Las nieves del tiempo ~2~ ~3~ A chi è partito, a chi è rimasto ~4~ ~5~ Tutti i viaggi sono rimpianti (Darwin Pastorin) ~6~ Perché si parte? Ve lo siete mai chiesto? Qual è l'impulso che ci induce a chiuderci l'ultima porta alle spalle, dopo un frugale saluto, uno zaino in spalla e via. Verso l'ignoto. Verso l'imprevisto. Abbandonando tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che c'è caro. Io me lo sono chiesto spesso. All'epoca non trovai alcuna risposta. Dopo, alla fine, cosa importa? Ero partito e tanto basta. Certo, al primo passo senti dentro qualcosa che si muove. E non sai attribuirgli un nome. E' una sensazione che nasce nello stomaco e che sale, sale e arriva sino agli occhi, che la lasciano uscire. E così, al secondo passo hai già il volto bagnato, rigato. Mentre tiri su col naso, ti passi il dorso d'una mano veloce sulla faccia. Al terzo passo guardi di sbieco indietro, di malavoglia. Il quarto lo allunghi, neanche fossi un centometrista appena scattato dai blocchi. Il quinto è quello più difficile, perché tarda ad arrivare. E' lì, sospeso. La gamba è sollevata e non accenna a scendere al suolo, a chiudere il movimento. Allora ti volti indietro, per l'ultima volta. Tiri ancora su col naso, chiudi il passo e vai. Senza voltarti più. Man mano che ti allontani, ti senti più leggero. Ti sei lasciato tutto alle spalle. Che fortuna. Sì, ok, poi ti accorgi che ~7~ ti sei lasciato troppo alle spalle. Sei così leggero perché non hai niente. Ci sei tu, con quello zaino in spalla. Il resto, è tutto da costruire. Tu stesso, sei da costruire. Il viaggio è pura poesia. Seduto davanti al finestrino - cosa importa se di un autobus, di un treno, di una nave, di un aereo? - guardi fuori e saluti con la mente la tua terra. Mentre dentro di te senti ancora, e ancora, e ancora le ultime parole che ti hanno detto. Non le dimentichi più quelle parole. Ti restano dentro sino all'ultimo. Spuntano fuori quando meno te lo aspetti e ti sostengono. E ti accorgi che sono l'unica cosa che hai, che sono il ricordo più importante che porti nel tuo cuore. Allora piangi, mentre davanti ai tuoi occhi si disperdono le ultime immagini di ciò che eri, sfumate nel panorama della tua terra, che ti saluta con un raggio di sole. Poi, cerchi di non pensare. E allora, dormi. Che cosa vuoi sognare? Sembri un pazzo in quei momenti. Pensi solo a ciò che hai lasciato. Anche nei tuoi sogni. Ti agiti, inquieto. I dubbi affiorano, ma li cancelli col respiro d'un istante. Le speranze salgono lente, sino a prendere possesso di te. Quando dopo ti svegli, sei già arrivato. Ecco la tua nuova vita. Non trattarla male. Ma dove sono arrivato? Il primo pensiero è questo. Ciò che vedi non risponde a quello che ti eri immaginato. Chiudi gli ~8~ occhi, li riapri, forse stai ancora sognando. Nulla. Sei spaesato, non sai più cosa fare, dove andare. Quasi, pensi, era meglio rimanere. Ti guardi attorno confuso, cercando un punto di riferimento. Nessuno. Sembri un automa, quando cammini. Guardi quel pezzo di carta, dove hai segnato un nome, un indirizzo. Alzi gli occhi, a leggere le vie. Fermi un passante, con voce incerta. Arranchi, confuso, spaesato. Gli occhi ti corrono da quelle righe vergate sulla carta ai nomi delle vie sui cartelli, alle case, a quei punti di riferimento che chi ti ha indicato la via ti ha lasciato. Quasi di colpo ti trovi lì davanti. Ripieghi il foglietto, in una tasca. Ti spazzi il vestito, quasi dovessi stirarlo. Sistemi i capelli. Ti accarezzi il volto, a controllare la barba, ché non sia troppo lunga. Vorrai mica fare brutta figura al primo incontro? Poi, vai. Bussi incerto. Due colpi leggeri, quasi a non disturbare. Rumore di passi. E ti ritrovi ancora a sistemarti il vestito, i capelli. La porta piano si apre. Uno spiraglio che s'ingrandisce ogni istante. Si spalanca e ti assale una ventata di paura e di speranza. Attorno a te c'è solo l'ignoto, ma lì davanti, oltre quella soglia, c'è l'unica ancora che ti rimane. E nella luce, un'ombra si staglia. Una figura che già riconosci quale legame con il passato. Sorridi, un timido saluto che si trasforma in un abbraccio. Pacche sulle spalle. L'invito a entrare. Il vociare a ~9~ chiamare gli altri. Guardate chi è arrivato, dal paese. Nuovi abbracci, nuove pacche sulle spalle. E poi domande, cento, mille domande. Ti senti a casa. Non c'è più paura, adesso. Solo sollievo e speranza. Non se ne parla di dormire in albergo. Sei del paese, sei di famiglia, quasi. Si resta lì, con loro. Basta stringersi un po', che problema sarà mai? E' la tua prima notte lontano, a parte il viaggio. Ma non ti sei mai sentito così tanto a casa. E i sogni sono leggeri, lievi. Ti cullano, nel tuo dormire. Ti avevano detto Vai lì, che ti aiuteranno. Ma mica te lo immaginavi tutto questo. Ti portano a cercare lavoro, dove già ci stanno loro intanto, ché così ci scappa una buona parola. E' un bravo ragazzo, gran lavoratore, viene dal paese. Se poi non va, andiamo da un'altra parte. O da un'altra ancora, e ancora. La litania è la stessa. Ti senti osservato, squadrato, spogliato. Poi, senti distante, come arrivasse da chilometri, quella voce. Sì, va bene, lo prendiamo in prova, ma che lavori bene, che non voglio storie, la paga è poca, il lavoro tanto, accontentarsi. E' serata di festa. Hai trovato il lavoro. Magari non è quello che avresti sognato, ma occorre accontentarsi, appunto. Questa è la partenza. Un domani, chissà. Non c'è fretta di trovarti una casa. Non stai bene qui? Si sta un po' stretti, ma c'è tutto il calore di casa tua. Cosa vuoi andartene via da solo, stai qui ~ 10 ~ con noi. E ti senti rispondere Grazie, prima ancora di aver capito. I primi tempi è dura. Sei via da casa, da solo. Anche se ci stanno loro, gli altri del paese. Ma non è la stessa cosa, non è la tua famiglia. La nostalgia sta lì nel petto e cresce. Cristo, se cresce. Il lavoro è duro, faticoso. Ce la puoi fare, devi dimostrare quello che vali. Magari ci scappa una promozione. I compagni, per loro sei uno straniero, uno dei tanti, l'ultimo. Sì, qualcuno lavora bene, ma come fai a fidarti, mica sono dei nostri. La paga, va be', la paga è quella che è. Accontentarsi. Poi c'è la lingua, quella lingua che mastichi, che fatichi a comprendere. Cioè, gli ordini e le bestemmie quando sbagli li capisci al volo. E' una lingua universale. Sono le altre frasi, quelle non urlate, quelle magari gentili che proprio non comprendi. Fortuna che poi a casa parli la lingua del paese, però qua occorre che ti metta a studiare. Dopo il lavoro, ovvio. A sera, dopo cena, prima di andare a dormire. Passano i giorni, le settimane, i mesi. Poi, gli anni. Scrivi sempre al paese, regolarmente. Sei diventato zio, una bella bambina. Puttana, è morto il babbo, non ce la faceva più. La sai la Mirella, quella del fornaio, sì, quella che ti piaceva, si è sposata. La mamma sta male, vorrebbe tanto rivederti, prima di raggiungere il babbo. Ma non ce la fai, non ce la fai mai a tornare. C'è il lavoro, non ~ 11 ~ puoi andartene così. Poi c'è quella ragazza, conosciuta al ballo, Dio che occhi. Fatichi un po' a invitarla. La prima volta chiede lei. La seconda viene facile. La terza è automatica. Non te ne accorgi che ti trovi in chiesa, già bell'e sistemato. E prima che te ne renda conto, ecco l'erede. Tutto il suo babbo, l'talian. Va be', anche molto la sua mamma, ovvio. E così, non torni mai, ché la tua vita ormai è qui. Il paese? E' un ricordo lontano, perso in fondo al cuore. Un ricordo che ti accompagna ogni giorno, a sera, prima di andare a dormire. Magari domani ne parliamo, torniamo a casa. Ma il giorno dopo te ne sei già dimenticato. E la vita scorre, scorre via. E si trascina dietro il ricordo, che pian piano si confonde, si disperde sino a scomparire. Il paese, gli amici, la famiglia. Solo vaghi frammenti, lettere ingiallite, foto sgualcite. E quel peso, quel peso in fondo al cuore. Che ti scoppia dentro, all'ultimo giorno, e ti riga il volto al momento del saluto. Addio, anzi arrivederci. ~ 12 ~ ~ 13 ~ La vita è fatta così (Roberto Mariani) ~ 14 ~ Ognuno ha il suo Rosebud personale, scriveva Osvaldo Soriano, e lasciatemi citarne alcune frasi. Ce ne portiamo il segreto nella tomba. Lo slittino di Charles Foster Kane, in Quarto potere, non è la verità della sua vita, ma quello che per lui era stato l'origine della verità. Quello che rimarrà sempre impercettibile a chiunque altro. Possiamo cancellare o confondere le tracce di una vita, ma le portiamo sulle nostre spalle. Il mio Rosebud, ci ho pensato a lungo. Ciò che mi caratterizza, che rappresenta per me l'origine della mia vita e che mi ci riporta, come un filo segreto, sino al mio Aleph è una lapide. Una lapide in marmo grigio, con una piccola foto in alto, e sotto solo un nome e due date. Che forse oggi, a distanza d'anni, il tempo e le intemperie hanno sbiadito, nonostante la cura che so essere stata prestata a quella fredda pietra. Simbolo di una vita spezzata. Di che lapide si tratta, vi starete chiedendo, e perché per me ha assunto un'importanza così vitale? E' la lapide di mia sorella, nel cimitero del paese, nella quale rivedo la mia lapide, quando verrà il momento. Perché? E' molto semplice. E' stato lì, davanti a quel pezzo di marmo grigio che ho capito, che ho davvero capito con tutto me stesso - perché sì, prima lo sapevo, ma non lo avevo ~ 15 ~ ancora compreso, c'era un che di aleatorio in questa consapevolezza che non voleva concretarsi - che sarei dovuto morire, che tutti saremmo dovuti morire. E non si tratta di un qualcosa di lontano, d'indefinito, ma è una meta alla quale ci avviciniamo ogni giorno di più, con i nostri stessi passi. Siamo noi che tracciamo la strada che