Dominique Lapierre Larry Collins Stanotte la libertà

Dominique Lapierre
Larry Collins
Stanotte la libertà
Traduzione di Francesco Saba Sardi
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La responsabilità di governare l’India è
stata posta, per qualche imperscrutabile
disegno della Provvidenza, sulle spalle
della razza inglese.
Rudyard Kipling, 1889
La perdita dell’India sarà per l’Inghilterra
un colpo fatale e definitivo… La ridurrà a
essere una nazione insignificante.
Winston Churchill, 1931
Molti anni fa, noi abbiamo dato un appuntamento al destino ed è suonata l’ora di
tener fede alla nostra promessa… A mezzanotte, quando la gente dormirà, l’India
si sveglierà alla vita e alla libertà. Il momento è giunto, un momento che di rado
la storia concede, quello in cui un popolo
esce dal passato per fare il proprio ingresso
nel futuro, in cui un’epoca si conclude e
l’anima di una nazione, a lungo soffocata,
ritrova la capacità di esprimersi…
Jawaharlal Nehru, al Parlamento indiano, un’ora prima dell’indipendenza
dell’India la sera del 14 agosto 1948
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AFGHANISTAN
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Impero britannico delle Indie prima del 15 agosto 1947
Stati dei maharajah
India sotto diretta
amministrazione inglese
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GOLFO DEL BENGALA
410 milioni di abitanti di cui:
281 milioni di indù
115 milioni di musulmani
7 milioni di cristiani
6 milioni di sikh
150 000 inglesi
gli indù sono divisi in 3000 caste e
sottocaste, e comprendono circa
70 milioni di intoccabili e di aborigeni
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India direttamente amministrata dagli inglesi:
310 milioni di abitanti - 2/3 del territorio
India dei 565 stati principeschi:
100 milioni di abitanti - 1/3 del territorio
15 lingue e 845 dialetti
557 987 villaggi
85% di analfabeti
200 milioni di bovini
reddito medio giornaliero: circa 5 centesimi di euro
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Com’è nato Stanotte la libertà
In memoria di Larry Collins
L’avventura letteraria che portò me e Larry Collins a scrivere Stanotte
la libertà ebbe inizio una sera del 1970. Eravamo a Parigi, a cena dal
mio ex editor della rivista Paris Match. Erano stati appena serviti i
formaggi, quando Raymond Cartier mi chiese a bruciapelo se io e
Larry avevamo già iniziato un nuovo progetto letterario. Avevamo
da poco pubblicato Gerusalemme! Gerusalemme!, una mastodontica
ricerca sulla nascita dello Stato di Israele, e quei mesi di arduo lavoro
ci avevano lasciati senza forze.
«Sai benissimo, Raymond, che non sono molti gli argomenti a cui
si vorrebbero dedicare quattro anni della propria vita» risposi. «Hai
qualche suggerimento?»
Cartier aggrottò le sopracciglia e si chinò su di me come se stesse
per rivelarmi un segreto.
«Mio caro Dominique, quando avevo la tua età mi recai in uno
sperduto villaggio nel nord del Bengala per intervistare un vecchio
indiano mezzo nudo che aveva messo in ginocchio uno degli imperi
più potenti di tutti i tempi. Si chiamava Mohandas Gandhi. Che ne
dici se tu e Larry Collins raccontaste la storia di quell’indiano e della
caduta dell’Impero britannico in India, un paese la cui popolazione
a quel tempo costituiva un quinto della razza umana? Si parla del
1947, poco meno di venticinque anni fa. Molti di quelli che contribuirono a scrivere quell’incredibile pagina di storia dovrebbero essere ancora vivi. Sono certo che riuscirai a trovarli. Dominique, qui
ci sono tutti gli ingredienti per una tragedia greca, con eroi del tutto
fuori dall’ordinario. Se avessi la tua età, comincerei la ricerca oggi
stesso!»
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Due settimane dopo, io e Larry eravamo a Londra a pranzo con
Lord Mountbatten, l’ultimo protagonista vivente di questa tragedia
greca.
Che personaggio era Lord Mountbatten! I suoi modi giovanili mi fecero subito scordare che aveva settantadue anni. Alto, slanciato, flessuoso come un gatto, negli occhi un guizzo di curiosità e bricconeria,
quest’uomo, che era nato insieme al Novecento e aveva condotto tante
vite diverse, non aveva nulla di formale o rigido nel suo modo di
porsi. Me lo immaginavo trottare sul suo cavallo nel campo da polo,
indossare la magnifica uniforme di Primo Lord dell’Ammiragliato
costellata di mostrine, medaglie e scintillanti trecce dorate, sfoggiare
il berretto col ricamo a foglie dorate di comandante in capo delle
operazioni di guerra in Asia, o ancora con la giubba adorna di stellette
e decorazioni di viceré d’India.
A Mountbatten la nostra idea piacque molto. Deplorò il fatto che
i suoi connazionali avessero mostrato di apprezzare così poco il suo
operato nel processo di decolonizzazione, e che non avessero mai
mancato di rimproverargli la velocità con cui aveva portato a termine
il suo compito, un’accusa che lui considerava ingiusta e immeritata.
Infatti, liberando il suo paese da quel nido di vespe che era l’India
senza versare una sola goccia di sangue britannico, Mountbatten
aveva salvato la Gran Bretagna da una di quelle guerre coloniali in
cui la Francia si era praticamente specializzata. Fu ancora più facile
aggiudicarci il suo sostegno per il nostro progetto perché risultammo
essere gli autori di uno dei suoi libri preferiti.
«Ho letto Parigi brucia? almeno quattro volte» ci confessò. «È così
che la storia dovrebbe essere sempre raccontata.»
Subito dopo pranzo montammo sulla sua Jaguar e andammo a
Broadlands, la sua casa nel sud dell’Inghilterra, vicino alla cittadina
di Romsey. Mountbatten si era ritirato in questa maestosa villa immersa nel verde di querce centenarie. Sulla sua scrivania troneggiava
una pila di lettere, perlopiù provenienti dall’India e dal Pakistan, inviategli da sconosciuti, da amici che gli erano rimasti fedeli e da ex
membri della sua servitù a cui da venticinque anni spediva regolarmente una piccola rendita. Duna, il suo labrador nero, e Mistou, il suo
gatto, costituivano la sua unica compagnia nella calda atmosfera di
quella stanza tutta mobili vittoriani, tappeti vellutati e pesanti tendaggi. A ricordargli la vita piena che aveva condotto, innumerevoli
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fotografie racchiuse in cornici d’argento che ritraevano i suoi familiari, i più grandi leader mondiali, immagini di guerra e fotogrammi
delle sue missioni e dei suoi viaggi. Su un ritratto di Elisabetta ii c’era
l’affettuosa dedica «A mio zio Dickie». Una foto mostrava il fragile
Mahatma Gandhi, avvolto nel suo dothi, tra Lord Louis e sua moglie
Edwina, quando erano viceré e viceregina d’India. In un’altra, i
Mountbatten, novelli sposi, festeggiavano la luna di miele a Hollywood, circondati dagli amici Charlie Chaplin, Mary Pickford e
Douglas Fairbanks. Ma la vera attrazione si trovava nella cantina,
dove il padrone di casa ci condusse con palese orgoglio. In quel labirinto di tunnel Mountbatten aveva raccolto tutti i documenti ufficiali
e i ricordi personali che aveva custodito con cura nel corso della sua
vita. Per me e Larry, ansiosi di imbarcarci in quello che sarebbe stato
il progetto più ambizioso del nostro sodalizio letterario, fu come trovare un tesoro nascosto. Quel materiale non solo documentava le
peripezie della decolonizzazione: era la storia del nostro secolo.
Mountbatten aprì un cassetto a caso. Dentro giaceva un plico di
lettere ingiallite dal tempo. La prima, scritta a mano, era firmata da
Nicola ii, zar di tutte le Russie, che invitava il giovane nipote Louis a
passare l’estate del 1914 con i suoi nobili cugini nello yacht di famiglia, ormeggiato a San Pietroburgo. Cinquantotto anni dopo, gli occhi
azzurri che avevano fatto battere il cuore di tante donne si illuminarono alla vista di questo relitto.
«Allora ero pazzamente innamorato della granduchessa Marija»
ci confidò. «Sembrava la donna di un quadro di Gainsborough.»
Sotto a quella lettera c’era un messaggio di «Vittoria, regina di
Gran Bretagna, d’Irlanda e dei domini, difensore della fede e imperatrice d’India» che annunciava la nascita del suo pronipote, Albert
Victor Nicholas di Battenberg.*
Era il 25 giugno del 1900. Il Novecento aveva appena compiuto sei
mesi. La regina Vittoria regnava sul più grande impero coloniale di
tutti i tempi, una maestosa istituzione che, cinquant’anni più tardi, il
neonato Louis sarebbe stato chiamato a smantellare.
Le teste coronate che si affacciavano alla sua culla erano membri
della sua famiglia. Suo diretto antenato era Carlomagno. Tra i suoi zii
e cugini annoverava Guglielmo ii di Germania, Alfonso xiii di Spagna,
* Il padre di Louis cambiò il cognome Battenberg, di origine tedesca, in
Mountbatten all’inizio della Prima guerra mondiale. [N.d.A.]
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Ferdinando i di Romania, Gustavo vi Adolfo di Svezia, Costantino i
di Grecia, Haakon vii di Norvegia e Alessandro i di Iugoslavia. Le
crisi europee erano un problema di famiglia.
Da un altro cassetto Mountbatten riesumò un pacchetto di buste
ricoperte da un grafia minuta a matita.
«Indovinate di chi sono questi scarabocchi?» ci chiese ridendo. «Di
Gandhi! Ogni lunedì il nostro uomo osservava una giornata di silenzio e per comunicare con me usava il retro delle buste della sua
posta e un mozzicone di matita. Almeno in quei benedetti lunedì non
rischiavo di sentire una di quelle dichiarazioni dell’ultimo minuto che
l’imprevedibile Mahatma tirava fuori all’uscita dal mio ufficio.»
