RASSEGNA STAMPA venerdì 31 ottobre 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Panorama.it del 31/10/14 Dopo Mare Nostrum arriva Triton: ecco come sarà Si conclude l'operazione umanitaria per salvare i migranti nel Mediterraneo, e parte una missione europea, con meno mezzi. Che suscita preoccupazioni Si ferma dopo poco più di un anno l'operazione Mare Nostrum, avviata dal Governo dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013. Dopodomani parte Triton, la missione - assai più contenuta in termini di mezzi impiegati e raggio d'azione - che innalza la bandiera di Frontex, l'Agenzia europea delle frontiere. Ma, intanto, non si fermano le tragedie del mare: un gommone diretto verso l'Italia è affondato al largo della Libia. Si contano venti dispersi. "Una volta che partirà Triton" ha dichiarato il ministro dell'Interno, Angelino Alfano "sarebbe difficilmente spiegabile mantenere un'operazione d'emergenza come Mare Nostrum. Dall'uno novembre, dunque, non ci saranno due linee di protezione, una vicina a Libia e un'altra più vicina alle acque nazionali, ma Mare Nostrum chiuderà secondo una linea d'uscita che il Governo stabilirà molto a breve". Triton schiererà ogni mese due navi d'altura, due navi di pattuglia costiera, due motovedette, due aerei ed un elicottero. L'Italia contribuisce a questa flotta con quasi la metà dei mezzi: un aereo, un pattugliatore d'altura e due pattugliatori costieri. Tra gli altri Paesi europei partecipanti ci sono anche Islanda (con una nave) e Finlandia (un aereo). Il Centro di coordinamento internazionale dell'operazione è stabilito presso il Comando aeronavale della Guardia di finanza a Pratica di Mare (Roma). I mezzi Frontex partiranno da due basi: Lampedusa e Porto Empedocle. Pattuglieranno il Canale di Sicilia ed il Mare davanti alle coste calabresi tenendosi nell'ambito delle 30 miglia dal litorale italiano. In caso di interventi di ricerca e soccorso (Sar) potranno comunque spingersi anche oltre. Si tratta di un'operazione molto differente da MareNostrum, i cui mezzi arrivano fino a ridosso delle coste libiche per soccorrere imbarcazioni in difficoltà, secondo alcuni incentivando così le partenze dei migranti. Anche il budget è differente: 9,5 milioni di euro al mese per la missione nazionale, quasi 3 per quella Frontex. Triton, ha precisato Alfano, "non svolgerà le funzioni di Mare Nostrum. Costa un terzo e non è a carico solo dell'Italia, con enorme risparmio per noi. Farà ricerca e soccorso nei limiti del diritto internazionale della navigazione che impone a il dovere di soccorrere chi è in difficoltà in mare". La protesta delle associazioni Ma tra le associazioni che lavorano con i migranti c'è preoccupazione per la conclusione della missione umanitaria italiana. Unhcr, Amnesty, International, Save the children, hanno evidenziato i maggiori rischi per le traversate nel momento in cui non ci saranno più le navi italiane a prestare soccorso a ridosso delle coste libiche. Un cartello di associazioni, tra le quali Arci, Acli e Caritas, ha lanciato un appello al Governo perché non venga interrotta l'operazione Mare Nostrum. "La fine di Mare Nostrum porterà a nuovi morti e nuove stragi" ha detto Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas Italiana. "A un anno dalla tragedia di Lampedusa in cui persero la vita centinaia di migranti - ha aggiunto - sono stati salvati 150 mila migranti 2 tra uomini, donne e bambini, ma dal 1° novembre con il passaggio all'operazione Triton si rischiano più morti e nuove stragi lungo le rotte del Mediterraneo". Per il responsabile immigrazione di Caritas Italia "i numeri delle persone che si rivolgono all'Help Center aumentano a vista d'occhio" e chiedono, "protezione internazionale, perché non sono semplici migranti, ma persone che decidono di lasciare casa perché del loro paese d'origine restano solo macerie". Sui costi sostenuti per il mantenimento di ogni singolo migrante, l'esponente della Caritas Italiana ha ricordato che "lo Stato paga 900 euro per il loro sostentamento, ma non sono somme che vengono erogate direttamente ai migranti, a loro spetta solo vitto, alloggio e un pocket money di circa 2,50 euro al giorno". "Non possiamo più nasconderci dietro classici stereotipi - ha concluso Forti - chi accosta l'immigrato all'Ebola promuovendo l'idea che sono portatori di malattie, chi dice che tolgono lavoro, dimostra un'arretratezza culturale che non fa onore a questo Paese, che ha un passato di emigrazione importante e che spesso in molti dimenticano". http://www.panorama.it/news/cronaca/dopo-mare-nostrum-triton/ Da Redattore Sociale del 31/10/14 “Chiudere Mare nostrum, gravissimo errore”. L’appello delle associazioni “Il governo non ceda alle spinte xenofobe”. Le principali sigle impegnate al fianco dei migranti scrivono a Renzi perché l’operazione della Marina militare non si fermi: “Proseguirla è un dovere per uno stato che voglia definirsi democratico” ROMA – “Proseguire l’operazione Mare Nostrum è una scelta responsabile che oggi l’Italia deve compiere, per dimostrare nei fatti che la salvaguardia di ogni vita umana è il primo dovere di uno Stato che voglia definirsi civile e democratico”. Le principali associazioni che lavorano al fianco dei migranti lo scrivono chiaro nell’appello lanciato oggi per salvare in extremis Mare nostrum (l’operazione della marina militare dovrebbe terminare tra pochi giorni per lasciare il posto a Triton). Dalla Caritas al centro Astalli, passando per Arci, Asgi, Sant’Egidio e gran parte del mondo del volontariato e il terzo settore, l’invito al Governo è a “non cedere alle spinte demagogiche e xenofobe e di proseguire con la missione, rafforzando la pressione politica nei confronti dei partner europei affinché contribuiscano a mantenerla in vita sostenendola anche economicamente. “Chiediamo inoltre – si legge nell’appello – che il Governo si faccia promotore in Europa dell'applicazione della direttiva europea 55/2001 sulla protezione temporanea e dell'avvio di un programma europeo di reinsediamento dei rifugiati in arrivo dalle aree di crisi e di conflitto”. Secondo le associazioni, che hanno indetto una conferenza stampa oggi a Roma, la decisione del governo di porre fine all’operazione Mare Nostrum è un “gravissimo errore”. “Lanciata dopo la strage del 3 ottobre 2013 in cui persero la vita 368 persone, ha consentito il soccorso e il salvataggio di migliaia di persone – sottolineano - La maggior parte di coloro che attraversano il mediterraneo sono uomini, donne e bambini che fuggono da guerre, violenze e persecuzioni, persone che tentano così di salvare la loro vita, che hanno diritto alla protezione internazionale e che nessuna operazione di rafforzamento dei controlli delle frontiere può fermare”. Le associazioni ribadiscono che il programma europeo Triton, che verrà lanciato l’1 novembre e che secondo il ministro Alfano dovrebbe sostituire Mare nostrum, ha obiettivi 3 diversi. “Opererà solo in prossimità delle acque territoriali italiane, svolgerà un’azione non di soccorso ma di controllo delle frontiere e non è quindi assimilabile a Mare Nostrum, come hanno affermato i competenti organismi dell’UE, a partire dallo stesso Direttore dell'agenzia Frontex – spiegano -Triton non fermerà né le partenze né le stragi. I viaggi continueranno ma in condizioni ancor meno sicure dato che verrà meno quell’unico strumento di soccorso garantito in questo anno da Mare Nostrum. E' quindi assolutamente necessario garantire continuità a un'operazione che, come Mare Nostrum, operi in acque internazionali, con un mandato chiaro di ricerca e soccorso”. Le associazioni che hanno sottoscritto l’appello sono: Centro Astalli, comunità di Sant’Egidio, Caritas Italiana, Acli, Arci, Asgi, Cnca, Fondazione Migrantes, Rete G2, Chiese Evangeliche in Italia, Emmaus, Giù le frontiere, Libera, Razzismo Brutta Storia, Rete Primo Marzo, Save The Children Italia, Sei Ugl, Terra del Fuoco, Uil, Cgil Casa dei Diritti Sociali-Focus. Da Rassegna.it del 31/10/13 Mare Nostrum deve continuare, 31/10 conf. stampa a Roma Diverse organizzazioni sociali italiane, che si occupano di diritti dei migranti, lanciano un appello al Governo perché non venga interrotta l'operazione Mare Nostrum. L'Italia non può sottrarsi alla responsabilità di salvare vite umane nel Mediterraneo. Il testo dell'appello e le iniziative che verranno messe in campo per sostenerlo saranno presentate in una conferenza stampa che si terrà alle ore 11 di domani, venerdì 31 ottobre, presso la Libreria Fandango in via dei Prefetti 22 a Roma. Saranno presenti esponenti delle organizzazioni promotrici: ACLI, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali-Focus, Caritas Italiana, Centro Astalli, CGIL, CNCA, Comunità di S.Egidio, Emmaus Italia, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes, Giù le frontiere, Libera, Razzismo Brutta Storia, Rete G2 - Seconde Generazioni, Rete Primo Marzo, Save The Children Italia, SEI UGL, Terra del Fuoco, UIL. Hanno aderito: Andrea Camilleri, Carlo Feltrinelli, Andrea Diroma e inoltre Asmira, Associazione Babele Grottaglie, CESTIM. http://www.rassegna.it/articoli/2014/10/30/115898/mare-nostrum-deve-continuare-31-10conf-stampa-a-roma 4 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 31/10/14, pag. 5 Expo, nel laboratorio del lavoro volontario arriva il servizio civile Roberto Ciccarelli Milano. 800 mila euro destinati a 140 ragazzi che percepiranno un compenso di 443 euro. Ma i fondi non bastano per formare i volontari. Possibile discriminazione con gli altri volontari che lavoreranno gratis. «La nostra grande ambizione è fare in modo che la gente che verrà all'Expo se ne vada arricchita sul tema dell'alimentazione» ha detto l'Ad Sala Dopo gli ultimi arresti, Expo a Milano cerca di recuperare terreno. E il campo simbolico scelto è quello caldissimo del volontariato. Ieri l’amministratore delegato di Expo Giuseppe Sala ha convocato alla fabbrica del vapore una conferenza stampa in grande stile alla quale hanno partecipato il sottosegretario agli interni Luigi Bobba e l’assessore milanese alle politiche sociali Pierfrancesco Majorino. Entro dicembre pubblicherà un bando per reclutare 140 ragazzi che presteranno servizio civile durante la kermesse. I posti sono finanziati da Expo spa con 800 mila euro. Una volta concluso il reclutamento i giovani verranno divisi in due gruppi di lavoro, il primo a supporto delle associazioni, il secondo a sostegno dei paesi «in via di sviluppo» che parteciperanno all’esposizione universale. A differenza dei volontari stabiliti dall’accordo sindacale del luglio 2013, quelli finanziati da Expo verranno pagati con il contributo standard previsto per il servizio civile: 433 euro al mese a testa per 12 mesi. Inizieranno a lavorare a febbraio 2015 e continueranno a farlo anche dopo la fine dell’esposizione ad ottobre. Così prospettato si verrà a creare una discriminazione tra i volontari della prima ora (dovevano essere 18500, ieri Sala ha detto che verranno selezionati 9–10 mila sulle 12.500 candidature ricevute) e i mille reclutati dal Touring club nell’ambito del progetto «Aperti al mondo» per «presidiare» o fare visite guidate al Duomo o alla Casa del Manzoni. I primi verranno pagati, i secondi dovranno accontentarsi di un tablet. Per chi arriverà a Milano da fuori dovrà pagarsi le spese. Questi ultimi aspetti non sono stati ancora chiariti e alimentano le polemiche. Emergono altri problemi legati al bando per il servizio civile. Secondo il sito di informazione Redattore Sociale i 140 volontari avrebbero dovuto essere molti di più: cinquecento. Ma i fondi non sono stati stanziati. Il costo per singolo volontario sarebbe più alto rispetto ai 433 euro mensili previsti. A questa cifra bisogna aggiungere il costo dell’assicurazione, più 90 euro necessari per la formazione. Il costo minimo per questi corsi è di 150 euro, ne mancano 60. «Abbiamo già sborsato 40 mila euro extra per organizzare il sistema dei volontari – sostiene Sergio Silvotti, presidente di Cascina Triulza, uno dei soggetti che organizzano il padiglione della società civile – Le associazioni che fanno formazione si tireranno indietro, rischiano di perderci». Dopo quello Letta, il governo Renzi conferma il suo protagonismo nelle politiche del lavoro Expo. Il sottosegretario al lavoro Bobba ha definito il servizio civile «un’iniziativa originale». A suo avviso la novità starebbe nel finanziare il servizio civile «da un soggetto privato» e nel mettere insieme le organizzazioni del terzo settore. Per Bobba il servizio civile è un modo «per impiegare i giovani in attività sociali» in un momento in cui la disoccupazione giovanile ha raggiunto i massimi storici. Resta tuttavia la differenza tra un’attività 5 regolarmente inquadrata in un contratto nazionale, oppure tutelate secondo le altre norme del diritto del lavoro, e il volontariato (quello gratuito e quello pagato secondo gli standard). La prima è un lavoro, il secondo no. Una teoria simile è stata esposta già dal ministro del lavoro Poletti secondo il quale i lavoratori destinatari di un sussidio di disoccupazione dovranno rendersi utili per «lavori a beneficio della comunità». Non accettare quest’altra forma di «servizio civile» significa perdere il sussidio. è la regola del «workfare» che l’esecutivo intende realizzare approvando il Jobs Act in discussione in parlamento. L’Expo a Milano sta diventando il laboratorio di questa visione della società e del lavoro. Tra incertezze e progetti sul lavoro volontario continua il count-down verso il primo maggio 2015, giorno d’esordio del “grande evento” milanese, ma anche festa del lavoro. Forte è l’esigenza del super-manager Sala di offrire un’immagine di Expo diversa da quella che le indagini della magistratura hanno fatto emergere. Sugli arresti per ‘ndrangheta legati ai subappalti Tem Sala ha detto che «in 100 pagine di atti non ce ne è una in cui si parla di Expo». «Noi abbiamo sbagliato tante volte, ma non dobbiamo cadere in questo autolesionismo», ha osservato, definendo «lapalissiano» quanto accaduto.«La nostra grande ambizione è fare in modo che la gente che verrà all’Expo se ne vada arricchita sul tema dell’alimentazione – ha aggiunto– Il senso per un’operazione del genere è che si cada alla ricerca della sua anima e in profondità sulle tematiche». Cibo, anima e lavoro volontario che, a volte, è anche gratis. 6 ESTERI del 31/10/14, pag. 2 Esteri, Napolitano frena Renzi congelata la rosa di donne per il nuovo ministro Mogherini da domani alla Ue Il Quirinale avverte : “Primo scambio di opinioni sulla nomina” Nel colloquio esaminati anche i nodi riforme, Csm e Consulta SILVIO BUZZANCA ROMA . Matteo Renzi sale al Quirinale, ma non trova l’accordo con Giorgio Napolitano sul futuro ministro degli Esteri. Il capo dello Stato e il presidente del Consiglio hanno discusso per circa un’ora. Il premier si è presentato con una rosa tutta al femminile: Lia Quartapelle, Marina Sererni, Elisabetta Belloni e Martà Dassù. Nomi che non hanno convinto il presidente della Repubblica che ha chiesto un’ulteriore riflessione. Alla fine il nome dell’uomo o della donna che dovrà prendere il posto di Federica Mogherini non è saltato fuori. Lo stallo è confermato anche dal comunicato del Quirinale alla fine dell’incontro: «Il colloquio è servito — si legge — ad un giro di orizzonte sui temi dell’agenda del governo e dell’attività politico-parlamentare. Tra questi ultimi, la legge elettorale e il completamento della composizione di Corte Costituzionale e Csm. C’è stato un primo scambio di opinioni sulla nomina del prossimo ministro degli Esteri». Dunque niente di fatto, nonostante il tempo stringa. Il ministro degli Esteri, infatti, il 3 novembre dovrà assumere il nuovo incarico di Alto commissario per la politica estera dell’Unione europea. E per questo ieri ha presentato le dimissioni da deputata. Il suo posto a Montecitorio sarà preso dal piacentino Marco Bergonzi. La Mogherini si è congedata dall’aula con un breve saluto in cui ha detto fra l’altro che «l’Ue non è Bruxelles, ma ogni singolo cittadino dei 28 Paesi: siamo tutti noi e sono convinta che troverò in questo Parlamento un convinto compagno di strada». In aula però si è scatenato un vivace confronto: il Pd, infatti, aveva chiesto agli altri gruppi di poter salutare la sua deputata dimissionaria con un intervento del capogruppo Roberto Speranza. Ma questo ha scatenato la richiesta dei grillini di potere intervenire anche loro. Ad accendere le polveri è stato Alessandro Di Battista che ha insistito a lungo con Laura Boldrini per potere parlare. Per i toni che ha usato con la presidente della Camera è stato definito «un maleducato che deve essere sanzionato» dal democratico Ettore Rosato. Alla fine, alla richiesta dei grillini si sono associati altri e la Boldrini ha concesso tre minuti ad ogni gruppo. Si è sviluppato un mini dibattito in cui tutti hanno fatto gli auguri di buon lavoro alla Mogherini. Risolto il problema dello scranno da deputato della Mogherini, resta però aperto quello della poltrona della Farnesina. Tutti chiedono di fare presto. «A fronte di una situazione internazionale sempre più complessa e dei tanti dossier che la Farnesina deve affrontare, anche in collaborazione con Mogherini, è urgente individuare il nome del nuovo ministro degli Esteri», dice per esempio la forzista Deborah Bergamini. 