ci conduce alla tomba. Cavolo, non è mica una bella scoperta, per un ragazzo di quindici anni. Quindici anni, e poco più. Tanti ne avevo quando è morta mia sorella, due anni più grande e una vita che aveva appena iniziato a sbocciare. Bella come un mattino d’estate in alta montagna, dolce come il vento della primavera, un sorriso al quale avresti affidato il mondo e due occhi che cantavano la poesia. Tre o quattro ragazzi del paese le ronzavano attorno, com’è logico, ma lei non ci badava ancora, troppo presa dai suoi sogni. Nei quali anch’io, chissà? per ricordarla meglio?, mi sono immerso. Un male antico, di quelli che ti rodono dentro e i dottori ti guardano con l'aria di chi non sa dove appigliarsi - se non alla preghiera, e mia madre andava in chiesa tre volte al giorno in quel periodo - se l'era portata via. Veloce. Poche settimane. Un primo malessere, passeggero sembrava, che le aveva incrinato appena il sorriso, ma senza sfiorarle lo sguardo. Poi l'aggravarsi, l'ospedale e poi via. Nemmeno il tempo di ~ 16 ~ un saluto. Nemmeno il tempo di sapere che il futuro le si stava bruciando, dentro. Funerale e cimitero, con le lacrime che non smettono di scendere. E che ancora oggi affiorano al ricordo, o quando dal portafogli esce la sua foto, ormai sgualcita e sbiadita, dove solo rimane la sua eco. Poi, la lapide. E l'illuminazione. Ricordati che devi morire. Sì, adesso me lo scrivo. Che cosa fai quando ti accorgi che la tua vita è destinata alla morte, che tutto ciò che farai sarà comunque inutile, che non puoi sfuggire a quella terra, al diventare, quando sarà il momento, nulla più che carne per vermi? O ben che vada, polvere, e nulla più? Non piangi, perché hai già pianto tutte le lacrime per tua sorella, e i tuoi occhi non ne hanno più per te. Allora pensi. Cioè, prima ti viene in mente che in fondo è tutto inutile. Che tanto varrebbe lasciarsi andare, buttarsi via. Vivere alla giornata, come capita, e tanti saluti. Poi, no, ché vuoi vivere anche per lei. Le devi almeno questo. Vivere la vita migliore che puoi. Se non ci riesci, be' almeno ci hai provato. E tanto basta, tanto è sufficiente per poter dire di aver vissuto. Qual è la vita migliore? Che cosa posso dirvi? Non c'è una sola risposta, ciascuno deve trovare dentro di sé la propria. Per qualcuno magari sono i soldi, averne tanti da non riuscire neppure a contarli, e volerne sempre di più, e spendere tutti i ~ 17 ~ propri giorni ad accumularli. Per qualcuno magari è l'amore, o la famiglia, o ancora il lavoro. Trascorrere il tempo che passiamo su questo pezzo di terra inseguendo un sogno solo, senza osare rivolgere lo sguardo a tutto il resto che ci circonda. Io, per me, posso solo darvi un suggerimento. Non crediate che la prima risposta che vi esce dalle labbra sia quella giusta. No, la risposta giusta si nasconde nel cuore, dovete estrarla a fatica. Si nasconde, e vi tormenta, senza che voi riusciate a scorgerla. Magari dopo anni di pensieri e riflessioni. O magari, nemmeno ci riuscite e allora vi accontentate di quello che trovate giorno dopo giorno. Io mi sono accontentato, per un po'. Cioè, stavo lì, al paese. Dapprima finire gli studi, perché non si sa mai. Poi, un lavoro, giù alla fabbrica, dove va anche il babbo, dove vanno anche gli altri fratelli. I turni sempre uguali, scanditi dalla sirena. Il lavoro di routine, sempre gli stessi gesti, gli stessi passi. Gli stessi volti, accanto e poi in mensa. Le carte al bar, il sabato o la domenica, l'unico svago consentito, ché bisogna risparmiare. Un'uscita con gli amici, per dirsi cosa?, tanto li vedi tutti i giorni giù alla fabbrica. La monotonia è una vita che gira, come una ruota. E tu, stai lì e ti accontenti. Poi, si rompe un ingranaggio. Cioè, non è che si rompa proprio, più che altro si blocca. E tu con lui. Senti che là fuori, ~ 18 ~ oltre le mura della fabbrica, c'è qualcosa, qualcuno?, che ti aspetta. Ma quando esci e ti trovi in mezzo al paese, tra i volti sempre uguali, ti accorgi che non è lì. Vai a dormire stanco, e sogni qualcosa che non sai e non ricorderai. E il mattino, in fabbrica, di nuovo senti qualcosa, qualcuno?, che da fuori ti chiama. Vai avanti così per giorni, per settimane. Sentendo dentro te qualcosa di bloccato, che ti impedisce di sorridere se non con la sola bocca. Poi, una mattina apri gli occhi e hai deciso, non sai neppure tu cosa, né come. Ma adesso hai deciso, questo solo sai. Il cuore, e il ricordo, hanno liberato quella risposta che giaceva, sepolta, da quel primo giorno davanti alla lapide. Così, ti ritrovi a sorridere dagli occhi, dopo tanto tempo. E passi il giorno a pensare a cosa dirai alla tua famiglia. Finché non arriva la sera delle decisioni. A cena, tutti seduti a tavola. Silenzio, non si parla quando si mangia. Ma tu non ce la fai. E' troppo importante ciò che devi dire. Ho deciso che vado, dove non lo so, ma qui non ci sto più, non c'è speranza, non c'è futuro. Lasciatemi partire, sennò qui morirò, un po' ogni giorno, proprio come lei. Non ci sono grida, c'è solo il silenzio di risposta. Sguardi preoccupati, e teste che si abbassano e dondolano a destra e sinistra, con le labbra serrate e, dopo una mano che si è levata al cielo prima di riabbassarsi fremente, i pugni stretti di ~ 19 ~ tuo padre, con una bestemmia che non vuole uscire e che si fa seguire dal segno della croce. Poi le lacrime di tua madre, i consigli di tuo padre, il silenzio dei fratelli che t’invidiano quella scelta che a loro ancora non è dato conquistare. E poi, abbracci, abbracci senza fine. La ruota ha ripreso a girare, ma adesso sei tu che la controlli. Hai deciso, con uno spunto di follia, ripensando a quei racconti rubati all’osteria, dove vuoi andare, e quando partirai. Il tempo passa e la data si avvicina. Gli ultimi giorni giù alla fabbrica, che sì sono sempre uguali, sempre monotoni, ma ormai non ci fai più caso e riesci a trovare una novità inesistente anche nel gesto consueto di ogni giorno. Le ultime partite a carte e bevute con gli amici, che ti guardano con invidia e commiserazione. L'addio agli amori del passato, che stai già scordando, ma non lo sai, e che poi ti torneranno in mente nelle vuote mattine d'inverno. I saluti gettati via, veloci, quasi facciano meno male. E poi, l'ultimo sguardo al cimitero, a quella lapide di marmo che serberai sempre in fondo al tuo cuore. L'ultima notte sul tuo letto. Poi, il mattino, quando il sole si nasconde ancora, ti alzi e te ne vai. In silenzio. Come un ladro. Perché in fondo tu qualcosa stai rubando, la vita di un altro figlio ai tuoi genitori. ~ 20 ~ ~ 21 ~ Se vedi il futuro digli di non venire (Juan Josè Castelli) ~ 22 ~ Adesso sono qui, nella casa per anziani. Mi hanno messo qui i miei figli, hanno la loro vita, sarei solo un peso per loro. E io da solo non ci potevo stare più, non che non volessi, anzi: quanto vorrei ancora la mia libertà!, ma proprio non ce la facevo, negli ultimi tempi combinavo un disastro dietro l’altro. E così, non potendo andare a stare a casa loro, mi hanno portato qui, dopo aver penato non poco a convincermi che era la soluzione migliore. Per me, hanno detto. Ma penso anche per loro. E io mica me l'immaginavo che sarebbe finita così. Non è che si stia male, no. Però. Vedete, il fatto è che qui nella casa per anziani il turnover è molto rapido, non fai in tempo a confessarti che stai già uscendo dalla porta di dietro con il cappotto di legno. Bello pronto per i tuoi due metri di terreno, una lapide sgualcita e qualche fiore dozzinale. Ma io non ho mica tutta questa fretta di uscire. E di sentirmi tre metri sotto terra, nascosto dal ricordo disegnato su una fredda lastra di marmo con le date. Cioè, ho vissuto una buona vita, al meglio che ho potuto. Probabilmente avrei potuto realizzare od ottenere qualcosa di più. Magari avrei potuto essere più coraggioso, in alcune circostanze, o forse meno duro in altre. Se, se, se: potrei restare qui per ore a riflettere su quello che sarebbe potuto accadere se ~ 23 ~ avessi preso una decisione diversa, in un momento qualsiasi della mia vita. Sono soddisfatto, certo, se mi guardo indietro, perché le gioie superano di gran lunga i dolori. Ma se mi guardo davanti, quella lapide per me la vedo ancora distante. Laggiù alla fine del cammino, che mi aspetta. Senza fretta. Ho anche degli splendidi figli, che mi vengono a trovare, con i miei adorati nipoti, quando possono. Magari poco, ma hanno la loro vita. Al loro posto, probabilmente anch'io farei lo stesso, se fossi cresciuto nella loro epoca e non nella mia. Ma se ripenso all'ultima volta che ho visto i miei genitori, la sera prima di partire, se ripenso a tutte quelle lacrime, ai consigli e agli abbracci, sento crescere dentro un grande rimpianto e una nostalgia. E mi dispiace allora che i miei figli vengano così poco, e vorrei poter uscire per andare io da loro. Per trascorrere ancora del tempo assieme, prima che per me sia troppo tardi. Prima che venga il momento dell’addio. Sia chiaro, però, non ho mica tutta questa voglia di salire al piano di sopra - o magari a quello di sotto, chi può dirlo? In fondo, dicono che laggiù la compagnia sia migliore, e che lassù il vero vantaggio sia solo il clima. Sì, lo so che ci arriverò, ci arriviamo tutti, prima o poi. Ve l'ho detto che vedo già la mia lapide, laggiù alla fine del cammino – e so già che foto ci metteranno, quella col cappello alla Gardel, ma molto più ~ 24 ~ vecchio e imbiancato dal tempo di Carlitos, scattata al battesimo di Sabrina, l’ultima nipotina. Ma se da giovani corriamo, sempre più veloci, arrivati a una certa età andiamo via piano. Rallentiamo. E allora, lasciate che ce ne andiamo anche lentamente. Cos'è tutta questa