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VITTORINO ANDREOLI
PRETI DI CARTA
Storie di santi ed eretici,
asceti e libertini, esorcisti e guaritori
PIEMME
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Si ringraziano gli Editori per la gentile concessione alla pubblicazione dei brani
antologici. L’Editore resta a disposizione degli eventuali aventi diritto non
reperiti.
I Edizione 2010
© 2010 - EDIZIONI PIEMME Spa
20145 Milano - Via Tiziano, 32
[email protected] - www.edizpiemme.it
Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)
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Presentazione
Un’antologia fatta di preti
Meditando sulla figura del prete del nostro tempo, mi è venuta la curiosità di rivedere le figure dei preti raccontati (i preti di
carta, si potrebbe dire) per fare un confronto tra il prete che vedo
in strada o nel tempio e quelli nati dalla penna degli scrittori.
E così ho scoperto che esiste una letteratura sconfinata sui
preti, e che non era possibile realizzare un progetto sui preti con
criteri di completezza, data la vastità del tema, anche rivolgendomi alla sola letteratura italiana, e soprattutto al Novecento.
Forse avrei dovuto segnare anche un confine netto tra grandi
scrittori e letterati minori, ma la cosa mi appariva assurda, aleatoria, perché legata a criteri di scelta che sovente sanno solo di
mercato.
Allora perché non fare una graduatoria di merito proprio sul
tema del prete? Magari un grande prete diventa un prete minore e uno piccolo piccolo raggiunge vette inimmaginabili.
E poi ci sono preti che hanno scritto un solo libro, raccontando la loro vita in un diario.
Sono molte anche le storie riportate alla luce dagli storici: capolavori intriganti quanto un thriller. Dunque si poneva anche il
problema di separare la narrativa dalla storia di casi talvolta persino fantastici.
C’era un solo modo per dare seguito a questo mio desiderio:
accettare la incompletezza, rinunciare a ogni criterio “duro” e
divertirsi invece a leggere un “sacco” di libri che avessero come
tema il prete. In questa antologia ne presento sessantatré: uno
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più curioso dell’altro. In particolare, ho scelto di attingere a
opere in cui il sacerdote fosse il protagonista, allo scopo di richiamare figure di prete che diventassero come degli specchi entro
cui mostrare anche il prete del tempo presente.
Ho diviso le storie in tre sezioni: Storie lontane (fino alla fine
dell’Ottocento), Storie del Novecento e Storie di oggi. Ogni storia è suddivisa in tre momenti: una descrizione e collocazione
dell’opera (La storia), un assaggio di “stralci” che mostrano particolare forza letteraria e che indicano anche lo stile (Frammenti) e infine un commento (Suggestioni).
L’ordine è quello della pubblicazione della prima edizione
dell’opera. Per le Storie lontane invece si è seguita la collocazione storica del personaggio raccontato.
Non si tratta certo di un lavoro critico, ma semplicemente di
una documentazione per fare conoscere la trama, per far gustare i brani più significativi e per sottolineare il senso che mi è apparso più interessante e nuovo.
Forse per questa raccolta si dovrebbe usare il termine desueto di “spigolature”, come passare in un campo sconfinato di spighe di frumento e cogliere quelle più mature. Le più belle, che
tuttavia hanno reso più difficile l’attenzione su quelle che vi stavano attorno.
Dopo il libro Preti, ecco un caleidoscopio di storie e figure indimenticabili del passato: sacerdoti santi ed eretici, parroci martiri e briganti, curati esorcisti e guaritori, preti missionari e partigiani, ma anche sessantottini e anarchici...
Due parti che inizialmente volevo inserire in una sola opera.
Un binomio che mi pare presenti ancora più efficacemente la
figura del prete, non solo del tempo presente ma anche della
nostra cultura e tradizione. E ne sono contento perché così mi
pare di avere meglio realizzato il desiderio di parlare di questo
straordinario personaggio vestito di sacro e seguace di Cristo.
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Narcisso Pramper da Udine,
prete eretico del Cinquecento
La storia
Nel 1560 don Narcisso Pramper (o di Prampero) scrive un’opera, Specchio de verità, in cui viene combattuta la messa e, in particolare, l’Eucaristia, come pratiche non istituite da Dio, ma inventate dalla Chiesa per fini che non solo sono contro i princìpi
dell’Antico Testamento e del messaggio di Cristo, ma vi si contrappongono, provocando comportamenti contrari alle pratiche
vere della religione.
Già in quest’affermazione, il rimando alla Riforma protestante
è molto chiaro, sia nelle espressioni di Lutero che di Zwingli.
Siamo nel XVI secolo e quindi nel clima della Riforma protestante e anche del diffondersi in Italia di un movimento contrapposto
alla visione cattolica ufficiale. Ciò sta a indicare che la Riforma ha
attecchito anche nel nostro paese e, cosa più curiosa, tra i preti.
Quest’opera, Specchio de verità, viene per la prima volta riprodotta in extenso e diventa così un documento importante per testimoniare la lotta che la Chiesa ufficiale attiva verso gli eretici, ma
soprattutto per delineare questo prete eretico del Cinquecento.
Narcisso Pramper è un prete di Udine che opera come parroco di Ciconicco, Ruscletto e Plasenzis: un territorio di confine
che risente maggiormente del clima creato dal Protestantesimo.
Molti italiani si rifugiavano all’estero per sfuggire ai tribunali inquisitoriali. Persone nemiche della Chiesa, quindi, e tentate da
un movimento che vi si opponesse. Si creano così dei circoli filoNARCISSO PRAMPER DA UDINE...
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protestanti italiani, che assorbono le critiche verso la Chiesa di
Roma e che si sostanziano nell’inutilità, anzi nel danno prodotto dalla celebrazione della messa e dall’idolatria dell’Eucaristia.