Tornammo a Broadlands diciannove volte e ognuna delle nostre visite
fu un vero piacere. Mountbatten aveva una memoria prodigiosa. Ricordava il colore della rosa che Nehru portava all’occhiello in occasione di quello e quell’altro incontro, o la marca delle sigarette che
Mohammad Ali Jinnah, fondatore dello Stato del Pakistan, fumava
una dopo l’altra. Ma la nostra maggiore fortuna consisteva nel fatto
che ogni ricordo, ogni avvenimento di quelle settimane cruciali che
precedettero l’indipendenza dell’India erano stati documentati per
iscritto e conservati nelle cartelle meticolosamente ordinate nelle profondità degli armadi di Broadlands. Mountbatten non aveva ricevuto
un solo visitatore, fatto alcun passo, presenziato a nessuna dimostrazione o fatto alcuna telefonata senza averne dettato subito un rapporto a una delle innumerevoli segretarie del suo staff. Le descrizioni
erano così precise e dettagliate che potevamo ricostruire gli eventi
come se fossimo stati presenti anche noi.
Come tutti gli amici dell’ex viceré, lo chiamavamo «Lord Louis».
Lui ogni tanto ci preparava delle sorprese incredibili. Una volta si
scusò per non averci avvertito della presenza di un altro ospite al
pranzo con cui ci concedevamo una pausa dal nostro lavoro. Ci ritrovammo a tavola con il principe Carlo. Capimmo dal modo in cui il
nostro prozio lodava la nostra ricerca che gli avevamo regalato uno
dei suoi ultimi piaceri, quello di rivivere minuto per minuto, nel dettaglio, i sei mesi che l’avevano portato all’apice della sua carriera.
Il suo sostegno al nostro lavoro superò ogni più rosea aspettativa.
Un giorno ci affidò dei documenti che erano stati tenuti segreti per
venticinque anni e che – se rivelati – avrebbero potuto minare gravemente i rapporti tra la Gran Bretagna e i suoi ex domini. Arrivò per­14
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sino a scomodare sua nipote, Sua Maestà la Regina, per convincerla
ad accordarci un permesso speciale alla consultazione di documenti
sottoposti per cinquant’anni a segreto di Stato, che lui riteneva fondamentali per il nostro lavoro.
L’interesse e il puntiglio di Lord Mountbatten per ogni minuto
dettaglio della nostra ricerca ci affascinava. A Nuova Delhi avevo
trovato la sontuosa carrozza che il 15 agosto del 1947 aveva portato
Mountbatten, sua moglie Edwina e il Primo ministro Nehru attraverso la capitale in festa. Mi ero appuntato il nome del fabbricatore
del veicolo, inciso su una delle lampade. Sei mesi più tardi, dopo aver
letto la scena in cui si descriveva la carozza, Mountbatten ci segnalò
che il nome del fabbricatore era sbagliato. Ricordava che fosse Parker,
non Barker. Controllai i miei appunti: aveva ragione. Sì, io avevo
scritto Parker, ma durante la trascrizione la nostra segretaria aveva
confuso le lettere.
Spesso il suo senso dell’umorismo condiva le nostre fredde e accademiche ricostruzioni con aneddoti comici o, a volte, toccanti. La
notte in cui fu proclamata l’indipendenza dell’India, ci raccontò, si
ritirò nella solitudine del suo ufficio. «Sono ancora uno degli uomini
più potenti della terra» pensò. «Per qualche minuto ancora, da questo
ufficio dominerò un quinto della razza umana.» Gli venne in mente
all’improvviso un racconto di H.G. Wells, L’uomo che faceva i miracoli.
Era la storia di un inglese che, per un giorno, veniva investito del
potere di fare tutto ciò che desiderava. «Ci siamo, sono i miei ultimi
minuti come vicerè d’India» si era detto Mountbatten. «Devo fare
qualcosa di eccezionale. Ma cosa?» Ecco che gli venne l’ispirazione:
«Promuoverò la moglie del Nawab di Palampur al rango di Altezza».
Mountbatten era un vecchio amico del nababbo di Palampur, uno
staterello al centro dell’India. Nel 1945, durante un soggiorno con il
principe, Lord Louis aveva ricevuto una richiesta molto particolare
da parte di un residente diplomatico britannico accreditato dal suo
ospite. Il nababbo aveva sposato un’australiana a cui il precedente
viceré si era rifiutato di concedere il titolo di Altezza poiché non era
di sangue indiano. Ma la donna si era convertita all’Islam e godeva
di grande popolarità tra la sua gente. Al nababbo si era spezzato il
cuore. Tuttavia, l’intervento di Mountbatten non era servito a nulla:
Londra si opponeva con tutte le forze ai matrimoni tra principi indiani e donne straniere. Così la notte dell’indipendenza, approfit15
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tando degli ultimi istanti di autorità suprema, Lord Louis aveva
elevato il rango della moglie australiana del nababbo di Palampur
ad «Altezza».
Trent’anni dopo, mentre firmavo autografi dopo un intervento che
avevo tenuto a Ginevra, vidi una donna venire verso di me. Era vestita in modo semplice e dimesso, il suo viso segnato dalle rughe era
privo di trucco, e i suoi capelli grigi erano coperti da uno scialle. Posò
sul tavolo una copia di Stanotte la libertà, piena di orecchie, e mi chiese
timidamente di firmarlo.
«A chi lo dedico?» chiesi.
Lei esitò un attimo, poi aggiunse, con un velo di nostalgia negli
occhi: «Alla Begum di Palampur».
Dopo l’Indipendenza lei e il marito avevano lasciato l’India per
stabilirsi in Europa. Il nababbo era morto in condizioni di relativa
instabilità economica. La donna che Mountbatten aveva reso Sua Altezza adesso dava lezioni di inglese ai ricchi arabi che vivevano sul
lago di Ginevra.
Non mancavamo mai di discutere con Lord Louis le scoperte spesso
inaspettate della nostra ricerca. Un giorno gli mostrammo il rapporto
del nostro incontro con il medico indiano che, nel 1947, aveva avuto
in cura il fondatore del Pakistan, Mohammad Ali Jinnah.
Leggendolo, Mounbatten sbiancò.
«Non ci posso credere» disse con voce strozzata. «Mio Dio.»
Quando sollevò lo sguardo, i suoi occhi azzurri, di solito così
calmi, riverberavano di un forte turbamento. Agitò in aria i nostri
documenti: «Se solo avessi saputo queste cose a quel tempo, la storia
avrebbe preso una piega diversa. Avrei dilazionato di vari mesi la
concessione dell’indipendenza. Non ci sarebbe stata la spartizione. Il
Pakistan non sarebbe esistito. L’India sarebbe rimasta unita. Si sarebbero evitate tre guerre…».
Lord Louis era stupefatto.
Il documento descriveva nei dettagli una radiografia al torace di
Jinnah che avevamo ritrovato insieme al suo medico e confermava la
diagnosi di tubercolosi in stadio avanzato. Nella primavera del 1947
Mohammad Ali Jinnah, l’inflessibile leader islamico che aveva mandato all’aria tutti gli sforzi fatti da Mountbatten per preservare l’unità
dell’India, sapeva già che gli restavano solo pochi mesi di vita.
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Lo studio dell’archivio del protagonista britannico al centro della nostra ricerca ci tenne occupati per un anno. Prima di partire per l’India
e il Pakistan, volevamo incontrare alcuni degli ex governanti e militari
del prodigioso impero su cui Lord Louis aveva regnato.
Mountbatten scandagliò la sua rubrica alla ricerca dei sopravvissuti del sogno imperiale e ci consigliò di pubblicare un annuncio sul
Times, invitando i vecchi servitori dell’Impero in possesso di esperienze eccezionali a contattarci. L’idea si rivelò produttiva. Attraversammo l’Inghilterra in lungo e in largo, dal Suffolk al Surrey, dalla
Cornovaglia alla Scozia, dal Kent al Galles, per incontrare gli ex
membri dell’Impero britannico in India.
*
Un giorno suonai alla porta del cottage nel Kent dove viveva il colonnello nominato da Mountbatten per stare al seguito di Mohammad Ali Jinnah, fondatore del Pakistan, e dirigere il suo gabinetto militare nel periodo immediatamente successivo all’Indipendenza. Si chiamava William Birnie. Alto, in forma, il viso rubicondo
di chi ha una passione per il gin e il whisky, Birnie aveva passato
diversi mesi a stretto contatto con il leader islamico. Era una fonte
di informazioni praticamente unica su uno dei principali autori del
grande imbroglio indiano. Birnie si era portato dal suo magico soggiorno in India una serie di souvenir, tra cui una pelle di tigre che
adornava l’ingresso del salotto. Davanti a quella feroce creatura mi
fermai, sottomesso. Divertito dalla mia reazione, il colonnello si tolse
la giacca, il maglione e la camicia e in un batter d’occhio rimase a
torso nudo. Una profonda cicatrice gli correva sul petto, dalla spalla
fino alla cintola. Birnie indicò la testa della tigre e posò l’altra mano
sul torace.
«Sì, è proprio lei!»
Una notte, quando era ancora un giovane tenente impegnato nelle
operazioni nelle Central Provinces, aveva avuto la felice idea di uccidere una delle numerose tigri che si aggiravano per il campo.
Aveva legato una capra ai piedi di un banano e si era acquattato ad
aspettare nella boscaglia, con una torcia saldata alla canna della pistola. Dopo qualche minuto aveva sentito i rami spezzarsi e un belato disperato.
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«Accesi la torcia» raccontò. «Una magnifica tigre era balzata sulla
povera capra. Feci fuoco immediatamente, ma nella semioscurità non
riuscii ad abbattere l’animale. Invece di svignarsela, quella maledetta
mi saltò addosso senza neanche darmi il tempo di sparare di nuovo.