7 del 31/10/14, pag. 16 Spianata delle Moschee chiusa ai palestinesi Abu Mazen: “Atto di guerra” L’attentato contro un rabbino scatena la reazione Il sito riaperto dopo poche ore, ma la tensione resta alta FABIO SCUTO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME . — Si avvita e prende una pericolosa velocità la crisi nella Città Santa, teatro da mesi dell’intifada dei minorenni che tutte le notti nei quartieri arabi della città si scontrano con la polizia. Il ferimento di un rabbino dell’ultradestra israeliana mercoledì sera e la successiva uccisione di un palestinese, presunto responsabile dell’agguato, hanno spinto il premier Benjamin Netanyahu a ordinare prima la chiusura della Spianata delle Moschee — «un atto di guerra», ha tuonato il presidente dell’Anp, Abu Mazen — poi la sua riapertura, ma limitata. Il blocco totale della Spianata nel giorno sacro per gli islamici avrebbe certamente provocato reazioni fra la popolazione araba. In città da ieri su ordine del premier sono affluite ingenti forze di polizia da altri distretti e reparti dell’Esercito per fronteggiare ogni evenienza. La tensione in queste settimane ruota tutta attorno alla Spianata delle Moschee, nel cuore della Città Vecchia, a poche centinaia di metri dal Santo Sepolcro. Lo status dei luoghi religiosi è il principale motivo di scontro e di tensione in città. Sul lato ovest della Spianata c’è il Muro del Pianto e per la tradizione religiosa ebraica alla sua sommità si erdel geva il Tempio degli ebrei e religiosi e nazionalisti rivendicano il diritto di andarvi a pregare. Ma gli accordi con la Giordania — che attraverso il Waqf gestisce il terzo luogo santo dell’Islam — consentono agli ebrei solo visite in alcune ricorrenze particolari senza il diritto di preghiera. L’estensione della sovranità israeliana anche alla Spianata delle Moschee è un cavallo di battaglia di un vasto movimento politico che con i religiosi, l’ultradestra ma anche di buona parte del Likud, il partito premier Netanyahu, che incalza il suo leader a compiere atti unilaterali che renderanno impossibile nel futuro la soluzione dei “due Stati” finora accettata e sostenuta dalla comunità internazionale. Mercoledì sera, il rabbino Yehuda Glick, emigrato dagli Usa e dirigente del gruppo nazionalista i “Fedeli del Monte del Tempio” — il termine con cui gli ebrei si riferiscono alla Spianata delle Moschee — è stato ferito da colpi di arma da fuoco esplosi da un uomo vestito da motociclista e versa ancora in gravi condizioni. Glick era appena uscito dal “Centro Begin” di Gerusalemme dopo un dibattito sulle rivendicazioni ebraiche riguardo al Monte del Tempio a cui avevano partecipato diversi parlamentari del Likud, fra loro anche il “falco” Moshe Feiglin. Poche ore più tardi, un’unità speciale della polizia israeliana ha fatto irruzione in un’abitazione nel quartiere arabo di Abu Tor a Gerusalemme est alla caccia del killer. Le forze speciali hanno circondato l’intero abitato e poi hanno fatto irruzione nell’abitazione di Moataz Hijazi uccidendolo sul terrazzo dove si era nascosto. Hijazi, che ha speso metà della sua vita in cella, era un militante della Jihad Islamica che ha poi rivendicato l’attentato. Anche Hamas si è compiaciuto dell’azione. Il gesto appare però come un atto di terrorismo individuale, come l’auto-killer alla fermata del tram la scorsa settimana. Il ministro della sicurezza interna Yitzhak Aharonovic ha chiesto rinforzi per la polizia di Gerusalemme. Oltre a proteste palestinesi per la chiusura della Spianata delle Moschee si temono anche atti di ritorsione di ultrà ebrei di destra per l’attacco al rabbino. 8 L’Europa ha invitato ieri pomeriggio tutti gli attori di questa crisi alla moderazione, constatando però che i continui annunci di nuove costruzioni israeliane oltre la Linea Verde del 1967 sono «una seria minaccia» alle aspettative di pace. Che restano tali però, perché il negoziato è fermo da tre anni. Per questo Abu Mazen sta percorrendo la via del riconoscimento della Palestina da parte dei singoli Stati. Ieri è stato il turno della Svezia e questo ha subito provocato il richiamo dell’ambasciatore israeliano a Stoccolma. del 31/10/14, pag. 7 Stoccolma riconosce lo Stato di Palestina Michele Giorgio GERUSALEMME, 30.10.2014 Palestina. Dura reazione di Israele all'annuncio di Stoccolma. Netanyahu richiama l'ambasciatore israeliano per consultazioni. Abu Mazen invece applaude e chiede agli altri governi europei di seguire l'esempio svedese. A Gerusalemme regna la tensione. La polizia israeliana uccide il sospetto responsabile dell'agguato al rabbino nazionalista Yehuda Glick Gerusalemme Est stava vivendo una delle sue giornate più tese da molti anni a questa parte quando ieri le agenzie hanno battuto la notizia del riconoscimento ufficiale da parte del governo svedese dello Stato di Palestina nei territori di Cisgiordania e Gaza, occupati da Israele nel 1967. Al-Thuri (Abu Tor) era in fiamme, dalla notte prima, quando le forze speciali della polizia avevano ucciso in questo quartiere diviso a metà tra palestinesi ed israeliani, Muataz Hijazi, sospettato di aver sparato e feritomercoledì sera il rabbino Yehuda Glick, leader del gruppo ultranazionalista “I Fedeli del Monte del Tempio”. Il passo segue la decisione annunciata il 3 ottobre dal premier svedese Stefan Lovfen. «E’ un passo importante…Qualcuno dirà che è una decisione arrivata troppo presto, a me spiace sia arrivata così in ritardo», ha commentato il ministro degli esteri, Margot Wallstrom, in riferimento alle reazioni negative giunte a inizio mese da Israele e dagli Stati Uniti all’iniziativa annunciata dal suo Paese. Altrettanto negative sono state le reazioni di ieri del governo Netanyahu che ha prontamente richiamato per consultazioni l’ambasciatore israeliano in Svezia. Il ministro degli esteri Liebeman ha commentato con sarcasmo che Stoccolma deve comprendere che «la situazione in Medio Oriente è molto più complessa che non i mobili dell’Ikea». Ben diverso il commento del presidente palestinese Abu Mazen che ha salutato con favore la decisione di Stoccolma e ha invitato altre nazioni a seguirne l’esempio. La Svezia si va così ad unire ai 134 paesi del mondo che hanno già riconosciuto l’esistenza dello Stato palestinese, ma è il primo in Europa occidentale a compiere un simile passo. Polonia, Slovacchia e Ungheria avevano già riconosciuto la Palestina, però prima di entrare a far parte dell’Ue. A inizio ottobre la Casa Bianca che aveva definito “prematura” (sic) la decisione svedese: «Riteniamo che il riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese sia prematura – aveva detto la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki – Noi sosteniamo il diritto palestinese allo Stato, ma questo può arrivare solo attraverso un negoziato (bilaterale con Israele)». Washington non vede altra strada che quella dell’estenuante e sterile negoziato che, a singhiozzo, sta mediando da oltre venti anni. Allo stesso tempo il riconoscimento del governo svedese, come quello giunto di recente dal Parlamento britannico, non pare 9 destinato a sfociare in atti politici concreti. L’interesse che gli europei mostrano da qualche tempo verso il riconoscimento dello Stato di Palestina più che affermare il diritto dei palestinesi alla libertà e all’indipendenza sulla base delle risoluzioni internazionali, sembra volto a difendere la soluzione dei “due Stati”, alla quale ben pochi credono ancora. Il quadro reale sul terreno, con la colonizzazione israeliana che non conosce soste e la contrarietà del governo Netanyahu alla restituzione della Valle del Giordano ai palestinesi, lascia intravedere soltanto uno Stato di Palestina a macchia di leopardo, in porzioni limitate della Cisgiordania e senza sovranità reale. Mercoledì sera il rabbino Yehuda Glick, leader del gruppo nazionalista dei “Fedeli del Monte del Tempio” è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco esplosi da un uomo vestito da motociclista. Glick, ora in gravi condizioni, era reduce da un dibattito sulle rivendicazioni ebraiche sulla Spianata della moschee, che stanno coalizzando diverse anime del nazionalismo religioso israeliano. Creando però forte preoccupazione e rabbia tra i palestinesi per lo status futuro delle moschee di Al Aqsa e della Roccia. Un blitz dei “Fedeli del Monte del Tempio”, in questo stesso mese di 24 anni fa, provocò incidenti gravi sulla Spianata: 20 palestinesi furono uccisi dai fucili della polizia israeliana. Dopo l’agguato di mercoledì sera al rabbino Glick, la polizia ha puntato quasi subito la sua attenzione su Moataz Hijazi che lavorava nel ristorante del Centro Begin dove era in corso il dibattito. Il palestinese, 32enne, secondo gli israeliani sarebbe stato un militante del Jihad Islami (ad al-Thuri non confermano). Un’unità speciale ha circondato la sua abitazione intorno alle 2.30 di notte. A questo punto ci sono due versioni. Testimoni palestinesi riferiscono che gli agenti hanno fatto fuoco subito contro Hijazi e parlano di una “esecuzione sommaria”. La polizia smentisce e sostiene che il palestinese avrebbe opposto resistenza alla cattura e gli agenti sarebbero stati costretti a sparare. L’agenzia di stampa palestinese Maan afferma che Hijazi è morto dissanguato dopo essere stato lasciato a lungo sul terreno e che alcuni giovani che volevano prestargli soccorso sarebbero stati allontanati dalla polizia. Subito dopo sono cominciati scontri tra palestinesi e polizia che sono andati avanti per tutto il giorno, anche nel vicino quartiere di Silwan. Alla tensione nelle strade si è aggiunto un nuovo round di scambi di accuse tra Israele e Anp. Il premier Netanyahu ha ripetuto che dietro le violenze a Gerusalemme ci sarebbe «l’incitamento da parte di elementi islamici radicali e del presidente dell’Anp Abu Mazen che ha dichiarato che occorre impedire con tutti i mezzi agli ebrei di entrare nel Monte del Tempio». Pronta la replica di Abbas che ha descritto come un «atto di guerra» la decisione israeliana di chiudere l’accesso alla Spianata delle Moschee (non accadeva dall’inizio della seconda Intifada, nel 2000). Ieri sera la polizia ha annunciato che il luogo santo islamico sarà riaperto oggi. del 31/10/14, pag. 27 Israele, il medio oriente e la diplomazia del gas che passa da Leviathan Caro direttore, Golda Meir, primo ministro d’Israele dal 1969 al 1974, detta «dama di ferro» ben prima di Margaret Thatcher, diceva spesso che Mosè aveva condotto il popolo di Israele nell’unico territorio del Medio Oriente senza petrolio. Se la signora Meir fosse stata viva il 17 gennaio 2009 avrebbe cambiato idea: quel giorno la società texana Noble ha scoperto al largo della costa israeliana un giacimento di circa 300 miliardi di metri cubi di gas. Due anni più tardi, poco lontano, è stato trovato un altro 10 giacimento da 600 miliardi di metri cubi, che gli israeliani hanno chiamato Leviathan: un mostro marino citato nel libro di Giobbe capace di modificare a proprio piacimento l’ordine e la geografia. Mai nome fu più appropriato: queste scoperte sono destinate a creare un nuovo ordine energetico nel quale Israele può giocare un ruolo di primo piano. I numeri sono infatti di tutto rispetto: Leviathan potrebbe garantire il consumo di gas dei 28 Paesi dell’Ue per più di un anno e quello di Israele per più di 80. E nessuno sa quanto altro gas potrà essere scoperto ancora nella zona. Le conseguenze di queste scoperte sono importanti per il mercato domestico di Israele che, dal 1948, è stato dipendente dalle importazioni di energia, spendendo più del 5% del proprio Pil, con conseguenze per il proprio bilancio e per la propria sicurezza. Oggi Israele diventa autosufficiente dal punto di vista energetico, e potrà contare in più, secondo i calcoli del gabinetto del premier Netanyahu, su 60 miliardi di dollari per la vendita del gas eccedente al proprio fabbisogno. Una cifra enorme che spaventa non pochi economisti: il valore dello shekel, la valuta nazionale, potrebbe aumentare, creando inflazione e rendendo meno competitivo l’export. Ma la reale portata di queste scoperte consiste soprattutto nella fornitura di gas ai propri vicini. A chi, come e a quanto venderlo non sono scelte di tipo economico: sono decisioni che hanno implicazioni geopolitiche. Alcuni Paesi produttori di idrocarburi nel Medio Oriente e Nord Africa hanno in comune un problema non di poco conto: una produzione nazionale che stagna o è in declino e un aumento dei consumi interni risultato del progresso delle rispettive società civili. Poiché i consumi di idrocarburi sono sovvenzionati, produzione in declino e consumi in aumento creano un pericoloso circolo vizioso: ci sono minori entrate derivanti dalla vendita di petrolio e gas sui mercati internazionali e maggiori esborsi per sussidiare i crescenti consumi interni. Il combinato disposto di questi fattori crea disagio sociale e instabilità politica. È il caso dell’ Egitto: nel 2013 le manifestazioni di piazza che hanno rovesciato il governo di Morsi sono state innescate anche dalla penuria di benzina e dalle frequenti interruzioni elettriche. L’Egitto, pur essendo uno stato produttore di idrocarburi, non ha abbastanza gas per coprire i fabbisogni domestici e non ricava abbastanza denaro dalla vendita sui mercati internazionali per far quadrare il bilancio. Circa il 7% del Pil egiziano è assorbito dai sussidi al consumo energetico che a loro volta rappresentano il 70% dell’insieme dei sussidi governativi. Due anni fa, Israele riceveva il 70% del proprio fabbisogno di gas dall’ Egitto. Morsi ha cancellato il contratto e oggi il gasdotto che portava il gas a Israele è vuoto. Basterebbe invertire il flusso, e Israele potrebbe per la prima volta nella storia esportare gas per soddisfare i consumi egiziani. Non solo: in Egitto il gas potrebbe essere trattato per essere esportato verso i redditizi mercati internazionali. Un’operazione che consentirebbe di saldare i legami tra Egitto e Israele e contribuire alla stabilizzazione di una regione che condivide minacce e pericoli derivanti da jihadismo e frammentazione di Siria e Iraq. Forse l’operazione «gas for peace» è già iniziata: Israele ha firmato a giugno un accordo per la fornitura di gas per i prossimi 20 anni alla compagnia elettrica palestinese e, sempre quest’anno, un contratto per una fornitura di gas per 15 anni alla Giordania, gas che prima Amman acquistava dal Cairo. L’accordo tra Israele e Giordania è stato fortemente voluto, seguito e incentivato dall’amministrazione Usa. Il capo della diplomazia energetica del dipartimento di Stato era presente alla firma e non era certo la prima volta che incontrava le parti. Washington ha capito l’importanza che le nuove scoperte di gas potrebbe avere per la regione. L’Europa è stata finora assente: eppure l’Europa e in primis l’Italia, vista la vicinanza geografica e culturale con i Paesi del mediterraneo, potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo di primo piano. Il gas del bacino del Levante infatti potrebbe arrivare in Europa riducendo in parte la dipendenza dal gas russo. Certo i problemi non mancano: economici (si tratta di gas 11 piuttosto caro), logistici (non è chiaro come potrebbe arrivare in Europa), politici (le infrastrutture devono attraversare le zone di interesse economico di Turchia e Cipro). Ma la sicurezza energetica europea e il contributo che il nuovo gas può dare a una regione che è a poche centinaia di chilometri dalle coste dell’Ue consigliano, anzi impongono, il massimo sforzo diplomatico e tecnico da parte dell’Europa e dell’Italia. *Presidente Cambridge management consulting Labs **Professore dell’Università Europea del 31/10/14, pag. 7 A Kobane da Ankara solo 10 peshmerga anti Pkk e anti_Assad Ancora ritardi: a Kobane è arrivato solo un primo «contingente» di pershmerga. Dieci per l’esattezza, insieme a 50 miliziani dell’Esercito Libero Siriano. Il resto – in totale circa 150 – dovrebbero entrare nelle prossime ore. Tra le file delle Unità di protezione popolare (Ypg) c’è chi spera che una maggiore presenza militare possa mettere fine all’avanzata dello Stato Islamico che di nuovo ieri ha tentato, senza successo, di occupare la zona nord della comunità, unica via di passaggio verso il confine turco. Il Partito democratico del Kurdistan iracheno ha fatto sapere che