Narcisso Pramper ne è al contempo un esponente, vittima
dell’Inquisizione, ma anche un propugnatore di queste idee.
«È significativo infatti che, già nel novembre 1524, il neo eletto patriarca d’Aquileia [da cui dipende la diocesi di Udine] abbia
comminato la scomunica a tutti coloro che avessero osato leggere o tenere i libri di Lutero1.» Ad Aquileia aveva una sede il Tribunale del Santo Offizio, che perseguirà anche il Pramper «eretico marcio».
Narcisso Pramper nasce tra il secondo e il terzo decennio del
Cinquecento.
«Il 10 febbraio del 1543 si presentò dinanzi al Capitolo collegiato di Cividale per chiedere che gli venisse concessa l’investitura
canonica del beneficio curato dei paesi di Ciconicco, Ruscletto e
Plasenzis, vacante per rinunzia. [...]. La richiesta potrebbe sembrare piuttosto insolita poiché veniva fatta da un candidato che non
era ancora sacerdote. Questi però si era presentato munito di una
dispensa papale che lo rendeva idoneo a divenire titolare di un
beneficio ecclesiastico. La domanda era motivata anche dalla situazione familiare che era di grande povertà. Il vice decano del Capitolo, de Puppis, glielo conferì nello stesso giorno, ponendo una sola
clausola: che si fosse fatto ordinare sacerdote quanto prima2.»
Ben presto Narcisso di Prampero diventa noto nella diocesi, ma
anche negli atti curiali aquileiesi, per reclamo, proteste, processi e
addirittura per una minaccia di scomunica, poiché aveva il vizio
di contrarre debiti dappertutto e con tutte le persone possibili.
«[...] al gestore di una piccola locanda di Ciconicco doveva ben
cinquantacinque ducati perché era solito inviarvi, come ospiti, la
propria madre, il fratello e perfino la serva. [...] [A] Francesco
Stella [...] aveva chiesto in prestito una somma notevole di denaro, senza restituirlo3.» Lo Stella era un personaggio influente e ottenne dal vicario patriarcale che il di Prampero fosse giudicato e, a
1 LUIGI DE BIASIO, Narcisso Pramper da Udine. Un prete eretico del Cinquecento, Del
Bianco Editore, Udine 1986, p. 11.
2 Ibid., p. 14.
3 Ibid., p. 15.
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seguito del procedimento, venne scomunicato e incarcerato. «Egli
era però riuscito a rompere le porte del carcere ed a fuggire4.»
Riparò nella vicina diocesi di Concordia, si riattivarono lì i tribunali locali, poi quelli dell’Inquisizione, fino a che il 17 marzo
1558 venne definitivamente condannato in contumacia.
In questo periodo Narcisso, oltre che insolvente, è diventato
anche un eretico.
Fugge dal Friuli e si reca in qualcuno dei paesi dei Riformati.
Ma anche questa fuga è del tutto speciale: «Dopo il 17 marzo
1558, quando venne condannato in contumacia, egli fu arrestato e messo in carcere, legato con catene e sottoposto al più completo isolamento. Il vicario patriarcale Maracco tenne lontani
tutti i parenti, non solo, ma rifiutò di concedergli l’avvocato
difensore e di trasmettergli gli atti processuali in modo che potesse imbastirci su una difesa. Lo minacciò continuamente di tortura finché lo condannò alle galere. Durante la notte fu trasportato su di un carro di contadini fuori dalla città di Udine dove il
vice cancelliere della Curia, Bartolomeo Brugno, gli lesse la sentenza di condanna. A questo punto però si verificò il fatto miracoloso: le catene che lo tenevano legato si sciolsero ed egli riuscì
a fuggire. Raggiunse la città di Caorle sulla sponda dell’Adriatico e di lì passò nelle terre dei Riformati»5.
Più che il miracolo è probabile che egli fosse aiutato da simpatizzanti ereticali. Luigi De Biasio afferma che a Gemona e a
Cividale se ne erano costituiti due gruppi, formati prevalentemente da preti. Il loro riferimento era Vergerio, rabbioso eresiarca, il quale aveva diffuso le idee riformiste, distribuendo libri. È
dunque probabile che il di Prampero avesse trovato in questi
gruppi una qualche difesa.
Dello scomunicato don Narcisso di Prampero non si saprà più
nulla, ma rimarrà la sua opera Specchio de verità.
Il testo, formato da centoventidue fogli manoscritti, porta come
titolo completo: Specchio de verità. Nuovamente composto per Narcisso Pramper da Udene. Nel qual dimostra et scuopre li enormi errori, gl’infiniti abusi, et l’atrocissime idolatrie, et biestemme, dal volgo
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5
Ibid., p. 15.
Ibid., pp. 17-18.
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non conosciute, sì della messa quanto del messale. La messa viene
esaminata dall’Introibo ad altare Dei fino all’Ite Missa est.
«[...] Il rito della messa viene attentamente scomposto ed esaminato nei particolari ed in tutti gli elementi più minuti: dalle
formule alle preghiere, ai gesti. Ciascuno di essi viene studiato
nella sua graduale formazione storica e quindi, sulla base di una
valutazione delle parti, con passi della Scrittura, sono oltre trecento disseminati lungo lo svolgimento del trattato, si giunge alla
conclusione6.»
Indubbiamente mostra una conoscenza approfondita delle
Scritture e delle origini storiche delle diverse modificazioni del
rito della messa. Una dimostrazione che è già prova della istituzione fatta dalla Chiesa (storicamente) e non da Cristo.
