SETTIMANA 35-2011:Layout 1 27/09/2011 12.57 Pagina 5 pastorale D a giovani seminaristi ci è toccato ascoltare molto spesso questo antico adagio: “Ottimo seminarista, buon prete; buon seminarista, prete normale; normale seminarista, cattivo prete”. Apprezziamo l’intenzione. I buoni padri spirituali volevano stimolarci a dare il meglio di noi stessi nel presente. Questo modo di vedere le cose – tuttavia – suggerisce che, mentre la vita in seminario è protetta e più facilmente vicina allo stato di perfezione, quella del ministero può solo corrompere o diminuire l’eccellenza raggiunta nei cosiddetti anni della formazione. Ma è proprio vero che la formazione di un prete si giochi fondamentalmente nel periodo che precede l’ordinazione sacerdotale? Il tempo che segue è solo quello di qualche aggiustamento – che chiamiamo appunto “aggiornamento” – o di un necessario “pronto soccorso” per gli inevitabili incidenti? Una nuova sensibilità formativa. Per fortuna nella nostra storia abbiamo sperimentato ben altro. Siamo diventati preti a Milano, a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, nella stagione iniziale dell’episcopato del card. Martini. Proprio in quel periodo maturò la sua intuizione che la formazione per il clero non dovesse essere semplicemente una continuazione di quella avuta in seminario. Per questo il cardinale diede vita ad un’équipe di preti dedicati appositamente all’accompagnamento dei primi anni del ministero. Gli inizi furono anni di sperimentazione, dove, sotto la guida di don Franco Brovelli, prese forma uno stile nuovo di formazione permanente. Il prete non è un seminarista leggermente più grande, e quindi la formazione per il clero non può essere sulla falsariga di quella del seminario. Egli è un uomo adulto, è già pienamente prete, e con l’ordinazione entra in una condizione di vita nuova. Come scriveva don Franco: «Occorre che la riflessione teologica e spirituale sul ministero venga accompagnata dall’attenzione a ritmi, modalità e condizioni proprie della vita del prete, entro la comunità cristiana: è a questo livello che, in effetti, avviene un’appropriazione reale del ministero ricevuto in dono per la Chiesa» (F. Brovelli, Camminare nella luce). In queste brevi parole troviamo già i tratti di una formazione permanente: essa avviene non fuori ma “dentro” il ministero, nel suo concreto esercizio; la formazione è “accompagnamento”, da parte della chiesa, affinché, nelle condizioni concrete di vita e di servizio, ciascuno possa accogliere pienamente il dono ricevuto, diventare in tutta l’esistenza ciò che è fin dall’inizio, chiamato in forza dell’ordinazione sacramentale. Abbiamo avuto la fortuna di vivere con don Franco quei primi anni di accompagnamento e anche di vedere come questa intuizione non valesse solo per gli esordi del ministero. Non si tratta tanto di stare vicino ai preti giovani, perché ancora impreparati o fragili di fronte alle difficoltà della vita, quanto piuttosto di maturare un’attenzione di tutta la chiesa a tutti i suoi preti nelle diverse stagioni del loro ministero. Ricordiamo ancora con un senso di grande riconoscenza i momenti cosettimana /2 ottobre 2011/n. 35 I VERBI DEL PRETE / 1 E ADESSO CHE SIAMO PRETI? Dopo questo articolo introduttivo, passeremo in rassegna alcune azioni che caratterizzano l’esercizio quotidiano del ministero a partire dal vissuto di due semplici preti. muni pensati e voluti dalla formazione del clero nei quali ci veniva data la possibilità di far emergere – tra mille timori – le fatiche e le scoperte degli inizi. La grazia dei primi passi nasce proprio da un profondo senso di sproporzione. Entrare nel cuore di una comunità cristiana significa raccogliere la gioia del centuplo che ci viene donato, ma anche trovarsi travolti da un eccesso di richieste (alcune delle quali anche fuorvianti e sbagliate). È inevitabile fare i conti con la propria inadeguatezza, imparare a misurare le proprie forze. Ci si scontra con eventi e situazioni impreviste e distanti dalle proprie buone attese. Ci si scopre inaspettatamente attori e spettatori di imprevedibili cammini di grazia. Questo intreccio di grazie e di fatiche è così profondo e delicato che necessita di molta cura. Ha bisogno di momenti di discernimento e di distacco. Il pregio della formazione ricevuta. Dopo venticinque anni di ministero, siamo certamente grati al seminario per tutto quanto ci ha dato. Ma non c’è dubbio che ciò che ha maggiormente plasmato la nostra vita e il nostro ministero è accaduto proprio nel suo esercizio. La formazione ricevuta non ci ha certamente reso uomini e preti migliori degli altri, né tantomeno perfetti. Ha però avuto il grande merito di depositare in noi un’attitudine quasi spontanea a vigilare su alcune questioni che sentiamo come strategiche. Cerchiamo ogni giorno di farci qualche buona domanda su noi stessi, e sul nostro agire; vorremo imparare sempre da capo a operare un discernimento attento e rasserenato. Si tratta di non accanirsi a tutti i costi alla ricerca di una perfezione inesistente, e insieme di non subire un’inerzia passiva e ripetitiva. Tre livelli ci sembrano quelli da tenere sempre presenti: la qualità evangelica del ministero, le azioni principali della vita del prete, il discernimento del tempo presente. La qualità evangelica del ministero: una questione di stile. Come tutti i preti, facciamo