i primi peshmerga stanno individuando la migliore postazione per l’artiglieria pesante. Rispondono le Unità di protezione popolare: «Il primo gruppo è qui per portare avanti la nostra strategia – ha commentato Meryem Jobane, comandante delle Ypg – Devono prepararsi così da posizionarsi a seconda dei nostri bisogni». Una dichiarazione che sottintende il timore di perdere il controllo delle operazioni militari: l’arrivo di peshmerga e opposizioni moderate anti-Assad, tanto desiderato dalla Turchia, è volto a ridurre l’influenza del Pkk e ad allontanare definitivamente Rojava da Damasco. Più volte nel mese e mezzo di assedio appena trascorso, Rojava ha chiesto armi e munizioni alla Turchia e alla coalizione ma mai combattenti, consapevole delle mire del fronte antiIsis. Lo sa bene anche il presidente Assad che ieri ha condannato il via libera di Ankara all’ingresso dei combattenti inviati da Irbil: il ministro degli Esteri l’ha definita una «palese violazione» della sovranità siriana, mentre il consigliere politico del presidente, Bouthaina Shaaban, ha parlato di un costante «ruolo di aggressione della Turchia contro la Siria». Che a Kobane non ci si giochi solo il controllo del nord del paese, il corridoio tra Aleppo e Raqqa, ma anche equilibri di potere regionali ormai sembra chiaro. Allo stesso tempo sul tavolo c’è anche la secolare aspirazione kurda all’indipendenza: a Kobane si è ritrovata l’unità tra le varie componenti nazionali in cui il popolo kurdo è diviso, dalla Siria all’Iraq alla Turchia. La presenza dell’Esercito Libero nel cuore del conflitto garantirebbe un controllo diretto dei rapporti interni alle fazioni kurde e allo stesso tempo un rafforzamento politico delle opposizioni moderate, da mesi relegate in un angolo della guerra civile siriana. E contro Damasco si combatte anche con altri mezzi: mentre l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani parla di 221 civili uccisi dal governo in 10 giorni, mercoledì Assad è stato accusato di aver sganciato due bombe barili sul campo profughi di Abedin, vicino Idlib, uccidendo 70 rifugiati. Le accuse restano per ora senza prove e molti analisti si chiedono perché l’aviazione avrebbe dovuto colpire dei profughi. Da alcuni giorni la città di Idlib è target dell’Isis che ha occupato lunedì per qualche ora il governatorato e il quartier generale della polizia. Respinti indietro dall’esercito, i miliziani di 12 al-Baghdadi insieme al Fronte al-Nusra hanno occupato le comunità intorno, strappandole al controllo dell’Els. Al-Nusra resta attiva anche in Libano: ieri si sono registrati nuovi scontri tra gli islamisti e l’esercito di Beirut (sostenuto da Hezbollah) nella valle del Bekaa, dopo l’infiltrazione dei primi dalla porosa frontiera siriana. del 31/10/14, pag. 16 OBAMA E GLI USA SARA’ DIVORZIO? MARTEDI’ LE ELEZIONI DEL MID TERM I REPUBBLICANI PUNTANO AL SENATO E il PRESIDENTE AVRÀ LE MANI LEGATE Repubblicani privi di un vero leader, spaccati tra ala massimalista dei Tea Party e vecchio establishment moderato. Per di più, privi di un vero programma, al di là dell’ostilità preconcetta per qualunque intervento pubblico in economia, investimenti in infrastrutture compresi. Eppure questo partito debole e sfiancato si accinge a vincere a man bassa, martedì prossimo, le elezioni di midterm: riconquisterà la Camera con ampio margine e ha buone possibilità di espugnare anche il Senato. Non è facile spiegare a un lettore, soprattutto a un lettore dell’Europa in recessione, come sia possibile che i democratici, partito di governo di un Paese che cresce al 3,5% (dati del Pil di ieri) e che ha ridotto la disoccupazione al 5,9%, possano andare incontro a una sconfitta elettorale tanto pesante. I motivi sono diversi e andrebbero esaminati separatamente. Ci sono quelli istituzionali: mentre alle presidenziali vince chi conquista più voti nei singoli Stati, per l’elezione dei deputati al Congresso contano i singoli collegi che sono stati ridisegnati Stato per Stato, spesso in modo spregiudicato, soprattutto per iniziativa di governatori repubblicani, in modo da creare bacini elettorali socialmente omogenei. Cosa che in molti casi ha favorito i candidati conservatori. Poi ci sono i motivi economici. Il Pil cresce, è vero, ma crescono anche le disparità nelle distribuzione del reddito: il proletariato nero resta povero, si sente tradito e non va a votare. I ceti medi bianchi vedono i loro redditi ristagnare e passano dal tradizionale ottimismo dell’american dream al rancore. Quanto all’occupazione, sale, è vero: ma molti dei nuovi posti di lavoro sono part time o, comunque, sono più precari. È così ovunque con globalizzazione ed economia immateriale, ma chi non gradisce la novità protesta come può: magari con un voto che sa di ribellione o disertando le urne. L’indebolimento dei democratici registrato dai sondaggi soprattutto nelle ultime settimane dipende, comunque, soprattutto dalla continua perdita di popolarità di Barack Obama. Quando arrivano a metà del loro secondo mandato, i presidenti Usa non sono mai in gran forma: basti pensare a George Bush, considerato otto anni fa un peso morto dal suo stesso partito, o al Bill Clinton dello scandalo Lewinsky. La caduta del primo presidente nero della storia americana si sta rivelando particolarmente rovinosa perché la sua figura aveva suscitato speranze eccessive e perché lui stesso aveva fatto promesse impossibili da mantenere, ma anche per altri motivi: Obama è arrivato alla Casa Bianca nel bel mezzo di una crisi epocale che sta cambiando i connotati dei sistemi economici e del mercato del lavoro. Mentre un mondo sempre più frammentato rende problematico l’esercizio della leadership Usa. Il presidente ci ha messo, poi, del suo col suo distacco, gli atteggiamenti cerebrali, la mancanza di una visione strategica coerente, l’incapacità di disinnescare l’ostruzionismo repubblicano che ha finito per paralizzare il Congresso. Cambierà qualcosa dopo il voto? Probabilmente no, indipendentemente dall’esito delle elezioni. Se i repubblicani conquisteranno anche il Senato, Obama avrà ancor più le mani 13 legate. Magari vedremo un’inversione dei ruoli, coi democratici a fare filibustering (ostruzionismo) contro leggi sgradite votate da un Congresso conservatore. Ma c’è anche qualche ottimista che pensa che, se avranno il pieno controllo di Camera e Senato,i repubblicani si comporteranno in modo più responsabile, non potendo più giocare a fare solo l’opposizione. Scontata la vittoria alla Camera dove la destra ha già oggi una maggioranza di varie decine di seggi, al Senato i repubblicani la spunteranno se riusciranno a conquistare almeno quattro seggi in più (oggi i democratici ne controllano 53 su 100). Sembrava un’impresa impossibile, visto che questa assemblea verrà rinnovata solo per un terzo, ma nelle ultime settimane il crescente malumore degli elettori verso il governo Obama, complici le incerte risposte al terrorismo dell’Isis e la paura di Ebola, sembra aver prodotto nuovi smottamenti negli Stati dell’interno. I sondaggi vanno presi con prudenza, ma ora anche «Crystal Ball», il sito di previsioni elettorali del politologo Larry Sabato, un personaggio di certo non ostile ai democratici, invita a scommettere su una vittoria repubblicana anche al Senato. Il moltiplicarsi delle previsioni a favore dei conservatori dipendono dal fatto che mentre dei 5 Stati «in bilico» 3 sono oggi in mano ai democratici (Iowa, New Hampshire e North Carolina) mentre solo 2 sono dei conservatori (Georgia e Kansas), i sondaggi danno i repubblicani in netto vantaggio in cinque Stati oggi rappresentati da senatori democratici: Arkansas, Louisiana, Montana, South Dakota e West Virginia. del 31/10/14, pag. 12 I MUSCOLI DI MOSCA “Europa preparati, è iniziata la nuova guerra fredda” L’ESPERTO RUSSO: “PUTIN ALIMENTA LA MINACCIA PER TROVARE COMPROMESSI CON LA NATO” di Giuseppe Agliastro Mosca La Russia flette i muscoli e gioca la carta della minaccia militare per spingere fino al limite estremo le trattative con gli avversari occidentali. È così che l’esperto politico-militare Pavel Felghengauer interpreta l'incursione di ben 26 jet da guerra attorno allo spazio aereo europeo che tra martedì e mercoledì ha allarmato la Nato costringendo al decollo i caccia di cinque Paesi dell'Alleanza atlantica. Gli aerei di Mosca questa volta non hanno violato alcun confine - al contrario di quanto avvenuto in altri episodi recenti - ma hanno lanciato un chiaro avvertimento a Europa e Stati Uniti proprio nel bel mezzo della crisi ucraina e a pochi giorni dalle elezioni del 2 novembre nelle repubbliche separatiste del sud-est: la Russia ha già fatto sapere che le riconoscerà attirandosi le ire di Kiev e dei suoi alleati occidentali. Sull'edizione online del Moskovskij Komsomolets , Felghengauer spiega che il Cremlino sta usando la tattica del brinkmanship, tipica della guerra fredda, che consiste “nell'alimentare apposta la minaccia non solo di una guerra convenzionale ma anche di una guerra nucleare, che, essendo inammissibile per entrambe le parti, induce l'avversario a optare per una decisione di compromesso o a elargire qualche concessione”. Secondo l'esperto russo, questo tipo di 14 minaccia adesso sorprende, ma “episodi del genere saranno sempre più frequenti” perché “è iniziata di nuovo la guerra fredda e questa tattica sarà nuovamente ripresa”. I fatti per ora sembrano dare ragione a Felghengauer: due giorni fa un sommergibile nucleare russo ha testato il lancio di un missile balistico nel Mare di Barents, ieri le forze armate lettoni hanno annunciato che i caccia della Nato nei paesi Baltici hanno intercettato altri due aerei militari russi, mentre l'Alleanza atlantica denuncia che dall'inizio dell'anno i suoi jet si sono dovuti alzare in volo per monitorare l'attività di più di cento apparecchi di Mosca a ridosso dello spazio aereo occidentale, una cifra ben tre volte superiore a quella del 2013. “La Nato è forte” e “questa forza è la nostra risposta a queste incursioni”, assicura il numero uno dell'Alleanza Jens Stoltenberg in visita in Grecia, mentre da Berlino la cancelliera Angela Merkel getta acqua sul fuoco e dice di “non essere eccessivamente preoccupata” dallo show muscolare di Mosca. del 31/10/14, pag. 6 Tensione e scontri, voli russi, manovre Nato in Polonia Fabrizio Poggi Mentre continua il balletto di conferme (russe) e smentite (francesi) sulla consegna, alla data prevista del 14 novembre, della portaelicotteri classe “Mistral” alla marina russa, non accenna a diminuire l’allerta Nato per il traffico aereo militare russo «ai confini dell’Alleanza atlantica». Il vascello plurifunzionale “Vladivostok” verrà consegnato nel termineprevisto, aveva dichiarato alla Tass un funzionario russo presente al salone francese “Euronaval 2014”. Ma il Ministro francese delle finanze Michel Sapin ha detto invece ieri che non ci sono ancora le condizioni per la consegna del “Vladivostok”, rispondendo così indirettamente al vice premier russo Dmitrij Rogozin, che alla vigilia l’aveva data per certa al 14 novembre. A Washington considerano «saggia» la decisione francese di rinviare la consegna, finché non sarà osservato il cessate il fuoco nel Donbass. La portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki, si è però dimenticata di notare come, proprio in questi giorni, Kiev abbia ritirato la firma dall’accordo sulla linea di separazione tra le parti in conflitto, lasciandosi così aperto il terreno per un’offensiva che in molti, nel Donbass, giudicano molto prossima. Intanto, nel sudest dell’Ucraina, se i civili di Donetsk e Lugansk rimangono vittime delle artiglierie governative, le cose non vanno meglio per i militari ucraini, costretti in molti casi, accerchiati dalle milizie e abbandonati dai comandi, ad adattarsi a condizioni al limite della sopravvivenza. Frequenti i casi in cui i militari lasciano le proprie armi ai miliziani, in cambio di cibo e attrezzature da campo; ieri l’altro, Rossija 24 ha mostrato come, nell’area di Lugansk, le milizie avessero aperto un corridoio attraverso cui 150 militari hanno potuto far ritorno alle proprie linee, dopo circa un mese di accerchiamento. Previsto un nuovo scambio di prigionieri sulla base “30 per 30”. Ma Stati uniti ed Unione europea non appaiono intenzionate a intervenire su Kiev per il rispetto dei diritti umani nel Donbass, come richiesto dalle Repubbliche popolari e anzi inaspriscono le accuse a Mosca di fomentare il conflitto in Ucraina, alle porte dell’Alleanza atlantica. Accuse ribadite anche ieri per presunti voli di cacciabombardieri di Mosca sulle aree del Baltico, del mar del Nord e del mar Nero: tutte zone di pertinenza Nato, in cui questa è libera di far seguire, quasi senza interruzione, alle manovre in Polonia, quelle in Lituania. 15 Qui, dal 2 al 14 novembre, 2.500 soldati di 8 paesi Nato svolgeranno le manovre “Spada di ferro 2014”. Secondo il comandante in capo delle forze armate lituane Jonas Vitautas Zhukas, «la Nato ha allargato le manovre a causa degli avvenimenti in Ucraina». E i voli di Mosca sono semplicemente “una provocazione” al pacifico allargamento della Nato nei paesi baltici (con relativo dislocamento di armamento pesante, carri armati compresi), la creazione di 5 nuove basi in Europa orientale e la messa a punto di forze di pronto intervento. Non dovrebbe stupire che ieri il Ministero della difesa russo evidenziasse la riuscita del lancio del missile balistico intercontinentale “Bulava” dal sommergibile “Jurij Dolgorukij”: «oggi sul territorio russo è garantita una sicura difesa da ogni direzione». In questa situazione, unica nota apparentemente positiva nella giornata di ieri, il ritorno della delegazione russa a Bruxelles per la ripresa dei negoziati a tre sulla fornitura del gas russo all’Ucraina: la Ue garantirebbe Kiev per il pagamento di 378 dollari ogni mille m3 per il 4° trimestre 2014 e 365 dollari nel 1° trimestre 2015. del 31/10/14, pag. 14 Gas a Kiev, accordo Ue-Russia Sbloccate le forniture per l’inverno, Bruxelles si fa garante per i debiti pregressi Anna Zafesova A 24 ore dalla scadenza del suo mandato, la Commissione Europea uscente è riuscita a chiudere l’accordo sulle forniture di gas russo all’Ucraina, valido fino ad aprile 2015, scongiurando così il rischio di far battere i denti ai suoi 45 milioni di abitanti. Mentre le temperature in Ucraina stavano scendendo verso lo zero, tra Bruxelles, Mosca e Kiev si trattava febbrilmente. Mercoledì il negoziato è andato avanti per 12 ore, fino alle 4 del mattino, per riprendere poche ore dopo e concludersi verso le dieci di sera, quando l’accordo è stato firmato sotto l’occhio delle telecamere dal presidente uscente della Commissione José Manuel Barroso, dal commissario per l’Energia Gunther Oettinger, da Alexandr Novak, ministro dell’Energia russo, e dal suo collega ucraino Yuri Prodan. Nelle ore precedenti Oettinger aveva stimato le probabilità di giungere a un accordo in «50 su 50». Il problema fondamentale era stato definito da Vladimir Putin, durante i suoi negoziati con i leader europei a Milano due settimane prima, come «un problema di cassa». Mosca, che ha chiuso i rubinetti a Kiev dal giugno scorso per un debito di 4,5 miliardi di dollari, non vuole più fornire nemmeno un metro cubo di metano senza prepagamento. Le casse di Kiev sono state svuotate dalla guerra e dalla crisi economica, ma ieri il premier ucraino Arseny Yatseniuk ha comunicato che l’Ue ha accettato di farsi garante del pagamento con il Cremlino. Ma Bruxelles si fa garante anche con Kiev contro eventuali cambiamenti di prezzo imposti da Mosca: Gazprom non potrà più giocare sulle condizioni del contratto, che fissa il prezzo a 378 dollari per 1000 metri cubi per il 2014, e 365 dollari nel 2015. In attesa del contenzioso nell’arbitrato internazionale sul prezzo dei contratti precedenti, Kiev ha accantonato 3,1 miliardi con i quali rimborsare il debito a tranche entro la fine dell’anno, mentre per pagare le forniture Yatseniuk dovrà mettere mano agli aiuti ricevuti dall’Ue e dal Fmi. L’Ucraina ha chiesto altri due miliardi di euro di assistenza a Bruxelles, e la cancelliera Angela Merkel ha fatto capire che l’Europa deve aiutare Kiev. Non solo per l’impegno politico a mantenere l’orientamento filo-europeo dell’Ucraina, ma anche perché metà del gas russo consumato in Europa arriva dai gasdotti che passano nel Paese che 16 ha sfidato Mosca. Senza l’accordo gli europei o avrebbero dovuto lasciar congelare l’Ucraina, o permetterle di attingere dal metano destinato a loro. del 31/10/14, pag. 41 La gestione di aree urbane “appaltata” ai commercianti Con un rischio: le città a due velocità La Spagna vuole quartieri premium con più servizi ma privatizzati ALESSANDRO OPPES MADRID GLI amanti del genere li chiamano quartieri vip, zone premium, aree a cinque stelle. Ma il