Colpiscono alcune analisi più di altre. Per esempio, si trova
una lunghissima disamina del Kyrieleison, – come costruzione
delle parole – e in particolare, sul fatto che venga ripetuta assieme al Christeleison nove volte. «Di poi, significando il Kyrieleison, Signor habbi misericordia, perché non più presto et più propriamente si dice solo tre volte, a significar la Trinità, la quale per
tale parole si priega et a chi s’aspetta far misericordia, che nove
volte, a significar li nove ordini di angioli i quali in questo Kyrieleison, né si priegano, né ad essi s’aspetta haver misericordia di
noi7?» Oltre alla motivazione sui princìpi e quindi in materia religiosa, il manoscritto esprime una personale opinione dell’autore
che l’inizia proprio rivolgendosi alla patria lontana, verso la quale
avverte una forte nostalgia, ben sapendo di non poter tornare per
le persecuzioni. «Gli venerabili inquisitori, che altro non sono
che barigelli di antichristo, più crudeli che Neroni, ché meglio è
capitar nelle mani de’ Turchi et de’ Mori, senza comparatione,
che nelle loro. Oltre che sono ignoranti delle sacre lettere né altra
dottrina sanno che la muffa scolastica et sofistica8.»
L’opera, dei tanti punti che la Riforma protestante critica, tratta non soltanto della messa che non è voluta da Cristo, bensì dall’anticristo.
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Ibid., p. 29.
Ibid., p. 53.
8 Ibid., p. 28.
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Come è noto, il Protestantesimo ritiene che la salvezza dell’umanità e di ciascun uomo si leghi al sacrificio diretto di Cristo e che, dunque, divenga semplicemente assurdo pensare che
accada attraverso il sacrificio dell’Eucaristia, che finirebbe per
dare del salvatore al celebrante, tradendo così il vero messaggio
del Cristianesimo. «[...] il sacrificio di Cristo sulla croce è stato
unico e resta irrepetibile perché questo sacrificio, ed esso solo,
ha rimesso tutti i peccati degli uomini: quelli commessi antecedentemente alla venuta del Cristo, i presenti e tutti quelli che
sarebbero stati commessi in futuro. [...] [La messa diventa] una
espressione sacrilega ed abominevole che non si doveva in alcun
modo celebrare, non solo, ma alla quale nessuno, che fosse uomo
di fede vera, poteva assistere9.»
Frammenti
«Essendomi discostato da te, o Patria mia, non già per mio
diffetto, ma per diffetto delle persecutioni che di continuo mi si
fevano da’ tuoi rapaci avoltori o, per dir meglio, dalli voracissimi, famelici et ingordissimi tiranni quali, sotto pretesto di santimonia, dimostrano di fuori haverti in cura et guardia et nell’intrinsico, come lupi rapaci, ti devorano sin’ agl’ossi, cercando non
solo espoliarti della vita mondana, ma de privarti dalla viva et
eterna luce di Christo.
Mosso dallo paterno amore et zelo di carità, non ho potuto
mancare di salutarti con questa mia, et presentarte questa operetta del vero specchio della messa, quale priegoti per amor di
Christo et per la tua salute, vogli con ogni instantia et atentione
disporti a leggerla et con ogni studio ben considerarla et vedrai
come di buon cuore ti amo, riverisco et che son pieno di zelo del
tuo bene. Perché senza dubbio, leggendola et ben considerandola, conoscerai che cosa sia Christo et la sua Chiesa. Giusto è
che, essendo la messa quasi da tutti frequentata et hauta in tanta
veneratione et prezzo, anzi stimata come il principal culto della
religion christiana, giusto è (dico) che la sia ben conosciuta che
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Ibid., pp. 29-30.
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cosa è se è utile o nociva, se è buona o cattiva et se è grata o dispiacente a Dio. Molti, anzi la maggior parte degl’huomini, senza
giudicio alcuno nelle cose della religion christiana, non considerata l’importanza di quella, vanno dietro alla moltitudine, alle
usanze et al volgo, credendo non errare ma far bene et cosa grata
a Dio, facendo come gl’altri, ma s’ingannano perché, ha honorar
Dio et farli cosa grata, è necessario seguitar la parola sua, come
una lucerna che ci vada inanzi, a guisa di viandanti che caminano di notte, sì come dice Pietro, nella seconda epistola, al primo
capo10.»
«Nissun privato affetto m’ha mosso a pigliar questa Impresa
ma il sol zelo della gloria di Dio et di Giesù Christo et per il beneficio tuo, o Patria mia, et del popul christiano. Et priego ogn’uno
che, se truovarà error alcuno in questo mio libretto, lo vogli
publicamente in scritto confutare et manifestare11.»
«Tu pur il sai, o Patria mia, che io dico il vero, volendo con
effetto mostrar che non sono vescovi, né patriarci, come certo
non sono eccetto che di nome. Et in vero, se fossero veri vescovi, non si vergognarebbono di far il lor officio, come non si sono
vergognati Agostino, Ambrosio12.»
«Et che cosa è questa, se non apertamente mostrar a tutto il
mondo, che sono lupi rapaci et non pastori del gregge di Christo, anzi sono i veri antichristi? Gli venerabili inquisitori che
altro sono che barigelli di antichristo, più crudeli che Neroni, ché
meglio è capitar nelle mani de’ Turchi et de’ Mori, senza comparatione, che nelle loro. Oltre che sono ignoranti delle sacre lettere né altra dottrina sanno, che la muffa scolastica et sofistica.
Et questi tali sono preposti al negocio della fede, et nelle mani
loro sono le robbe, l’honore et la vita delle povere persone, le
quali miserabilmente fanno morire, sotto pretesto della fede,
avenga che sieno nenia di quella et d’ogni pietà13.»