fretta? Volete forse il nostro posto, qui nella casa per anziani? Non abbiate fretta, verrà anche il vostro turno. Dopo. E così, passo le giornate seduto sulla panchina, a dare da mangiare ai piccioni. Molliche di pane, si accontentino anche loro, come ci accontentiamo noi. A volte arriva qualche altro ospite – ospiti, così ci chiamano. Ma a me sembriamo sempre più dei pazienti, stanchi e assetati di una vita che ci sfugge dalle dita giorno dopo giorno - e chiacchieriamo. Ci raccontiamo dei tempi andati, di quando eravamo più giovani di adesso. Parole di esistenze andate in tanti giorni uguali e duri. E non crediate che ci sia monotonia, anche se spesso ci raccontiamo sempre le stesse storie. Ormai, la memoria vacilla, per qualcuno più del corpo, e ogni vecchio, stantio persino, racconto ci appare come un neonato. A volte, come oggi, sono qui da solo. E mi parlo addosso. Non è che sono matto, è che ho bisogno di sentire qualche voce. E se c'è solo la mia, be', bisogna accontentarsi. E poi, fa bene ricordare. Se uno non ci presta attenzione, i ricordi si accavallano e si ~ 25 ~ confondono nella mente e più passa il tempo, più diventa difficile ritrovarli, ripescarli, assaporarli nuovamente. Ho letto da qualche parte, tempo fa, che bisognerebbe allenare la nostra memoria, cercando di immagazzinare al meglio tutte le nostre conoscenze, i nostri ricordi, in profondità, per andarli a ripescare quando servono, lasciando così libere le facoltà più immediate. Trasformare la nostra memoria insomma in una sorta di libreria, con tanto di schedario da consultare alla bisogna. Sì, come se fosse facile. Chi c'è mai riuscito? Io no di certo, e me ne rendo conto sempre di più. Lo schedario mi servirebbe averlo scritto, per non perdermi nel fiume di una memoria che s’ingarbuglia. Giorno dopo giorno è sempre più difficile ricordarsi cosa ho fatto nelle ultime ore, con chi ho parlato e di cosa. Certe giorni, non mi ricordo neppure cosa ho mangiato, o se ho mangiato. E’ capitato, che volessi tornare a letto subito dopo colazione, convinto che dovessi ancora andare a dormire. Brutta bestia, la vecchiaia! Ma come sono invece nitidi i ricordi del passato, rivedo volti e luoghi, risento conversazioni, riassaporo persino gli odori, in certe occasioni. Come fossero eventi appena accaduti. Quando magari sono vecchi di 50 anni, o anche di più. Penso ai ricordi dell'infanzia, che a volte mi svegliano la notte, con le ~ 26 ~ lacrime che rigano le guancie senza che io possa arrestarle. Mi rivedo a correre per i prati e le strade del paese, assieme ad amici dei quali a malapena ricordo il nome, mentre il viso è così vivo. Sono ricordi davvero nitidi, anche se sono incasinati, confusi nell'ordine. E così, continuo a raccontarveli man mano che mi tornano alla mente. Se vi perdete, poco male. Sono ingarbugliati per me, figuriamoci per voi. Ciò che conta è semmai che abbiate voglia di ascoltare il racconto di una vita, uguale a tante altre. Se poi ci troverete qualcosa d'interessante, meglio. Sennò, avrete trascorso un po' di tempo ad ascoltare qualcuno che ha bisogno di parlare. Di ricordare. Di raccontare. E che ha bisogno, almeno una volta ogni tanto, anche di essere ascoltato. Non è che quando parliamo tra noi, ospiti della casa per anziani, non ci ascoltiamo, sia chiaro. Il problema è che, come vi ho già detto, cinque minuti dopo, spesso non ci ricordiamo più cosa ci siamo detti. Per noi, ogni conversazione è troppo simile a quella della prima volta. Non lo so, forse c’è un lato positivo in tutto questo, o forse è soltanto l’ultima ironia che ci regala – ma sarà poi davvero un regalo? – questa strana vita. Quante volte mi accorgo, dopo, che mi sono presentato ~ 27 ~ ancora una volta, l'ennesima. Pure con l'infermiera, la stessa che mi assiste da quando sono entrato qui dentro. E' solo che certi giorni mi sembra un volto nuovo, sconosciuto. E allora le racconto di me, e ancora, e ancora. E lei, paziente, ascolta come fosse la prima volta, ma io penso che dentro di sé mi consideri solo un vecchio pazzo, bisognoso di comprensione e di sentirsi dire sempre e solo sì, per non impazzire del tutto. Questa volta con voi è diverso. O almeno è quello che credo, perché non mi ricordo di avervi mai incontrato prima. E se così non fosse, portatemi pazienza. E ascoltate anche voi come se fosse la prima volta, perché io vi racconterò della mia vita come se fosse la prima volta. ~ 28 ~ ~ 29 ~ Il tempo rapisce le promesse (Terry Brooks) ~ 30 ~ Quali sono i momenti della nostra vita che mai e poi mai potremo dimenticare? Secondo me, quelli legati alla vita e quelli legati alla morte. Nascite, matrimoni, funerali, innamoramenti. Poco altro, diciamocelo. Perché questi sono gli eventi che più di ogni altro ci formano, ci rendono ciò che siamo, ci conducono davvero, tappa dopo tappa, dall’infanzia alla vecchiaia. Il resto, sono solo le rifiniture, le correzioni infinitesimali, gli sbandamenti di una tela tessuta troppo larga. E allora, parliamo di vita e di morte, che poi sono due facce della stessa medaglia. Quella umana. Mi sembra ieri, che è nato mio figlio. Il primogenito. Ho chiesto un giorno di permesso, per stare vicino a mia moglie Rosa, nelle ore decisive. Quando lei è entrata in sala parto, sono rimasto fuori ad aspettare. Ho fumato credo tre pacchetti di sigarette, forse più, una dopo l’altra. Io, che a malapena ne fumavo cinque, di sigarette, al giorno. I miei suoceri erano seduti in sala d'attesa, in silenzio, ma io mica ci riuscivo a stare fermo. Andavo avanti e indietro, dentro e fuori. Una sigaretta via l'altra, la seconda quasi accesa col mozzicone della prima. Poi, quando è uscita l'infermiera e mi ha dato la notizia, sono quasi svenuto. Mi hanno dovuto sorreggere, perché non finissi lungo disteso sul pavimento. E quando l'ho visto, quel batuffolo rosa che piangeva infastidito dal mondo. Non ho mai ~ 31 ~ amato così tanto. Sono corso ad abbracciare la mia Rosa e ho pianto. Dio, se ho pianto. I primi giorni andavo al lavoro e poi in ospedale, lavoro e ospedale, lavoro e ospedale. A casa ci stavo giusto il tempo di dormire qualche ora, e di buttare qualcosa nello stomaco. Non avrei mai voluto staccarmi da quelle braccia, da quelle mani così piccole che non riuscivano a tenere stretto un mio dito, da quegli occhi nei quali rivedevo, attutiti, quelli di Rosa. Il difficile è stato quando sono venuti a casa, tutti e due. Perché da lì in poi ho dormito ancora poco, ma questa volta non per scelta. La notte non ci lasciava tregua, il piccolo. Ogni due ore, scattava a piangere. Uno svizzero, sembrava. E siccome per avere qualche soldo in più facevo degli straordinari, quelle ore perse di sonno alla lunga si facevano sentire. Ma mica era colpa sua, lui voleva solo ricordare al mondo che era arrivato. E quando dormiva, così meraviglioso, noi discutevamo sul nome da dargli, ché ancora non l'avevamo deciso. C'era l'antica abitudine di dare ai figli il nome dei padri, qualcosa che ormai si è perso, con i tempi moderni. Ma che all'epoca aveva ancora il suo senso - e Dio sa se lo avrebbe ancora, oggi che tutto si sta sgretolando sotto i colpi martellanti di quella cosa chiamata modernità. Eppure noi non sapevamo deciderci, tra gli avi di Rosa e i miei c'era un bel daffare nello scegliere. Alla fine, ~ 32 ~ capitò Giovanni, come il mio babbo. E fu giusto così. Veder crescere i propri figli - perché a Giovanni si sono aggiunti in pochi anni anche Bruna, come la mamma di Rosa, e Antonio, come il nonno di mia mamma, che non ho mai potuto conoscere - è qualcosa che riempie il cuore di gioia, e di qualche preoccupazione, ammettiamolo. Quando sono piccoli, non vorresti mai perderli di vista, lasciarli soli per un momento, nemmeno di notte, quando dormono, certe volte. Ti scopri così a spiarli, di nascosto, da dietro una tenda, dalla finestra, dalla porta della camera. Ne ascolti il respiro, per sapere che tutto va bene. Per capire se sei in grado di dare loro ciò che meritano, ciò che tu non hai avuto. Di insegnare loro a essere migliori di te. E se possibile, magari anche più felici, in un mondo che cambia e che offre sempre meno, ma pretende sempre più. La prima parola che dicono, la attendi una vita. Con tutto il tuo cuore vuoi che sia rivolta a te - e tua moglie pensa lo stesso, non c'è dubbio. E così provi a insegnargli a dirla, quella parola, gli ripeti sino allo sfinimento quelle due sillabe identiche. Hai paura di non essere presente quando parlerà, perché poi chi ti dice che tua moglie ti racconti davvero cosa il piccolo ha detto? E allora ogni minuto che passi con lui lo dedichi a ripetere quelle quattro lettere. Ovvio che dopo, la sua ~ 33 ~ prima parola sia un'altra. Lo hai stufato troppo presto, gli hai instillato quel sentimento di ribellione che lo accompagnerà per tutta la vita - e che tu sai essere appartenuto anche a te, essere appartenuto a tutti i figli, sempre. La sua prima ribellione è così il non dire quelle due sillabe uguali - e nemmeno quelle altre due che attende lei, Rosa. Il piccolo ti guarda con i suoi occhi chiari e quando ha capito di avere tutta la tua attenzione, sorride illuminando il mondo ed ecco che se ne esce con altre sillabe. E poi passerai giorni e giorni a chiederti dove e quando possa averle sentite - una domanda questa che ti assillerà anche negli anni a seguire, ma alla quale mai saprai dare una risposta. C'è poi tutto il resto delle prime volte, che attendi con altrettanta trepidazione, e pure con qualche preoccupazione in più. Il primo dente, il primo passo in piedi, il primo giorno all'asilo, il primo giorno di scuola. L'emozione che le accompagna cresce sempre di più, in te. All'inizio la gridi al