitalismo e la mafia
funzionano allo stesso modo, lo diceva pure Debord”
“Chi?”
“Poi te lo spiego. Devi far entrare in Italia un carico di
erba. Quanto ti costa? E quanto ci guadagni? Non
correresti gli stessi rischi guadagnando molto di più
con la coca?”
“Me lo passate questo spino? Non mi arriva mai!”
“Ma se hai passato adesso?”
Marco continuò il discorso di Vinsanto “Poi ci devi
pagare le guardie doganali… quando sono stato in
Romania, sai quante volte mi hanno controllato alla
dogana? Non era possibile passare con della droga. Se
non pagavi la tangente, s’intende… Poi i laboratori
clandestini devono pagare anche loro luce, acqua,
gas… E la produzione. Anche quella costa. Io sono stato
in Colombia. Avete idea di quanto siano grandi i campi
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di coca? Secondo voi, per quanto sperduti siano, sono
invisibili? Me ne sono accorto io da turista, figuriamoci
se non se ne accorge la polizia! Se non li vedono vuol
dire che se ne stanno alla larga…”
“Quando sei stato in Sudamerica?”
“Quando inseguivo il Michaux che era dentro di me.
Insomma, ti dicevo: più sali la piramide e più ti accorgi
che tutto questo –produrre, trafficare, spacciare,
consumare- è illegale perché altrimenti i prezzi
sarebbero così bassi che i Lorsignori non ci
guadagnerebbero quello che guadagnano adesso.
Quando vivevo a Milano ero amico di un Generale.
Allora dicevano che ero pazzo, ma fu quel generale a
tirarmi fuori dal manicomio. Era uno molto importante.
L’avevo conosciuto quando lavoravo per lui perché
scontavo una pena prestandomi alla pubblica utilità.
Aveva una villa enorme e il muro di recinzione l’ho
costruito io con altri tossici. Il Generale conosceva un
uomo milanese. Un imprenditore edile. Se vuoi fare
l’imprenditore edile devi avere conoscenze politiche e
soldi. I soldi li prese da una banca. Questa banca
riciclava dei narcodollari dalla Svizzera. Ricavati del
traffico di droga in dollari americani. E riciclava molto
altro ancora...”
“E allora, dove vuoi andare a parare?”
“Sai chi è oggi quel signore?”
“Noooo…”
“Non ci posso credere” disse Vinsanto.
“Allora non ci credere” replicò Marco. E smise di
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parlare. Vinsanto tornò a studiare. Era sempre più
depresso. Anche io cominciavo a soffrire la malinconia.
E non era un sentimento che poteva essere curato con
un disco o leggendo un libro a metà. Fumai uno
spinello, consumando le ultime tracce di tabacco. Non
avevo alcuna voglia di drogarmi.
“Cos’hai?” mi domandò Marco.
“Niente, non riesco a capirlo.”
“Non ti sembra che Santo si comporti in modo
strano?”
“È preoccupato per l’esame, ma ce la farà. Se non
promuovono uno come lui l’università può anche
chiudere”
“Purtroppo non funziona così”
Colsi l’occasione della momentanea lucidità
dall’alcool per far leggere a Marco le poesie che avevo
di recente. Il suo parere fu molto sincero:
“Non capisco se sei più adatto a scrivere prosa o
poesia. Puoi migliorare moltissimo in tutti e due i campi,
ma se vuoi scrivere poesia devi esercitarti per anni.
Imprimi alle parole un buon ritmo, parlo di
Superdosato, perché Poliziotto Cane fa schifo, e
insomma, con il lessico te la cavi. Scegli bene le
parole… ma è come se i versi per te fossero superflui.
Anche il verso libero serve a dare alla frase un suono.
Come inizio non c’è male. Se la prossima volta che le
leggi faranno schifo anche a te, vuol dire che hai delle
risorse.”
“Grazie.” Lo consideravo seriamente un parere
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professionale.
“Quando ero giovane c’erano tante cose che volevo
dire e finivo per dirle tutte insieme. Poi ho imparato ad
associarle ad immagini, a visioni, a esempi, a… ad
allegorie per così dire… e quando le mettevo su carta
andavano bene. Non appena le leggevo nei locali mi
accorgevo che perdevano tutto. Non avevano più
anima, perché mancavano di musicalità. Così ho preso
la buona abitudine di rileggerle ad alta voce. Lì ho
capito cos’era la musicalità, il ritmo di una poesia. A
quel tempo leggevo i poeti beat. L’inglese lo farfugliavo,
però mi divertiva. Per esercitarmi ricreavo lo stesso
suono, ma con parole italiane. Capito come?”