10
Ibid., pp. 35-36.
Ibid., p. 37.
12 Ibid., p. 40.
13 Ibid., p. 42.
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«Non è ella biastemma, attribuire alli digiuni, che sono opere
nostre, la purgatione de’ peccati, la qual è opera di Dio solo, per
Christo Giesù, mediante il suo sangue et la morte sua14?»
«Ma chi ha voluntà di perder il tempo, lo legga, come perdono tempo quelli che vanno alla messa. O quanto me duole haver
perso tanto tempo in quelle messe; pur Dio sia lodato, ch’io me
Le son del tutto cavato fuora15!»
«Ritornando adunque al proposito, dico che, voler dire che il
sacramento della eucharestia rimetta li peccati, è uno grande
abuso et superstitione perché la gratia di Dio rimette li peccati
per Christo, quando crediamo con vera fede, et non il sacramento della eucharestia. È ben vero che questo sacramento di tal cosa
ne certifica, perché ci riduce in memoria che Christo ha dato il
corpo suo et il sangue suo in nostra redentione et qualmente la
morte sua è causa di nostra vita, ma essa remissione non la fa né
la può fare, come i sopra ho pruovato. Et se quelli che difendano la messa, dicessimo che intendano della remissione della pena
et non della colpa, quando dicono che la messa rimette li peccati, et che a questo modo anche si debbono intendere le orationi
del messale, nelle quali si fa mentione di tal remissione, cioè che
s’intendono della remissione della pena et non della colpa, a questo dico: prima che le orationi assolutamente fanno mentione
della remissione de’ peccati et no specificano della pena, donde
par che intendino della colpa, la qual è principale del peccato16.»
«Ma noi non siamo redenti, né con pane, né con vino ma col
solo sangue dell’agnello immaculato, Christo, come dice Pietro,
nella prima sua epistola, al primo capo, cioè: – Voi sapete di non
esser redenti dalla vana vostra conversatione la quale havevate
presa dalla traditione de’ padri con cose caduche, come oro et
argento, ma col precioso sangue come di agnello immaculato et
incontaminato, Christo17.»
14
Ibid., p. 64.
Ibid., p. 101.
16 Ibid., p. 126.
17 Ibid., pp. 136-137.
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«Questo sacramento si mangia, cioè l’hostia, et si beve, cioè il
vino, per che causa non si può toccar con mano se si tocca con
la bocca? Questa superstitione è contra l’ordinatione di Christo
et il costume apostolico perché Christo, porgendo il pane et il
calice alli apostoli, gli disse che gli pigliassino; et essi presono
l’uno et l’altro con le lor mani et gli toccorono, per certo Christo non gli diede già in bocca. Vogliamo noi dire che quelle parole, cioè: – Pigliate, mangiate et bevete – le dicesse Christo solamente per gli apostoli et non per gli altri? Questo no, anzi le disse
per tutti quelli che havevano da ricevere il sacramento, come
anchora dà ad intendere Paolo [...] Essendo adunque questa
cosa commune a tutti gli christiani et non de’ preti soli perché
non si possono adunque toccare dalli laici, dovendo anchor essi
communicare et ricevere tal sacramento18?»
«Et già era tempo che si vendeva chara questa mercantia, ma
da qualche tempo et anni in qua, se n’è fatto buon marchato et
classi una messa per un grosseto et anchor per meno, secondo i
luoghi et le persone che sanno comprare.
Questa è quella che ha fatto ricchi i preti, i frati et i monaci,
che fa fondar capelle, fabricar chiese, prepositure, domi, monasteri de’ frati, abbatie, comendarìe, et insomma è quella che ha
fatto ricco lo stato chiamato ecclesiastico, l’ha esaltato maravigliosamente nel mondo. La messa è quella che dà tanta entrata alli
reverendissimi cardinali et che li fa cavalcar su quelle belle mule
coperte de veluto con quelli beli capelli rossi, gli quali significano l’ordine de’ serafini ardenti in carità et in amor divino19.»
«Io dico et affermo di nuovo che la messa è il maggior sacrilegio et la maggior abominatione che mai sia stata in tutti li secoli, dalla constitutione del mondo et è il gran misterio dell’antechristo. Et se io non pruovarò, non sarà che la verità non sia, ma
certo saranno le mie debil forze, causa20.»
«È egli iddolatria adorar l’imagini ingenochiarsi inanzi a quelle, applicargli le candele, mettervi le lampade, invocarle, far voti
18
Ibid., p. 167.
Ibid., p. 172.
20 Ibid., p. 174.
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a quelle, appendergli torchie, ceri, panni, rasso, veste, occhi, mani, capi, gambe hor di cera, hor di argento, appenderli imagini
d’huomini, di donne, de fanciulli, di buovi et di cavalli!
È egli iddolatria et insieme, debbo dire, espressa pazzia, haver
maggior devotione ad un’imagine o statua che ad un’altra del
medesimo santo o santa. Verbi gratia, più a quella di Loretto che
a quella del Sasso de Cargna, et pensar che l’una facci più miracoli che l’altra.
È iddolatria far l’imagine della Trinità la qual è un sommo spirito che non si può dipingere in modo alcuno, né figurare21.»
«Che la messa è di tal qualità et malitia et è di sorte essecrabile che, per qualunque pretesto, rispetto et occasione che sia da
huomo vivente in nissun modo si può (salva la conscientia) né
udire, né dire, né meno esservi presenti22.»
«La messa è piena di falsità, di superstitioni, di abusi, d’impietà et di biastemme contra Dio et Christo, et come potrà mai
esser lecito in nissun caso (siasi qual si voglia) ad un christiano
di dirla, o udirla, o esservi presenti. Et se l’huomo generoso più
stima l’onor di Dio per il qual non tanto una, ma infinite vite, se
tante ne havessimo, doveremo esporre! Et tanto più quanto ogni
vita è suo dono et da lui procede, anzi è sua23!»