mondo, la condividi con tua moglie - che chissà come mai ha le stesse sensazioni, ma le sue sono migliori, sono più importanti, mentre tu sei convinto che le tue siano quelle davvero importanti. Quando lo accompagnate all'asilo, vi guarda titubante. Piange, vi si stringe addosso, non vuole abbandonarvi. Quale illusione! Sarà l'ultima volta che lo ~ 34 ~ vedrete così attaccato a voi, dopo comincerà a cercare la sua libertà. E tanti saluti. La libertà dei figli. Dove inizia? Di solito, quel limite lo fissiamo noi. All'inizio, vogliamo dar loro la massima libertà certo, senza perderli di vista, questo è ovvio. Siamo pronti a qualunque sacrificio per loro. Siamo disposti a lavorare il doppio, il triplo, affinché a essi nulla manchi. Siamo pronti a soddisfare ogni loro esigenza, quando la consideriamo ragionevole – e il limite del ragionevole è incredibilmente alto, se pensiamo a quello che avevamo noi alla loro età. Poi scatta una molla. Loro crescono e noi, noi invecchiamo. Non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma invece di allentare le sbarre della loro libertà, in quell’età nella quale avrebbero bisogno di prendere il volo, le stringiamo ancora di più. Arriviamo persino – e in questo, quanto diversi siamo rispetto ai nostri genitori, cresciuti in un’altra epoca - a rinfacciare tutto ciò che per loro abbiamo sostenuto, i sacrifici, le rinunce. Per loro, diciamo. Che poi, in realtà è per noi, ma non lo vogliamo ammettere. E così, più passa il tempo e più riduciamo i limiti di quella libertà, sino a quando loro non trovano la via di fuga e non riescono ad andarsene, come prima ce ne siamo andati noi. Portando lacrime e dispiaceri, e illudendo di speranze. ~ 35 ~ E se siamo stati bravi, se siamo riusciti a insegnare loro il valore di questa libertà, che così faticosamente sono riusciti a conquistarsi vincendo le nostre resistenze, tornano. Altre volte, non tornano più. E si rimane lì, soli. A trascorrere le serate in due, davanti al camino – e poi alla televisione – dapprima parlando, ricordando, raccontando. Poi, limitandosi a guardare quelle immagini che scorrono nello schermo, a commentarle senza convinzione, subendole più che gradirle. Poi, rimani davvero solo, e allora quell’apparecchio è la tua ancora, e ti ci aggrappi con tenacia. Lo accendi al mattino appena sveglio, lo spegni prima di entrare nel letto. Rimane lì, a trasmettere immagini che guardi distrattamente, per lo più durante i pasti o la sera. Ma ti accompagna, con il suo ciarlare vano, nella tua solitudine. Che così, ti sembra pesare meno. Ma in fondo è solo un’illusione, una delle tante di questa strana cosa che chiamiamo vita. ~ 36 ~ ~ 37 ~ E' bello avere un lavoro, ma ciò interferisce con il tempo libero (proverbio yiddish) ~ 38 ~ Il mio primo giorno di lavoro, al paese, è stata quasi una festa. Cavolo, ero diventato grande, lavoravo assieme al babbo e ai fratelli, anche se non nello stesso reparto della fabbrica. D'ora in avanti, avrei potuto decidere io per me stesso, senza più dover chiedere permesso per ogni cosa. Sì, certo, come no. Quante illusioni. Uno s'immagina che con la prima paga - che poi ti arriva dopo che hai lavorato, quindi tu stai lì ad attenderla con un'ansia che cresce e quando arriva, lasciamo perdere, va tutto diventi possibile. Basta obbedire ai genitori, basta chiedere gli spicci al babbo per andare all’osteria con gli amici. Sì, certo, come no. La prima cosa che ti dicono, quando porti i soldi a casa suona più o meno così: la metà dei soldi la metti via per quando avrai una famiglia e il resto lo dai a noi, per mandare avanti la casa. E tutti i miei sogni? Tutte le mie speranze di libertà? Carta straccia, a essere gentili. Eppure, quando sono entrato in fabbrica il primo giorno il mondo mi sorrideva. O meglio io sorridevo al mondo, che però mi sembrava rispondesse. Non c'era ancora il sole, troppo presto. Buio, la notte non aveva ancora voglia di passare la mano. Facce amiche attorno, giusto una o due, di conosciute già qualcuna in più. Per il resto, volti assonnati, stanchi, cordiali quanto basta – cioè il tempo istantaneo di un cenno con la ~ 39 ~ mano come saluto - e nulla più. Non siamo qui per stringere amicizia, per chiacchierare, ma per lavorare. Obbedisco! E quindi, a conti fatti, non è che il mondo mi sorridesse così tanto. Io sì però sorridevo, perché mi sentivo grande. Cioè, ero uno dei più giovani là dentro, ma il sapere – beate illusioni! - che presto avrei avuto dei soldi miei mi riempiva di gioia, m'illuminava gli occhi. E così sorridevo, come un cretino. Soprattutto visto dove sarebbero finiti poi i soldi una volta arrivati. All'inizio mi hanno messo in un reparto tranquillo, dove c'era poco da faticare. Un po' per vedere di che pasta ero fatto, per capire se valevo qualcosa, se assomigliavo ai miei, insomma. Ciò passato sei mesi lì dentro, giorno dopo giorno, sempre le stesse facce stanche, sempre le stesse mezze frasi, lasciate lì incomplete perché tanto cosa vuoi completare in questo schifo di paese? Poi, mi hanno promosso. Cioè, io l'ho presa come una promozione, ma poi chissà. Mi hanno spostato in un reparto di responsabilità. Come suonava bene quella parola all'epoca. Solo dopo ho capito la fregatura. Se prima avevo sempre lo stesso turno, adesso lo cambiavo ogni settimana. Mattina, pomeriggio, notte. E poi via di nuovo. Altro giro, altro regalo. Ma sempre uguale nella sua ciclicità. Ho cambiato tre reparti, nella fabbrica del paese. Non ho ~ 40 ~ capito quale fosse il migliore. Forse nessuno, alla fine. Da lavorare ce n'era ovunque, sempre. Le facce stanche e bianche erano sempre uguali, anche se su corpi diversi. Le frasi iniziate e mai completate si ripetevano identiche. E i turni, dopo un po’ uno si abitua e non ci fa più caso. Sono stato lì cinque anni, prima di decidere di andare via. Non mi bastava. Non mi bastava la fabbrica, non mi bastava il paese. Volevo di più, volevo qualcosa di diverso. Sentivo crescere dentro di me un sogno, che poi era quello di mia sorella: viaggiare, visitare luoghi distanti, conoscere gente diversa. Uscire dal paese e dalla valle. Conoscere il mondo! Ero giovane, capite. E come tutti i giovani, volevo andare via per cercare altrove quello che lì non credevo di poter trovare. Non mi ci vedevo a lavorare sino alla fine dentro una fabbrica, vedendo sempre le stesse facce, ascoltando sempre le stesse mezze frasi. Volevo di più. Indovinate com'è andata a finire. Un altro paese, anche se non altrettanto piccolo. Un'altra fabbrica, altre facce, sempre uguali, altre frasi, sempre lasciate a metà. Tanto, cosa vuoi completare in questo schifo di paese? Di fabbriche, ne ho passate tre, nella mia vita. Alla fine, tutte eguali. Le differenze stavano solo nel prodotto. E accontentarsi. Di anni, turno dopo turno, ne ho passati ventidue lì dentro. Poi ho deciso che ne avevo abbastanza, che ~ 41 ~ era venuto il momento di creare qualcosa di mio, qualcosa da lasciare, se ci fossi riuscito, ai miei figli. Così, ho aperto un negozio. Poca cosa, abbigliamento, per uomo e donna. Rosa è stata contenta di venire a lavorare in negozio, ma solo per qualche ora al giorno, lei restava un’insegnante. Giovanni invece, che pure avrebbe avuto l’età giusta per dare una mano, non ne ha voluto sapere, aveva già deciso di diventare avvocato e studiava tutto il santo giorno - e quando poi si è laureato, che festa. Bruna è arrivata subito anche lei, appena ha potuto, e poi ha preso in gestione tutto quando io mi sono ritirato. Antonio, il più giovane, ha lavorato qualche tempo con noi, poi ha deciso di seguire un'altra strada, ha studiato anche lui, è diventato professore. Proprio come la mia Rosa. Il negozio è stata una scommessa, perché ho dovuto fare anche dei debiti per aprirlo. Mica avevo i soldi necessari, cosa credete, in fabbrica pagano anche abbastanza bene, soprattutto se uno lavora di notte, ma non così tanto. Sono andato in banca, ho spiegato il mio progetto, ho dimostrato di avere un po' di denaro da parte. Mi hanno dato i soldi subito, dopo aver messo un'ipoteca sul negozio stesso. Ma quanto ho faticato per restituirli. Alla fine, a conti fatti ne ho restituiti quasi il doppio di quelli che mi avevano prestato. Ma si sa, con le banche è ~ 42 ~ sempre così, in qualsiasi paese. Certo, se capita con i privati che gli devi restituire il doppio di quello che ti hanno dato la chiamano usura, ma va be'. Ho deciso di aprire un negozio di abbigliamento per uomo e donna perché lì al paese dove stavamo ancora uno uguale non c'era. C'erano negozi solo per uomini o solo per donne. Ma uno che accontentasse tutti no, non era venuto ancora in mente a nessuno, ed è stato proprio quello a convincermi che potesse essere il settore giusto. All'inizio mi hanno anche guardato storto, come se fosse un qualcosa di sbagliato, di sacrilego quasi. Venivano gli amici, i parenti, pochi altri. Poi la gente si è accorta che la qualità era buona e che i prezzi erano bassi – chissà cosa si aspettavano dal ‘talian - e hanno cominciato a venire un po' tutti. Dopo qualche tempo, ho preso a importare capi italiani e gli affari sono migliorati ancora. Abbiamo dovuto assumere dei commessi, perché noi da soli non ce la facevamo. Certo, se Giovanni e Antonio avessero deciso di venire a lavorare con noi, non avremmo dovuto pagare altre persone, ma loro volevano qualcosa di più dalla loro vita. Come potevo impedirglielo? Non sarebbe stato giusto. E così, loro da una parte, con la loro libertà, e noi con il nostro negozio da un'altra. Sono rimasto a lavorare lì sino a quando sono andato in ~ 43 ~ pensione. Ventiquattro anni, prima di cedere la mano. E mi è costato andarmene via, ma ormai non