Riuscii giusto a ruotare la pistola e puntarle il calcio in gola. Fu una
lotta terribile, tutta in pochi centimetri. Mi scorticò con i suoi artigli e
vidi i suoi denti pronti a divorarmi. Ma la pistola nella sua bocca alla
fine la convinse ad andarsene. Interruppe il combattimento e sparì
nell’oscurità. Io mi affrettai ad arrampicarmi su un albero. Non era
affatto comodo.»
«Doveva sentirsi sollevato, lì sano e salvo su quel ramo» suggerii.
«Per niente!» protestò con vigore l’inglese. «Ero furioso! Quella
maledetta se l’era squagliata con la mia pistola! Una Holland & Holland nuova di zecca che avevo comprato giusto il giorno prima per
la cifra astronomica di cinquanta sterline!»
L’indomani il tenente e i suoi compagni partirono a dorso d’elefante alla ricerca della tigre. La trovarono due giorni dopo. Birnie la
finì con un solo proiettile, ma non rivide più la sua splendida pistola
nuova.
*
In un modesto cottage nella campagna del Sussex incontrai Sir Frederick Burrows, l’ultimo Governatore britannico del Bengala. Nulla
nell’aspetto di questo presidente del sindacato in pensione faceva
supporre che dal 1945 al 1947 fosse stato il sovrano di un’area più
popolosa dell’Inghilterra e dell’Irlanda messe assieme. Con i suoi
sessantacinque milioni di abitanti, il Bengala si estendeva per circa
mille chilometri, dalle giungle ai piedi dell’Himalaya alla foce del
Gange e al Brahmaputra. Calcutta, capitale della provincia, era la
città britannica più popolata dopo Londra. Raj Bavhan, la residenza
del governatore, era un magnifico palazzo di 137 stanze in un parco
di dodicimila metri quadri. Lì si erano tenute feste sfarzose in cui
Sir Frederick si sedeva su un trono d’oro e velluto viola, circondato
da uno stuolo di aiutanti in campo e ufficiali in uniforme. L’ex governatore, che una volta aveva a disposizione uno staff di 500 domestici in livrea, adesso doveva accontentarsi di una donna delle
pulizie.
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Sfogliò davanti ai miei occhi increduli il suo album di fotografie,
attestato degli ultimi anni di dominio britannico. Non fece nulla per
nascondermi la sua nostalgia e la sua amarezza. L’Inghilterra aveva
dato la libertà al popolo su cui aveva dominato, ma quando aveva
lasciato il paese non era riuscita a impedire a quella stessa gente di
uccidersi a vicenda. Mi fece il triste resoconto della fine del suo governo. Mentre lui e Lady Burrows stavano assicurando il loro bagaglio in un’ala del palazzo, centinaia di dimostranti scatenati avevano
invaso il resto dell’edificio, saccheggiando l’argenteria e il vasellame,
strappando le tende, e avevano danzato di gioia nei salotti, per le
scale, sui pianerottoli. L’ultima immagine della loro camera da letto
è rimasta scolpita nella loro memoria. Decine di ometti scuri che non
avevano mai dormito se non nella nuda terra ora saltavano sul materasso come fossero a una fiera. Le guardie avevano dovuto aprire un
varco in mezzo alla folla per far raggiungere a Sir e Lady Burrows la
motovedetta che li aspettava. La confusione di quella loro ritirata
aveva impedito ogni forma di commiato. Gli ultimi rappresentanti
dell’Impero della regina Vittoria erano praticamente dovuti fuggire
da Calcutta.
Sir Frederick mi aveva gentilmente offerto il pranzo per prenderci
una pausa dal nostro lavoro. L’uomo che aveva avuto 500 domestici
adesso provvedeva lui stesso a portare i piatti in tavola. Dopo mangiato si alzò e, indicando le stoviglie, mi chiese: «Signor Lapierre, le
dispiacerebbe se continuassimo la nostra conversazione in cucina
mentre lavo i piatti?».
*
Il tenente colonnello John Platt era stato l’ultimo ufficiale britannico
a lasciare il suolo indiano. Salendo a bordo delle motovedette ancorate alla Porta delle Indie a Bombay quella mattina del 28 febbraio
1948, Platt e i suoi uomini avevano messo la parola fine all’avventura imperiale britannica. Venticinque anni dopo, Platt, ormai diventato generale, mi invitò a pranzo nello stupefacente Army and
Navy Club di Londra per raccontarmi di quella storica partenza. Ai
tempi Platt comandava il battaglione del Somerset Light Infantry,
reggimento in cui già suo padre e suo nonno si erano distinti, stanziato sulle frontiere dell’Impero indiano dal 1842. Sullo stemma del
reggimento spiccavano una tromba e una corona sormontata dalla
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scritta jalalabad, teatro di una sanguinosa vittoria sulle tribù afgane nell’Ottocento.
L’addio si era svolto in un’atmosfera di festa. Platt e i suoi uomini
passavano da un ricevimento all’altro, l’ultimo dei quali fu organizzato dalla nuova gestione autoctona del Royal Bombay Yacht Club,
luogo in cui fino al giorno dell’Indipendenza a nessun indiano era
consentito mettere piede, nemmeno a un maharajah. Al momento
del commiato, i rappresentanti dell’esercito indiano consegnarono al
nostro ufficiale britannico la nuova bandiera dello Stato, con l’immagine dell’arcolaio di Gandhi, e un modellino in argento della Porta
delle Indie, il primo monumento che i giovani britannici scorgevano
al loro arrivo in India dopo il lungo viaggio dalle loro isole lontane.
Platt ebbe in dono anche una fotografia. L’immagine rappresentava
un tributo al cameratismo che aveva sempre caratterizzato i rapporti
tra gli indiani e i loro ex colonizzatori: ritraeva infatti un soldato
indiano nell’atto di ricevere la Croce della regina Vittoria da parte di
un generale inglese a Montecassino, durante la Seconda guerra mondiale. Dal canto suo, Platt offrì loro una riproduzione della Union
Jack in seta cinese, ed espresse il desiderio che venisse appesa nella
sala d’onore della nuova guarnigione autoctona di Bombay.
Il giorno dopo gli uomini del Somerset Light Infantry, in bermuda
color kaki e mollettiere bianche, marciarono lungo il vasto piazzale
della Porta delle Indie, dove decine di migliaia di cittadini di Bombay
erano accorsi da ogni parte, persino dagli slums e dalle periferie. Battaglioni di soldati sikh e gurkha resero il loro omaggio mentre la
banda navale indiana eseguiva God Save the King. Fu una partenza
gloriosa. «Quando io e i miei uomini arrivammo sotto l’arco della
Porta, sentimmo la folla nella piazza e sul molo intonare una canzone»
continuò. «Il canto si fece subito più forte, esplose da migliaia di petti.
Era Auld Lang Syne.* Nella folla c’erano vecchi militanti del Partito
del Congresso, con i loro cappelli bianchi. Molti di loro probabilmente
recavano ancora in testa i segni delle manganellate sferrate dai nostri
poliziotti! C’erano donne in sari, studenti in uniforme, vagabondi
avvolti negli stracci. Persino i soldati della Guardia d’onore si unirono
al coro. Glielo assicuro, fu…»
Vidi gli occhi del generale brillare nella penombra. Non riuscì a
finire la frase e bevve il caffè in silenzio. Immaginai l’emozione di
* Il famoso Valzer delle candele. [N.d.T.]
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quella scena finale. Potevo sentire il coro spontaneo che riecheggiava
sul piazzale, e la commovente promessa che ci sarebbe stata un’occasione futura per «rivedersi».* Lì, di fronte alla Porta delle Indie, finiva
un’era. Cominciava quella della decolonizzazione, portata da
quell’uomo vecchio e fragile di cui Mountbatten ci aveva parlato in
termini tanto elogiativi.
Un giorno del gennaio del 1915 Gandhi, il futuro liberatore, al ritorno dal Sudafrica era passato sotto quella stessa porta. Sottobraccio
aveva l’Hind Swaraj, il suo manifesto, che sarebbe diventato la bibbia
della sua lotta per l’indipendenza.
Dopo la partenza di Platt e dei suoi uomini, in molti porti, nelle
colonie di tutto il mondo, si sarebbero celebrate cerimonie simili a
quella che si tenne il 28 febbraio 1948 a Bombay. Ma nessuna sarebbe
stata caratterizzata dal sentimento generale descritto da Platt. Le motovedette portarono il Somerset Light Infantry alla nave di trasporto
truppe, la Empress of Australia, ormeggiata al largo. Nel bagaglio
dell’ufficiale comandante erano stipate le pelli delle quattro tigri che
aveva ucciso nella giungla. Sopraffatto dalla nostalgia, come tutti gli
altri passeggeri, l’inglese uscì sul ponte per rivolgere un ultimo
sguardo alla radiosa e magnifica metropoli di Bombay, adagiata
all’orizzonte. Una mano sulla sua spalla lo riscosse dalla malinconia.
Era arrivato un telegramma: arrivederci, buona fortuna e buona
caccia. L’augurio proveniva dal Club della caccia di Bombay. Era
l’ultimo saluto dell’India ai suoi ex colonizzatori.
*
Un giorno, in un ex monastero annesso ai resti di una chiesa gotica
del Warwickshire, poco lontano da Birmingham, incontrammo l’uomo
che aveva sovrinteso alla spartizione dell’India. Armato di cesoie, era
intento a potare il magnifico roseto della sua villa. Di media costituzione, con labbra sottili, radi capelli grigi disposti in un perfetto riporto sulle tempie e occhialetti rotondi di metallo sul naso affilato, Sir
Cyril Radcliffe era circondato da un’aura di freddezza e riservatezza
che certo non incoraggiava le confidenze. Era stato l’unico, fra tutti i
veterani dell’epopea indiana, a mostrare una certa riluttanza nel rice* L’autore fa riferimento a una canzone del 1939 di Vera Lynn, We’ll Meet
Again («Ci rivedremo»), molto popolare durante la Seconda guerra mondiale.
[N.d.T.]