Suggestioni
In questo frammento di storia, situato in una delle valli del
Friuli, la figura di questo strano prete che diventa parroco prima
di essere ordinato sacerdote, che fa debiti e giunge all’eresia protestante, serve anche a mostrare la dura repressione messa in atto
dalla Chiesa ufficiale verso la dottrina protestante, che partiva
dalla scomunica per il solo fatto di possedere o leggere opere di
Lutero, fino all’incarcerazione per eresia.
Ma ciò che diventa ancora più espressivo è la necessità di rifugiarsi in paesi stranieri: rifugiati religiosi.
21
Ibid., p. 181.
Ibid., p. 193.
23 Ibid., p. 197.
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Un prete fiorentino del Cinquecento
e la carità
La storia
Le biografie dedicate ai sacerdoti si arricchirebbero, anche
solo numericamente, se si decidesse di scegliere il campo di coloro che hanno, nella storia, fondato ordini religiosi, opere pie,
congregazioni. La maggior parte è comunque costituita da preti
che sono “saliti” agli altari e vengono, dunque, ricordati tra i
beati oppure i santi. Esistono tuttavia anche esempi in cui l’innovazione, “inventata” e poi a lungo sopravvissuta, si lega a un
semplice don.
È il caso di don Vittorio Dell’Ancisa, il fondatore della Congregazione Religiosa delle Stabilite nella Carità, tuttora attiva in
Italia e anche in America Latina. Si tratta di un sacerdote fiorentino (è in Toscana che la congregazione ha maggiormente attecchito), che nasce il 28 luglio 1537 e muore, sempre a Firenze, il
7 maggio 1598.
Quando un sacerdote genera una nuova forma per imitare
Cristo e conquista dei seguaci, questo evento finisce per caratterizzare la sua biografia al punto di diventare il fulcro attorno a
cui l’intera sua esistenza di prete viene letta.
In verità, ciò che a noi appare straordinario si situa all’interno
di una vita quotidiana, potremmo persino chiamarla ordinaria.
La scelta di inserire, in questa antologia, un prete fiorentino
del Cinquecento trova anche ragione nella modernità della sua
attività e del suo insegnamento successivo alle “Stabilite nella
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Carità”. Egli viene, infatti, ben presto attratto dalle ragazze che
vivono in condizione di perdita della propria dignità, deprivate
sotto il profilo sociale e spirituale.
La sua attività si colloca storicamente nell’immediato periodo
del concilio di Trento e del movimento che ne è scaturito per riformare la vita religiosa e interiore, motivo dell’apertura di questa assemblea episcopale.
A Firenze, quando il 15 maggio 1567 ritorna l’arcivescovo Antonio Altoviti, si dà attuazione, attraverso il Sinodo diocesano
(1569) per accogliere ufficialmente i decreti del Tridentino.
In questo clima di rinnovamento religioso si situa la stessa
vocazione di Vittorio Dell’Ancisa che nel 1569 lascia la propria
casa, abbandona il lavoro cui era dedito e comincia gli studi per
diventare sacerdote.
Ha trentadue anni. Dopo poco più di due è prete, il 22 dicembre 1571. Assume il ruolo “a titolo di patrimonio”, il che significa «che Vittorio non aspirava a fruire di alcuna rendita beneficiale legata a cappellanie o ad uffici per i quali era prevista la cura
d’anime, ma si accontentava delle proprie rendite»1.
Questo dato riporta alle sue origini, che permettono subito di
evidenziare come “il prete della Carità” fosse di famiglia benestante. Appartiene, infatti, al casato Dell’Ancisa, originario di un
borgo della Valdarno superiore, dove si trova l’omonimo castello a cui si lega anche il nome di Francesco Petrarca.
Il padre, Pellegrino Dell’Ancisa, sposa Maria Domenica e risulta essere impiegato della dogana, una professione allora dignitosa. Basterebbe, a supportarne la certezza, il fatto che il primogenito dei sei figli, Bartolomeo, diventa notaio.
Quando Vittorio nasce, a Firenze prende il potere Cosimo de’
Medici, il quale insedia immediatamente un governo assoluto e
repressivo, battendo le forze repubblicane di cui il Savonarola
era fervente sostenitore.
La famiglia abita vicino alla basilica di San Lorenzo. Nel 1551
muore il padre – Vittorio ha quattordici anni – nel ’60 la madre,
nel ’55 due fratelli. Di certo si sa che, prima della sua decisione
1 GILBERTO ARANCI, Vittorio Dell’Ancisa. Un prete fiorentino del Cinquecento e l’origine delle “Stabilite nella Carità”, Giampietro Pagnini Editore, Firenze 1997, p. 29.
UN PRETE FIORENTINO DEL CINQUECENTO E LA CARITÀ
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di intraprendere la vita sacerdotale, già frequentava le confraternite fiorentine di giovani e in particolare quella dell’Arcangelo
Raffaello, che si radunava presso la chiesa dei domenicani di
Santa Maria Novella.
«[Le confraternite dei giovani] per gli adolescenti e i giovani
erano dei veri e propri luoghi di formazione religiosa, sia per
l’esercizio delle pratiche di pietà, di penitenza e di carità, sia per
la partecipazione attiva alle feste pubbliche, civili e religiose, della
città. Le attività delle compagnie dei giovani, oltre alla pratica religiosa devozionale, comprendevano anche la recita di Sacre rappresentazioni [...] che vengono considerate come prodromi del teatro [...]. I membri delle confraternite giovanili erano impegnati
anche nell’esercizio della predicazione in alcune ricorrenze festive e durante la Settimana santa. [...] una forma di vita associata
onesta e regolata: “diretta a conservare immacolata [la vita] da
questo secolo, fondata sulla purezza e sull’innocenza, fuggendo
le corrotte compagnie e seguendo le buone”2.»