“Credo di sì”
Marco mi chiese una sigaretta, ma io non ce l’avevo.
“Vado a cercarla in strada” disse. Buona idea. L’avrei
fatto anch’io decisi. Issai la mia sacca sulle spalle, non
si sa mai. Presi un po’ di pellicola e il pacchetto vuoto.
Per strada raccolsi i mozziconi più grossi. Ne strappavo
la parte bruciata e vuotavo il contenuto nella pellicola.
L’avrei usato come tabacco da rollare. Era tabacco che
puzzava e dal sapore acre delle sigarette spente e poi
riaccese, ma meglio di niente…
Man mano che le tasse sul tabacco aumentavano
per finanziare le guerre, chiederle in strada diventava
sempre più seccante e i rifiuti si facevano più frequenti.
Alla fine impari a chiedere nei momenti, con i modi e
alle persone giusti. Per trovare la persona giusta non
devi pensare all’età, né al ceto sociale e tanto meno a
che faccia ha il soggetto. Sotto questi aspetti sono tutti
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potenziali fumatori. Certo, entro certi limiti.
Allora, se vogliamo essere più precisi, dobbiamo dire:
individuo di età compresa fra i sedici e sessant’anni. Le
probabilità aumentano nella fascia tra i venti e i
quarant’anni. Età in cui i ragazzi sono abbastanza
indipendenti da portarsi addosso le sigarette senza
nasconderle, e in cui i soggetti non hanno ancora
evidenti problemi cardiovascolari. Il sesso è pressoché
indifferente. Solo la popolazione femminile comincia
prima e spesso smette non appena il fumo invecchia la
pelle. Sono da evitare gli individui atletici, possibili
lettori di riviste maschili e salutiste e periodici per
culturisti. Così pure i consumatori di alimenti biologici,
prodotti di marca, capi di abbigliamento sportivoelegante, alcolici di bassa gradazione bevuti
responsabilmente, programmi televisivi deficienti,
moltissimo sport, vita casalinga, integratori energetici,
metabolizzanti, bevande saline, eccitanti, testosterone,
siero di latte, creatina e antidepressivi. Ma bisogna
stare attenti anche ai salutisti moderati, in maggioranza
ex fumatori.
Invece si hanno grandissime possibilità con gli
individui (specie di genere maschile) che provano un
approccio con l’altro sesso. Per non fare la figura degli
spilorci davanti ad una bella ragazza, una sigaretta non
te la negano mai. Sono i donatori che amo di più.
Posso infine ritenermi soddisfatto della ricerca. Mi
convinco che è la mia giornata fortunata e cerco di
scassinare una bicicletta in pieno centro, proprio nella
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via degli studenti. Senza lo spadino cerco di
arrangiarmi con il cacciavite e il martello.
“HEY!”
Un brivido mi corre per la schiena, e mi tiro una
martellata sulla mano. Hey corre verso di me, e la
paura mi fa passare il dolore portando i piedi a
inseguirsi uno dietro l’altro a gran velocità. Corro svelto,
anche se Hey ha smesso di rincorrermi presto,
praticamente appena ha raggiunto la sua bicicletta.
Io non ce l’ho con Hey. Immagino non sia bello
vedersi portare via da sotto il naso una bicicletta così
nuova. La corsa mi ha affaticato. Seguendo una serie di
stradine trasversali arrivo davanti alle due torri. Mi siedo
a una panchina tenendomi la mano. Adesso il dolore è
meno acuto. Mi lamento un po’. Speriamo non sia
grave. La ferita sanguina. Sembra non esserci niente di
rotto. Provo a muovere la mano, ma non riesco ad
aprirla. Adesso come faccio? Sono a corto, non ho un
soldo! Ridurre le dosi ha attenuato la dipendenza, forse
da quella che mi resta posso farne due. Berrò un po’
del whisky di Marco per diluire la droga nel sangue.
Questi pensieri furono interrotti quando vidi alla mia
destra un uomo seduto alla panchina vicino la mia. Era
lì sicuramente da prima che arrivassi io, ma non me ne
ero accorto.