solo fatto che la destra di governo, il Partito Popolare di Rajoy, abbia proposto di importare anche in Spagna un modello di gestione pubblico-privata dei centri cittadini, conosciuto in altri paesi con la sigla Bid ( Business improvement districts ) ha subito provocato un putiferio politico e reazioni contrastanti nella società. Perché il timore di fondo è che si possano creare città “a due velocità”, con barrios di prima categoria e altri condannati a un ruolo più marginale, forse persino a un progressivo degrado. L’idea, ad altre latitudini, non è nuova. Il primo esperimento, datato 1969, venne fatto a Toronto. Poi i Bid hanno preso piede nelle grandi metropoli Usa, proliferando in seguito in una ventina di paesi, dal Regno Unito all’Olanda, dalla Germania alla Nuova Zelanda. Con risultati a volte soddisfacenti, ma non senza polemiche. Tutto dipende, in realtà, dai limiti più o meno ampi imposti alla gestione privata dello spazio pubblico. Nel modello spagnolo, che si profila simile a quelli britannico e americano, si prevede che i commercianti di una determinata zona versino un’imposta supplementare nelle casse dell’amministrazione comunale, per riceverne a cambio servizi extra, destinati a migliorare l’aspetto, la pulizia, la sicurezza, l’arredo urbano del quartiere. Il quale, si suppone, potrà così attrarre più visitatori, nuovi possibili clienti per i negozi che vedranno compensato lo sforzo economico supplementare con un incremento dell’attività. Tutto grazie a un radicale make-up: migliore manutenzione e pulizia, iniziative di marketing, informazione turistica, eventi. Per ora, sono stati avviati progetti per la creazione di Bid a Madrid e Barcellona. L’iniziativa parte in genere dei commercianti, che propongono un business plan e organizzano un referendum tra loro. Ma il “sì” definitivo alla costituzione dell’ente spetta all’amministrazione locale, i cui rappresentanti fanno parte del consiglio di gestione. Il Comune riscuote la tassa supplementare e fornisce i servizi di prima qualità che permettono la realizzazione del piano. Una condivisione di competenze, che si traduce in una gestione parzialmente privata dello spazio pubblico. Con vantaggi indiscutibili ma anche alcune controindicazioni: Izquierda Unida ricorda che le imposte dovrebbero servire «per correggere le disuguaglianze, non per aumentarle ». In realtà, se è vero che la fornitura di risorse supplementari a beneficio di un barrio non significa la sottrazione di fondi destinati agli altri, la sperequazione provoca squilibri pericolosi. A cominciare dalla possibile “gentrificazione”: la riqualificazione rivaluta anche il valore degli immobili, determina l’impennata degli affitti e si conclude con l’inevitabile espulsione di una parte degli abitanti e la chiusura di alcuni negozi. Da qui la nascita di quartieri di prima e seconda categoria. Con un’aggravante. Dove esiste un Bid, la vigilanza è estrema e la gestione privata del territorio può favorire abusi. L’esperienza americana insegna, in particolare quella di New York. A Times Square sono arrivati a proibire manifestazioni e 17 proteste, in quanto sconvenienti per gli obiettivi commerciali del Bid. A Midtown Manhattan hanno espulso gli artisti di strada e i venditori ambulanti perché creavano un presunto danno d’immagine. Uno dei punti più controversi è la sicurezza. Anche questa potrebbe essere in parte privatizzata, con conseguenze prevedibili come l’espulsione di mendicanti, prostitute e ambulanti. 18 INTERNI del 31/10/14, pag. 8 I costi della politica Il finanziamento statale è sceso dai 290 milioni del 2010 ai 40 previsti quest’anno Raddoppiano i contributi dei parlamentari, ma non basta. Il due per mille non decolla “Partiti spa” sull’orlo del fallimento senza fondi pubblici buco di 80 milioni ETTORE LIVINI MILANO . Le salamelle della Festa Democratica (lunga vita a loro) e i maxi-assegni di Silvio Berlusconi a Forza Italia & C. non bastano più. Il taglio del finanziamento pubblico ai partiti – sceso dai 290 milioni del 2010 ai 40 previsti quest’anno – ha colto la politica italiana in contropiede. E l’ex-Eldorado della “Partiti Spa” è sull’orlo del crac. Carta canta: i bilanci 2013 delle maggiori formazioni tricolori si sono chiusi in rosso per 82 milioni, 70 in più di due anni fa, malgrado la rocambolesca spending review avviata da tutti in zona Cesarini. Il raddoppio a 35 milioni della raccolta di contributi individuali – buona parte dei quali sborsati di tasca loro dai Parlamentari – è servito appena a limitare i danni: le donazioni con il 2 per mille non decollano, le campagne di tesseramento – complice la crisi – non tirano più, lo Stato chiuderà del tutto i rubinetti nel 2017. E la politica italiana si prepara a un 2014 ancora più nero dove si è già capito che ci sarà ancora da tirare (e molto) la cinghia. Il piatto piange per tutti. Il taglio del tetto ai rimborsi spese individuali da 670mila a 170mila euro l’anno (scenderà a 80mila nel 2014) imposto dal Pd a senatori e deputati non ha impedito ai conti di Largo del Nazareno di chiudere in rosso per 10,8 milioni. Il Tesoriere Francesco Bonifazi, fedelissimo di Matteo Renzi, ha sforbiciato le spese per il personale (20%), ridotto dell’80% quelle informatiche e sta provando a disdire in anticipo gli affitti di via del Tritone e via Tomacelli. Gli onorevoli democratici hanno versato nelle casse del partito 5,48 milioni, molto più dell’anno scorso (21mila euro Pierluigi Bersani, 18mila Rosy Bindi, 14.250 Maria Elena Boschi). L’orizzonte però resta buio visto che dallo Stato arriveranno quest’anno solo 12 milioni (erano 57 tre anni fa) e far quadrare i conti sarà un’impresa. Le cose vanno ancora peggio nel centro-destra, totalmente Berlusconi-dipendente, salvo il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano che, nato a fine 2013, non ha presentato rendiconto. Forza Italia (in rosso per 25,5 milioni) è stata tenuta a galla da una «donazione liberale» di 15 milioni dell’ex-Cavaliere, che garantisce con fideiussioni personali gli 83 milioni di disavanzo accumulati dal partito. Tutte le altre formazioni dell’area dipendano a filo doppio da San Lorenzo in Lucina. Fi ha donato 500mila euro al Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo, 750mila a Fratelli d’Italia e 1,2 milioni al Movimento grande sud di Gianfranco Miccichè. Il peggio, tra l’altro, rischia di dover ancora arrivare. Il bilancio del Popolo della Libertà (cui Forza Italia ha “condonato” un credito di 14 milioni) si è chiuso in passivo per 15,5 milioni e dice papale papale che sarà «impossibile far fronte» ad altri 13,9 milioni di debiti con Fi, malgrado il partito abbia chiuso 76 sedi locali, tagliato 70 posti di lavoro e ridotto le spese per 5,6 milioni. La rottamazione dell’ex Pdl, ormai politicamente una scatola vuota, rischia 19 di essere complessa come quella di Rifondazione Comunista e Alleanza Nazionale, finite in liquidazione, sparite dall’arena politica ma capaci di macinare milioni di perdite anche post-mortem. Stessa sorte toccata all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, fuori dal Parlamento, in perdita per 9 milioni («servirà una profonda spending review», ammette la relazione di bilancio) e travolta pure dalla richiesta di parcelle arretrate per 2,5 milioni dello Studio legale di Sergio Scicchitano, ex consigliere giuridico del magistrato. In acque agitate, finanziariamente parlando, naviga pure la Lega di Matteo Salvini. Il popolo padano, forse a causa degli scandali di Trota & C., ha perso un po’ della sua passione. Le entrate da tesseramento si sono dimezzate, così come quelle delle feste di partito. I tagli alle spese (-20%) sono stati mangiati via dai 3 milioni di spese legali per il caso Belsito. E la voragine nei conti si è allargata a 25 milioni in due anni. Un po’ meglio va alla meteora Scelta Civica che grazie ad alcune robuste donazioni (100mila euro dall’ex manager Parmalat Enrico Bondi, 60mila da Alberto Bombassei) e a 2,4 milioni di rimborsi elettorali è riuscita a consolarsi dei 2.234 euro incassati con il tesseramento chiudendo i conti in sostanziale pareggio. Una storia a parte sono i conti del Movimento5Stelle. Grillo & C. hanno rinunciato a 42 milioni di finanziamento pubblico e i parlamentari pentastellati hanno versato oltre 7 milioni al Fondo garanzia per le Pmi rinunciando a parte dello stipendio. I gruppi di Camera e Senato hanno percepito 6,2 milioni come contributo omnicomprensivo del Parlamento e le pure spese di funzionamento della rappresentanza parlamentare hanno regalato un bilancio in attivo per 2,7 milioni. Manca però all’appello (a parte le auto-certificazioni del Blog dell’ex- comico) una reale fotografia certificata di tutte gli altri costi elettorali e per l’attività fuori dal Parlamento. Ma il fundraising all’americana tra elettori e sostenitori dei 5Stelle – nel profondo rosso di una politica italiana orfana di 250 milioni di aiuti pubblici – è forse davvero l’unica strada per riportare un po’ d’ossigeno alla disastrata ditta Partiti Spa. del 31/10/14, pag. 9 Berlusconi frena i suoi e chiama Renzi «Avanti con il patto del Nazareno» L’ex premier: sì al premio di lista ma soglia di sbarramento più alta. Il disgelo con Verdini ROMA Se mai c’era stato un ordine, è comunque arrivato il contrordine. E Silvio Berlusconi lo fa sapere prima ai diretti interessati — con una telefonata rassicurante a Renzi, arrivata mercoledì pomeriggio — poi ai suoi, i fedelissimi e i coordinatori regionali convocati ieri pomeriggio. «Non c’è nessun passo indietro, il patto del Nazareno resta valido e andremo avanti, anche sulla legge elettorale», assicura il Cavaliere. Che al premier (che dovrebbe incontrare la prossima settimana) ha voluto spiegare di persona come si possa ragionare di legge elettorale a tutto tondo. Anche di premio di maggioranza alla lista, magari se in cambio si lavorerà per un innalzamento delle soglie. Riprende quindi a pieno ritmo la trattativa su riforme e dintorni, e riprende a tessere la tela — che non aveva in realtà mai messo da parte — quel Denis Verdini finito negli ultimi giorni nel calderone delle indiscrezioni e delle lotte interne a Forza Italia che lo volevano prossimo all’abbandono, e in disgrazia presso Berlusconi. «Non credete alle falsità che si scrivono e si dicono, sono cose indegne. A Verdini mi lega un rapporto di amicizia, di affetto, di stima, non esiste il minimo dubbio su questo», ha proclamato il leader azzurro 20 davanti ai coordinatori e allo stesso Verdini, al quale si è avvicinato scherzando: «Scusa Denis se sto parlando male di te...». Si chiude quindi la querelle e si ritorna sul terreno finora mai abbandonato, quello dello stretto rapporto con Renzi, almeno per quanto riguarda il dialogo istituzionale. D’altronde, quale sia lo stato degli atti lo ha detto molto chiaramente Berlusconi aprendo la riunione: «C’è chi dice che dobbiamo fare questo e quello, la guerra a Renzi, la rivolta. Ma i numeri non mentono: al Senato la nostra pattuglia rappresenta il 20% del totale dei senatori, alla Camera il 10%...». E insomma, bisogna fare di necessità virtù senza troppe illusioni, dedicandosi alla rivitalizzazione del partito ma lasciando perdere i tentativi di mettere in difficoltà il premier in parlamento. Iniziative, ha assicurato Berlusconi ai coordinatori, ce ne saranno, a partire da quella per l’abbattimento delle tasse sulla casa che sarà capillare sul territorio e dovrebbe scandire la campagna per il tesseramento e le assemblee comunali e provinciali che in questo mese si moltiplicheranno. I congressi insomma dovranno tenersi «con fiducia», perché «io non ho nessuna intenzione di mollare, né tantomeno voglia di rottamare nessuno». Per il Cavaliere, che è tornato a chiedere che «tutti contribuiscano alle casse del partito pagando le loro quote, non ci sono più soldi in cassa», il momento del Paese è difficile: «Sono anche preoccupato per la tensione sociale che si è vista in questi giorni. Ma vi assicuro che torneremo a vincere, dal 16% ripartiremo, è il momento di chi ci crede». Tra chi crede poco che la strada imboccata sia quella ideale per vincere resta Raffaele Fitto, che mercoledì sera ha di nuovo riunito la sua pattuglia di 33 parlamentari e a breve dovrebbe annunciare un’iniziativa pubblica che vedrà uscire allo scoperto la sua componente. Che stavolta, a differenza del passato, guarda con interesse ad un patto con i centristi di Ncd e Udc, che Berlusconi continua ad escludere con durezza. Per Fitto invece, con le Regionali di primavera alle porte, se si vuole avere qualche chance in regioni come Puglia e Campania, l’unica speranza è quella di allargare la coalizione, non di isolarsi. Paola Di Caro del 31/10/14, pag. 13 “Polizia-sindacati, patto contro le violenze” Relazione di Alfano alle Camere sugli operai della Ast colpiti dalle manganellate. “Solidarietà a loro e agli agenti” Proposto un tavolo comune per gestire le prossime manifestazioni di piazza. L’apprezzamento di Landini ALBERTO CUSTODERO ROMA . Una «governance» Viminale-sindacati per gestire la piazza. E «solidarietà ai poliziotti e agli operai». Ma nessun agente sarà punito per le manganellate agli operai dell’Ast di Terni durante il corteo di mercoledì. E nessun manifestante, ha precisato il ministro dell’Interno Angelino Alfano, è stato denunciato. Il titolare del Viminale, che ieri ha riferito al Senato e alla Camera, invita «ciascuna parte politica a fare uno sforzo di coesione evitando di cavalcare il disagio occupazionale che può dare frutti immediati, ma avvelenati». Alfano invita a «evitare che il difficile momento di crisi possa rappresentare la scintilla di conflitti che potrebbero innescare pericolose derive». Per scongiurare questo rischio, ha proposto l’istituzione di «un tavolo permanente al Viminale che consenta una 21 migliore governance per le manifestazioni». Proposta accolta favorevolmente dalla leader Cgil Susanna Camusso, mentre Maurizio Landini, segretario Fiom, sottolinea che la solidarietà di Alfano agli operai è «una novità». Il ministro ha precisato che «è lontana anni luce da noi l’idea di manganellare gli operai. Anzi, l’input è l’esatto opposto. Così come penso sia lontana dagli operai la volontà di scaricare tensioni occupazionali sulla polizia ». Perché, allora, quelle cariche così violente? «Una voce raccolta da alcuni funzionari di polizia — ha spiegato Alfano — indicava che il corteo per l’Ast voleva dirigersi verso la Stazione Termini». Il chiarimento di Alfano non è piaciuto a molte forze politiche, a cominciare dal Pd. «Sarebbe bastato chiedere scusa», twitta Dario Ginefra. «In un Paese democratico — ha tuonato Emanuele Fiano — operai esasperati per la perdita del lavoro non devono essere manganellati». Con un’insolita alleanza, il M5S e Sel hanno annunciato una mozione di sfiducia ad Alfano. L’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, riferendosi al governo e al premier, ha ammonito che «chi ha responsabilità, non deve fomentare divisioni». Il capogruppo di Fi Renato Brunetta, replicando agli ingiuriosi attacchi dei 5Stelle ad Alfano, ha detto di «vergognarsi per il fascismo implicito che è nel dna dei grillini, per la loro ignoranza, per l’atteggiamento filomafioso del loro capo». Amareggiati, i poliziotti. «Purtroppo — commenta Lorena La Spina, segretario dei Funzionari — la polizia troppo spesso finisce col rappresentare un “terminale” sul quale si scarica la rabbia di chi scende in piazza, a fronte di criticità e difetti di mediazione che non le sono ad alcun titolo imputabili». del 31/10/14, pag. 3 La grande paura dell’autogol. E il Pd frena la polemica Daniela Preziosi Democrack. Il bersaniano Zoggia dà del «cattivo maestro» al Davide Serra della Leopolda. Dopo il caso Picierno, fra i dem le «micce» accese sono ancora tante Abbassare i toni, svelenire il clima. Da Palazzo Chigi il messaggio è chiaro dalla mattina, quando Matteo Renzi si presenta al fianco della ministra Guidi all’incontro con la delegazione delle acciaierie di Terni. È il giorno dopo le cariche agli operai. Gli spin del premier si impegnano in una operazione simpatia: twittano le foto di una stretta di mano fra Landini e il presidente del consiglio; poi quelle del leader Fiom seduto al fianco del sottosegretario Delrio alla conferenza stampa. Come dire: dopo tante distanze e incomprensioni (persino al telefono: subito dopo le botte era uscita la notizia di una telefonata fra premier e segretario, poi smentita dal secondo) tra i due la pace è fatta. In effetti anche Landini, dopo lo sfogo drammatico rilasciato davanti alle telecamere al momento della carica, stavolta sorveglia i toni: alla domanda se i metalmeccanici chiedono le dimissioni del ministro degli interni Alfano, a sorpresa il leader Fiom risponde: no, la richiesta è l’impegno a che episodi così non si ripetano più. E si capisce: la vertenza dell’Ast è dura, il governo ha promesso di fare la sua parte per salvare i posti di lavoro, al leader sindacale l’ultima cosa che serve è rinfocolare le polemiche. Alle camere, nel pomeriggio, un Alfano in arrampicata sugli specchi renderà merito a Landini che in piazza «ha contribuito a portare la calma tra i manifestanti». 