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verci. Sir Cyril non era propriamente un veterano dell’avventura imperiale. Il suo rapporto con l’India era stato anzi l’opposto di
un’epopea. Venticinque anni prima, quelle mani dedite a pareggiare
con tanta delicatezza una scintillante rosa Dorothy Perkins avevano
ritagliato la mappa del subcontinente indiano con un paio di forbici.
Con la precisione di un bisturi, quel processo di vivisezione aveva
creato due stati separati, l’India e il Pakistan, condizionando la vita
di quasi cento milioni di persone.
L’uomo a cui era toccato quel terribile compito non sapeva nulla
dell’India. Non ci aveva mai messo piede. Paradossalmente, fu proprio a causa di quell’ignoranza che, un giorno di giugno del 1947,
l’illustre avvocato quarantacinquenne era stato strappato al Gabinetto
di Londra.
«Fui convocato dal Gran Cancelliere» ricordava. «Mi spiegò che il
piano per la spartizione dell’India non aveva risolto la questione cruciale della divisione del Punjab e del Bengala. Jinnah e Nehru si erano
resi conto che non avrebbero mai raggiunto un accordo sulla disposizione delle nuove frontiere e avevano deciso di affidare tale responabilità a un’apposita commissione indopakistana. A presiederla doveva
essere, secondo il loro desiderio, un avvocato inglese che non era mai
stato in India. Questa figura avrebbe garantito l’imparzialità delle operazioni. Il Gran Cancelliere pensò che io facessi al caso loro.»
«Era un grande onore» sottolineò Larry.
Sir Cyril si irrigidì.
«Dividere quelle due enormi province era l’ultimo dei compiti a
cui avrei desiderato essere chiamato. Sarò anche stato impreparato
sull’India, ma avevo sufficiente esperienza per capire che quello sarebbe stato un incarico ingrato.
«Il fatto che in un momento critico della loro storia comune due
nemici giurati come Jinnah e Nehru avessero scelto un inglese era un
tributo alla Gran Bretagna» lo incoraggiai. «Come avrebbe potuto
rifiutare?»
Per tutta risposta, Sir Cyril tirò un sospiro. Ci raccontò che, un’ora
dopo il suo incontro con il Gran Cancelliere, era arrivato un alto funzionario dell’Indian Office, aveva steso una mappa di fronte a lui e
gli aveva spiegato quali erano le province da separare.
«Avevo una vaga idea che si trovassero a nord del paese, una a est
e una a ovest. Guardai il dito del funzionario percorrere il fiume Indo,
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sfiorare la barriera dell’Himalaya, scendere a Nuova Delhi, riarrampicarsi verso il Gange, descrivere la riva del Golfo del Bengala. La
dimensione delle regioni che dovevo dividere mi diede le vertigini.»
Qualche giorno dopo quell’incontro, Sir Cyril era approdato nel
caldo soffocante di Nuova Delhi. Mountbatten gli aveva messo a disposizione un bungalow nella sua tenuta.
Trincerato dietro le persiane, si ritrovò a tracciare su una mappa
dei Royal Engineers le linee di confine che avrebbero separato due
enormi popoli. Privato di ogni forma di contatto con i luoghi o le genti
che stava dissezionando, non era in grado di prevedere l’impatto della
sua operazione chirurgica in aree così brulicanti di vita.
«Sapevo che l’acqua è il simbolo della vita in tutto il mondo; che
chi controlla l’acqua, controlla la vita» ci disse. «Ed ecco che mi ritrovavo a disegnare condotti d’irrigazione, sistemi di canali, chiuse e
laghi artificiali su una mappa. Mutilai campi di grano e di riso senza
neanche averli mai visti. Non avevo potuto visitare neanche uno dei
villaggi che sarebbero stati attraversati dalle mie frontiere, né farmi
un’idea della tragedia che si sarebbe abbattuta sui poveri contadini
che si vedevano improvvisamente privati dei terreni, dei pozzi, delle
strade. Gli strumenti a mia disposizione erano del tutto inadeguati.
Non avevo mappe a scala sufficientemente larga, e i dati indicati su
quelle che possedevo spesso si rivelavano errati. Per esempio, i cinque
fiumi del Punjab tendevano a scorrere a varie miglia di distanza rispetto al letto ufficialmente designato dal dipartimento delle rilevazioni topografiche. Le statistiche demografiche, che dovevano essere
il mio principale punto di riferimento, erano imprecise. Erano state
alterate dai due avversari per avallare le loro richieste.
C’era un che di surreale nell’ascoltare queste parole standosene
nella tranquillità di quella villa inglese. Guardavo quell’uomo onesto
e rispettabile e mi era difficile immaginare che fosse stato l’artefice
involontario di una simile tragedia.
«Tra il Bengala e il Punjab, quale provincia le diede meno problemi?» domandò Larry, ansioso di trovare qualche ricordo positivo
in quella storia a tinte fosche.
«Il Bengala, senza dubbio. Ebbi qualche esitazione solo su Calcutta. Jinnah aveva avanzato delle pretese sulla città, cosa che, da un
punto di vista economico, mi sembrava giustificata. Ma, a conti fatti,
la maggioranza indù mi sembrò un fattore più importante. Una volta
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stabilito questo principio, il resto fu relativamente facile. Il mio confine non era che una linea tracciata a matita su un pezzo di carta.
Nell’ammasso di paludi e pianure mezze allagate del Bengala non
c’era alcun elemento che potesse servire da confine naturale.
«E il Punjab?»
Solo a sentirlo nominare le sopracciglia di Sir Cyril si aggrottarono.
Si deterse la fronte con un fazzoletto.
«La zona era un mosaico di diverse comunità religiose che si sovrapponevano e sconfinavano l’una nell’altra. Individuare un confine
che rispettasse l’integrità di tali gruppi era impossibile. Dovetti amputare.»
Sir Cyril ricordava il caldo torrido di quelle settimane estive e
l’umidità, crudele e snervante. Le tre stanze del suo bungalow erano
tappezzate di mappe, documenti e relazioni stampati su centinaia di
sottili fogli di carta di riso. Quando lavorava in maniche corte, i fogli
gli si attaccavano alle braccia sudate lasciando strane stigmate sulla
pelle: l’impronta di un luogo che forse rappresentava le speranze di
centinaia di migliaia di esseri umani. Un ventilatore sul soffitto agitava l’aria surriscaldata. I fogli svolazzavano per la stanza in una
tempesta simbolica, presagio del triste destino che aspettava i villaggi
del Punjab.
«Sapevo sin dall’inizio che alla pubblicazione del mio piano per
la spartizione sarebbe seguito un bagno di sangue» ammise Sir Cyrl,
malinconico.
*
Un giorno d’estate del 1979, vedendo Lord Mountbatten scendere
dalla macchina davanti alla scalinata di Broadlands, mi venne in
mente l’immagine usata da Charles de Gaulle nelle ultime pagine
delle sue Memorie. Il «naufragio della vecchiaia» sarebbe mai toccato
a questo gigante? Aveva appena compiuto settantanove anni. Bardato
nella sua uniforme di colonnello delle guardie della regina, alle gambe
gli stivali e le fibbie strette sulla giubba, il petto ricoperto di decorazioni, il portamento altero, il passo trionfante, era identico alla foto in
cui, trentadue anni prima, viceré, incedeva verso il trono delle
Indie.
Nel corso della conversazione toccammo qualche volta il tema
della morte. Mountbatten era affascinato, in particolare, dall’assas­24
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sinio di Gandhi: con la sua tragica fine, il leader indiano aveva ottenuto ciò che non era riuscito a fare in vita: riconciliare le comunità del
suo paese. Secondo Lord Louis, questa conquista aveva impregnato
la sua morte di un significato e una dimensione che il destino raramente concede. Anche se non lo disse apertamente, ci fece capire che
sperava di trovare una fine ugualmente vittoriosa.
Come tutte le estati, Mountbatten aveva in programma di passare
le vacanze con la famiglia nel suo castello in Irlanda. Era stato fedele
per trentacinque anni a questo angolo dell’isola che gli era tanto caro:
il villaggio di Mullaghmore sulla costa di Sugo. Era lì, circondato
dagli affetti, che si sentiva al sicuro.
Alla vigilia della partenza, Larry lo aveva sentito per telefono.
«Lord Louis, stia attento. Lei è un bersaglio appetitoso per l’Ira.»
«Mio caro Larry» tagliò corto Mountbatten «il suo monito dimostra solo quanto poco sa della situazione. Gli irlandesi conoscono bene
la mia posizione sull’argomento. Non sono in pericolo.»
Quasi ogni giorno l’ex vicerè portava i suoi amici a pesca sulla
Shadow v, un massiccio peschereccio a motore. Il pomeriggio del 27
agosto c’erano sei persone a bordo. Lord Louis era al timone, insieme
a sua figlia Pamela e al marito di lei John Brabourne, ai loro gemelli
quattordicenni Nicholas e Timothy, alla nonna, Lady Brabourne, e a
un marinaio irlandese.
Qualche minuto dopo che l’imbarcazione aveva lasciato il porto
nell’allegria dei saluti, gli abitanti di Mullaghmore sentirono un’esplosione. La barca era saltata in aria. I pescherecci andarono subito in
soccorso, recuperando i corpi orribilmente mutilati di Lord
Mountbatten, del nipote Nicholas e del giovane marinaio. Gli altri
furono portati in ospedale in gravi condizioni. La stampa britannica
diede voce alla rabbia e allo schock di tutta la nazione, descrivendo i
terroristi irlandesi come «assassini sanguinari».
In onore del suo primo capo di Stato, l’India abbassò la bandiera
a mezz’asta e decretò nove giorni di lutto nazionale, mentre la Gran
Bretagna concesse all’artefice della decolonizzazione i funerali di
Stato a Westminster. A differenza della moglie Edwina, che aveva
chiesto di essere sepolta in mare, Lord Louis fu seppellito vicino a
Broadlands.
Diciotto anni dopo, era l’inizio del 1997, Thomas McMahon, il
terrorista che aveva piazzato l’ordigno a bordo della Shadow v, fu rimesso in libertà, malgrado stesse scontando l’ergastolo.