un sacco di cose, siamo a volte oberati dal lavoro e le giornate ci passano sopra con una rapidità impressionante e avvertiamo la sgradevole sensazione di sentirci in ritardo e di lasciare indietro troppe cose. Forse ci viene chiesta (o ci chiediamo?) un’efficienza quasi manageriale, e ci scopriamo fin troppo preoccupati dei risultati e dei fallimenti. Se ci fermiamo un istante, comprendiamo subito che non possiamo affrontare in questo modo o con queste preoccupazioni la vita quotidiana. Ci dobbiamo portare ad un altro livello. Ciò che conta è la qualità evangelica del ministero. Ciò che siamo, ciò che viviamo e che facciamo, è in sintonia con il Vangelo? Ne ricalca le orme, lo stile, il linguaggio? Ne esprime la forza, la tenerezza e l’attenzione? Queste domande possono sembrare banali o retoriche, ma in realtà introducono uno sguardo diverso, la cura per uno stile che è già in se stesso “buona notizia”. Le azioni principali del ministero: dentro l’agire. Il concilio Vaticano II ha lasciato una grande eredità sulla vita del prete come strada di santificazione. Ci sono stati tempi nei quali il prete veniva invitato a “difendere” la propria vita spirituale da un ministero che veniva percepito come un pericolo. Le tante cose da fa- I verbi del prete Cominciamo in questo numero la pubblicazione di alcuni articoli sulle azioni abituali del sacerdote: confessare, battezzare, convocare ecc. Gli autori sono due preti ambrosiani, ambedue parroci (anzi, prevosti): don Antonio Torresin e don Davide Caldirola. Siamo partiti dalle domande: come si sviluppa la formazione permanente del prete? Con quali strumenti e appuntamenti? Certo, a partire dal dono del ministero ordinato, dalla comunione nel presbiterio, dalle occasioni di aggiornamento, dalle letture e da mille altre fonti. Ma è in particolare il vissuto del prete a confermare e alimentare la sua coscienza credente e la sua ordinazione sacramentale. Sono i suoi gesti abituali a dare forma al suo stile presbiterale. La sua formazione non avviene “fuori”, ma “dentro” il ministero, nel suo concreto esercizio, nelle sue azioni. «Per ciascuna di esse proveremo a raccontare frammenti di vita e a suggerire accenni di riflessione». Un vissuto in cui i laici non sono di contorno e il discernimento sul tempo non è occasionale. re, l’immersione nella vita pastorale, nelle relazioni e nelle responsabilità potevano distrarre dalla preghiera e dall’amore per il Signore. Il concilio, invece, ci ha ricordato che la spiritualità del prete (e del prete diocesano in particolare) passa attraverso l’esercizio concreto del ministero. Celebrare l’eucaristia per una comunità, introdurre a Cristo tramite i sacramenti, accompagnare l’edificazione della chiesa, sono azioni che hanno un intrinseco valore spirituale, che diventano la strada principale del discepolato di un prete e del suo cammino di fede. Formarsi non è altro che riprendere le azioni fondamentali del ministero per riscoprirne la forza evangelica, per discernere il modo con cui oggi chiedono di essere vissute, per vigilare sulle insidie che sempre portano con sé. Vivere e discernere il tempo presente: un’intelligenza appassionata del proprio tempo. Mentre subiamo la tentazione di una grande nostalgia per tempi in cui ci sentivamo, come Chiesa, più capaci di incidere sulla cultura e sulla mentalità degli uomini, ci lamentiamo facilmente per un contesto che vorremmo differente. E ci scopriamo a pensare così: “la colpa è della mentalità relativista, secolare, permissiva… dello sfascio delle famiglie, della televisione che diseduca ai valori, dei nuovi mezzi di comunicazione che non permettono relazioni vere... Oppure la colpa è della chiesa che ha perso l’antico vigore, che insegue compiacente la modernità, che ha abbandonato le buone tradizioni, che non ribadisce a sufficienza i valori morali fondamentali... oppure che lascia i suoi preti da soli, che a volte sembra trattarli come numeri e muoverli come pedine di una scacchiera…”. Forse non ci fa bene questo stile esageratamente lamentoso e cupamente rattristato. Un prete annuncia il Vangelo perché ama il tempo che vive. Lo ama con un’intelligenza critica e un cuore pieno di passione. Non si tira fuori, né dal mondo né dalla chiesa. Sta nel mondo e nella chiesa senza perdere l’acutezza dello sguardo e la franchezza della parola, e senza smarrire una profonda simpatia per gli uomini che incontra, per quanto confusi e faticosi possano essere i loro cammini. Un racconto di frammenti di vita. È da questi presupposti e con questa sensibilità che vorremmo provare ad offrire ai lettori di Settimana alcuni spunti di riflessione sul ministero del prete. Abbiamo pensato di passare in rassegna, anche se in maniera rapida e certamente incompleta, alcune delle “azioni” che caratterizzano l’esercizio quotidiano del ministero del prete. Per ciascuna di esse proveremo a raccontare frammenti di vita e a suggerire accenni di riflessione. Siamo contenti di poterlo fare anche a partire dall’esperienza di ministero e di vita domestica condivisa per dieci anni in una parrocchia di Milano. Ora, terminata l’esperienza della vita comune, siamo contenti di poter continuare a pensare insieme e ad offrire ai lettori di Settimana qualche spunto dal vissuto concreto di due semplici preti. A. Torresin – D. Caldirola 5
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