22 In quegli stessi minuti però Susanna Camusso su Radio 1 rovina tutto il lavoro di ricucitura: «Il presidente del consiglio dovrebbe provare ad abbassare i manganelli dell’ordine pubblico», dice. Stavolta dal Pd quasi non esce fiato. Il giorno dopo la rovinosa uscita di Pina Picierno sulle presunte «false tessere» del congresso Cgil, l’imperativo categorico è, appunto, darsi tutti una calmata. Le «micce» — copyright Bersani — su cui il Pd può esplodere, coinvolgendo il governo, si sprecano: il jobs act che ieri è iniziato il suo iter in commissione alla camera; la legge di stabilità, che procede in parallelo; la scissione che non c’è ma riempie ugualmente i titoli dei giornali; e da ultimo il pasticciaccio degli operai menati. Sel e 5 stelle hanno annunciato una mozione di sfiducia individuale contro Alfano. Il governo non teme la prova dei numeri, quando sarà. Ma la figuraccia sì: ci vuole la faccia del presidente Zanda al senato, e i distinguo di Emanuele Fiano alla camera, per sorvolare sulle responsabilità del ministro sulla «applicazione delle direttive e delle regole d’ingaggio» delle forze dell’ordine in piazza. Su Alfano, e cioè su tutto il governo, il Pd oggi stende uno scudo protettivo. Ma l’imbarazzo resta: la blindatura del ministro dell’interno è un clamoroso déjà vu. Solo un anno fa furono i renziani a chiederne le dimissioni dopo il caso Shalabayeva. Il premier all’epoca era Enrico Letta. Insomma, sono tante le pentole in ebollizione su cui ora il governo deve mettere il coperchio prima che le cose vadano troppo avanti. Per esempio, dalle botte in piazza alla responsabilità del premier il passo è breve: lo fa il bersaniano Davide Zoggia dalle colonne del Corriere della sera: parla di «certe coincidenze» fra le parole del finanziere Davide Serra (quello che vuole abolire lo sciopero per i dipendenti pubblici) e i poliziotti che tre giorni dopo «abbassano la visiera del caso e caricano». Tradotto: Renzi è il cattivo maestro dei poliziotti violenti. La minoranza Pd in realtà non ha nessuna intenzione di mettere in difficoltà il governo, ma neanche di facilitargli l’uscita dai guai. In serata arriva invece un segnale di distensione dalla Cgil. «È stato fatto quel gesto che da ieri chiedevamo: scusarsi con lavoratori ingiustamente malmenati», dice Camusso. È un generoso gesto di buona volontà. Perché Alfano ha parlato di solidarietà con «operai e poliziotti feriti». Ma le scuse non le ha mai fatte. del 31/10/14, pag. 10 De Magistris torna sindaco legge Severino alla Consulta Fi: “Reintegrate Berlusconi” Il Tar dà ragione al primo cittadino e chiede alla Corte un parere sulla norma che fece decadere l’ex premier NAPOLI . - Non più in strada, ma di nuovo a Palazzo San Giacomo. Torna in Comune, dopo 29 giorni di sospensione, il sindaco di Napoli Luigi de Magistris: condannato in primo grado a 15 mesi per abuso d’ufficio e quindi sospeso per effetto della legge Severino. A reintegrarlo, è l’ordinanza del Tar Campania, presidente Cesare Mastrocola, giudici (relatore) Paolo Corciulo e (a latere) Carlo dell’Olio, con un verdetto che cancella «provvisoriamente» l’efficacia della sospensione, «accoglie la domanda cautelare» e ordina quindi «l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale». Motivo: il collegio giudica «non manifestamente infondata» la questione di «legittimità costituzionale relativamente alla retroattività» della sanzione. La stessa che ha 23 determinato, ma dopo una condanna definitiva, la decadenza di Silvio Berlusconi dalla carica di senatore. Decisione che arroventa il clima politico su opposte interpretazioni e asseriti profili di incostituzionalità della normativa. Con la squadra dei parlamentari di Forza Italia che invoca: ora si reintegri anche Berlusconi. Gelmini: «È confermata la mostruosità giuridica della legge Severino». Gasparri: «Per de Magistris si ricorre ai diritti, per il Cavaliere agli abusi». Giovanardi: «Le leggi in Italia non valgono per le toghe». Un colpo di scena che, forse, poteva già leggersi in quelle parole affidate otto giorni fa ai cronisti dal presidente Mastrocola: «Il quesito merita una sentenza motivata. Credo sia la scelta migliore per un collegio che ha il coraggio di decidere». Ieri è sempre lui a dire: «È stata una fatica enorme». La vittoria dei legali di de Magistris, gli avvocati Giuseppe Russo e Stefano Montone, si consuma in poche righe in fondo alle 35 pagine. «Ritiene il collegio - si legge - che l’applicazione retroattiva di una norma sanzionatoria, anche di natura non penale, urta con la pienezza e il regime rafforzato di diritti costituzionalmente garantiti». Motivazioni che provocano stupore di altro segno. Il presidente della giunta delle immunità parlamentari del Senato, Dario Stefàno, commenta: «È a dir poco sorprendente» che il Tar «abbia riproposto questioni che in sostanza la Corte Costituzionale ha già affrontato 20 anni fa». ( co. sa.) 24 LEGALITA’DEMOCRATICA del 31/10/14, pag. 5 San Ferdinando: il governo ha sciolto il Comune per mafia “ABBIAMO DECISO di sciogliere il Comune di San Ferdinando”. Lo ha annunciato il ministro per gli Affari regionali Carmela Lanzetta che poco dopo il Consiglio dei ministri di ieri ha preso parte, a Palazzo Zuccari, a un convegno sulla corruzione. Il 14 ottobre scorso, il sindaco del Comune in provincia di Reggio Calabria , Domenico Madafferi, era stato fermato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il prefetto Claudio Sammartino, ha nominato commissario il viceprefetto Cosima Di Stani. Oltre a Madafferi sono stati fermati, con l’accusa di associazione mafiosa, il suo vice Santo Celi, il consigliere Giovanni Pantano e 23 tra presunti boss e affiliati. del 31/10/14, pag. 5 Greco: “Con queste leggi la corruzione vince” IL PROCURATORE DI MILANO ATTACCA SULLA RIFORMA ANNUNCIATA DA ORLANDO: “QUELLE NORME NON RISOLVONO I PROBLEMI. SERVE UNA RIVOLUZIONE CULTURALE” di Sandra Amurri La domanda del procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, coordinatore del pool reati finanziari, ai partecipanti del Convegno di Res Magnae “Emergenza corruzione: analisi e prospettive future”, è: “Si è mai fatto qualcosa di serio per combattere la corruzione?”. La risposta è: no. “Non si combatte la corruzione con l’attuale legislazione. Non esiste una vera legge sul riciclaggio, una vergogna” spiega. RICICLAGGIO che “è cambiato nel corso degli anni. Prima era solo l’ingresso di capitali illegali nell’economia pulita. Ora accade che la sottrazione degli utili, denaro pulito, finisce nei conti off- shore ”. Ma “in quanto a norme in Italia”, parafrasando un noto allenatore di calcio, “siamo a zero tituli. Non esiste una legge sul riciclaggio che non si combatte di certo con l’attuale legislazione, compresa la norma approvata dal Parlamento”. Greco punta il dito sulla prescrizione che dai 15 anni degli anni ’90 è stata via via ridotta. “Siamo stati gli inventori dello scudo fiscale, ne abbiamo avuti tre con un totale di sbiancamento anonimo per quasi 500 miliardi di euro”. Evidenzia “una sensibilità spiccata a questi problemi degli elettori che pagano le tasse, mentre gli eletti evidentemente non ce l’hanno”. FALSO IN BILANCIO, “il mio pallino, anche qui la situazione è ridicola”. Occorre “raddoppiare le pene per i reati contro la pubblica amministrazione. Parificare la corruzione pubblica a quella privata. Guardare con maggiore attenzione ai centri di spesa come le Regioni. Ai grandi gruppi dove gli ad e i presidenti vengono nominati dalla politica”. 25 Premette di non voler fare polemica con il ministro della Giustizia Orlando, però tuona: “Le norme non risolvono i problemi, serve una rivoluzione culturale, tuttavia sono necessarie. Ho prestato molta attenzione ai decreti delegati sugli abusi fiscali che prevede sei anni di pena, risibile per uno che ha rubato un miliardo e seicento milioni”. Altro scandalo, le Fondazioni che ci vedono totalmente disarmati. Come si controllano? Chi lo deve fare? Vi rendete conto che ci sono fondazioni che gestiscono milioni e non è prevista nemmeno la revisione contabile?”. Raffaele Cantone, Presidente di Autorità nazionale anti corruzione, invia un video messaggio in cui chiede al ministro per gli Affari Regionali, Lanzetta, “perché non viene esteso lo scioglimento per mafia dei consigli comunali anche a quelli regionali?” Lei risponde: “Condi - vido, dobbiamo lavorarci”. Cantone si dice d’accordo con il collega Greco ed esprime fiducia nella collaborazione di Confindustria che deve allontanare i corruttori e uscire “dalla logica della punizione per passare a quella del premio, ora c’è chi paga un danno per essersi comportato bene”. Chiede attività sinergica, una prevenzione e una repressione che funzionino. “Centrale è il tema culturale affinchè il corruttore non sia più visto come piu intelligente degli altri”. MENTRE la direttrice delle Agenzie delle entrate Rossella Orlandi propone una legislazione speciale simile a quella americana con agenti infiltrati, rilevatori della frode fiscale: “Scovare la corruzione è difficile perché c’è un patto fra corrotti e corruttori. Falcone diceva segui i soldi, un grande insegnamento. Basta con l’ipocrisia sul segreto bancario, chiedo maggiore trasparenza e l’accesso agli archivi finanziari”. Promotrice dell’iniziativa, la senatrice civatiana Lucrezia Ricchiuti che a microfoni spenti si sfoga: “La corruzione mina il patto di fiducia tra cittadini e istituzioni... ma certo che se facciamo le riforme con Verdini...”, sospira. E sulla riforma Orlando promette battaglia. 26 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 31/10/14, pag. 4 Niente bonus per gli immigrati Carlo Lania 5 Stelle. «Niente 80 euro ai figli degli immigrati». A proporlo è un emendamento della Lega, ma i grillini votano a favore. Il Pd: «Razzisti» Niente bonus di 80 euro ai figli degli immigrati regolari che vivono in Italia, come previsto invece dalla legge di stabilità. A proporlo è stata ieri al Senato la Lega con un emendamento al Documento di economia e finanza (Def), ma il M5S si è subito unito al Carroccio votando a favore e confermando così la linea dura di Grillo contro gli immigrati. Scelta che ha subito provocato reazioni durissme e accuse di razzismo, tanto da spingere in serata i senatori grillini a una prudente retromarcia: «Abbiamo votato sì all’emendamento della Lega nord esclusivamente per fare in modo che il bonus bebè, che il governo ha previsto solo per i nati del 2015, fosse esteso anche ai nati fino al 2017», spiega — ma non troppo — una nota del gruppo. All’origine di tutto c’è, come spesso accade, Roberto Calderoli. Il vicepresidente del Senato, vero maestro nel condurre blitz parlamentari, presenta un emendamento al Def che di fatto destina gli 80 euro promessi da Renzi alle neo mamme solo ai figli di cittadini italiani o di un altro Paese dell’Unione europea. Niente, quindi, ai bebè figli di cittadini stranieri ma extracomunitari, anche se residenti in maniera regolare nel nostro paese. L’emendamento viene bocciato dall’aula grazie ai voti di Pd e Ncd, ma ottiene comunque il via libera del Movimento di Grillo che non si fa scrupolo a far sua l’iniziativa di Calderoli. Che vistosi battuto, sbotta: «E’ la dimostrazione che la maggioranza se ne frega della famiglia e dei bambini e stanzia risorse solo per gli immigrati» dice il vicepresidente del Senato, come se anche i figli degli immigrati non fossero bambini. Ma l’emendamento leghista è ormai diventato un caso politico. E certo non per la presa di posizione della Lega, tipica della sua politica contro gli immigrati, ma proprio per l’adesione del M5S a un emendamento dal sapore decisamente discriminatorio. Il primo ad andare all’attacco è, ovviamente, il Pd. «Siamo ormai abituati al razzismo dilagante della Lega — dice la senatrice Rosa Maria Di Giorgi — ma che anche i senatori del M5S si prestassero a queste provocazini ci lascia francamente senza parole. Chissà se gli elettori che hanno votato per Grillo e che speravano in un cambiamento sanno che i loro rappresentanti in parlamento votano insime alla Lega». Sullo stesso tasto, quello del razzismo, insiste anche il senatore Miguel Gotor per il quale «i senatori grillini hanno dato prova della loro vera natura, impegnati a fare concorrenza alla destra più becera». Mentre per il presidente della commissione Diritti umani, Luigi Manconi, «il bolso buonismo di Lega e 5 Stelle, escludendo gli immigrati dal benificio del cosiddetto bonus bebè, dimostra ancora una volta la loro irresponsabile prodigalità». Ormai il danno è fatto. Dopo le parole di Grillo sui «clandestini da rispedire a casa», e gli allarmistici avvertimenti sui presunti rischi per la salute derivanti sempre dagli immigrati (che già hanno fatto storcere la bocca all’elettorato più di sinistra del M5S) adesso la partita si completa con il tentativo di togliere il bonus di 80 euro ai bambini con genitori extracomunitari. A un certo punto la cosa deve essere sembrata troppo anche agli stessi senatori grillini che l’hanno votata, fino a spingerli a correggere il tiro come possono. «Il Pd non perde occasione per strumentalizzare ogni singolo voto del M5S e veicolare messaggi falsi», 27 spiega una nota del gruppo di palazzo Madama. «Sapevamo già che la discriminazione inserita nel testo della Lega sarebbe decaduta perché incostituzionale — scrivono i senatori pentastellati — mentre sarebbe rimasta esclusivamente l’estensione del bonus a tutti i bimbi nati nel prossimo triennio. La nostra battaglia è rendere strutturale per tutti il bonus bebè, come dimostreremo con nostre proposte emendative alla legge di stabilità». del 31/10/14, pag. 4 Alfano: «Lampedusa, nel 2011, trasformata in disastro» Nel 2011, il governo Berlusconi «scelse di trasformare Lampedusa in un disastro colossale, con un danno d’immagine forse non più rimediabile». A dirlo non è l’opposizione di allora, ma il ministro dell’Interno di oggi, Angelino Alfano, che nel 2011 era a capo del ministero di Giustizia. L’isola, ha ammesso candidamente il segretario di Ncd, «fu sottoposta ad una pressione totale per dimostrare che i migranti erano lì». A quei tempi, replica il forzista Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato, «dava giudizi diversi». Intanto il titolare del Viminale annuncia ufficialmente la fine di Mare Nostrum, l’operazione avviata poco più di un anno fa dal governo, dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013. Da domani invece – proprio mentre si registra l’ultima tragedia del Mediterraneo con il naufragio, al largo della Libia, di un gommone diretto verso le coste italiane nel quale si contano venti dispersi – entrerà in azione Triton, la missione di Frontex, alla quale l’Italia contribuirà con quasi la metà dei mezzi. «Una volta che partirà Triton — ha detto Alfano rispondendo al question time in Senato — sarebbe difficilmente spiegabile mantenere un’operazione d’emergenza come Mare Nostrum. Dal 1 novembre, dunque, non ci saranno due linee di protezione, una vicina alla Libia e un’altra più vicina alle acque nazionali, ma Mare Nostrum chiuderà secondo una linea d’uscita che il governo stabilirà molto a breve». del 31/10/14, pag. 4 Da Beppe Grillo a Roberto Fiore: mezzo meet up di Vibo Valentia passa a Forza Nuova Silvio Messinetti Il sindaco di Comacchio, preveggente, lo aveva detto, una volta messo alla porta del movimento direttamente da Beppe Grillo: «E’ in atto una deriva fascista del 5 stelle. E’ Grillo a dover essere espulso per questo». Qualcuno deve averlo preso alla lettera. Anzi, più di qualcuno. Visto che si tratta di mezzo Meet-up, quello di Vibo Valentia. A partire dal suo fondatore Edoardo Ventra. Che diventa, da un giorno all’altro, commissario provinciale di Forza nuova. E’ la segreteria regionale di Fn ad annunciare la nascita nella provincia vibonese di un proprio «nucleo militante» in cui viene nominato, direttamente dai dirigenti nazionali, come commissario politico Ventra. A cui «è stato affidato il compito di organizzare il partito in tutta la provincia di Vibo. La carica di commissario avrà durata di sei mesi al termine del quale si procederà con la creazione della federazione provinciale che sul territorio sarà 28 strutturata ed organizzata con cariche e nomine come previsto dal nostro statuto. A lui e a tutti gli ormai ex attivisti M5S vanno i migliori auguri di buon lavoro. Grande soddisfazione viene espressa dal segretario nazionale Roberto Fiore». In che cosa consista il «lavoro» politico di Forza nuova è roba nota. Appena due settimane fa un centinaio di militanti scorazzavano liberamente per Crotone (senza che il sindaco Pd facesse nulla per impedirlo) al grido: «Via i clandestini. L’Italia agli italiani» e altre amenità del genere. D’altronde che nella pancia del 5 stelle alberghino rigurgiti xenofobi ed idee di destra è altrettanto notorio. Basta farsi un giro in rete e dare uno sguardo ai commenti sulle sparate di Grillo in tema di immigrazione. Il movimento è spaccato in due. Da una parte, quelli più a sinistra, irritati dai toni «modello Farage» del capo. Ventra ha così spiegato in rete la sua adesione a Fn : «Molti politici non hanno nulla di onorevole perché non onorano con le loro azioni le cariche pubbliche che ricoprono, sono indegni degli italiani onesti Per questo motivo gli italiani onesti hanno il dovere di organizzarsi. Aderire, aderire, aderire». Qualunquismo abborracciato e pillole di populismo di provincia. Che fa il paio con il finale della nota con cui Fn comunica la fuoriuscita dei grillini: «La coerenza con la quale Fn affronta da sempre tematiche quali il blocco dell’immigrazione,il ritorno alla piena sovranità politica, economica e monetaria e la lotta contro i veri sprechi, a cominciare dall’abolizione delle regioni, dà i suoi frutti; molto presto, infatti, daremo notizia di altre importanti adesioni in varie parti d’Italia. Chi è davvero animato da spirito rivoluzionario sceglie sempre più Fn come unica, radicale, valida alternativa al sistema partitocratico asservito alla grande finanza internazionale». Se cambiassimo le sigle e al posto di Forza nuova ci fosse scritto M5S, parrebbe un comunicato scritto da Grillo. Invece è vergato da Roberto Fiore. 