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Purtroppo l’omicidio di Lord Mountbatten non sortì lo stesso effetto benefico di quello di Gandhi. Lord Louis esprimeva spesso la
sua perplessità sulla facilità con cui gli occidentali condannavano gli
sporadici episodi di violenza nelle comunità indù e musulmane,
quando «nell’Irlanda del Nord persone della stessa origine e dello
stesso credo combattono tra loro da così tanto tempo».
*
Tre secoli e settantatré anni dopo che William Hawkins, capitano del
galeone Hector, era sbarcato sul suolo indiano per dare inizio all’avventura coloniale britannica, la squadra francoamericana di Lapierre
e Collins arrivava a Nuova Delhi per studiare come quell’avventura
era giunta alla sua conclusione. Larry aveva portato anche moglie e
figli. Un amico ci aveva procurato due case adiacenti nel nuovo quartiere sorto all’estremità di Shanti Path, il maestoso viale che attraversava l’enclave delle ambasciate. Schierati all’entrata di casa come una
guardia d’onore, mi attendevano i sei domestici assunti per stare al
mio servizio. Il loro numero mi sbalordì. Ancora non sapevo che in
India ogni compito dev’essere svolto da una casta specifica. Il mio
staff comprendeva un portatore ovvero un maggiordomo, un cuoco,
un dhobi addetto al bucato, uno «spazzino» per le pulizie, un mali per
la cura del giardino e infine un chowkidar come custode. Il costo di una
servitù così numerosa mi preoccupò, ma fui subito tranquillizzato.
Sommati, i sei stipendi non arrivavano a tremilacinquecento rupie al
mese. Le mie domande sui contributi assicurativi suscitarono stupore.
L’India socialista non prevedeva nulla di tutto ciò. In compenso,
avevo due obblighi: procurare tè e zucchero ed equipaggiare i miei
domestici con uniformi ufficiali. Il portatore mi indicò un uomo con la
testa rasata che troneggiava su una macchina da cucire sul marcipiede. Era il sarto, pronto a confezionare le divise seduta stante.
Il portatore sembrava ben informato.
«Signore, sono cattolico e mi chiamo Dominic» annunciò.
Nonostante le differenze di credo e nascita, i domestici vivevano
in armonia nelle due stanze per la servitù sul retro della casa. Qualche
giorno dopo scoprii tuttavia che stavo ospitando un villaggio di una
cinquantina di persone.
Per quanto la capitale dell’India fosse cosmopolita, l’arrivo di due
sahib, una memsahib e la loro prole costituiva un evento. Mi resi conto
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ben presto che una delle caratteristiche della vita in India è la totale
assenza di privacy. Avevamo appena posato le valigie che suonarono
al campanello di tutte e due le porte di casa. La prima visita era del
lattaio, accompagnato dalla sua mandria di bufale, che ci offriva il
latte «munto davanti ai nostri occhi». Poi si presentarono un ammaestratore di orsi, uno di scimmie e un incantatore di cobra con le sue
manguste. Tutti insistettero per esibirsi davanti ai figli di Larry in
adorazione. Seguì una serie ininterrotta di visite da parte di venditori porta a porta che proponevano tappeti, tessuti, sari, ceste, manufatti di legno, pietra, vetro, cartapesta. Insomma, gli innumerevoli
prodotti dell’artigianato indiano. Poi ancora allevatori di cani, uccelli e pesci rossi. Per non parlare del pulitore di orecchie, svariati
parrucchieri, un mago, un astrologo, un chiromante, un gruppo di
musicisti e monaci cantanti vestiti di marrone, con la fronte dipinta
di polveri multicolori. A coronamento di questo flusso inesauribile,
arrivò uno splendido elefante, cavalcato da un mahout inturbantato,
intenzionato a portare questi maharajah d’Occidente a fare un giretto
per il quartiere.
*
Nuova Delhi divenne la base delle nostre ricerche. Un giorno una
telefonata mi informò che l’amatissima e unica figlia di Pandit Nehru,
il primo Premier indiano, aveva accettato di ripercorrere con noi
quelle gloriose ma tragiche ore dell’estate del 1947. Venticinque anni
dopo che suo padre aveva preso il controllo della nuova India indipendente, il destino aveva fatto ricadere sulle fragili spalle di Indira
Gandhi un terribile fardello, quello di amministrare lo Stato democratico più popoloso del mondo. Dal suo monumentale ufficio sulla
Raj Path, la via imperiale aperta dagli inglesi nel cuore della capitale,
questa cinquantaseienne governava da sola su settecento milioni di
persone, quasi un quinto della popolazione mondiale. Ogni mattina,
prima di attendere ai suoi onerosi doveri, Indira Gandhi riceveva nel
giardino adorno di rose e buganvillee della sua casa in Safdarjung
Road i cittadini comuni del suo paese, che venivano da tutta l’India
per ottenere dalla loro sacerdotessa un darshan: la comunione visiva
con colei che incarnava l’autorità. Fu lì che ricevette anche me.
Arrivai in anticipo, e osservai sbalordito questa pallida donna
correre, nel suo sari svolazzante, da un gruppo all’altro: prima i con27
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tadini scurissimi – quasi neri – dell’estremo Sud, poi una delegazione
di ferrovieri del Bengala nei loro candidissimi dothi di cotone, e ancora una classe di scolarette dalle lunghe trecce, per finire con un
gruppo di «spazzini» intoccabili venuti fin qui a piedi nudi dalla
lontana provincia del Bihar. La «Madre della nazione» aveva una
parola per ognuno di loro. Leggeva le petizioni, rispondeva con una
promessa e passava leggiadra al rito delle foto-souvenir. Così facendo
la gente – il vero tessuto dell’India – aveva accesso, per l’istante di
un sogno, alla fonte del potere, proprio come ai tempi degli imperatori Moghul.
Indira fu catturata dalla mia curiosità. Quell’intervista fu la prima
di tante altre. Si svolgevano sempre nel salotto che dava sul giardino.
Lì c’era un solo ornamento: un grande ritratto di Jawaharlal Nehru
col suo sorriso accattivante, una rosa all’occhiello e il cappello bianco
del partito dei militanti del Congresso. Cercai invano una somiglianza
tra padre e figlia, ma evidentemente doveva trattarsi di qualcosa di
più spirituale. Guardai le sue mani affusolate e pensai alle lettere
appassionate che aveva scritto a Nehru durante la sua prigionia. Da
Oxford, dove era andata a studiare, arrivavano queste righe: «Padre,
vi amo, bacio le vostre mani, soffro con voi, lotto con voi. Vi ammiro
infinitamente». Dopo la laurea era tornata dal suo eroe e non l’aveva
più lasciato. Si erano imbarcati insieme nelle ultime battaglie contro
il potere coloniale britannico, viaggiando infaticabili per tutto il paese,
arringando le folle nelle regioni contadine e nei quartieri poveri, sotto
il sole bollente o nelle tempeste del monsone. Le persone accorrevano
dovunque andassero, anche se molti non riuscivano a capire ciò che
veniva detto. Ma non importava. Quello che contava era scorgere il
cappello bianco di Jawaharlal in mezzo alla folla.
Indira aveva ventun anni quando si unì ai ranghi del Congresso,
l’onnipotente partito dell’indipendenza di cui Nehru era diventato
presidente, e celebrò in carcere questo traguardo politico, accusata di
atti di sovversione. La sua detenzione non fece che rinforzare il legame con il padre.
Nell’agosto del 1947 l’India si liberò dalle sue catene. Nehru aveva
cinquantasette anni, Indira trenta. Era un giorno di trionfo per padre
e figlia, uniti più che mai nella lotta che avrebbe portato a un’India
libera dalle superstizioni e dai fardelli, un’India moderna dove avrebbero prevalso la giustizia e la fratellanza. Nehru aveva da poco perso
la moglie per un cancro. Indira andò a vivere con suo padre nella
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residenza coloniale di York Road, da cui lui governava un paese che
minacciava di disintegrarsi. Oltre ai massacri nel Nord dell’India,
dove scorrevano fiumi di sangue, il Kashmir, patria dei loro antenati,
rischiava di cadere nelle mani della tribù patana. I maharajah minacciavano di ripristinare il dominio sui loro regni. Indira restò a fianco
del padre, prendendosi cura di lui e consigliandolo.
Indira Gandhi mi descrisse quelle ore tragiche e indimenticabili
con straordinaria precisione.
«Era la sera del 14 agosto e mio padre e io ci eravamo appena seduti a tavola quando squillò il telefono nell’altra stanza. Fu solo poche
ore prima che lui proclamasse alla radio l’indipendenza dell’India. La
linea era così disturbata che lo sentivo gridare di ripetere quello che
gli stavano dicendo. Tornò a tavola sconvolto. Non riusciva a parlare.
Seppellì la faccia tra le mani e rimase a lungo in silenzio. Quando
sollevò il viso, i suoi occhi erano pieni di lacrime. Mi disse che la telefonata arrivava da Lahore, città passata al Pakistan dopo la spartizione. Il nuovo governo aveva tagliato l’acqua ai sikh e agli indù. Era
un’estate torrida, la gente soffriva terribilmente la sete. Le donne e i
bambini che avevano provato a elemosinare una ciotola d’acqua erano
stati massacrati dai musulmani. Intere strade erano già state divorate
dal fuoco. Mio padre era devastato. Lo sentivo domandarsi con un
filo di voce: “Come potrò parlare al paese stasera? Come farò a esultare per l’Indipendenza quando Lahore, la nostra meravigliosa Lahore, sta bruciando?”.»
Indira mi riferì i suoi tentativi di tranquillizzare il suo amatissimo
padre. Lo aiutò a scrivere il discorso; sapeva che avrebbe parlato con
il cuore in mano.
«Ma quella telefonata aveva rovinato per sempre quel momento
di trionfo. Anche se le parole giungevano spontanee alle sue labbra,
non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di Lahore in fiamme.»