riuscivo più a tenere dietro agli ordini dei clienti. Dopo che ho sbagliato per quattro volte di fila l'ordine e il conto, mia figlia mi ha detto che forse era il caso di lasciare tutto a lei e di restare a casa. Ero diventato inutile, insomma. O forse peggio, dannoso. E così, spedito a casa, a instupidirmi davanti alla televisione. Dopo oltre quarant'anni di lavoro adesso potevo dedicarmi solo a me stesso. Sì, ma cosa mi restava ormai? Rosa non c'era più e io ero solo, con l’unica compagnia di quell’elettrodomestico e, ogni tanto, dei nipoti. Che ci stavo a fare a casa? Così, continuavo lo stesso ad andare in negozio, quasi tutti i giorni, per vedere se c'era bisogno di qualcosa, se i clienti avevano bisogno di qualche suggerimento, se potevo ancora rendermi utile. Certo, come no. Bruna ha retto tre settimane scarse, poi abbiamo litigato, mi ha cacciato via e non sono più entrato in negozio. Aveva ragione lei, lo so, però è così triste, sentirsi vecchi, inutili, dannosi. E soli, dannatamente soli. Con l’unica compagnia, per il puro gusto di sentire un’altra voce, di un cialtrone che parla da uno schermo nel salotto, mentre tu girovaghi per casa. ~ 44 ~ ~ 45 ~ Certo: siamo musiche che rimangono negli altri (Osvaldo Soriano) ~ 46 ~ Vi ho già parlato della mia famiglia, vero? Rosa, la mia bellissima e amatissima moglie. Giovanni, Bruna, Antonio, i miei adorati figli. Andrea, Sabrina, Mathias, la luce dei miei occhi stanchi, i miei nipoti. Non abbastanza, dite? Allora cercherò di porre rimedio, di dirvi tutto ciò che c'è da sapere su di loro, o almeno tutto ciò che conta. Poi, sia chiaro, tornerò a parlare di me. In fondo, questa è la mia vita, mica la loro. Rosa. Ricordo come fosse ieri quando l'ho vista la prima volta, alla festa del paese. Io ero lì, impacciato, nel mio vestito buono, appoggiato a una colonna, un bicchiere di caipira in mano, che gustavo lentamente. Mi guardavo attorno, a disagio. Non sapevo ballare e lì per conquistare una ragazza bisognava per forza invitarla a ballare. E poi, ancora ero impacciato con la lingua, biascicavo mezze parole, e mi confondevo col dialetto del paese. Mentre giravo lo sguardo da una parte all'altra della stanza, mi sono perso nel fondo di due occhi verdi. Mi stava guardando, già da un pezzo mi disse poi. La faceva sorridere la mia aria indifesa e smarrita, le faceva tenerezza. Rimasi lì a guardarla per non so quanto, prima di volgere altrove lo sguardo, rosso in viso. Quando poi tornai a guardare verso di lei, dopo altre due caipire, aveva accanto due ragazzi, che la stavano invitando a ~ 47 ~ ballare. Ridevano tutti e tre, e io sentii una punta di gelosia, e mi maledissi per la mia mancanza di coraggio. Poi, lei sorrise, mi guardò e si alzò. Passò in mezzo ai due senza curarsi delle loro frasi, dei loro gesti, e si accostò a me. Allora, mi disse, mi fai ballare? Vi giuro, stavo per svenire. Credo di averle pestato i piedi per tutta la durata del ballo, perché dopo, quella sera, non abbiamo fatto altro che parlare, ben distanti dalla pista da ballo però. Ci siamo piaciuti subito, eravamo così simili. Lei, figlia di emigranti, nata lì. Io emigrante di mio. Ci univa il ricordo della patria d'origine, lontana, anche se venivamo da due paesi diversi, io da un piccolo borgo montano, lei da una città di pianura, appena più grande. Ci univa il crescere in un paese che faticavamo ancora a sentire nostro, con una lingua che entrambi masticavamo a fatica - mentre ci capivamo così bene nel nostro dialetto, che pure era diverso. E poi, ovvio, ci univa l'amore. Non so se voi credete nell'amore a prima vista. Qualcuno dice che è come sentire le farfalle nella pancia. Io non le ho mai mangiate, né ho intenzione di cominciare alla mia età, quindi non lo so se sia giusto il paragone. Ma è certo che qualcosa dentro che ti si muove e ti scombussola le viscere lo senti. Ti cresce dentro e ti porta a essere ancora più goffo di ~ 48 ~ quello che potresti essere, o che sei, abitualmente. Con Rosa quel qualcosa dentro lo abbiamo sentito tutti e due, quando ci siamo guardati negli occhi la prima volta, da distante. I suoi, così verdi, sembravano il mare, all'alba, dopo una notte di pioggia. Puliti, profondi, immensi. Era impossibile non innamorarsi di lei. Negli occhi di Rosa mi sono perso per quasi quaranta anni, sino a quando un brutto male non se l'è portata via. Anche lei, come mia sorella. Dopo quella sera, abbiamo cominciato a frequentarci, a uscire assieme. Prima con i suoi amici, poi, vinta la resistenza dei suoi genitori, da soli, ché sentivamo il bisogno di un po' d'intimità. Non so se capite. Nel frattempo, lei ha finito gli studi - ve l'ho detto che Rosa aveva cinque anni meno di me? Dopo, abbiamo deciso di sposarci e andare a vivere assieme. Abbiamo comprato una piccola casetta, non troppo distante da dove abitavano i suoi, con qualche sacrificio, com'è giusto che sia quando si vuole costruirsi una famiglia. A quel tempo, lei aveva iniziato a insegnare ai bambini. Le piaceva essere una maestra, essere circondata da bambini. A volte ero quasi geloso, di tutta l'attenzione che lei dedicava al suo lavoro, ai suoi alunni. Poi, mi guardava negli occhi e tutto passava, come potevo continuare a essere geloso? Rosa ha ~ 49 ~ dedicato tutta la sua vita alla famiglia e alla scuola. Quando abbiamo aperto il negozio le ho detto di venire a lavorare lì, di lasciare l'insegnamento. Sapete cosa mi ha risposto Come posso abbandonare i miei ragazzi? Ed è rimasta lì, venendo in negozio solo alcune ore al giorno - ma questo forse ve l'ho già raccontato. Un giorno Rosa ha cominciato a sentirsi male, aveva un dolore qui, allo stomaco. Roba da niente, secondo lei, le serviva solo un po’ di riposo. Ma il giorno dopo, lo sentiva ancora. Così, siamo andati dal dottore, che le ha fatto fare visite su visite. Poi ci ha detto che non c'era nulla da fare, che era solo questione di tempo. Ancora. Sapete? Ho pianto solo io. Rosa no, ha sorriso anche in quell'occasione, con i suoi meravigliosi occhi verdi. Mi ha asciugato le lacrime, mi ha guardato e mi ha detto Mi hai regalato la vita che volevo, perché dovrei essere triste? E se non sono triste io, non devi esserlo nemmeno tu. Non ha cambiato nessuna delle sue abitudini e ha costretto anche noi a continuare a fare quello che avevamo sempre fatto, come se non fosse successo nulla. Poi, una mattina di fine settembre, mentre il sole si affacciava svogliatamente, ha smesso di sorridere. Giovanni, il primogenito, ha gli stessi occhi verdi di Rosa. Adesso è un avvocato, sempre di corsa, si è sposato e a due ~ 50 ~ bambine, Andrea e Sabrina, e la più piccola ha ereditato ance lei gli occhi della nonna. Vivono tutti nella capitale e così li vedo poco. A un certo punto, prima di finire qui dentro, sembrava che dovessi andare a stare con loro, ma come si fa? Giovanni e la moglie hanno due bambine piccole, non hanno bisogno anche di un bambino grande, che gli complichi ancora di più la vita. E che, a differenza di Andrea e Sabrina, non imparerà più ad arrangiarsi da solo, ma avrà sempre più bisogno di aiuto. Bruna è sempre stata la mia preferita. Non lo so se tutti i genitori facciano delle preferenze riguardo ai propri figli, ma io ho sempre avuto un affetto maggiore per lei, forse perché era l'unica figlia femmina e quindi era sempre in inferiorità nei giochi o nelle discussioni con i fratelli. Lei, ve l'ho detto, lavora al negozio, se n’è innamorata subito e non ha mai pensato a un’altra occupazione. Si è sposata e ha un figlio, Mathias. I primi tempi, quando non potevo più stare in casa da solo, ho abitato con loro. Ma com'era già successo al negozio, abbiamo retto poche settimane. Forse, è sempre stata la mia preferita perché ha un carattere come il mio, e per questo adesso che invecchio non riusciamo a stare assieme. Antonio è il piccolo, quello al quale Rosa voleva più bene – anche lei aveva le sue preferenze, che credete. Ha preso il ~ 51 ~ carattere da lei e la voglia di insegnare. Non ai bambini però, non sembra amarli troppo. Insegna all’università. Ha una compagna, ma non parlano mai di matrimonio e quando mi vengono a trovare ed io accenno il discorso, sono sempre bravi a mettersi a parlare del tempo, e io non posso insistere. Come sono cambiati i tempi, una volta appena un ragazzo e una ragazza si conoscevano e si piacevano, cominciavano subito a progettare di metter su famiglia, a pensare al matrimonio. Adesso? Si accontentano di stare assieme, perché non si sa mai, ti rispondono quell’unica volta che accettano di parlarne. Antonio non ha mai parlato di prendermi a vivere con lui, forse perché non avendo una famiglia propria non vuole troppi legami, ma alla fine è quello che viene a trovarmi più spesso, qui, nella casa per anziani. ~ 52 ~ ~ 53 ~ In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare (Henry Laborit) ~ 54 ~ Una volta al mese, la direzione della casa per anziani ci porta giù in città, per una passeggiata. Poche ore, sia chiaro. Giusto per farci respirare un'aria un po' diversa e per farci sentire ancora vivi. Perché qui dentro il trascorrere sempre uguale delle giornate molto spesso porta a interrogarsi su questo: siamo già morti e questa noia assoluta è il paradiso? L'ho sempre detto che l'inferno sarebbe preferibile, clima a parte. Nell'attesa di capire cosa vi sia in serbo per me, nel giorno dell'addio, evado da queste mura - che sanno a volte di prigione - con la mente. E viaggio. Visito posti che ho visto e luoghi che mai vedrò. E spesso, ripenso a quel primo viaggio, lontano nel tempo, che mi ha condotto qui. Era una buia mattina d'autunno - sarà un caso, è la stagione dei cambiamenti, nella mia vita - quando