29 SOCIETA’ del 31/10/14, pag. 13 A rischio povertà 17 milioni di italiani I tagli ai consumi ROMA Più di una persona su quattro in Italia è «a rischio di povertà o esclusione sociale». Per la precisione si tratta del 28,4% (dati 2013), secondo l’indagine Istat diffusa ieri. In pratica, 17 milioni di italiani su 60. L’indicatore, che si compone di tre quote (famiglie gravemente deprivate, persone a rischio povertà e famiglie a bassa intensità lavorativa) è in leggera diminuzione (-1,5 punti) rispetto al 2012 «a seguito della diminuzione della quota di persone in famiglie gravemente deprivate». Il quadro resta tuttavia preoccupante, soprattutto nel Mezzogiorno. Il rischio di povertà o esclusione sociale si attesta infatti nel Sud al 46,2% un valore più che doppio rispetto al resto del Paese. Invariato l’indice Gini della disuguaglianza: 0,32 a livello nazionale, 0,34 nel Sud. Per capire meglio, il 20% più ricco delle famiglie percepisce il 37,7% del reddito totale, mentre al 20% più povero spetta il 7,9%. La metà delle famiglie italiane ha percepito un reddito netto non superiore a 24.215 euro l’anno, pari a 2.017 euro al mese. Nel Sud le condizioni peggiorano: il 5o% delle famiglie sta sotto i 19.955 euro annui, 1.663 euro al mese. Il reddito mediano delle famiglie che vivono nel Mezzogiorno è pari al 74% di quelle residenti al Nord. L’indagine è stata commentata dalla Coldi-retti, che sostiene che ci sono più di 4 milioni di poveri che hanno chiesto aiuto per mangiare; dalla Cia, confederazione degli agricoltori, che aggiunge che il 65% delle famiglie ha tagliato gli acquisti di cibo, percentuale che al Sud sale al 77%; e dal presidente della Conferenza episcopale, Angelo Bagnasco: «I dati sulla povertà devono essere presi sul serio. È necessario dare risposte occupazionali perché solo il lavoro e non l’assistenza dà dignità». Enrico Marro del 31/10/14, pag. 37 LA POLITICA DIMENTICA I POVERI CHIARA SARACENO IL DATO della, piccola, riduzione del numero di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale avvenuta tra il 2012 e il 2013 va accolto con molta cautela, non solo per la sua esiguità e perché si riferisce alla situazione di un anno fa, ma perché nasconde fenomeni divergenti, che nel loro insieme segnalano un rafforzamento delle disuguaglianze. In primo luogo, l’unico dei tre indicatori che è diminuito riguarda la deprivazione grave, perché è calata la percentuale di persone che non può avere un pasto adeguato almeno ogni due giorni, che non ha mezzi per riscaldare a sufficienza l’abitazione e non avrebbe neppure 800 euro di risparmi per fronteggiare un’emergenza. Si tratta di situazioni al limite della sopravvivenza. Non vi è stato, invece, nessun miglioramento per quanto riguarda la percentuale di coloro che si trovano in condizione di povertà relativa e di coloro che vivono in una famiglia in cui nessun adulto (esclusi gli studenti e i pensionati) è occupato. 30 In secondo luogo, il miglioramento è distribuito in modo molto diseguale tra le varie aree del Paese e tra i diversi gruppi sociali. È stato molto più sostanziale nel Centro- Nord, dove il fenomeno della povertà e dell’esclusione sociale è relativamente contenuto, che nelle regioni meridionali, dove è tradizionalmente molto più diffuso ed era maggiormente aumentato negli anni della crisi. Come ha documentato anche il recente rapporto Svimez, il gap tra le condizioni di vita nel Mezzogiorno e il resto del Paese si sta ampliando, senza che ciò riesca ad entrare nel dibattito politico. Allo stesso tempo, il Mezzogiorno si conferma anche l’area del Paese in cui le disuguaglianze economiche sono maggiori, segnalando l’inefficienza e l’insostenibilità di un sistema economico e sociale locale e dei suoi rapporti con il sistema nazionale complessivo. Il gap si sta ampliando anche tra vecchi e giovani e tra famiglie senza figli o con un solo figlio e famiglie con tre figli e più. Il miglioramento è concentrato tra gli anziani e le famiglie senza figli (conviventi) o con un figlio solo. Viceversa, la situazione è peggiorata per le famiglie con tre o più figli. Ciò è vero in tutte le aree geografiche, ma nel Mezzogiorno il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda ormai più del 40 per cento delle famiglie. Il peggioramento dei nuclei famigliari numerosi significa che siamo di fronte ad un peggioramento della povertà minorile, un fenomeno che costituisce una caratteristica distintiva del nostro Paese, e che tuttavia raccoglie ancora meno attenzione nel dibattito pubblico e da parte dei policy maker rispetto alla questione meridionale e certamente non trova neppure l’inizio di una risposta nel bonus triennale per i nuovi nati introdotto con la legge di stabilità. Qualcuno potrebbero persino dire che è irresponsabile incentivare le nascite con misure di breve periodo se non si affronta prima in modo sistematico e coerente la questione della povertà minorile, che dipende in larga misura dalla combinazione di insufficiente reddito da lavoro e insufficienti, o assenti, trasferimenti che tengano conto del costo dei figli lungo tutto il percorso di crescita. In ogni caso, forse non è comunicativamente attraente e pagante nell’immediato a livello politico, ma se c’è un tema che richiede un orientamento al futuro e non al passato, è proprio quello della povertà minorile: se non sul piano dell’equità, certo per i suoi effetti negativi di lungo periodo. del 31/10/14, pag. 38 Il coming out di Tim Cook, amministratore delegato della Apple. Ma anche quello di decine di attori, sportivi , cantanti. Un argomento che sembra non essere più tabù. Eppure, persino negli Stati Uniti, esistono ancora pregiudizi e discriminazioni. E l’83% degli omosex americani preferisce nascondersi Gay pride FEDERICO RAMPINI «CONSIDERO l’essere gay come uno dei più grandi doni che Dio mi ha dato». Con questa frase Tim Cook, il chief executive di Apple e l’erede di Steve Jobs, diventa il più importante top manager americano ad avere fatto il suo coming out. La decisione del 53enne Cook corona un’evoluzione dei costumi che in poco tempo ha cambiato l’America. Vivere apertamente la propria omosessualità ormai non è più un comportamento trasgressivo, non è più una libertà limitata a categorie speciali come gli artisti. È l’establishment del capitalismo Usa ad abbracciare la parità dei diritti e la trasparenza sulle preferenze sessuali. La California ne ha fatto una forza: l’attrazione che la Silicon Valley 31 sprigiona verso i talenti creativi del mondo intero, deriva anche dalla sua apertura ad ogni forma di diversità. La rivelazione di Cook giunge al culmine di altri gesti significativi: da anni Apple, Google, Facebook e altre aziende digitali partecipano ufficialmente al Gay Pride di San Francisco; e offrono ai propri dipendenti assicurazioni sanitarie che includono l’assistenza medica ai partner dello stesso sesso. Non è solo il capitalismo digitale, da sempre progressista sui diritti civili, ad avere abbattuto le barriere. Sul terreno valoriale non è da meno Wall Street: i vertici di Goldman Sachs versarono donazioni generose per la campagna sui matrimoni gay. La scelta del coming out (l’espressione completa e` “coming out of the closet” cioè venir fuori dall’armadio, dalla clandestinità) è un rito simbolico importante, che ha consentito di abbattere una dopo l’altra le resistenze sulla parità dei diritti. Non è mai stato facile per nessuno, ma per alcune categorie, professioni, o gruppi etnici, è stato ancora più difficile che per altri. Nel mondo dello spettacolo i coming out sono più antichi – gli artisti erano comunque ai margini della società rispettabile, da sempre: ai tempi di Moliere gli attori di teatro non avevano diritto alla degna sepoltura e finivano nelle fosse comuni. Ma Hollywood fu dominata a lungo da una cultura puritana, si ricorda lo shock della morte per Aids di Rock Hudson (1985) la cui omosessualità era stata nascosta. I coming out delle star del cinema arrivano prima e più spesso fra le donne che fra gli uomini: per questi ultimi si teme che l’omosessualità dichiarata possa intaccare l’immagine di sex-symbol presso il pubblico femminile. Ma anche tra le donne i coming out fino ad anni recenti sono inversamente proporzionali alla celebrità: Jodie Foster solo nel 2013 cede alle pressioni della comunità lesbica e si dichiara. Un’asimmetria analoga si nota nel mondo dell’informazione: la conduttrice di talkshow Ellen DeGeneres finisce sulla copertina di Time già nel 1997 (titolo: “Yep, I’m gay”) ma il suo collega maschio Anderson Cooper della Cnn lo fa nel 2012. Tra gli sportivi, la tennista Billie Jean King è la prima ad aprirsi nel lontano 1981, una vera pioniera, e il suo esempio spinge Martina Navratilova a fare lo stesso poco tempo dopo (ma solo dopo avere ottenuto la cittadinanza americana). Per i maschi è più difficile: un atleta uomo deve fare i conti con gli stereotipi “macho” tra molti dei suoi fan. Eppure anche lì negli ultimi anni è un crescendo. Il pugile Orlando Cruz si dichiara nel 2012. Il campione di basket Jason Collins nel 2013 quando gioca nei Celtics è il primo cestista della Nba che fa outing mentre è ancora in attività. Tra gli ostacoli da superare ci sono le tradizioni culturali di alcune comunità etniche. Afroamericani e ispanici sono tra i più restii: per come percepiscono il ruolo del maschio; o per ragioni religiose. Perciò un esempio trainante verso la comunità ispanica lo dà Ricky Martin, la star della musica pop di origine portoricana, che si dichiara omosessuale nel 2010. Tra gli afroamericani la battaglia è stata ancora più difficile. Nel 2008 durante la sua prima campagna elettorale per la Casa Bianca, Barack Obama andò appositamente nella chiesa di Martin Luther King ad Atlanta, a denunciare l’omofobia persistente tra i neri e in particolare tra i loro leader religiosi. Un anchorman televisivo afroamericano, Don Lemon della Cnn, nel fare il suo coming out nel 2011 ha ammesso: «Essere gay e` la cosa peggiore nella cultura nera». A maggior ragione la comunità gay americana ha una gratitudine profonda per Obama: sa quanto è stato arduo per il primo presidente afroamericano, diventare anche il primo presidente che ha appoggiato apertamente e poi legalizzato a livello federale i matrimoni gay. Senza togliere meriti a Obama, i sondaggi dimostrano che lui ha saputo interpretare una travolgente metamorfosi dell’opinione pubblica. Il parere degli americani sui matrimoni omosessuali si è spostato in modo spettacolare in pochi anni. Lo scarto generazione è impressionante, le ultime sacche di resistenza si ritrovano nella popolazione anziana, mentre fra i giovani i matrimoni gay ottengono un consenso schiacciante. La vicenda di Tim Cook ricorda però che l’evoluzione del costume non impedisce la sopravvivenza di pregiudizi tenaci, ostilità e paure. In fondo il suo coming out dovrebbe 32 fare notizia perché tardivo. Nella California dove nacque il movimento per i diritti dei gay, insieme con le punte avanzate dell’ambientalismo e del femminismo, il movimento hippy e l’attrazione verso il buddismo zen, il chief executive più potente del mondo (per capitalizzazione di Borsa) ha dovuto aspettare fino all’ottobre del 2014? Lo stesso Cook ha sentito il bisogno di giustificarsi: «Siamo già una delle aziende più osservate del mondo, mi piace concentrare l’attenzione sui nostri prodotti ». Indirettamente ha esposto le proprie attenuanti: l’essere cresciuto in una delle zone più retrive e bigotte d’America, l’Alabama. In un discorso pubblico ha paragonato l’oppressione dei neri e quella dei gay, un tema caro anche a Obama. La vicenda di Cook riporta alla ribalta anche l’avanzata irregolare e incompleta dei diritti dei gay nei luoghi di lavoro. Una recente inchiesta della Deloitte, citata sul New York Times , rivela che a tutt’oggi l’83% dei gay americani nasconde il proprio orientamento sessuale quando varca il portone d’ingresso dell’azienda in cui lavora. 33 BENI COMUNI/AMBIENTE del 31/10/14, pag. 7 Genova, solo 12 milioni. Doria: “Ridicoli” IL SINDACO FURIBONDO: “NON MI HANNO FATTO PARLARE E IO MI METTERÒ A GRIDARE. DISTANZA DAI PALAZZI ROMANI” di Giampiero Calapà Genova e l’entroterra ligure hanno dovuto aspettare ventuno giorni. Ventuno giorni dopo l’alluvione costata la vita all’infermiere Antonio Campanella, 57 anni, travolto dal Bisagno nella notte del 9 ottobre. Ventuno giorni per uno stato di calamità naturale, deliberato ieri dal Consiglio dei ministri presieduto da Matteo Renzi, che vale solamente 12 milioni e mezzo di euro. Le stime della Regione Liguria indicano danni per almeno 300 milioni, 70 servirebbero subito per coprire l’emergenza. Mentre cresce la paura per altri possibili disastri, un nuovo allerta meteo per il 4 e 5 novembre terrorizza già i genovesi. E il loro sindaco, Marco Doria, va alla rottura col governo Renzi senza mezzi termini: “I risarcimenti stanziati sono ridicoli”. Lo fa ieri mattina, in un’intervista alla televisione ligure Primocanale: “Questa cifra è assolutamente inadeguata. Il Comune di Genova, in questo momento, è sotto pressione perché si parla di milioni e milioni di euro per le somme urgenze di cui ci stiamo facendo carico. Il che include anche i costi per tenere agibili le strade o le spese per gli sfollati in alloggi pubblici o in alberghi”. IL SINDACO per giorni ha cercato di tenere un profilo basso, ma adesso, dopo l’ufficialità delle briciole concesse da Roma nonostante le promesse altisonanti delle prime ore, non si tiene più. Continua furibondo: “Poi bisogna includere le grandi opere come il rifacimento della copertura del Bisagno che deve essere finanziato dal governo e dal Parlamento senza balletti. Per quanto riguarda il Fereggiano, il Comune farà il proprio: non risolverà tutti i problemi ma darà un contributo assolutamente importante di cui non possiamo fare a meno”. Doria avverte una distanza abissale dai palazzi romani, soprattutto dopo la sua esclusione dall’audizione in Commissione ambiente due giorni fa. Hanno voluto parlare tutti e il primo cittadino della città in questione ha dovuto farsi da parte, perché il tempo era scaduto, intervento posticipato alla prossima volta: “Altri hanno preso il mio spazio. La cosa che mi ha sconcertato è stato osservare la distanza tra un sindaco e i palazzi romani. Non posso non rimarcare con sconcerto l’atteggiamento di tutti i senatori presenti, compresi quelli genovesi. Con rispetto per gli impegni di tutti, un sindaco non può stare a disposizione per un tempo indefinito. Quello che mi ha colpito è la distanza che ho avvertito tra un sindaco e tanti altri. Ero lì anche con una sensazione di sofferenza: una forte percezione del distacco grande tra il ruolo del sindaco e quello di chi fa le norme in Parlamento. Non voglio che ci sia questo distacco, sarebbe una catastrofe per tutti”. E ancora: “Mi metterò a gridare”, avverte denunciando ancora l’insufficienza dello stanziamento. “La nostra città è una grande città e tra tutte le grandi città è quella che si trova nella condizione più critica per il dissesto idrogeologico”. del 31/10/14, pag. 5 Val di Susa. Sui costi si sgretola il fronte del sì 34 