Eppure pochi discorsi nella storia possono vantare la grandezza e
la nobiltà di quello pronunciato da Nehru quella notte. Proprio come
milioni di indiani in tutto il mondo, io lo ricorderò fino alla fine dei
miei giorni.
Molti anni fa, noi abbiamo dato un appuntamento al destino ed è
suonata l’ora di tener fede alla nostra promessa. A mezzanotte,
quando la gente dormirà, l’India si sveglierà alla vita e alla libertà.
Il momento è giunto, un momento che di rado la storia concede,
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quello in cui un popolo esce dal passato per fare il proprio ingresso
nel futuro, in cui un’epoca si conclude e l’anima di una nazione, a
lungo soffocata, ritrova la capacità di esprimersi. […] Non è questa
l’ora delle critiche meschine e distruttrici, non è il momento di
abbandonarsi ai rancori e ai biasimi. Il nostro compito è di costruire
la nobile dimora dell’India libera, capace di dare accoglienza a tutti
i suoi figli.
«Mio padre aveva appena posato il microfono quando l’orologio del
parlamento, sopra il podio, rintoccò la mezzanotte» ricordava Indira.
«Poi il suono della conchiglia riecheggiò nell’emiciclo, annunciando
la nascita della seconda nazione più popolosa al mondo e la fine
dell’epoca coloniale.»
*
In seguito scoprimmo che il principale artefice di questa vittoria storica non aveva preso parte ai festeggiamenti. All’altro capo dell’India,
nel centro di Calcutta, dove si preparava un terribile massacro tra le
fazioni indù e musulmane, Gandhi pregava, digiunava e lavorava
all’arcolaio. Per scongiurare questo incubo, Mountbatten aveva mandato nel Bengala l’unico esercito di cui disponeva: la «Grande anima»,
con cui aveva negoziato il processo di decolonizzazione. Era convinto
che la presenza di Gandhi sarebbe bastata per evitare la guerra civile,
calmare gli animi, e ricondurre alla ragione gli abitanti della città più
violenta dell’India.
Fomentata dalla fame, dalla povertà e dall’odio religioso, la violenza era parte integrante dei fetidi e affollati slums di Calcutta. Solo
quattro anni prima, una terribile carestia aveva falcidiato centinaia di
migliaia di persone in quell’enorme agglomerato che rappresentava
senza dubbio uno dei peggiori disastri urbanistici del pianeta.
La gente era andata a cercare il cibo nei secchi della spazzatura e
nelle discariche. Le donne avevano ammazzato i figli che non erano
più in grado di nutrire. Gli uomini si erano cibati dei cani, e i cani a
loro volta avevano divorato gli anziani. Il virus dell’odio religioso
aveva portato questa violenza su un nuovo piano. Un anno prima
dell’indipendenza i conflitti tra le fazioni avevano riempito le strade
di almeno venticinquemila cadaveri mutilati. Da allora gli indù e i
musulmani avevano cominciato a guardarsi con sfiducia e terrore.
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Ogni giorno c’erano nuove vittime. Armati di cotelli, pistole, mitra,
bombe molotov e uncini di ferro – li chiamavano «artigli di tigre» –
per strappare gli occhi alle vittime, le bande delle due comunità si
stavano preparando all’ultimo bagno di sangue che tanto preoccupava Mountbatten.
Il 13 agosto l’anziano Mahatma Gandhi, ormai settantanovenne,
andò a vivere in una vecchia casa con la veranda che il precedente
proprietario aveva lasciato in balia di topi, serpenti e scarafaggi. Le
stanze furono ripulite in tutta fretta e l’accessorio che aveva attratto
Gandhi – il bagno, una vera rarità nei quartieri poveri di Calcutta – fu
riparato. Fu lì, in una casa circondata dal sudiciume, dal tanfo e dagli
insetti, che il liberatore dell’India si dedicò alla missione assegnatagli
dall’ultimo vicerè.
*
Larry partì per Madras, Bangalore e Bombay per incontrare i protagonisti degli eventi del 1947, mentre io me ne andai alla volta di Calcutta, sulle orme di Gandhi. Oltre alle sue stesse gambe, il principale
mezzo di locomozione che il liberatore dell’India usava per i suoi
incessanti spostamenti era il treno. Il Mahatma aveva sempre viaggiato in terza classe, insieme agli intoccabili, ai lebbrosi e ai contadini.
Il continuo contatto con i meno privilegiati gli aveva insegnato a capire cosa succedeva davvero nel cuore nascosto del paese.
«Se sapeste quanto costavano al Tesoro britannico questi capricci
di Gandhi!» ci disse Mountbatten un giorno. «Eravamo così preoccupati dal rischio di un attentato che, al posto dei normali viaggiatori,
riempivamo la terza classe di ispettori di polizia sotto mentite spoglie.»
Per capire meglio il profeta, anch’io m’imbarcai in una carrozza di
terza classe. Fu un’esperienza difficile ma interessante. Insieme a me,
sul sedile di legno c’erano tre graziose creature avvolte in colorati sari
di mussola. Erano truccate con polveri scarlatte e olio di sandalo, ma
la loro voce profonda non lasciava dubbi: le mie compagne di viaggio
erano eunuchi. Si recavano al grande pellegrinaggio che ogni anno
porta nei dintorni di Benares trecentomila membri di questa comunità. Che avventura furono quei due giorni di viaggio, arrancando a
una trentina di chilometri all’ora nelle distese assolate della pianura
indogangetica, immersi nel caldo soffocante, tra la fuliggine, il sudore,
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le lacrime, l’odore di incenso, curry e urina, e una straordinaria profusione di colori, sorrisi, e di dignità e vitalità. Gandhi aveva ragione:
l’unico modo per conoscere e amare un popolo è viaggiare in una
carrozza di terza classe.
Quell’enorme caravanserraglio che è la stazione di Howrah, di
fronte a Calcutta, dove il Mahatma era sbarcato venticinque anni
prima, era ancora un bivacco per i rifugiati accampati tra i binari, nella
hall, nella sala d’attesa, e sul marciapiede. Com’era successo nel 1947
con la spartizione, nel 1971 la guerra tra l’India e il Pakistan aveva
spinto verso Calcutta milioni di persone in fuga dal terrore e dai massacri. Mi ritrovai in mezzo a un ammasso di malati, zoppi e moribondi. Donne dai seni cadenti spidocchiavano i figli alla pallida luce
dei neon. Ragazzini vestiti di stracci rovistavano nella spazzatura alla
ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Lebbrosi su carrellini rudimentali si trascinavano qua e là esibendo la ciotola per le offerte.
Cani rognosi si acciambellavano a dormire in branchi. Eppure in
questo scempio si potevano ammirare scene che ribollivano di vita.
Un nugolo di coolies vestiti di rosso sgambettavano in tutte le direzioni carichi di piramidi di pacchi e fagotti sulla testa. Venditori di
nocciole, frutta e sigarette si facevano strada tra la folla. Una fiumana
di taxi e macchine passava strombazzando, dopo aver scaricato i passeggeri direttamente davanti al loro vagone. Alla biglietteria serpeggiavano file interminabili. Tutto quello spettacolo mi aveva ubriacato,
ed ero stordito dal rumore assordante degli altoparlanti, delle urla,
dei richiami e del fischio delle locomotive.
Feci una scoperta interessante. Perché c’erano così tante bilance
nella stazione? E di fronte a ognuna, una folla di persone tutte pelle
e ossa? Perché mai qualcuno di loro avrebbe dovuto spendere venti
preziosi paisa per sapere quanto pesava il proprio scheletro disastrato? Alla fine capii. Sul retro della ricevuta che confermava la loro
miseria c’era l’oroscopo. A Calcutta solo le bilance osavano promettere un karma migliore.
*
Ero riuscito a procurarmi una camera al Bengal Club. Fino alla caduta
dell’Impero, questo tempio della supremazia dei bianchi aveva esibito
alla porta un cartello che vietava l’ingresso «ai cani e agli indiani».
Ma la borghesia cittadina era subentrata ai colonizzatori senza ran­32
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core. Avevano lasciato al loro posto i ritratti degli antichi padroni,
sparsi nei saloni e nei fumoir. Camerieri a piedi nudi, nella livrea dei
tempi andati, servivano la stessa inspida zuppa Mulligatawny e
l’agnello alla menta, importati nel tropico del Bengala dalle nebbie
inglesi, con stoviglie che recavano impresso lo stemma della Compagnia delle Indie Orientali. Ogni mattina, alle quattro e mezza in punto,
il portatore musulmano, che aveva passato la notte nel corridoio,
pronto a soddisfare ogni mia richiesta, mi portava il tradizionale tè
del mattino, dolce e forte, con cui in India comincia ogni giornata.
Dopo questa bevanda rinvigorente, me ne andavo a fare una passeggiata ai giardini del Victoria Memorial Hall. Lì trovavo centinaia di
mercanti panciuti avvolti nel dothi, donne corpulente fasciate nei sari
colorati, studenti in pantaloni e camicia bianca, e i veterani dell’indipendenza, con i loro cappelli bianchi. Si ritrovavano lì per sgranchirsi
e aspettare il sorgere del sole, evento primordiale che governa la vita
di così tanti indiani.
La fortuna era con me, persino in quel buco infernale che è Calcutta.
Trovai due persone che erano state molto intime del Mahatma. Erano
sempre rimasti al suo fianco in quei drammatici giorni di agosto del
1947, quando solo la presenza di Gandhi aveva scongiurato che i disordini degenerassero in terrore. Ranjit Gupta era uno dei poliziotti
incaricati di proteggerlo, mentre lo scrittore Nirmal Bose era stato suo
segretario. Furono i miei sherpa, e mi guidarono nelle mie settimane
di intense ricerche sulle orme del saggio di Calcutta.