ho aperto per l'ultima volta la porta di casa, su al paese. Dormivano ancora tutti. I saluti, gli abbracci e le lacrime c'erano stati alla sera. Sarebbe stato troppo penoso ripeterli anche il mattino, e così sono partito in silenzio. Ho guardato indietro, per imprimermi nella mente più ricordi possibili. Un sospiro. Ho chiuso gli occhi. Sono uscito, chiudendomi la porta alle spalle. Ho riaperto gli occhi e mi sono avviato, con il primo passo. Senza più voltarmi. Ho attraversato la piazza ancora addormentata. Sono ~ 55 ~ salito sulla corriera, nei posti dietro. Per potermi voltare, per l'ultimo saluto a ciò che stavo lasciando. Solo quando il paese è scomparso all'orizzonte - e la fabbrica è stata l'ultima immagine - ho chiuso gli occhi e mi sono addormentato. Dopo, ho preso il treno, per raggiungere il porto, attraversando l'Italia. Ammirando dai finestrini paesaggi che mai avevo visto e che più avrei rivisto. Lontane, le montagne, vicina, tanto da poterla sfiorare, la pianura, che vedevo per la prima volta. E poco più in là, il grande fiume, del quale avevo solo sentito parlare in racconti sperduti, che poi sfocia nel mare, che poi si tuffa nell'oceano – come ci avevano spiegato a scuola, quando non eravamo troppo distratti. Quando mi sono affacciato al porto, che emozione! Tutta quell’acqua messa assieme non l’avevo mai vista, e anche immaginarla era stato difficile. E quante barche, di tutte le dimensioni. La più grande, era quella che aspettava me e la mia valigia di cartone. I miei ricordi e le mie speranze. I miei sogni e la mia sete di vita. Salire la scaletta della nave, mica è facile. Prima hai la terra, l’unica cosa che hai conosciuto in tutta la tua vita, seppur così diversa lì in pianura dalle tue solide montagne, sotto i piedi, poi quel pezzo di metallo che galleggia. Ti vengono i dubbi. Che sto facendo? Incespichi, ti volti indietro, ti spingono, perché ~ 56 ~ rallenti la fila è c'è sempre quello che ha fretta di fuggire. Ma tu, stai fuggendo dal passato o stai partendo per il futuro? Non lo sai, e forse è un insieme delle due cose, e così avanzi piano, titubante. Poi, rimani lì, attaccato al parapetto e guardi giù, la riva. Chi parte e chi resta. Tutti salutano. E tu, lì da solo, ripensi ai tuoi di saluti, già così lontani da appartenere al mondo dei ricordi. Una lacrima ti riga il viso, mentre lentamente la nave lascia l'approdo e si avvia verso l'ignoto. Trentasei giorni di macchina e vapore, canta l'inno migrante. Ai miei tempi, qualcosa in meno. E con qualche inconveniente in meno a bordo, perché la nave non era così stipata come quelle di una volta. Sì, certo, terza classe, e accontentarsi. Ma non ci si stava proprio come topi. Avevamo ognuno il nostro spazio. Intimità zero, ma accontentarsi anche in questo caso. Una branda, per dormire, con sotto il posto per la valigia. Bagno - sì, va be', chiamalo bagno, pure toilette sarebbe eccessivo - in comune. L'unico momento in cui potevi sperare di essere solo, con i tuoi pensieri, era quando salivi in coperta e osservavi quella distesa d'acqua azzurra. Voi, avete mai visto l'oceano? E' qualcosa d'incredibile, di maestoso. Di pauroso. Ovunque volgi lo sguardo, vedi solo acqua. E ringrazi Dio di sapere nuotare, di avere imparato giù al torrente – che quando era in piena è il massimo di acqua ~ 57 ~ messa assieme che hai visto prima di ammirare il grande fiume dal treno, e poi il mare - quando d'estate andavi a cercare un po' di sollievo con gli amici. Che così, se per caso la nave affonda e tu riesci a tuffarti, per la prima mezz'ora ti salvi. Perché, a che cavolo ti serve saper nuotare quando sei disperso in mezzo all'oceano? Quando te ne accorgi, quando scopri la risposta, senti qualcosa che ti sale dentro. Ti appoggi al parapetto. E rimetti anche l'anima. I primi due giorni li ho trascorsi così. Guardando i pesci negli occhi, con il viso che aveva lo stesso colore dell'erba, quando andava bene. La situazione è migliorata, quando ho capito che restituire subito tutto ciò che bevevo e mangiavo che provavo a bere e mangiare - non era una soluzione. Così, ho cominciato a godermi il viaggio. Passeggiavo per la nave, curiosavo, vedevo gente. Facevo cose, insomma, come direbbe qualcuno. In questo modo, la traversata è scivolata via, quasi veloce. E un pomeriggio, dopo quella che è parsa un'eternità, l'abbiamo avvistata: Terra! Eravamo finalmente arrivati. Certo, come no. Intanto, dopo lo sbarco, la quarantena. Per assicurarsi che non porti con te anche qualche malattia strana. Poi, devi ancora raggiungere la vera metà, sei appena a metà del viaggio. Tu sei sulla costa, ma devi arrivare nell’interno. Hai voglia: giorni e giorni di cammino, con un po’ ~ 58 ~ di fortuna di carro. E quando sei lì, che attraversi questa nuova terra, e ti guardi attorno, vedi che tutto è diverso da casa, dal paese. E' tutto più grande, più immenso. Come l'oceano, quasi, ma almeno qui qualche confine, lontano, lo vedi. E tu ti senti piccolo, insignificante. Devi inoltrarti in quello sconfinato continente. Deglutisci, un sospiro, poi vai. Che Dio t'assista. Il secondo viaggio è forse ancora più lungo del primo. E altrettanto spossante. Certo, avere terra sotto i piedi e tutto attorno migliora un po' la prospettiva delle cose. Ma non sapere dov’è la fine, se laggiù in lontananza dove appaiono delle alture o ancora oltre, non aiuta. Soprattutto per chi era abituato ad avere le montagne che delimitavano, a pochi km, ogni possibile orizzonte. E poi, anche le stelle lassù in alto, nella notte, sono così diverse da quelle alle quali eri abituato. Nessuna Stella polare a indicarti la rotta, ma solo quella strada Croce del Sud. E poi costellazioni nuove e sconosciute, che lentamente imparerai a conoscere con gli anni. Quattro settimane a mangiare polvere, circondati da una terra che sembra nemica. Dove non vedi nulla che ti sembri familiare. Gli alberi, l'erba, gli animali sono diversi. Tutto è più grande, più minaccioso. Ogni tanto ti sembra di scorgere, ma è ~ 59 ~ solo un'illusione non c'è dubbio, degli occhi che ti scrutano dal folto della foresta. Ma quando fissi lo sguardo, vedi solo piante e foglie. Così guardi avanti e non ci pensi più. Sino a quando non ti cade ancora lo sguardo lì in mezzo e ti chiedi per l'ennesima volta chi te l'abbia fatto fare. E tremando, guardi avanti. In mare, bene o male, c'era la possibilità di tenersi puliti con una certa facilità. A terra, l'unica soluzione è l'acqua dei fiumi. Gelida anche a mezzogiorno. Così ti limiti a un lavaggio veloce e non ti curi troppo di te stesso. Il risultato è che alla fine, quando torni a vedere un barlume di civiltà, sei rozzo, barbuto, incolto, come direbbe l’amato poeta. La prima cosa quando trovi il paese, alla fine del viaggio, è quella di cercare un barbiere almeno, per non presentarti troppo stravolto a chi dovrà aiutarti. Va bene un'espressione vissuta, ma non esageriamo. Ti rimetti in sesto, perché sai che adesso sei davvero arrivato. Ora comincia la tua nuova vita. Sarà migliore di quella che ti sei lasciato alle spalle. Non hai alcun dubbio mentre ti avvii, con passo incerto, lungo quelle strade sconosciute. Cercando un nuovo inizio, saldamente ancorato a quel paese che ti porti dentro e non ti abbandonerà mai. ~ 60 ~ ~ 61 ~ Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole (Fabrizio de André) ~ 62 ~ Spesso ho pensato se non fosse il caso di tornare. Attraversare un'altra volta questa mia nuova terra e poi l'oceano, in direzione contraria. Salire al paese, per rivedere i luoghi della mia infanzia e giovinezza. Qui luoghi che non vedo da 50 anni e che ho sempre conservato nel mio cuore, e che oggi ricordo ancora così vividi, quasi li avessi appena vissuti. Quasi non me ne fossi mai andato, in quella lontana mattina d'autunno. Incontrare, magari seduti al solito tavolo all’osteria, vecchi amici, che chissà se saprei più riconoscere, modificati dagli anni, così diversi da quei ricordi cristallizzati in me. Visitare i miei morti, su al cimitero, osservare quelle tre lapidi di marmo, quella che è stata l’inizio della mia seconda vita e le altre due che non ho mai visto, per un saluto veloce, magari per un fiore, perché poi non è che serva a molto, te li porti nel cuore anche loro. Anzi, loro sono gli unici che ti accompagnano giorno dopo giorno, anno dopo anno, con tutto quello che ti hanno insegnato, con tutto quello che ti hanno detto. Con tutto quello che tu non hai mai detto loro, magari solo perché non ne hai avuto il tempo. E poi, vedere i segni del tempo sulle case, là dove sono nato, là dove ho mosso i primi passi, là dove sono cresciuto e infine laggiù dove mi sono innamorato, la prima volta. Quanta ~ 63 ~ nostalgia che proverei. Forse anche quanta delusione, se i luoghi fossero così cambiati da non riconoscerli – e a vedere ciò che è accaduto qui, c’è questo terrore. E forse, anche per questo, per non soffrire di delusione, alla fine non sono mai tornato. Ci ho pensato molto, però, sapete, a ripercorrere la strada? All'inizio ho pensato di tornare perché qui era tutto così difficile. Straniero in terra straniera, con una lingua che masticavo a fatica, un lavoro eguale a quello che avevo lasciato. Nessuna certezza, tante insicurezze, una solitudine costante e un vuoto incolmabile nel cuore. Ma come fai ad accettare un fallimento senza combattere? Così, ho stretto i pugni e sono rimasto. Poi, lentamente, col passare degli anni, ti crei una tua vita e allora pensi di tornare per una breve vacanza, giusto il tempo di un saluto. Che sarebbe più il tempo del viaggio che quello in cui rimani al paese, perché non è che puoi prenderti delle vacanze troppo lunghe. Un abbraccio ai