Tav, Chiamparino adesso «vuole vederci chiaro» Mauro Ravarino «Apriamo un tavolo, laico, senza vincitori né vinti. E discutiamo finalmente dell’opera. I tempi sono maturi per una riflessione seria sulla Torino-Lione, bocciata dal rapporto costi e benefici. In uno stato perenne di crisi come quello attuale, senza risorse agli enti locali e con un dissesto idrogeologico allarmante, ha senso sprecare tanti miliardi per un’opera di dubbia utilità? Il governo riapra la discussione, faccia questo passo, noi siamo disponibili ad affrontarla». Lo dice Sandro Plano, sindaco di Susa e voce autorevole delle istituzioni locali in Valle, di tutte quelle istituzioni che erano state estromesse, in quanto voci critiche, dall’Osservatorio tecnico guidato da Mario Virano. La proposta di Plano ha come obiettivo quello di riportare un’attenzione oggettiva nei confronti dell’opera. Arriva il giorno dopo l’improvviso dietrofront del senatore Pd Stefano Esposito, che ha dichiarato di non voler più difendere un progetto che potrebbe costare oltre due volte e mezzo la spesa preventivata (da 2,9 a 7,7 miliardi di euro a carico dell’Italia). Il totem Tav viene così sbriciolato da uno dei più accaniti supporter e il fronte dei favorevoli si spacca. Forza Italia ne ribadisce l’indispensabilità, mentre uno degli strenui sostenitori, Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, alza dubbi e chiede di poterci «vedere chiaro», per capire la «fondatezza delle nuove cifre». È in atto un riposizionamento? Forse. Rimangono, per ora, in silenzio il ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, uno dei sottoscrittori dell’accordo di programma con Rfi in cui sono state aggiornati i nuovi costi della tratta internazionale, e il premier Matteo Renzi. Il primo è atteso l’11 novembre in Commissione al Senato per far chiarezza sulle cifre. Il secondo, prima dell’investitura si era detto contrario al Tav, una volta a Palazzo Chigi si è, invece, conformato al pensiero mainstream. Senza entusiasmo, però. Ogni volta che era atteso a Chiomonte per la visita al cantiere della Maddalena, il presidente del Consiglio ha preferito soprassedere. Un segnale anche questo? Forse. Intanto, in Parlamento il dem critico, Pippo Civati, e il coordinatore nazionale di Sel Nicola Fratoianni hanno chiesto una commissione d’inchiesta sulla Torino-Lione. Il senatore valsusino dei Cinque stelle, Marco Scibona, che già aveva chiesto una iniziativa simile, chiede di dar seguito alle parole e ai democratici di prendere posizione: «Il Pd dismetta l’omertà sul Tav, prenda coraggio e si schieri dalla parte della trasparenza, contribuendo ad approvare la commissione di inchiesta». In Piemonte, è intervenuto il capogruppo di Sel in Regione, Marco Grimaldi: «In un solo giorno il senatore Esposito ha percorso dieci anni di dubbi di una vasta comunità. Tranquilli: non è “San Paolo”. La fermata Damasco non è sulla tratta Torino-Lione. Siamo però lieti che il dubbio sia dentro di lui. Lo diciamo da tempo: il costo delle grandi opere è determinante (per noi 2.9 miliardi non sono comunque pochi) e si può tornare indietro su qualsiasi decisione, come dice Esposito, basta pagare le penali». Grimaldi si rivolge poi a Chiamparino e prende in considerazione anche l’altra grande opera sul territorio regionale, il Terzo Valico: «Nello Sblocca Italia il collegamento ferroviario dei Giovi otterrebbe 200 milioni di euro, una cifra non certo sufficiente a coprire tutto il terzo lotto. Chiamparino chieda al governo che tale risorse finiscano nel piano regionale per la messa in sicurezza del territorio. L’alessandrino è stato recentemente colpito da un’alluvione, pare che i danni superino i trecento milioni. Le poche risorse che il Paese ha a disposizione vanno utilizzate per il dissesto idrogeologico». 35 del 31/10/14, pag. 4 (ins. Sbilanciamo l’Europa) Il vicolo cieco dei servizi idrici Emilio Molinari Il fine comune da raggiungere è quello di riaffermare nelle Carte delle Nazioni unite il diritto all’acqua come bene comune La ripubblicizzazione dei servizi idrici si è arenata in un vicolo cieco. A tre anni dal referendum solo Napoli ha trasformato il servizio da Spa in house, ad azienda speciale. I successi del movimento risiedono in alcuni punti specifici: nell’aver fermato la Multiutility del Nord, respinto a Cremona il tentativo di far entrare i privati nella gestione in house, impedito ad Acea di vendere altre quote, scorporato l’acqua a Trento e si spera anche a Reggio Emilia e aperto una discussione in Toscana con alcuni sindaci sullo scorporo da Acea. L’ostilità dei governi e l’attacco allo stesso referendum erano scontati. Ma ciò non spiega il perché del vicolo cieco in cui si è arenato il movimento. Credo sia tempo di rivedere criticamente, non il contenuto della ripubblicizzazione in sé, ma la strategia con la quale è stato perseguito, improntata al rigido spartiacque della coerenza al vincolo quasi ideologico dell’eliminazione delle Ssp in house. Prescindendo dalla realtà, dai rapporti di forza, dalla capacità di farsi capire dalla gente, dai limiti stessi presenti nel risultato referendario che, al di là della volontà degli elettori, di certo fermava l’obbligatorietà all’ingresso dei privati. Non c’è stato un percorso, dove accumulare forze, con tappe e obbiettivi intermedi da cui ripartire con le alleanze possibili. Anzi, alla rigidità è stata aggiunta una campagna sulla «obbedienza civile»con relativa autoriduzione delle tariffe, che non poteva che arenarsi. In questa visione, tutti i Comuni, tutti i sindaci e tutte le aziende in house non potevano oggettivamente che diventare avversari da attaccare. E il movimento non poteva che connotarsi come parte di un fronte di sacrosante «resistenze» territoriali, (No Tav, No Mose, No Expo, No dal Molin, No al gassificatore, No alla precarietà, No agli sgomberi delle case, ecc…) tenuto assieme da un involucro politico/ideologico «il fronte antagonista dei beni comuni». Un recinto, nel quale le ragioni dell’acqua, la novità della sua cultura inclusiva, si sono perse assieme all’anima universale, il linguaggio popolare, la capacità di dare passione a tanti e costruire ampie adesioni e alleanze. Da qui l’impantanamento tra radicalità e interpretazioni giuridiche, localismi, attività sindacali sulla tariffa, ricorsi ai tribunali. Occorre fare una pausa di riflessione per ripartire. Proviamo a pensare come nostri interlocutori e possibili alleati tutti quei Comuni e (perché no) anche a quelle aziende in house, che resistono ancora all’ingresso dei privati o quelle che vorrebbero disfarsi dei privati. C’è una relazione profonda tra la volontà di privatizzare i servizi pubblici locali e quella di svuotare d’ogni ruolo e credibilità i Comuni, che dovrebbe avvicinare le due condizioni. L’alleanza non sarebbe solo una opportunità, ma una strategia politica da perseguire. Oggi tutte le istituzioni sono sotto attacco e i Comuni sono la prima linea. Vincoli economici, soppressione/privatizzazione, «Sblocca Italia», ne sono l’espressione. Nello stesso tempo devono reggere l’urto dei cittadini arrabbiati per la decadenza e la soppressione dei servizi, il degrado del territorio. La sottrazione di sovranità alle istituzioni ad ogni livello è la politica di questo nostro tempo. Dalla troika al trattato Usa — Ue si va prefigurando un nuovo ordine mondiale che privatizza la politica e la trasferisce alle sedi finanziarie e ai tribunali arbitrari delle 36 Multinazionali. Dobbiamo imparare a leggere la politica di Renzi come anticipazione di questo nuovo ordine. Gli organismi extra-istituzionali sull’acqua sono un esempio. Le multinazionali sono diventate soggetti decisionali e attori ufficiali della «Governance», termine che oggi sostituisce i «Governi politici e rappresentativi». Il Consiglio Mondiale dell’acqua, partecipato dall’Onu è presieduto da Suez e Veolia (a loro volta terreno di conquista di Goldman Sachs). Il Ceo Water Mandate, delegato dall’Onu ha a che fare con più di 100 aziende multinazionali produttive di tutti i comparti, impegnate ad assicurare acqua alle loro attività. Da una parte c’è lo svuotamento delle istituzioni e dall’altra la mercificazione dei beni comuni, di tutta l’acqua, da quotare in Borsa e istituzionalizzando la compra vendita dei diritti al suo sfruttamento. Negli Usa, in Canada, in Cile, in Australia, la compravendita dei diritti allo sfruttamento dell’acqua è già operante. Ne dà una idea il magnate texano che ha comprato un lago in Alaska e ne rivende il contenuto all’Arabia Saudita e alla Cina. In Cile, l’acqua dei fiumi è lottizzata e venduta all’asta e la concessione ha la priorità sui bisogni essenziali degli abitanti del luogo. Il Water grabbing è la realtà di tutta l’Africa. Nella Detroit della crisi dell’auto, 90.000 persone sono private dall’accesso all’acqua perché indigenti. In Expo, è la multinazionale Barilla a lanciare un Protocollo Mondiale sull’alimentazione e la politica e l’associazionismo corrono ad aderivi, ribaltando ogni ruolo. A Nestlè viene delegata la piazza tematica dell’acqua mentre l’acqua pubblica di Milano viene esclusa. C’è un contesto che fa correre verso il suicidio idrico. 15 milioni di persone all’anno migrano nel mondo solo per effetto di scelte tecnologiche inerenti all’acqua. La domanda di acqua del 2030, supererà la disponibilità del 40%; il 70% della popolazione mondiale vivrà allora nelle città; la metà degli abitanti dei grandi centri vivrà in baraccopoli, con carenze d’acqua potabile, servizi igienici, smaltimento dei rifiuti e reti energetiche. Una tale realtà scarica sui comuni e le aree metropolitane tutti i drammatici problemi di questo secolo, ma li priva al contempo di ruolo, poteri e risorse. La corruzione e l’impotenza screditano la politica e le istituzioni, dall’Onu in giù, fino ai comuni e cresce nei movimenti l’idea di combatterle, lasciarle affondare; poi si vedrà. Ma il nostro compito è altro. È quello di riconquistarle in quanto istituzioni, alla politica, al bene pubblico, alla fiscalità generale per le opere e i servizi di interesse collettivo. Inoltre quello di difenderne il ruolo con la stessa volontà con la quale difendiamo la Costituzione. Ecco, ripartire dall’acqua con i comuni che vogliono ritrovare l’orgoglio e la volontà di «disobbedire». Ripartire per mettere in sicurezza l’acqua potabile, la raccolta dei rifiuti, i servizi sanitari. Per costruire una rete di Città dell’acqua (water policy), ma anche di imprese pubbliche e in house, che si muovano sapendo quale città progettare. Non con l’anarchia dei costruttori, ma con i cittadini, il territorio agricolo e l’acqua circostante. Con i contadini veri con i loro prodotti ( food policy). Una rete che in Italia e in Europa sia in grado di fare politica; da soggetti, capaci di strappare ai governi leggi e direttive. Nello stesso tempo si deve operare per rimuovere gli ostacoli alla riappropriazione delle quote delle Spa in mano ai privati: A2a Acea, Iren, Hera. Bisogna promuovere incontri tra sindaci di tutto il mondo affinché l’Onu concretizzi quella che è stata una grande vittoria del movimento: la risoluzione del 2010 con la quale l’acqua potabile e i servizi igienici sono diventati un diritto umano. Il fine da raggiungere è quello di riaffermare nelle Carte delle Nazioni unite il diritto all’acqua e poi promuovere Protocolli, Trattati e organismi internazionali politici, che garantiscano il diritto all’acqua ed escludano il suo commercio, fissino regole, principi, quantità e ne sanzionino le violazioni. Un 37 impegno nazionale deve essere quello di impedire la formazione di grandi multiutility nazionali e quotate in borsa. Il nostro paese deve dotarsi di una Carta dell’acqua, nella quale gli aderenti si impegnano a: promuovere l’acqua pubblica del proprio acquedotto; promuovere la cultura del diritto all’acqua; fuoriuscire dalla logica della tariffa, garantendo il diritto ai 50 litri al giorno per ogni persona e il risparmio con una tariffa progressiva; non togliere l’acqua a nessun cittadino o immigrato, Rom o baraccato; dare vita ad un fondo con le imprese, per progetti nel Sud del mondo attraverso partenariati pubblico/pubblico. Il movimento dell’acqua ha indicato a tutti qualcosa di straordinariamente nuovo, da cui partire non solo per realizzare gli obiettivi in sé, ma per riprendere a ragionare sul nostro tempo, sulla necessità di una nuova visione della politica e dei movimenti con al centro i diritti universali. Una traccia per trovare la strada perduta da un ceto politico incapace e compromesso e per chiedergli di rinnovarsi totalmente o togliersi di mezzo e salvare la democrazia. 38 INFORMAZIONE del 31/10/14, pag. 9 RAI, IL CARTELLO DEGLI APPALTI: “QUI LA CONCORRENZA NON ESISTE” ANTITRUST, SFILATA DEGLI IMPRENDITORI ACCUSATI DI ACCORDI IN GARE PUBBLICHE Non siamo noi, ma è la Rai a porre delle regole anti-concorrenziali”. È scontro tra i titolari di alcune imprese che si occupano di post produzione per importanti programmi televisivi e l’azien - da pubblica. Infatti, la tv di Stato nei mesi scorsi ha fatto un esposto contro 23 aziende accusandole di essersi accordate per “spartirsi gli appalti di montaggio e riprese”, nonché di aver posto in essere “presun - te distorsioni concorrenziali per l’affidamento di servizi di post produzione per la stagione televisiva 2013-2014”. La denuncia è nata dopo che a Viale Mazzini sono arrivate alcune lettere anonime, molte spedite anche prima dell’apertura delle buste relative alle gare, in cui si parlava delle offerte concordate dalle aziende. Cinque missive finite in due procedimenti. Il primo è quello della procura di Roma che indaga per turbativa d’asta e ha già iscritto quattro persone nel registro degli indagati, oltre fare alcune perquisizioni. Il secondo procedimento è quello invece aperto all’Anti - trust, dove nei mesi scorsi sono stati convocati alcuni imprenditori, come pure i delegati della Rai. COSÌ NEL MIRINO dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato ci sono finite 23 aziende che hanno partecipato alle gare di 20 procedure di selezione nel periodo che va dal 15 luglio al 3 ottobre 2013. Anche se l’autorità avrebbe allargato le verifiche anche al 2012. Tra le imprese attenzionate (e ne citiamo solo alcune) ci sono ad esempio la Euroscena srl, specializzata in passato nelle riprese di Silvio Berlusconi che ha seguito negli anni in trasmissioni pubbliche e interviste e che (oggi guidata da Luigi Sciò) si è aggiudicata la gara del contratto di post produzione della “Rai Italia Doc doc” per 118 mila euro. E ancora: La Grande Mela srl che tra i lavori fatti sul proprio sito cita anche la fortunata serie Gomorra ; la Mav Television guidata da Roberto Mastroianni (questi già iscritto a Roma insieme ad altre tre persone) che si è aggiudicata l’appalto per il programma “Rai World Community” per un valore di 331 mila euro; la EuroGroup, di Laura Vairano, che ha vinto le gare degli appalti di post produzione per l’Eredità (91 mila euro) e Ballarò (209 mila euro). I titolari di molte aziende quindi sono stati sentiti in Antitrust e hanno anche depositato alcuni atti, come una memoria dove spiegano la situazione in Rai e la loro posizione. A firmare la memoria è un’associazione di imprese fondata nel 2011, la Niba, nata “per monitorare i comportamenti anticoncorrenziali della Rai che le imprese erano costrette a subire”. Ed è qui che i toni si alzano. “Rispetto a quanto rappresentato dalla Rai – scrivono –la situazione è diversa: è sempre la Rai che decide i nominativi delle società chiamate a partecipare alle proprie procedure di selezione (che non sono affatto bandi aperti, si tratta di soggetti convocati perchè di fiducia della Rai e iscritti al proprio albo fornitori). La situazione evidenzia l’esistenza di una evidente barriera di ingresso alle imprese aprioristicamente escluse”. Inoltre, “per la totalità delle imprese associate, la Rai costituiva pressoché l’unico committente, talché aveva (ed ha tuttora) facile gioco nell’imporre i prezzi dei servizi, progressivamente ridotti, nelle aggiudicazioni, per migliorare i risultati di bilancio della concessionaria pubblica”. Le lamentele su come si 39 lavora in Rai erano già arrivate otto mesi con una lettera inviata al direttore generale e al direttore direzioni acquisti tv: gare al ribasso, lavoro pagato troppo poco e spese che non riescono ad essere coperte soprattutto per l’alto costo anche delle attrezzature. Problematiche che, dopo lo scoppio dell’inchiesta, i titolari di imprese hanno riferito anche ad alcuni esponenti politici durante degli incontri tenuti segreti. Questione che però non interessa l’Autorità garante della concorrenza che agli imprenditori ha posto domande specifiche, anche su quanto trovato durante le perquisizioni. Come un messaggio che conteneva la foto dell’esito di una gara trovato sul cellulare del titolare di un’azienda durante le perquisizioni. La donna all’Antitrust avrebbe spiegato che quel messaggio gli è stato recapitato da un’amico titolare di un’altra impresa dopo che la gara era stata già chiusa. Ad un altro imprenditore è stato chiesto degli incontri tra aziende organizzati a luglio e settembre nella sala della parrocchia di santa Lucia, a Prati. L’ANTITRUST sospetta che qui gli imprenditori si sarebbero organizzati per mettersi d’accordo sulle offerte da fare alle gare. Circostanza smentita da un titolare dell’azienda che sentito dal Fatto vuole rimanere anonimo per paura delle conseguenze lavorative: “Era una riunione per parlare dei problemi che avevamo in Rai. Poi però i toni si sono alzati, hanno iniziato a litigare. Così nella discussione sono entrati anche i prezzi delle gare, ma non per accordarsi. In ogni caso io sono andato via”. 