Sedeva indisturbato davanti alla libreria. Nessuno si
curava di lui. Sulle grosse cosce teneva dei giornali
vecchi, raccattati forse dai bidoni per la carta. Li
sfogliava, voltava pagina, dava un veloce sguardo ai
titoli e poi si soffermava su pochi articoli. Ne leggeva
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alcuni e li strappava. Con cura, stando bene attento a
seguire i margini delle colonne. Il grassone,
indiscutibilmente malato di mente, raccoglieva
innumerevoli articoli di giornale. I ritagli avevano tutti le
stesse dimensioni, più o meno. Li raccoglieva e li
posava accanto a sé. Per terra due buste alla sua
destra piena di ritagli raccolti attorno a copertine di
cartone e rilegati con lo spago. Una busta di plastica
alla sua sinistra con giornali ancora da sfogliare e
articoli da ritagliare. Le gambe, dai piedi fin sui
polpacci, esplodevano diabetiche tra fasciature di lana.
Credeva forse di poter trattenere le vene gonfie
stringendole tra sciarpe di lana? Croste di liquidi
essiccati indurivano quegli strani calzari, mentre
segnava la sua vita in assurdi racconti di cronaca.
Mi sedeva accanto, e adesso non potevo certo
ignorare la sua follia. Quando si è messi con le spalle al
muro della realtà, la follia sembra esploderti davanti. Lì,
in quel momento, più che in ogni altra stazione, in ogni
altro posto tu possa andare. La stessa follia dei
passanti che scorrevano su tapis roulant di cemento,
proprio davanti a noi, senza degnare di uno sguardo un
uomo folle che tesse la sua vita su ritagli di giornale e
un ladro di biciclette con la mano sanguinante del suo
lavoro.
Come svanisce la follia di un ubriacone, come
svanisce la follia di un eroinomane proiettato nel
mondo, così svanisce quella che pensavi essere la
realtà. La relatività si manifesta nella follia della realtà.
Aggrapparsi alla ragione è inutile, quando questa ha
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torto.
Non torno a casa a mani vuote. Mi tengo l’altra mano.
La metto sotto il rubinetto. Vado a farmi una mezza
pera. Il dolore passa, lo chiudo in una lunga parentesi.
(È ora di credere ai fantasmi, quelli veri. L’eroina ti fa
sentire veramente un fantasma. Anche la meditazione ti
fa uscire dal corpo, ma con l’eroina fai prima. Il corpo lo
sento ancora. È una cosa buttata via. Sono un limone
aperto a metà e lasciato per giorni, forse settimane,
sullo scaffale della credenza. Un limone rinsecchito di
cui non si ricorda più nessuno, e che nessuno butta via
perché è come se non esistesse. Ormai è lì, fa parte
dell’ambiente, dell’abitudine. No, ancora non ci arrivate.
Non ci arriverete mai se non avete mai dato importanza
a un limone. Un limone aperto e lasciato per giorni,
forse settimane, sul tavolo o sul comodino.
Un limone rinsecchito
Sette volte carne, sette volte pesce e non ho ancora
mai capito cosa vale la pena di essere. La città – il
benessere – il lavoro assicurato. Così dicevano. Un
tempo forse, avrei potuto crederci, ma i tempi sono
cambiati. Lo dicono tutti e nessuno sa precisamente di
cosa sta parlando. Adesso i datori di lavoro sono
abbastanza vecchi che ti hanno visto su di una
copertina di un disco di Eric Burdon, un basco di tuo
nonno e lo sguardo da giovane delinquente che ha
paura perfino di se stesso. E non c’è altro da
aggiungere al colloquio.)
Cago poco in questi giorni. Però non è la droga. È la
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malnutrizione. Non spaventatevi: la malnutrizione non è
contagiosa e può essere curata col cibo. Anzi, è
probabile che presto soffrirò gli attacchi di fame della
droga, che si offriranno di allearsi con quelli naturali.
Cucino la mia ultima scatola di fagioli. Li condisco
con pomodoro in scatola e peperoncino. Uso il burro
perché non abbiamo olio. Tempi di magra per tutti.
Riesco a fare una focaccia azzima con della farina.
Mangio con grande soddisfazione. Non avanza niente.