Subito dopo il mio ritorno a Delhi, Larry e io andammo in pellegrinaggio a Birla House. O meglio, ci accampammo, in quel tempio
dove Gandhi aveva sofferto e pregato per la salvezza dell’India negli
ultimi 101 giorni della sua vita. Per immergermi nell’atmosfera in
cui aveva trascorso quel doloroso autunno del ’47 e inverno del ’48,
mi portai qualche fotografia scattata in quel periodo. Le immagini
ritraevano l’anziano leader steso sul charpoy, la pancia ricoperta da
un impacco di fango. Nehru, il suo erede spirituale, era chino su di
lui, col volto solenne. In una delle foto riconobbi la testa scarmigliata
di Pyarelal Nayar, l’infaticabile segretario che per quarant’anni
aveva trascritto ogni singola azione, gesto, parola e pensiero del
Mahatma. In un’altra immagine comparivano le sue pronipoti, Manu
e Abha, con le trecce e gli occhiali tondi cerchiati di metallo. Non
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lasciavano mai il capezzale del loro maestro. Dormivano e pregavano con lui, gli facevano i massaggi, il clistere, lo accudivano
quando soffriva di diarrea, e mangiavano dalla sua stessa ciotola per
l’elemosina.
Tra le persone che circondavano Gandhi c’era una ragazza sorridente dai capelli corti. A trentadue anni, Sushila Nayar monitorava
le funzioni vitali di quel corpo mezzonudo sdraiato davanti a lei. Era
il medico privato del Mahatma. Accettò di tornare con me e Larry nel
drammatico scenario della stanza in cui, quel tragico giorno, la Grande
Anima aveva firmato il suo certificato di morte.
«Bapu decise di ricorrere ancora una volta all’arma che aveva utilizzato per salvare Calcutta» ci disse Sushila. Il 12 gennaio 1948 annunciò che avrebbe fatto uno sciopero della fame, a costo di morire,
nella speranza che la violenza si sarebbe fermata e che il governo
indiano avrebbe rispettato i suoi impegni col Pakistan.
«Quella sera consumò il suo ultimo pasto: due chapatti, una mela,
un goccio di latte di capra e un bicchiere di succo di pompelmo.
Quando finì, ci portò in giardino per pregare. Sembrava allegro e fiducioso, aveva ritrovato il suo ottimismo. Conclusi la piccola cerimonia intonando l’inno cristiano che lo commuoveva tanto, da
quando l’aveva sentito in Sudafrica per la prima volta. Cantammo
insieme «La tua croce, o Signore, è la mia gioia». Poi Bapu tornò nella
sua stanza, si sdraiò sul charpoy e si addormentò. La sua ultima sfida
era iniziata.»
In settimane di strenua ricerca riuscimmo a ricostruire nei dettagli gli
ultimi sedici giorni di vita di Gandhi e l’incontro con i suoi assassini,
il 30 gennaio del 1948.
Riuscimmo a mettere le mani sui rapporti di polizia degli agenti
che avevano indagato su quello che allora era stato definito «l’omicidio del secolo». Non fecero granché per soddisfare la nostra curiosità. Come era stato possibile uccidere Gandhi come se niente fosse,
quando veniva sorvegliato giorno e notte da dozzine di guardie?
Perché i terroristi schedati dalla polizia di Pune non erano stati arrestati, sebbene non avessero fatto segreto delle loro intenzioni? Perché
i poliziotti di Bombay, che erano venuti a conoscenza di una cospirazione e conoscevano l’identità dei cospiratori, non aveva informato i
colleghi di Pune e Bombay? Si trattava solo di negligenza? O erano
stati complici dell’India nel decidere il destino del suo Mahatma? Nel
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1960, dodici anni dopo l’omicidio, fu istituita una commissione d’inchiesta ufficiale per far luce sulla strana condotta tenuta dalla polizia
di Pune in quell’occasione. Sfortunatamente, allora la maggior parte
degli agenti coinvolti era morta. La commissione concluse con soddisfazione che il servizio di sicurezza del Mahatma Gandhi non era
adeguato e che le precedenti indagini non erano state condotte «con
la diligenza che avrebbe richiesto un crimine commesso contro la sua
[di Gandhi] vita».
*
L’assassino di Gandhi, Nathuram Godse, e il suo principale complice,
Narayan Apte, furono impiccati. Gli altri quattro cospiratori furono
condannati all’ergastolo. Un giorno, era il marzo del 1972, con nostro
sommo stupore io e Larry leggemmo un articolo sulla prima pagina
del Times of India che annunciava lo scarceramento dei cospiratori per
buona condotta. Un provvidenziale gesto di clemenza che ci permise
di fare degli incontri sensazionali.
Larry si mise sulle tracce di Vishnu Karkare, che era tornato a dirigere il suo hotel ad Ahmednagar, il Deccan Guest House. Io andai
in cerca di Gopal Godse, fratello dell’assassino. Alla fine lo trovai al
terzo piano di una vecchia casa nella periferia di Pune. Era un uomo
sulla cinquantina dall’aspetto distinto, con capelli canuti ben curati,
e portava con eleganza la sua lunga casacca bianca. Conscio di essere
una figura storica, era cordiale, persino affettuoso, e pronto a rispondere a tutte le mie domande senza nessuna riserva. Nella veranda in
cui mi ricevette era appesa un’enorme mappa che raffigurava l’India
con il Pakistan ancora annesso. Un filo di lucine correva lungo il corso
dell’Indo, e al centro c’era una grossa fotografia dell’assassino circondato da una ghirlanda di fiori. Nelle risposte precise e dettagliate di
Gopal non c’era traccia di rimorso o pentimento. Fui sorpreso dal tono
riverente con cui pronunciava il nome di Gandhi. Diceva sempre
«Gandhiji».
«Che cosa pensa dell’ideale della non-violenza di Gandhiji?» domandai.
«Mio caro amico, devo ricordarle che le donne indù dovettero
darsi fuoco e bruciarsi vive per sfuggire all’infamia di essere violentate dai musulmani, e Gandhiji diceva loro che la vittima era il vincitore» rispose.
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Dopo venticinque anni in prigione, la rabbia di Gopal era immutata.
«La non-violenza di Gandhiji gettò gli indù in balia del nemico»
mi spiegò. «I rifugiati morirono di fame e Gandhiji esaltò il loro sacrificio, difendendo l’oppressore musulmano. Per quanto tempo ancora avremmo potuto sopportarlo? Sì, mio caro amico, per quanto
tempo?»
Godse mi invitò alla cerimonia di commemorazione dell’esecuzione di suo fratello, che si teneva ogni anno il 15 novembre. Aveva
disposto su un piedistallo di fronte alla mappa una piccola urna
d’argento con le ceneri di Nathuram. Quest’ultimo aveva chiesto
che le sue ceneri fossero «conservate finché non fosse stato possibile
disperderle nell’Indo tornato a scorrere in un paese finalmente riunito sotto il dominio indù». Erano presenti i membri della sua famiglia, compresi donne e bambini, insieme ad alcuni discepoli di Vīr
Savarkar, il guru indù che aveva ispirato i cospiratori. La stanza
riecheggiò di una musica dolente al sitar, accompagnato dal ritmo
della tabla. All’esortazione del padrone di casa, i partecipanti levarono i pugni e giurarono, davanti all’urna funeraria e al ritratto
dell’assassino, di riconquistare «la parte recisa della nostra patria»,
il Pakistan, e di riunire l’India sotto il governo indù. Poi, con un
tempismo da attore consumato, aprì una cesta da cui tirò fuori degli
abiti.
«Questa è la camicia che Nathuram indossava il giorno in cui uccise Gandhiji» annunciò, brandendo una casacca color kaki macchiata
di sangue, ricordo delle manganellate ricevute al suo arresto.
Proseguì mostrando i pantaloni e i sandali. Tutti si inginocchiarono riverenti davanti alle reliquie. Godse lesse quindi le volontà del
defunto. Mentre il sitar e la tabla riprendevano la loro triste nenia, i
presenti, uno dopo l’altro, si prostrarono davanti alle ceneri, con una
candela in mano. Sventolarono la candela intorno all’urna prima di
levarla verso il serpente luminoso che simboleggiava il fiume Indo.
Ripeterono all’unisono la promessa di riconquistare la terra che l’India
aveva perduto.
L’ex terrorista quarantanovenne Madanlal Pahwa si era stabilito a
Bombay. Aveva provato a uccidere Gandhi piazzando una bomba
artigianale ai piedi della piattaforma su cui il Mahatma pregava.
Dopo due giorni di ricerche capillari, scovai Pahwa poco fuori
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Bombay, in un sobborgo abitato dai rifugiati indù del Pakistan. Era
impossibile non riconoscerlo: aveva gli stessi capelli neri e folti con
la riga di lato e i baffetti curati della foto segnaletica scattata venticinque anni prima. Dopo il suo attentato fallito, era stato arrestato e
sottoposto a un intenso interrogatorio di due giorni al termine del
quale aveva fatto i nomi dei suoi complici. Era stato tramite lui che
la polizia di Nuova Delhi aveva scoperto, due settimane prima
dell’omicidio, che nella capitale c’era un gruppo di terroristi intenzionati a uccidere Gandhi. La polizia era anche in possesso dei loro
identikit.
All’inizio Madanlal mi accolse con diffidenza, ma pian piano l’interesse che dimostrai per le sue attività più recenti lo convinse a lasciarsi andare. Adesso lavorava in un ramo che potrebbe sembrare
alquanto inaspettato: i giocattoli. In particolare, era molto orgoglioso
di un razzo ad aria compressa che volava fino a una novantina di
metri d’altezza e poi tornava giù appeso a un paracadute. Mi propose
di diventare suo socio in Europa «per competere con quei maledetti
giapponesi».
Sempre a Bombay, riuscii a rintracciare il più inquietante degli
assassini, Digambar Badge, ex trafficante d’armi che aveva procacciato la pistola con cui Gandhi era stato ucciso. Con la sua lunga
barba, più che un rivoluzionario sembrava un santone. Uscito dal
carcere, anche Badge aveva intrapreso un’attività insolita. Dopo aver
passato anni a vendere articoli che causavano la morte, adesso produceva un articolo per proteggersi proprio dalla morte. Con l’aiuto
dell’anziano padre, «cuciva» casacche di maglia metallica simili a
quelli che i cavalieri usavano nel Medioevo. Questo indumento a
prova di proiettile era apprezzato soprattutto da sicari, crumiri e politici di ogni fazione. Il libro delle ordinazioni era al completo per i
successivi due anni.