40 CULTURA E SCUOLA del 31/10/14, pag. 1/36 Se Leopardi al cinema diventa un supereroe VALERIO MAGRELLI Aneddoto: trascinato al cinema da mia figlia ventiduenne, sono rimasto stupefatto nel trovare solo due posti in prima fila, circondato da un pubblico undertrenta. Non c’è molto da aggiungere: sbarazzatosi di Pasolini, liberatosi dei guardiani di ogni galassia possibile, Il giovane favoloso aspetta ormai di battersi giusto con L’uomo ragno. L’accostamento, si badi, non è casuale, e chiama in causa le ragioni di un simile, benemerito successo (perché è superfluo dire quanto dobbiamo esultare per l’arrivo di un paladino italiano e poeta). Infatti, Spiderman è “uno scolaro attento e studioso, ma anche timido ed impacciato” (Wikipedia dixit), trasforma- to in imbattibile paladino della giustizia dalla puntura di un animale velenoso. E chi è Leopardi, se non un tranquillo bambino che diventa gobbo per la sua dannosissima passione della lettura? La forza nel primo, l’intelligenza nell’altro, appaiono entrambi prodotti di una mutazione e insieme di un dolore. Inutile spiegare quanto la malinconia della New York a fumetti o ripresa nei film, somigli a quella Recanati illustrata da Martone. Il punto focale, tuttavia, sta altrove, ossia nel celibato cui si votano questi due autentici cavalieri templari. Né cambia molto il fatto che la ragione dipenda ora dalla necessità dell’anonimato, ora dalla calamità della bruttezza. Ciò che più conta è l’atroce solitudine, sentimentale e erotica, di entrambi. Solitudine che, del resto, fa tutt’uno con la loro rivolta verso il conformismo della società. Nel suo feroce odio per l’ipocrisia cattolica e progressista, Leopardi (peraltro esperto nel tradurre La guerra dei topi e delle rane) va incontro all’Uomo Ragno e alle sue battaglie in difesa dei deboli, degli oppressi, degli irregolari. Ora, però, bisogna svelare l’arcano di questa alquanto bizzarra congiunzione. Per farlo, occorre convocare un terzo personaggio, avvicinando il poeta deforme al Gobbo di Notre Dame. Ciò che li unisce (e unisce Spiderman al Cavaliere della Valle Solitaria, a tanti vendicatori senza donna, a Superman o a Batman, per non dire del Corvo, addirittura tratto da E. A. Poe), sono elementi comuni a ogni eroe romantico, primi fra tutti proprio quelli esaltati da Victor Hugo. In breve, Leopardi è semplicemente L’uomo che ride ( altro romanzo di Hugo), il bambino prodigio, nobile e sensibilissimo, rapito dagli zingari e sfigurato, per diventare un fenomeno da baraccone. Vogliamo aggiungere Elephant man? Il gioco è chiaro. Il meritato successo di Martone sta nell’aver ridato vita a un secolare archetipo romantico, trovandolo, però, dove nessuno l’aveva mai cercato: dentro i compiti in classe di ragazzi i quali, rifiutando un Paese prostrato, sperano nella voce di uno storpio favoloso e ribelle. del 31/10/14, pag. 1/27 Pagella sui corsi Fa discutere la decisione dell’università di “ritoccare” da quest’anno la valutazione dei questionari compilati on line e allargare la platea dei docenti promossi 41 “Ai prof il 6 politico” E l’ateneo di Padova fa infuriare gli studenti JENNER MELETTI PADOVA . C’era una volta — correva l’anno 1968 — il “18 politico”. C’era pure l’esame di gruppo, così anche se non dicevi una parola tornavi a casa con un voto in più sul libretto universitario. Per i ragazzi dei licei c’era il “6 politico”. Anni lontani. Polemiche quasi dimenticate che a volte ritornano. Stavolta, a decidere che un cinque e mezzo diventa un sei — in sintesi: invece di essere bocciato sei promosso — sono coloro che stavano e stanno dall’altra parte della cattedra: i docenti. Succede a Padova, nel grande ateneo dove Concetto Marchesi fu rettore e già nel 1943, nella città occupata dai tedeschi, disse che compito dell’università è soprattutto «discutere e sperimentare cosa sia la libertà». Forse non era compresa la libertà di cambiare le regole. «Per alzare il numero dei docenti “promossi” — protestano gli studenti dell’Udu, Unione degli universitari — hanno abbassato la soglia di valutazione. Questa decisione, fuorviante e inaccettabile, promuove il demerito e alimenta l’inerzia ». I voti per valutare i docenti del Bo, come nella scuola elementare, vanno dall’1 al 10. A decidere è il “Presidio di ateneo per la qualità della didattica e della formazione”. Fino all’anno scorso la sufficienza si otteneva ovviamente con il 6. Nella graduatoria non venivano annunciati i risultati precisi. Il professore veniva inserito nella “fascia bassa”, in quella “intermedia” oppure in quella “alta”. Si è scoperto che il 5,5 è diventato un 6 solo quando la graduatoria per l’anno accademico 2013-2014 è stata pubblicata sul sito dell’ateneo. È stata cambiata anche la soglia minima per la fascia alta, portata da 7 a 7,5. «Tutto questo — raccontano Anna Azzolin e Pietro Bean, studenti dell’Udu — è inaccettabile. Qui davvero si incentiva chi non si dà da fare, chi non si impegna a migliorare la propria didattica. E c’è anche un problema in più. Sono inseriti nella stessa fascia media i prof che hanno preso 5,5 e anche quelli che hanno raggiunto un 7,4. Come può, una graduatoria come questa, aiutare lo studente nella scelta dei corsi da frequentare? Dobbiamo sapere se i docenti sono bravi o no a fare il loro mestiere». Perché lo sconto? «Alcuni colleghi — ha dichiarato Ettore Felisatti, delegato del rettore per la valutazione della didattica — risultavano insufficienti pur avendo preso 5,8 o 5,9. Abbiamo deciso di arrotondare per rispondere a una logica di riconoscimento». Quale sia questa logica, non è facile comprendere. «Ieri mattina — dice invece Paolo Guiotto, docente di matematica — ho aperto la mia lezione con un annuncio: sarete promossi con 16,5 su 30, in virtù della proprietà riflessiva. Insomma, se per un docente va bene una sufficienza a 5,5, è giusto che uno studente possa superare un esame con 16,5. Hanno capito lo scherzo, si sono messi a ridere». La mutazione da insufficienza a promozione appare strana in questa università statale che con 63.000 studenti e 2.200 docenti riceve comunque un gradimento alto: 7,5 per la soddisfazione complessiva, 7,9 per gli aspetti organizzativi, 7,8 per la didattica. I questionari si fanno da più di quindici anni ed hanno dato risultati. Nel 2013, ad esempio, due docenti a contratto di Economia, accusati dagli studenti di assenteismo, sono stati rimossi dall’incarico. «Anche quei contratti non rinnovati — dice il rettore, Giuseppe Zaccaria — hanno fatto clamore ma in realtà sono stati una tempesta in un bicchiere d’acqua. Io ho fatto il preside a Scienze politiche per nove anni e i contratti saltati, per i docenti non di ruolo, sono stati decine. Ma allora non c’era Facebook, dove tutto viene drammatizzato. Bastano un paio di associazioni di studenti e otto o dieci docenti per fare scoppiare un caso che — anche in questo caso — è la classica tempesta nel bicchiere». 42 Il Magnifico appare sicuro. «Noi, questi voti in graduatoria, non li abbiamo mai pensati come rigide pagelle. Servono soprattutto a capire quali siano le aspettative degli studenti e a fare emergere i problemi. Servono anche a decidere gli incentivi per i docenti, soprattutto per spingerli verso il miglioramento. Non ci piace una lista che deprezzi il nostro corpo insegnante». Il rettore annuncia una novità. «Da circa due anni stiamo lavorando perché i docenti, come succede nelle migliori università europee, valutino da soli il proprio lavoro ». Almeno in questo caso, si spera, senza cambiare i cinque e mezzo in sei. 43 ECONOMIA E LAVORO del 31/10/14, pag. 14 Fiom allo sciopero generale “Fermiamo il Jobs Act” ma su Ast riparte la trattativa Il premier: chiudere la vicenda Terni imperativo morale il 6 novembre vertice con il governo. Aperture dell’azienda LUISA GRION ROMA . Dopo le manganellate, lo spiraglio. Dopo gli scontri in piazza fra operai e forze dell’ordine sulla vertenza Ast ieri è ripresa la trattativa. Se sulla politica del lavoro la tensione fra Cgil e governo non cala e produce l’annuncio di uno sciopero generale - la Fiom lo farà a metà novembre in vista, a dicembre, di quello dell’intero sindacato guidato da Susanna Camusso - su Terni i tavoli si riaprono. La parola d’ordine della giornata - al di là delle infuocate polemiche sul perchè e sul come sia partita la carica della polizia nel corteo di due giorni fa - è stata: pensiamo alla fabbrica. «Portare a casa la vicenda Terni è un imperativo morale» ha detto Renzi aprendo il vertice con i sindacati assieme al sottosegretario Delrio e al ministro Federica Guidi. Un incontro voluto dalla titolare dello sviluppo economico per fare con Cgil,Cisl e Uil il punto della situazione e informarli che l’azienda ha accettato di rimettere mano al piano industriale per scendere dai 537 esuberi preventivati ad un «massimo» di 290, già indicato nelle settimane scorse dal governo. Considerato che 140-150 persone avrebbero già accettato la mobilità volontaria con incentivi economici, gli esuberi si ridurrebbero quindi ai restanti 150. L’azienda - cui sarebbero stati assicurati risparmi energetici e da taglio dell’Irap per un totale di quindici milioni - avrebbe anche garantito il mantenimento dei due forni, assicurando volumi produttivi per almeno un milione di tonnellate di acciaio l’anno. Un punto dal quale sarà possibile ripartire, hanno convenuto i sindacati, anche se ora si tratta di trovare le garanzie, contenere il più possibile gli esuberi, negoziare sugli integrativi aziendali e sui tagli in busta paga chiesti dall’azienda e far in modo che la crisi del sito siderurgico e la chiusura dei forni non sia solo rinviata di qualche anno. Rischio che a Terni temono. Tutti temi del tavolo fra sindacati e impresa che è stato riconvocato dal ministro per il 6 novembre. L’ottimismo, dicono Cgil, Cisl e Uil potrà arrivare solo davanti alla riscrittura del piano aziendale e per far tornare gli operai in fabbrica si aspetterà il pagamento degli stipendi - fermi a settembre - e il ripristino dei turni cancellati. Tutti sono comunque convinti che dopo gli scontri di mercoledì era necessaria una svolta. «La voce degli operai di Terni va presa con serietà» ha detto il cardinale Bagnasco, presidente della Cei. «La tenuta sociale non è a rischio, il Paese ha un sistema solido» ha assicurato il sottosegretario a Palazzo Chigi Delrio. «Terni è una vertenza su cui siamo impegnati da mesi, ma non bisogna mescolarla con altre questioni o con altre trattative come quella del dibattito in Parlamento sul mercato del lavoro». Una separazione che in realtà non c’è, sia perché i sindacati aspettano un chiarimento sugli scontri in piazza (la Camusso ha esortato il premier ad «abbassare i manganelli dell’ordine pubblico»), sia perché - apertura su Terni a parte - il Jobs act non piace alla Cgil e lo sciopero annunciato da piazza San Giovanni prende forma. Lo spiraglio su Ast non è bastato alla Fiom, che ha proclamato otto ore di sciopero generale a novembre 44 contro la politica del governo, in preparazione di quello di tutte le categorie che la Cgil deciderà nel direttivo del 12 novembre. del 31/10/14, pag. 2 La Fiom raddoppia lo sciopero Massimo Franchi In piazza . I metallurgici Cgil sdoppiano la mobilitazione: venerdì 14 toccherà ai lavoratori del centro nord con manifestazione a Milano, il 21 al centro sud a Napoli. Camusso applaudita al comitato centrale: la battaglia sarà lunga. Contro il Jobs act e il governo astensione dal lavoro di 8 ore. Landini: sarà la continuazione di piazza San Giovanni Sempre uno sciopero generale. Ma sdoppiato: venerdì 14 novembre toccherà ai metalmeccanici del centro-nord con manifestazione a Milano, una settimana più tardi sarà l’altra metà della penisola a scioperare per 8 ore ritrovandosi a Napoli. La Fiom prova ad innovare uno strumento che in molti considerano superato, rilanciandolo a livello macroregionale. Potrebbe poi essere il primo tentativo di quello «sciopero a rovescio» di cui Landini ha parlato nelle settimane scorse per mobilitare tutte le persone, anche chi non può scioperare. A questo proposito il segretario della Fiom precisa: «Qualcosa ci inventeremo, ma il tema è da approfondire». Niente manifestazione nazionale unica a Roma — risulterebbe un doppione del 25 ottobre — dunque. La proposta della segreteria acciaccata dalle manganellate di mercoledì — Rosario Rappa si presenta nonostante 5 punti in testa — viene approvata dal comitato centrale con 111 voti favorevoli e 6 astensioni. Inizialmente Landini puntava a triplicare gli scioperi e le manifestazioni. «Abbiamo pensato che rispetto ad un classico sciopero generale sarebbe più utile mettere insieme 2–3 manifestazioni con i rispettivi scioperi in diverse date per il nord, il centro e il sud. Le città potrebbero essere Milano, Napoli e Terni, quest’ultima da valutare in base a quello che succederà», spiegava nella sua relazione. Poi, vista la delicatezza e la possibile modifica della vertenza delle Acciaierie speciali di Terni, ha optato per due sole manifestazioni. I metallurgici della Cgil rilanciano così la loro battaglia contro il governo e il Jobs act. E la collocano a ridosso del Direttivo della Cgil del 12 novembre che dovrà varare lo sciopero generale di tutta la confederazione. La comunità d’intenti con la confederazione è riaffermata dagli applausi che hanno accolto l’intervento di Susanna Camusso. Il segretario generale della Cgil ha chiesto ai metalmeccanici di prepararsi ad una «lunga battaglia». «Man mano che andremo avanti le provocazioni si moltiplicheranno, spero non come quella di ieri (mercoledì, ndr)», ha detto ricordando gli scontri in piazza Indipendenza. «Per vincere la partita di lungo periodo» è indispensabile che «tutti insieme siamo convinti che stiamo attraversando una stagione nuova diversa dal passato e perciò dobbiamo avere un forte radicamento sul territorio, conquistarne ogni giorno uno in più. Solo così possiamo farcela». A cinque mesi dal congresso e a sei dal richiamo disciplinare al segretario della Fiom sulle vicende del Testo unico sulla rappresentanza, Camusso e Landini marciano ora di pari passo. Potere del renzismo e della svolta pro-Confindustria intrapresa dal premier. Un accenno se n’è avuto anche ieri mattina quando Renzi davanti ai sindacati metalmeccanici riuniti a palazzo Chigi per la vertenza Ast Terni ha ribadito la sua preferenza per i sindacati aziendali: «Non vogliamo fare a meno del sindacato sulle 45 trattative aziendali», lasciando intendere che continuerà invece ad avversare il sindacato confederale. Un passaggio non passato inosservato a Susanna Camusso. «Credo che il governo abbia provato a ricostruire una verginità nel confronto con i lavoratori persa negli scontri — ha spiegato Camusso — . Resta però il veleno del riconoscimento del sindacato solo quando si occupa di una vertenza aziendale e non come interlocutore sui temi del lavoro». Su questo punto ha poi approfondito l’analisi in un’intervista al Tg3. «Noi siamo pronti a discutere e a trovare soluzioni. È il governo che si fa scudo del non volere discutere con il sindacato. C’è — ha sottolineato il segretario generale della Cgil — una tendenza della discussione ad ignorare i contenuti della manifestazione del 25 ottobre, ad ignorare i contenuti delle nostre proposte per ridurre tutto al dibattito tra i partiti o dentro un partito. Il nostro obiettivo è avere politiche che creano lavorano, estendano i diritti e salvaguardino quelli che ci sono». Per Camusso per trovare una soluzione all’attuale tensione «basterebbe non continuare a dire che con il sindacato non si discute». Nella sua replica conclusiva al Comitato centrale, Landini ha ribadito l’importanza della manifestazione di sabato scorso a piazza San Giovanni, sottolineando «la dimostrazione di autonomia della Cgil». In questo quadro «lo sciopero generale che abbiamo indetto è la prima continuazione di quella mobilitazione». 46
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