Erano aperte ai giovani di età tra i dodici e i venti anni, anche
se eccezionalmente permettevano di rimanere fino intorno ai
trenta. Vittorio Dell’Ancisa passò poi alla congregazione di San
Tommaso, che era stata promossa da fra Santi di Cino Cini, un
efficace predicatore che seguiva la tradizione filosavonaroliana e
repubblicana, indossando l’abito del monastero di San Marco.
Questo frate domenicano fu senz’altro il maestro spirituale di
Vittorio Dell’Ancisa.
In ogni caso, Vittorio partecipa attivamente alle congregazioni fiorentine dei giovani. Tra i ventitré e i ventisei anni risulta
aver svolto il ruolo di sacrestano, di scrivano e di “festaiolo”, con
l’incarico di curare la preparazione delle occasioni di festa della
confraternita. Si è accennato al fatto che diventa sacerdote in due
anni. Allora non esistevano ancora i seminari e la formazione si
svolgeva o frequentando scuole presso i monasteri, oppure da
maestri privati. Sembra che Vittorio abbia ricevuto gli insegnamenti dei frati predicatori nel convento di San Marco.
Gli vennero affidati due incarichi, diventa cioè “confessore e
custode delle fanciulle abbandonate del Ceppo”. Si trattava di
2
20
Ibid., pp. 14-15.
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un ospizio gestito da monsignor Luigi Puccini ed è qui che Vittorio ebbe modo di incontrare san Carlo Borromeo. Durante
quest’esperienza gli accadde di avvicinarsi a uno dei «grandi mali
che affliggevano la società fiorentina: l’abbandono dei minori in
genere e lo stato ancor più miserevole e degradato delle bambine
e fanciulle “abbandonate”. [...] una situazione certamente meno
nota rispetto a quella legata all’istituto degli ospedali, come quello della Scala e degli Innocenti, che accoglievano i neonati indesiderati, ma non meno indicativa della grave decadenza sociale e
morale che affliggeva le famiglie, le quali, spesso per motivi economici ma anche per opportunità sociale, si vedevano costrette
a chiudere la loro casa ai figli cui non potevano più garantire
neanche il necessario per vivere»3.
Nel 1573, due anni dopo la consacrazione, la situazione religiosa a Firenze subisce un grosso colpo: muoiono Altoviti e anche il granduca Cosimo I.
A Cosimo succede il figlio Francesco, noto in città per l’adulterio con la veneziana Bianca Cappello. L’attenzione per i poveri si allenta e Vittorio Dell’Ancisa progetta di lasciare la città per
recarsi a Roma, dove, a San Girolamo della Carità, opera san Filippo Neri, di cui egli diventa ospite e discepolo.
La decisione per realizzare questo progetto viene assunta grazie alla proclamazione del Giubileo nel 1575. Rimarrà a Roma
per più di sette anni.
La Casa di San Girolamo della Carità si trovava vicino a
Campo de’ Fiori, dove ormai da più di trent’anni lavorava con
un gruppo di preti san Filippo, riuniti in una piccola comunità
dalla vita esemplare.
Com’è noto, san Filippo Neri radunava nell’oratorio i giovani, ma non insegnava seguendo un metodo scolastico, bensì «con
la sua stessa vita, i suoi esempi, i suoi consigli»4. I fondamenti
della spiritualità filippina erano la tenerezza della carità, la grande allegrezza e la semplicità del cuore.
Mentre è a Roma, muore il fratello Bartolomeo e Vittorio diventa unico erede di un cospicuo patrimonio di beni e di rendite.
3
4
Ibid., pp. 29-30.
Ibid., p. 41.
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Per occuparsi di questo aspetto, torna a Firenze. Ha quarantasette
anni. Considera il patrimonio un bene di Dio e decide di usarlo per
fondare una casa per i poveri. Dapprima pensa ai pellegrini, ma
ben presto la sua attenzione si sposta alle “fanciulle in pericolo”.
Firenze cambia ancora: il 18 ottobre 1587 muore Francesco I,
dopo qualche ora lo segue la granduchessa Bianca. Si sospetta
una congiura. E la responsabilità sembra gravare sul cardinale
Ferdinando che, pochi gironi dopo, il 25 ottobre, diventa granduca. Con l’ombra di un duplice omicidio. Subito lascia la porpora cardinalizia e sposa Cristina di Lorena.
Incomincia così un’epoca straordinaria di governo illuminato, con Cristina modello di pietà. I duchi danno ampio sostegno
per la realizzazione dei progetti di don Vittorio Dell’Ancisa.
L’attenzione sociale si concentra sull’attivazione e gestione
degli ospedali. Ve n’erano di due tipi: quelli per gli infermi e
quelli per i pellegrini o per i poveri, che ricevevano ospitalità per
una o più notti. Rispetto al primo modello, quest’ultimo si caratterizzava per una maggiore mutevolezza. Vittorio Dell’Ancisa
sottolinea che, a un certo punto, avvenne un cambiamento della
destinazione caritativa da cui era partito, rivolta ai pellegrini, e
attribuisce questa modificazione a una disposizione del Signore,
bene espressa nei Proverbi (16,9): «Cor hominis disponit viam
suam sed Domini est dirigere gressus eius – il cuore dell’uomo sceglie la sua strada, ma è il Signore che dirige i suoi passi»5.