Penso che mi vada un caffè. Anzi, mi va. La neve al sole
si scioglie come neve al sole. Il sapore dei fagioli lo
sento ancora, nonostante la sigaretta. Davanti allo
specchio non ho voglia di guardarmi. Mi lavo i denti a
capo chino con l’immagine deformata del mio volto sul
lavandino. Infine mi getto dell’acqua sulla faccia e
passo una mano sui capelli. La mano è ancora
indolenzita, ma stasera devo lavorare.
In cucina ritrovo Marco. Mi offre da bere. Memore di
quello che mi ero detto sulla panchina, accetto.
“Cos’hai fatto alla mano?”
“Incidente sul lavoro”
“Ah ah ah sta diventando sempre più pericoloso il tuo
mestiere!”
“Sì… e frutta poco”
“Perché non vai dai servizi sociali e ti fai trovare un
lavoro? Gli dici che sei appena uscito dalla comunità e
che non stai bene.”
“Ci penserò.” Lavorare? Ma cosa gli salta in mente a
Marco?
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“No, tu non ci penserai, ma sei libero di fare quello
che vuoi.”
“Ci mancherebbe altro…”
Il sole comincia a fuggire via. Cerco di stare a letto
per consumare meno calorie possibile. Riprendo a
leggere Ecuador. Ricomincio da dove mi ero fermato.
Michaux avrebbe voluto delle sculture lungo la linea
ferroviaria tra Parigi e Versailles che interagissero col
paesaggio, fatte in modo che quando ci passi col treno
le vedi danzare. Con la supervelocità non
funzionerebbe. Peggio per loro.
Non riesco a ritrovarmi nel mondo, quando mi
accorgo di essere in un giardino pubblico vicino
all’università, in compagnia della studentessa di Varese
a cui non pensavo più da anni. Sono intimorito perché
non mi riconosco più in me stesso, perché quel me
stesso l’ho represso e poi l’ho ucciso. Ma è lei a volermi,
adesso. Parliamo in macchina e mi convinco. Tutto è
contro di noi. Cerchiamo un posto per l’intimità ma c’è
sempre qualcosa che ci disturba. Troviamo un angolo
isolato in un parco, ma comincia a piovere pioggia
battente. Conosco un posto al coperto, ma ci sono dei
lavori. Mille altri tentativi. Mi sveglio.
Provo a continuare il sogno per sapere come va a
finire. Mi ritrovo invece con Loffio per le strade di
Bologna. Nello zaino abbiamo delle bottiglie di birra,
nel sangue uno spinello split. Ci dirigemmo verso la
piazza, ma un corteo di sbirri e vigili ci ferma. Temiamo
per le analisi. Un vigile ci consiglia di aggregarci con gli
altri ragazzi già controllati, che sfilano scortati da
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immensi autoblindo neri. Perfino i vigili temono i
carabinieri, il potere che gli è stato concesso.
Mi sveglio affamato con Fedro sulle gambe. Lo
mando subito via dal letto. Condividiamo la mia scatola
di biscotti. È ora di andare. Fedro mi segue fino alla
porta, lo saluto carezzandogli la testa. Non posso che
rubare biciclette spezzando il lucchetto con il tubo di
ferro. Questa volta porto con me uno straccio per
avvolgervi l’arnese.
Nei pressi della Cineteca trovo una bicicletta già
liberata. La porto subito a casa. La serata promette
bene. Prima di arrivare in zona universitaria ne rubo
un’altra, incurante dei passanti. In sella alla mia nuova
conquista mi sposto sempre più vicino al centro
universitario. Guardo in cagnesco una pattuglia che se
ne sta per i fatti suoi. Una reazione quasi spontanea,
ormai, alle divise. Proprio davanti al vecchio Sombrero
caffè concludo la serata. In meno di un minuto spezzo
la catena che tiene il telaio della bicicletta alla
rastrelliera.
Rimonto in sella. Fumerò una sigaretta. Basta che
non mi dimentichi di prendere l’altra bici! Che idiozia,
come fai a dimenticarti di una cosa dalla quale dipende
la tua vita? Guardo le serrande abbassate del
Sombrero. Sembra irriconoscibile senza luci, senza i
clienti seduti sugli scalini a bere birra in bicchieri di
plastica. Ci sono bicchieri sparsi al buio, ora, tra
strascichi di orina. I clienti del Sombrero non fanno
così, io li conosco. Chiunque sia stato avrà avuto un
buon motivo per farlo. Penso ai film gialli. Sarà il colore
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del piscio e della birra ad avermeli fatti venire in mente.