tuoi, qualche lacrima a soffocare i racconti degli anni, una corsa al cimitero e a quella lapide di marmo, e poi via di nuovo indietro, verso la tua nuova vita. Ma i soldi non bastano mai per affrontare il viaggio, e allora rimandi. E rimandi anno dopo anno. Poi il tempo e i soldi ci sarebbero pure, ma sei diventato ~ 64 ~ vecchio e ti spaventa tutta quella strada. Che tu ricordi lunga e immensa, e che nella realtà è diventata nel frattempo invece molto più breve. Magari solo grazie allo sviluppo dei mezzi di trasporto, magari perché quel primo, e unico, viaggio ti ha svuotato dentro più di quanto mai avresti immaginato. E hai il terrore che ricapiti ancora, che tu arrivi svuotato al vecchio paese, e che dopo tu non sia più in grado di affrontare l'oceano - o forse nel frattempo l'azzurro cielo - una terza volta, per tornare alla tua nuova vita. Così, rinunci ancora, e ancora, e ancora. Poi, è troppo tardi, lassù al paese non ti è rimasto quasi più nessuno, se non nipoti che non hai mai conosciuto, dei quali hai letto in lettere sbiadite o che hai visto in foto rattrappite, e tu nel frattempo ti trovi abbandonato nella casa per anziani, e tanti saluti. Credo che anche un'altra paura mi abbia sempre impedito di tornare. Non avevo rivalse da mostrare, non dovevo dimostrare a chi era rimasto che avevo avuto ragione io ad andarmene – anche se all’inizio la paura di tornare con un fallimento sì che mi aveva bloccato, ve l’ho detto. Ma le rivalse, che sciocchezze! Ha ragione chi parte e chi resta. Ha ragione chi riesce e chi fallisce, ma l’ho capito tardi. Ha torto, forse, solo chi non ha mai sognato e si è accontentato di tenere gli occhi bassi, senza affrontare la vita e il mondo, resistendo ~ 65 ~ passivo all’avanzare incalzante dei giorni. No, la mia paura era diversa. Tornare a rivedere il paese e non riconoscerlo più. Non riconoscere i vecchi amici, o magari non trovarli più. Tornare a casa, e sentirmi straniero. Ancora una volta straniero, come quando sono arrivato qui tanti anni fa. Non ho mai pensato, come cantava Carlitos, che tornando al paese non avrei più avuto né pene né oblio. Non ho mai pensato che sarei stato al riparo dalle delusioni. Al contrario. Certo, come canta lui nei miei sogni, diurni o notturni, mi sono sempre visto tornare con la fronte appassita e le tempie inargentate dalla neve degli anni – e non è un caso che questa, con il cappello come lui, sarà l’immagine che resterà di me, dal marmo freddo di una lapide banale, senza angeli che spezzano le catene o altri inutili ghirigori di vanità. Ma ho sempre avuto la certezze delle delusioni che avrei sofferto, soprattutto su al cimitero, davanti a quel marmo, con gli anni moltiplicatosi. Ho sempre avuto paura dell'incontro con il passato che ritorna. E così, l'ho sempre fuggito. Rimandando all’infinito un ritorno che mi attirava e respingendo allo stesso tempo. I contatti li ho tenuti praticamente solo con casa. I primi tempi, anche con qualche amico, con chi ero cresciuto e non avrei visto invecchiare. Lettere queste ultime che con il trascorrere del tempo sono diventate sempre più rade. Difficili ~ 66 ~ da scrivere, per il poco tempo a disposizione. Ancora più difficili da leggere, per la scarsa voglia, o forse la paura, di ascoltare racconti sempre uguali, come sempre uguale era la vita lassù al paese, prima e dopo di me. Di ricevere notizie sempre più tristi. Mi bastava quello che leggevo, con la fatica per la disabitudine a quella lingua materna che ormai non praticavo più, nelle lettere che arrivavano da casa. Queste non sono mai venute meno. Nemmeno quando grazie al telefono abbiamo potuto riascoltare le nostre voci, così invecchiate dalla vita, così stravolte dalla distanza. Chissà, forse è anche la consapevolezza di essere invecchiati, di essere cambiati, a contrastare quella voglia di tornare che senti in fondo al cuore, e che col trascorrere degli anni diventa sempre più piccola. Sia consapevolezza o sia paura, ho sempre ascoltato lei e non il richiamo di casa. Non la nostalgia. Il mio paese, la casa dove sono nato, la famiglia che ho lasciato, e quella prima lapide di marmo, sono ricordi e sensazioni che porto nel cuore, come tutto ciò che ho vissuto in questa vita. Ma ciò che più mi accompagna in questi miei ultimi giorni, che mi auguro non essere così ultimi, sono i ricordi della mia seconda vita. In questo paese che da straniero mi è diventato familiare, segnato da una lingua che prima masticavo e ~ 67 ~ biascicavo a fatica e che oggi contraddistingue anche i miei sogni – pure quelli ambientati nel remoto passato lassù al paese. Sono i giorni con la mia Rosa, e con i miei figli. Sono le memorie di un’esistenza vissuta al meglio delle mie possibilità. O almeno questo è ciò che credo, ciò di cui m’illudo quando viene l’ora mia e appoggio la testa sul cuscino, prima di abbandonarmi alle notti. ~ 68 ~ ~ 69 ~ Tristeza não tem fim, felicidade sim (Vinicius de Moraes) ~ 70 ~ Sapete cosa mi manca di più della mia vita, oggi che sono nella casa per anziani? Il poter andare allo stadio. Ormai, negli ultimi anni ci avevo fatto l'abitudine, avevo il mio abbonamento, il mio posto prenotato, sempre quello anno dopo anno. Ma adesso, non ci lasciano uscire, se non quella volta al mese tutti assieme - e non certo per andare allo stadio e devo quindi accontentarmi di ciò che passa la radio, o la tv. E non è la stessa cosa. Sì, va bene, la televisione ti mostra i primi piani, i dettagli, ti descrive le azioni lontane, quelle che allo stadio a volte non riesci a cogliere bene. Ma l’emozione che regala una partita vissuta dal vivo, quelle nessuna radio, nessuna televisione la possono trasmettere. L’emozione di stare seduto accanto agli altri tifosi, di indossare la tua sciarpa con i colori della tua squadra e sventolarla all’aria. L’emozione di esultare tutti assieme per un goal segnato, o di abbattersi collettivamente per un goal subito. Certo, non è che allo stadio sia tutto rose e fiori. Negli ultimi anni i giovani hanno cominciato a proporre un tifo più violento, più contro l’avversario che a favore dei propri beniamini. Ma spero che sia solo un sentimento di passaggio, che sia solo l’inesperienza per la vita che li porta a disprezzare gli altri per la loro fede. ~ 71 ~ Già quando stavo al paese mi ero appassionato al calcio. Giocare in fondo è facile. Un prato - o uno spiazzo a caso, anche una strada, un cortile - e un pallone, anche solo di stracci. Un po' di gente di qua, un po' di là. Le giacche a segnare le porte, quando va bene. Giocavi e ti sentivi Meazza o Piola. Anche se c'era sempre quello saccente, che aveva letto di un giocatore ancora più bravo, straniero ovviamente. Certo, come no. Chi era più forte del Bepìn Meazza all'epoca? Va be', a parte noi ragazzini incoscienti nei nostri sogni a occhi aperti. La prima squadra che mi ha fatto innamorare aveva la maglia rossa e blu. Gli altri ragazzini, su al paese, tenevano per la Juventus, com'è normale che sia. Qualcuno teneva al Torino, o al Genoa, o alla Pro Vercelli. Pochi alle altre, ché non c'è mai stata storia. E poi, c'ero io, con la mia passione per il Bologna. Quello che tremare il mondo fa. Quello capace di interrompere la striscia di cinque scudetti dei bianconeri. Quello guidato dal più grande allenatore dell'epoca, un ungherese che oggi nessuno ricorda più: Árpád Weisz, che morì - ma lo seppi solo tardi, troppo tardi si scoprono sempre le cose importanti, quelle che contano davvero, che danno valore alla vita - ad Auschwitz, travolto dalla follia dell'uomo. Era ungherese, Weisz, aveva smesso presto di giocare, a causa di un infortunio, dopo aver partecipato anche alle ~ 72 ~ Olimpiadi. Era diventato allenatore, e di quelli bravi. Ma di lui, come ho detto, ho scoperto quasi tutto solo dopo. All’epoca, mi interessava solo che ci faceva giocare il calcio più bello del mondo e che ci faceva vincere. Arrivava dall’Ambrosiana, questo ungherese tranquillo, e lì aveva fatto esordire, diciassettenne appena, proprio Bepìn Meazza. Ci regalò due scudetti e il trofeo dell’Esposizione universale di Parigi, che ancora oggi non ho capito che coppa fosse. E poi, fu cacciato dai fascisti e dalle loro leggi razziali, fu cacciato da chi credeva che esistessero uomini diversi a seconda del colore della pelle, della “razza”, come la chiamavano nella loro colossale stupidità. Una stupidità che provocò oltre sei milioni di morto solo nelle camere a gas. Ma lasciatemi tornare al calcio, perché questa vicenda per fortuna l’ho vissuta solo da lontano. Sono partito dal paese prima che la pazzia dilagasse. E poi, la Storia, quella seria e vera, ci ha già raccontato quello che successe, meglio di come posso farlo io con i miei ricordi distanti, nel tempo e nello spazio. Ovviamente, quando sono arrivato qua non ho potuto seguire le vicende dei miei rossoblù. Anche a causa della guerra che sarebbe iniziata di lì a qualche anno. Le notizie mi arrivavano sporadiche, grazie alle lettere dal paese. E siccome ~ 73 ~ amavo il calcio, ho scelto di tifare per una squadra locale, quella italiana, dalla maglia verde e bianca. Il Palestra Italia - che poi ha dovuto cambiare nome, costretto sempre in ossequio a quella follia dell'uomo che rischiò di distruggerci tutti. Quanti campioni hanno giocato qui, quanti ne ho visti di persona. Djalma Santos, Vavá, Altafini, Cattani, furono alcuni dei primi eroi di quegli anni. Qualcuno poi è arrivato anche in Italia, come il Mazola. All’epoca riuscii a risparmiare – avevo imparato dagli insegnamenti del babbo a mettere via metà paga per il futuro – per poter andare allo stadio, il nuovo Pacaembu, il giorno dell’inaugurazione. Vincemmo 6-2, credo contro