«Ha dei clienti francesi?» gli chiesi.
Mi rivolse uno sguardo d’intesa.
«Al momento no, ma forse il nostro incontro potrebbe cambiare la
situazione.»
La disponibilità dei terroristi a riceverci mi fece venire un’idea.
Avremmo potuto portarli a Nuova Delhi e filmarli mentre ripercorrevano gli eventi di quei giorni. Valutai i rischi. La polizia indiana
aveva rinunciato a ricostruire il delitto per paura di ritorsioni. Andai
a Pune per proporre la gita a Gopal Godse. L’avrebbe presa per una
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provocazione e mi avrebbe buttato fuori di casa? Avevo appena
cominciato a esporgli la mia idea quando lo vidi annuire, scuotendo
la testa a destra e a sinistra, con un’espressione compiaciuta.
«È un’ottima idea» mi disse.
Poi si accigliò.
«Ma solo se possiamo portare anche le nostre famiglie.»
Comprai i biglietti per tutti e una settimana dopo ci ritrovammo
su un binario della Victoria Station di Bombay, accanto al Frontier Mail
in partenza. Sembrava di essere in gita con dei parenti appena conosciuti. Mi chiamavano «Caro fratello» e «Signor Dominique» e mi
facevano assaggiare gli innumerevoli manicaretti, dolci e prelibatezze
che si erano portati nelle loro ceste. Godse, Karkare e Madanlal sostenevano che si trattava dello stesso treno che avevano preso venticinque anni prima quando erano partiti per assassinare Gandhi. Per
non rischiare che li arrestassero tutti insieme, il leader Nathuram
aveva preso l’aereo.
«L’accordo era di trovarci a Delhi nel giardino del tempio della dea
Lakshmi» ricordò Godse con orgoglio.
Dopo quarantott’ore di viaggio, li portai nello stesso luogo. Avevo
ingaggiato un cameraman e un tecnico del suono a cui avevo raccomandato di non rivelare l’identità delle persone che erano con me.
Godse condusse Karkare davanti all’enorme santuario rosa della
dea e indicò la campana appesa sulla porta.
«Ricordi? La suonammo prima di raccoglierci in meditazione ai
piedi della dea.»
Le mogli ascoltavano compiaciute e orgogliose i racconti dei mariti. Avrebbero potuto essere dei soldati appena tornati dal fronte con
una medaglia al valore. Dietro il santuario c’era un boschetto.
«È qui che Nathuram ha fatto le prove col revolver» spiegò Karkare. «Fortuna che non c’era nessuno in giro. Non sapevamo se
Gandhi sarebbe stato in piedi o seduto quando gli avremmo sparato,
e così ci esercitammo a mirare per entrambe le evenienze. Scegliemmo
un albero. Uno di noi si sedette contro il tronco per simulare la figura
di Gandhi e con un gesso disegnammo la silhouette sulla corteccia.
Nathuram si allontanò di una decina di metri e sparò cinque colpi.
Centrò il bersaglio tutte le volte.»
Godse ci portò al ristorante della stazione centrale, dove la sera
prima dell’attentato gli assassini avevano cenato tutti insieme in una
vera e propria atmosfera di festa.
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Poi, esattamente come avevano fatto loro quel giorno del gennaio
del 1948, prendemmo dei calessi per recarci a Birla House, l’ultima
residenza di Gandhi. Una fiumana di visitatori si aggirava in silenzio
nel giardino e per le stanze. Le pareti di quella magione tanto venerata
erano ricoperte di foto del Mahatma che ripercorrevano tutti i momenti
della sua vita. I pellegrini si soffermavano con particolare rispetto
quando entravano nella camera da letto, poi raggiungevano il piccolo
sasso poggiato sul punto esatto in cui Gandhi era stato ucciso. Restavano a meditare nel grande prato in cui il Mahatma aveva tenuto i suoi
ultimi incontri di preghiera. Stavo forse profanando questo luogo, conducendovi gli uomini che l’avevano infangato così brutalmente?
Mi stavo ponendo questo interrogativo, quando sentii una voce
chiamarmi. Mi girai e riconobbi il curatore del santuario, un illustre
bramino che si era interessato parecchio al mio lavoro.
«Caro signor Lapierre, vedo che ha compagnia oggi!» esclamò affabile. «E c’è anche una troupe televisiva. Perché non mi presenta i
suoi amici?»
Un brivido di freddo mi percorse la schiena.
«Con piacere» risposi, cercando di dissimulare la mia agitazione.
«Le presento il signore e la signora Gopal Godse, il signore e la signora
Vishnu…»
Mentre snocciolavo i nomi, vidi il viso del bramino stravolgersi.
Temetti che gli fosse venuto un infarto. Ripresosi dallo stupore, mi
rivolse un sorriso forzato e mi disse: «Signor Lapierre, le dispiace se
andiamo a parlare nel mio ufficio?».
Entrammo nella spaziosa stanza al piano terra dove io e Larry
eravamo venuti tante volte ad ascoltare il bramino rievocare le ultime
ore di Gandhi. Un domestico portò delle sedie e ci accomodammo
davanti alla scrivania. Cosa avrebbe fatto? Avrebbe chiamato la polizia? O sbattuto fuori gli ospiti indesiderati? Il curatore affondò nella
poltrona, sopraffatto dalla situazione così inaspettata. Rimase in silenzio per lunghi minuti, poi si alzò in piedi e i suoi occhi si illuminarono. Mi preparai al peggio.
«Cosa posso offrirvi?» ci domandò. «Tè o Kampa-Cola?»
Non molto tempo dopo, insieme agli assassini, mi trovavo nel punto
preciso da cui alle cinque e sette minuti del 30 gennaio 1948 Nathuram Godse aveva sparato a Gandhi. La telecamera inquadrava
suo fratello.
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«Il giardino pullulava di visitatori» ricordava Gopal Godse. «Gandhiji era in ritardo di qualche minuto. Poi all’improvviso la gente si
fece da parte. La processione stava arrivando. Gandhiji era alla guida,
e si appoggiava alle sue pronipoti con entrambe le mani. Nathuram
si era posizionato sul sentiero che conduceva al palco della preghiera.
Era il punto ideale. Lo vidi estrarre il revolver dalla tasca.»
La nostra presenza aveva attratto una folla di pellegrini. Molti di
loro erano sikh, con i loro inconfondibili turbanti. Cosa sarebbe successo se avessero riconosciuto l’uomo ripreso dalla telecamera?
Gopal Godse proseguì, per nulla turbato.
«Nathuram cercò di nascondere la pistola e si inchinò riverente ai
piedi di Gandhiji, dicendogli: “Namaste, Bapu”. Poi allontanò una
delle bambine per evitare che restasse ferita e fece fuoco. Una, due,
tre volte. Gandhiji mormorò: “He Ram. Oh mio Dio!” e si accasciò
lentamente sull’erba. Era finita.»
A queste parole, vidi un sikh alto e minaccioso rovistare febbrilmente tra le pieghe della fascia del suo abito. Ero convinto che stesse
cercando il pugnale che molti membri di quella comunità portano con
sé. Vedevo già la lama luccicare al sole. Avrebbe tagliato la gola ai tre
criminali, e magari anche a me e al cameraman. Avrebbe vendicato
quelle centinaia di milioni di indiani che erano state distrutte dalla
perdita della Grande anima.
Ma mi sbagliavo. Era passato troppo tempo dalla morte di Gandhi.
Ciò che quell’uomo cercava non era il pugnale della vendetta. Porse
a Godse un pezzo di carta e una penna. Voleva un autografo.
*
Dopo l’Inghilterra e l’India, la nostra ricerca ci portò in Pakistan, dove
intervistammo più di duecento persone, più o meno importanti, che
avevano avuto un qualche ruolo negli eventi di quell’estate cruciale
del 1947 o possedevano vividi ricordi da condividere.
Quando io e Larry cominciammo a scrivere Stanotte la libertà, nel
giugno del 1974, nelle nostre case adiacenti sulla riviera francese, ci
ritrovavamo con ottocento chili di documenti, almeno novecento trascrizioni di interviste e diversi archivi storici. Mai, pensavamo, due
scrittori avevano raccolto una mole di materiale così corposa per scrivere una delle più grandi epopee storiche di tutti i tempi. Il fatto che
nessuno di noi due fosse inglese, indiano o pakistano ci dava la mas­40
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sima libertà di scegliere l’approccio del nostro libro. Non volevamo
destinare la nostra opera a un pubblico inglese, indiano o pakistano.
Volevamo far conoscere a tutto il mondo la fine dell’Impero britannico
e il trasferimento di poteri avvenuto il 15 agosto del 1947. Siamo orgogliosi e ci onora che il nostro libro sia considerato un classico sia in
India che in Pakistan. Ma siamo ancora più orgogliosi di sapere che
è stato letto da più di cinquanta milioni di persone in tutto il
mondo.
Oltre alle migliaia di lettere di encomio e gratitudine che abbiamo
ricevuto in questi anni, ricorderò per tutta la vita l’invito che ho ricevuto dal Sabarmati Ashram, il luogo in cui Gandhiji si era fermato
dopo il suo ritorno dal Sudafrica nel 1915. Oggi il Sabarmati Ashram
è una scuola per bambine indigenti. Quando nel 1995 risposi al gentile
invito e mi recai lì con mia moglie e alcuni amici stranieri, trovammo
ad attenderci tutta la scuola. All’entrata dell’edificio, alcune alunne
avevano piazzato una grossa lavagna su cui avevano scritto un messaggio di benvenuto per me. Si trattava di un breve frammento su
Gandhi estratto da Stanotte la libertà. In fondo alla citazione, queste
intoccabili, le figlie dell’uomo che venero di più nella storia dell’umanità insieme a Gesù Cristo, avevano scritto una sola parola:
«grazie».
D.L.
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