I gialli sono una rincorsa del lettore allo scrittore. Da
piccolo mi piacevano. Poi ho scoperto che sono un
bluff. Lo scrittore ti fa fare una serie di seghe mentali
per depistarti e intanto semina degli indizi. Bisogna
scoprire quali sono gli indizi buoni e strada facendo
l’investigatore ti aiuta.
Ci sono tante varianti nel genere, ma nella maggior
parte dei casi funziona così. Se non ci sono bluff è una
schifezza di giallo. E allora, la relazione tra birra e
stimolo ad orinare è quasi del tutto automatica. Il
colpevole è ‘gli avventori del Sombrero, bar frequentato
da tossici, studenti e spacciatori. Puniamoli!' Aspettate,
a ben vedere i pisci sul muro sono troppo alti per
appartenere a delle ragazze. Non è giusto punire anche
loro. Puniamo i ragazzi per il piscio e le birre e le
ragazze solo per le birre. Ma tra i ragazzi non tutti
pisciano fuori. Maggiori controlli! Ma non si può, non
basterebbero i vigili. Usiamo l’esercito. Di più, sempre
più arruolati… Si finisce per sorvegliare e punire tutti. E
tutto questo per uno sparuto gruppo di persone che ha
lasciato dei bicchieri in giro e del piscio per terra.
E così lo scrittore ha fatto il grande bluff, perché
intanto chi si è rafforzato è solo chi sorveglia e punisce.
E quando questo angolo di mondo sarà pulito ce ne
sarà sempre un altro che si sporca.
La forza dello Stato è nelle sue contraddizioni. Nel
rendere giusto ciò che non è giusto. Nel far sembrare
giusto ciò che lui dice essere ingiusto. Non uccidere,
quando saremo in guerra ucciderai quanto vuoi! È
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l’esempio più stupido.
Il più grande bluff è che la Grande Testa Demoniaca
che Governa il mondo, non esiste… Quella sorta di
fluido che entra pomposamente in un uomo che si
sente potente, che milioni di uomini rispettano o
venerano (un politico, un poliziotto, un borghese, un
lavoratore, un prete, un cittadino dello Stato) ciò che
ciascuno vuole essere fin da piccolo non è generato
dalla Grande Testa Demoniaca che Governa il mondo.
Essa viene da quegli stessi uomini. Essa viene
dall’umanità intera. Vinsanto mi raccontava di Platone e
delle carrozze del bene e del male che correvano una
verso il cielo, l’altra verso l’inferno. Diceva che questa
era la morale della storia. Questa era la morale.
Bisogna oltrepassare la morale, diceva Vinsanto.
Perché nessuno lo fa? Sembra che abbiano paura di
farlo, e non si accorgono che la morale ci sta
schiacciando, e una morale di peggior specie di quella
di Platone, diceva.
Se bevi birra devi pisciare. Non c’è morale che tenga.
Perché uno debba farlo proprio lì è un altro paio di
maniche. Ci possono essere mille pro o contro. Se ci
fosse un albero piscerei tranquillamente come un cane
senza dar fastidio a nessuno. Così come se ci fosse un
cesso o altro. E poi uno può aver bisogno di pisciare
anche senza birra, e magari è stato un passante o un
vecchio incontinente. Bluff, tutto si confonde e la
morale si rafforza e regge la Grande Testa.
Getto la cicca che si spegne nel piscio. C’è troppa
puzza adesso. Ecco, questa è la ragione per cui non
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dovrebbero farlo! Pisciare e lasciare i bicchieri in giro.
Arrivano gli spazzini. Prendo la bicicletta, a fatica la tiro
fuori dalla rastrelliera mentre reggo l’altra con la mano
che ha ripreso a dolermi. Monto sulla bici alla mia
sinistra. La mano destra al centro del manubrio
dell’altra bicicletta. Ad ogni frenata avverto il male alla
mano. In questa posizione sono costretto a frenare con
la sinistra, la mano infortunata. Del resto questa mano
non sarebbe in condizioni di reggere l’altra bicicletta
che ha bisogno di essere guidata senza la possibilità di
far uso dei freni e in equilibrio precario.