«[...] Era il nostro principale intendimento fare delle nostre
facoltà partecipi i poveri pellegrini (...) fin tanto che l’anno 1589
piacque, sì come ci giova di credere, al Signore Dio di mostrarci opera di maggiore carità, alla quale egli avesse ordinato lo spedale sopradetto dovesse servire6.»
Egli racconta che alcune persone gli fecero istanza, perché
potesse aiutare «una fanciulla d’anni diciotto in circa, che la
notte stata seguente era quasi in manifesto pericolo di perder
l’anima e l’onore»7. Don Vittorio si prese cura di lei, affidandola a due devote donne all’interno dell’ospedale. In questo modo
5
Ibid., p. 56.
Ibid., p. 56.
7 Ibid., p. 56.
6
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venne salvata dal pericolo e subito segnalate altre tre ragazze che
versavano in situazione analoga.
Dunque, a partire dal 4 agosto 1589, il problema delle fanciulle abbandonate sostituisce l’attenzione prima riservata ai pellegrini poveri, per i quali a Firenze esistevano altre istituzioni. Non
così per le ragazze.
Il nuovo interesse provocò, tuttavia, anche molteplici fastidi,
tanto che in più d’una occasione don Vittorio dovette nascondersi e rifugiarsi in un monastero, per sfuggire a delle pugnalate. Tutto
lascia, dunque, intendere che anche allora ci fosse chi rivendicava
la “proprietà” sulle donne.
«Dopo i momenti in cui Vittorio seppe rispondere alle prime
esigenze di accoglienza e di protezione per le fanciulle che via via
crescevano di numero, dovette preoccuparsi più a fondo della
loro stessa vita e del loro futuro, e quindi della loro educazione
umana e spirituale8.»
Ha già tratteggiato non solo l’ospizio di fanciulle, ma anche
la regola che, da una parte doveva pensare a chi si sarebbe occupato dell’educazione e del futuro delle giovani e, dall’altra, come
organizzare la loro esistenza.
Così si delinea in Vittorio Dell’Ancisa una prassi educativa che
si ispirerà ai precetti di san Filippo Neri. «Sarà pertanto l’abito
loro onesto, e semplice e di colori modesti, non di seta, né con
ornamenti vani, e superflui. Le vesti di sopra sieno accollate, né
si portino colletti, o manichini, o camice con lattughe o altre increspature, o lavori, ma semplicemente con un orlo così intorno
al collo come da mano. Il capo sia onestamente pulito, senza ricci,
ciuffi, o altra vanità, ma con rete e nastro tutto d’un colore medesimo. Le parole loro sieno da dar buon’esempio; né sia lecito cantare altro che cose spirituali, sì che rispetti mondani non si sentino fra loro, né quelli ancora che sotto colore di bene avessero
altro significato9.»
Don Vittorio Dell’Ancisa muore il 7 maggio 1598. Lascia alcuni scritti che servono proprio come istruzioni educative e morali.
Lo fa in modo semplice ed efficace: «Ricorda loro che dopo aver
8
9
Ibid., p. 58.
Ibid., pp. 61-62.
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deposto le vesti brutte e viziose e aver indossato quelle belle e virtuose, e dopo che l’anima ha scoperto di essere un “palazzo” in
cui “si compiace abitare la gran Maestà di Dio”, esse potranno
“intendere segreti e grandissimi misteri della nostra redenzione”»10. Indica ventuno capi di abbigliamento che sono da togliersi, per “vestirsi” del significato cristiano. Per esempio, i guanti
sono il simbolo delle «faccende inutili» e devono essere sostituiti
dalla ricerca della verità; il velo dal senso della compiacenza deve
condurre all’umiltà.
Vi è poi la metafora del “palazzo dell’anima”: si parte dalla
strada che conduce al palazzo, alla facciata del palazzo, alla porta, alle sette stanze, alle finestre: «La strada che conduce al palazzo (l’anima): è la necessaria conoscenza dei comandamenti [...].
La facciata del palazzo è il buon esempio [...]. Le sette stanze al
piano terreno del palazzo rappresentano le sette opere della
misericordia [...]. Il pozzo è la grazia di Dio. [...] La stalla è la
sensualità del corpo “ripieno di sterco e putredine, dove sono gli
animali [...]”. Le scale del palazzo sono le virtù teologali»11.
Un’ulteriore metafora educativa la troviamo nella contrapposizione tra carnevale mondano e carnevale spirituale. Quest’ultimo si articola in otto giorni, ciascuno dei quali comporta determinate incombenze di significato spirituale ed errori che vanno
evitati. «Ricordiamoci che chi lo (il carnevale) fa secondo il mondo gli resta da fare una lunga e stentata quaresima nell’inferno
[...] quelli che per il contrario lo fanno spirituale [...] aspettano
con grandissimo desiderio la pasqua della resurrezione della
carne, per godere insieme con lo spirito per sempre col loro
Signore in cielo, in compagnia di tutti gl’angeli et santi12.»
Frammenti
«La qualità e quantità de’ dolori e tormenti che si devono meditare: il che è molto importante per muoverci a compunzione e
compassione, e per poterne cavar grandissima utilità e per poter
10
Ibid., p. 71.
Ibid., pp. 73-74.
12 Ibid., p. 80.
11
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con facilità far questo, quando mediterete quello che ha patito
per amor nostro Gesù Cristo, vi metterete in persona sua considerando se voi foste nei medesimi tormenti, quanto sarebbe il
vostro patire; voltandovi di poi a Gesù Cristo con simili parole,
più col cuore che con la lingua, dicendo: Signor mio Gesù Cristo. Voi vi trovaste in fatto a patire questo grandissimo tormento per amor mio, per la mia salute; di poi volta a se stessa, con
simil parole: Io Signor mio con li miei peccati sono stata causa
del vostro patire; e appropriate il tormento che meditate agli
errori fatti, in simil parte del corpo vostro, come sarà per esempio, meditando il tormento della testa di Gesù, dire: il perdimento di tempo e superflue acconciature mie sono state causa Signor
mio, che voi fossi coronato di spine; e così dire se altro tormento consideraste, seguendo di domandar perdono in simil modo:
Signor mio Gesù Cristo, io vi domando perdono di tanti miei
peccati, che sono stati causa della passione e morte vostra, e vi
ringrazio che abbiate con tanto amore e carità soddisfatto per
me; e ultimamente vi prego con tutto il mio cuore che vogliate
darmi l’aiuto vostro, acciò per avvenire non abbia dal peccato
mio a rinnovare con nuovi errori i tormenti vostri, ma servirvi e
amarvi con tutto il cuore per tutti i giorni della mia vita13.»
«La mia poca onestà e poco riguardo del corpo mio, con il
quale ho fatto molti errori e mancamenti, è stato causa Signor
mio, che voi siate stato spogliato nudo e svergognato davanti a
molta gente.
Le sensualità presemi della carne mia, le troppe ricreazioni
datele e le occasioni prese e date di offendere Dio, sono state
causa dei vostri crudeli flagelli con tanto vostro dolore.
Il mettermi alle finestre o balconi o in altri luoghi per essere
vista, dove ho fatto e fatto fare molti peccati, sono stata causa che
voi Signore mio così malconcio foste mostrato ai popoli perché
restassero sazi d’esser così mal condotto.
Il desiderar io vendetta e voler aver ragione quando che ho il
torto, e col gridare, voler fare avere il torto a chi ha la ragione, è
stato causa Signor mio che i Giudei la pigliassero contro di Pila13
Ibid., p. 101.
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to, e voler testimoniare contro di lui a Cesare, se egli non dava
la sentenza di morte contro di Gesù Cristo.
Per questi miei sopraddetti errori e altri simili che io ho fatto,
voleste Signor mio patire tanto disonore e vergogna e sopportare un tormento tanto crudele, dei quali Signor mio con tutto il
cuore vi domando perdono. E vi ringrazio che abbiate voluto
soddisfare per i miei peccati, per i quali mi ero fatta serva e schiava del diavolo. E vi prego con tutto il mio cuore che vogliate
darmi l’aiuto particolare e grazia vostra acciò che per avvenire io
possa guardarmi e dai cattivi pensieri, col farvi la conveniente
resistenza, e dalle cattive parole che danno tante cattive occasioni, e da tutte le disoneste operazioni che imbrattano e malamente l’anima e il corpo, e possa amar voi Signor mio con tutto il
cuore e forze mie, levando l’amore disordinato da tutte le creature del mondo, e perfino da me stessa, facendo che la carne
serva allo spirito, e l’uno e l’altro servino a voi Signor mio, come
io desidero; e con l’aiuto vostro lo spero, e sì come con la sensualità vi ho molto offeso in vari e diversi modi, così desidero per
il contrario ricompensarvi con le penitenze, con i digiuni, con le
mortificazioni acciò che in questa vita soddisfaccia per le mie
colpe, aggiunti al mio patire i meriti del patire vostro, perché
altrimenti non sarebbe bastato, del che sempre ve ne ringrazierò mentre che mi presterete vita e ancora di poi, ma perfettamente in cielo; il che ricerco e domando a voi Signor mio Gesù Cristo per il merito di tanti tormenti e morte che patiste per amor
nostro14.»
«L’aver voluto adoperare veli per il capo mio troppo squisiti
e belli, per meglio apparire e per soddisfare ad altri o troppo
abbadare a quello che dicono o fanno le altre, e la troppa delicatezza e morbidezza dei panni che io ho avuto da adoperare,
dove ho commessi molti errori, ha cagionato che voi Signor mio
Gesù Cristo abbiate avuto ad abbadare a S. Veronica e servirvi
del suo velo a rasciugarvi il sudore e sangue che avevate in volto.
Essendo Signor mio per i miei molti errori stata causa di tanti
vostri dolori e tormenti, non posso far ch’io non mi dolga, e ve
14
26
Ibid., pp. 114-115.
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ne domando con tutto il cuore perdono e vi prego che vogliate
usar con esso meco la vostra misericordia; io lo desidero e ve lo
domando.
E vi ringrazio di quanto avete patito per amor mio, e domando l’aiuto Vostro acciò che per avvenire mi guardi di non tornar a tanti miei difetti, ma emendata, vi ami e serva con tutto il
Cuore e forze mie, tutto il tempo che mi resterete di vita; e ricompensi il tempo male speso con il far tanto più meglio per avvenire15.»
Suggestioni
La visione educativa di don Vittorio Dell’Ancisa risente del
clima promosso dal concilio di Trento, convocato dopo gli eventi della Riforma luterana, che erano centrati sul malcostume e sul
lassismo della Chiesa. La risposta si indirizzò verso una visione
molto rigida della religione, una visione primitiva e informata a
regole precise, pragmatiche.
È di grande interesse constatare, in questo “semplice” prete,
la straordinaria sensibilità per le ragazze in difficoltà e abbandonate, un tema poco sentito all’epoca e che semmai avrebbe dovuto occupare l’interesse delle religiose.
Schematicamente, si può dire che nel comportamento “disonorevole” delle fanciulle si andasse ravvisando la presenza del
male, che trova radici profonde nella cultura ebraico-cristiana e
che, nello stesso periodo in cui vive Vittorio Dell’Ancisa, sono
ancora fortemente sostenute dall’Inquisizione.
15
Ibid., pp. 121-122.
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