il Coritiba, e fu festa grande per tutti, giocatori e tifosi. E come sventolavamo al vento i nostri fazzoletti – le bandiere e le sciarpe erano ancora là da venire. Se penso ai giocatori che ho amato o che ho visto giocare, devo confessare che il più grande di tutti non ha giocato per i miei colori. Anche se in realtà è stato talmente grande che ha giocato per tutti, che ha indossato tutte le maglie del mondo, pur avendone portata soltanto una, bianconera. Perché chiunque avrebbe voluto poter gridare di gioia a un suo goal, a un suo dribbling, a una sua finta. Alla sua unica finta, sempre quella, dovuta a quella gamba storta e più corta per la ~ 74 ~ poliomelite. Quella finta che ingannava chiunque e lo metteva a sedere, mentre lui scappava via con il pallone. Manoel Francisco dos Santos, Mané Garrincha. E' stato l'atleta della gente, l'allegria del popolo, l'angelo dalle gambe storte. Era di Rio de Janeiro, e forse anche a questo si deve la sua costante allegria. La sua gamba sinistra era più corta della destra, a causa della poliomelite e di qualche accidente che gli combinarono i medici. Non poteva camminare correttamente, ma giocava divinamente. Aveva una finta, sempre quella, tutti la conoscevano, tutti, ma nessuno era in grado di resistere. Lui partiva e l'avversario era a terra, frastornato, disperato alla ricerca del pallone e di Garrincha, che già volava verso la porta. Per irridere, nella sua gioia senza fine, anche il portiere con un'altra, e poi un'altra ancora, delle sue meravigliose finte in danza. Giocò con il Botafogo e con la nazionale brasiliana, vinse due mondiali, uno praticamente da solo. E quanto era immenso in campo, tanto era fragile fuori. Si perse, nel successo, anche lui. Un matrimonio fallito e un grande amore, che gli attirò l'ira e l'antipatia del suo popolo - e come me li ricordo quei momenti, quanto disprezzo che quella passione suscitò. Come fummo ingrati, capaci subito di dimenticare tutte le gioie che ci aveva regalato, tutti i sorrisi che ci aveva ~ 75 ~ strappato con le sue giocate, con i suoi dribbling. Come fummo capaci di abbandonarlo nella polvere. Soprattutto c'è stato l'alcool, che l'ha accompagnato lungo il viale del tramonto. Sino a quel 20 gennaio 1983, quando il passerotto prese il volo. E allora d'improvviso ci ricordammo di lui, e finalmente, come sempre troppo tardi, lo ringraziammo per essere vissuto. Ne ho visti tanti di calciatori, in questi lunghi anni. I brasiliani, dal vivo quasi tutti. Gli altri più tardi, alla tv. Pelé, Best, Cruijff, Platini, Zico, Maradona, Van Basten. Tutti straordinari, tutti incredibili. Uno solo è stato immenso: Mané Garrincha. Per vederlo giocare, disse Vinicius de Moraes, persino la rivoluzione sociale in marcia si fermava, perché il suo calcio era una forza del popolo. L'ho visto giocare, e non lo dimenticherò mai. Obrigado Garrincha, por vôce ter vivido - come qualcuno, restituendoci il tardivo ricordo a noi che l'avevamo così in fretta dimenticato, l'ha voluto salutare, dai muri di Rio, nel giorno dell'ultimo dribbling. ~ 76 ~ ~ 77 ~ Et si c'était a refaire, je referais ce chemin (François Mitterrand) ~ 78 ~ E così, adesso sono qui, nella casa per anziani, che do da mangiare ai piccioni – ormai si sono affezionati, e quando mi vedono seduto sulla panchina mi raggiungono, qualcuno ho iniziato anche a chiamarlo per nome - e parlo da solo. O meglio, parlo con voi, che non è proprio la stessa cosa, ma ci assomiglia molto, che credete. Mentre aspetto che passi il mio funerale, perché vedete non si muore quando si deve, ma quando si può. Come ha detto un generale, tanti anni fa, dopo essere scampato a plotoni d'esecuzione, rivoluzioni e altre amenità. Io sinora sono scampato alla vita, e tanto mi basta. Le mie giornate scorrono uguali, con ritmi dettati da altri. Per certi versi, sembra di essere tornati in fabbrica, con i buoni vecchi turni di una volta, gli orari regolari, e sempre identici giorno dopo giorno. Ma che volete, tocca accontentarsi. Ancora. Sveglia presto al mattino, colazione. Passeggiata nel parco e panchina, se capita c’è qualche altro ospita col quale parlare, sennò pazienza, si parla da soli. E si dà da mangiare ai piccioni. Pranzo e siesta obbligatoria - che per me che ancora adesso odio dormire al pomeriggio significa restare a letto, senza neppure poter ascoltare la televisione, perché disturberei gli altri, e rileggere, un vecchio libro. Passeggiata pomeridiana nel parco e panchina, anche qui, se capita c’è qualcuno col quale ~ 79 ~ scambiare due parole, sennò si racconta al vento – che peraltro è un ascoltatore assai cordiale – e si dà da mangiare ai piccioni. Cena, un po' di televisione, ma non troppa che sennò si disturba. A letto quando inizia a imbrunire, o al massimo poco dopo. Qualche pagina di un libro – ormai di nuovi non ne leggo più, ma mi piace riprendere in mano quelli che mi hanno accompagnato in quest’esistenza, sfogliarne le pagine, rileggere alcuni brani, oppure anche affrontarli dalla prima all’ultima parola - e poi, luci spente. Si dorme, si sogna. E via così. Un giorno appresso all’altro. C'è tanta noia, quello sì. E tristezza. Del resto, immerso in un ambiente di vecchi abbandonati, e malandati, non potrebbe essere altrimenti. Parliamo tra di noi, ci raccontiamo sempre le stesse storie, ché tanto, ben che vada, dopo due giorni le abbiamo già dimenticate e ci sembrano ogni volta nuove. Ci concediamo quel breve ritorno alla vita durante le gite settimanali. Ma poi, siamo sempre qui, chiusi tra le mura della casa per anziani e del suo giardino. Chiusi in noi stessi. Per fortuna, ogni tanto vengono a trovarmi i miei figli e i miei adorati nipoti. Non quanto vorrei, ovviamente. Dipendesse da me, li vorrei qui ogni giorno, soprattutto Andrea, Sabrina, Mathias. Vorrei vederli crescere come ho visto crescere Giovanni, Bruna, Antonio. E invece, vengono ~ 80 ~ quando possono, o forse quando si ricordano. Non dico che mi abbiano dimenticato, questo no, ma certo per loro è una bella consolazione sapere che io me ne sto qui nella casa per anziani. E che loro non devono quotidianamente venire a vedere come me la passo, se combino disastri, se mi serve qualcosa o se mi arrangio. Se respiro ancora. Per loro è una consolazione. Per me ha il sapore di un abbandono. Ma come ho già detto, non ne faccio loro una colpa. Sono vissuti, nonostante gli insegnamenti familiari, in un’epoca che non prevede la conservazione della memoria, che non consente il rispetto per gli anziani. Un’epoca che s’illude che parcheggiarli, sino alla morte, da qualche parte fuori vista sia la soluzione. Un’epoca malsana. Che spero finisca in fretta e le nuove generazioni sappiano tornare agli insegnamenti del passato, alle tradizioni. Al rispetto per la vecchiaia, tra le altre cose. E qui dentro, il tempo sembra non passare mai. Un giorno qualcuno non si sveglia. Un giorno arriva un volto nuovo. Vien quasi da ridere, ma sono queste le uniche novità che ci sono davvero rimaste. Nessuno che se ne esca di sua volontà, o perché richiamato a casa dalla famiglia. Si esce solo con le gambe in avanti, nell’abito di legno. Che vi devo dire, tocca accontentarsi. Ancora, come ~ 81 ~ sempre. Come ci si è accontentati nel corso degli anni. A volte, penso che la vita non sia altro che una lunga sequenza di "accontentarsi". Intervallata da poche scelte, che poi alla fine sono quelle che caratterizzano la nostra esistenza e ci possono rendere felici di aver vissuto. O, se sono sbagliate, che ci dannano negli ultimi momenti che trascorriamo su questa palla di fango. E io delle mie scelte sono contento, ve l’ho detto. Niente se, niente ma, tranne quando lo sconforto mi assale e mi servirebbe una bottiglia di cachaça per scacciarlo. Se tornassi indietro, probabilmente rifarei le stesse identiche scelto, ripercorrerei lo stesso identico cammino. Affronterei ancora quel viaggio verso l’ignoto, dal paese natio a questo d’adozione. Lavorerei ancora in una fabbrica, per poi stufarmi e cambiare fabbrica, rinchiuso tra turni e facce sempre uguali. Per poi cercare un altro lavoro mio, avendone l’opportunità. Mi specchierei ancora, e ancora, e ancora, negli occhi verdi di una nuova Rosa, per perdermici dentro sino quasi ad affogare e costruire con lei una vita e una famiglia. Ma soprattutto, lo so, lo sento nel cuore, neppure rivivendo la mia vita dall’inizio troverei mai la forza di tornare lassù al paese. Avrei sempre quelle paure ad accompagnarmi, rimarrei un viaggiatore che rifugge il proprio passato, e che in ~ 82 ~ fondo non si sa davvero fermare. Perché, ammettiamolo, la avrei terminato il mio viaggio solo se avessi trovato la forza di tornare a casa. Anche solo per un giorno, per rispecchiarmi in quelle lapidi e poi ripartire e tornare qui. Ormai qui, nella casa per anziani, si è fatta sera. Le luci dentro sono già accese, comincia anche a essere fresco e la luna mi sorride di lassù. Sono arrivato quasi al capolinea, ma che vi devo dire? Sono contento. La mia vita è stata meravigliosa. Ho amato e soprattutto sono stato amato, e mica tutti possono dirlo. Ho avuto le mie quattro gioie, i miei otto dolori, affrontando ogni giorno come un'avventura. E ora, la morte è l'unica avventura che mi rimane. Così, lasciatemi solo, a godere della brezza notturna - si sa mai che non ve ne sia un'altra. Tornate a casa, voi che potete. Addio, anzi arrivederci. E l'ultimo, spenga la luce. ~ 83 ~ ~ 84 ~ ~ 85 ~ ~ 86 ~ Sparse qua e là, vi sono citazioni, alcune dichiarate, alcune accennate. Appare doveroso ricordare qui gli autori così spudoratamente ammirati o copiati: Carlos Gardel, Fabrizio de André, Gabriel Garcia Marquez, Guido Gozzano, Francesco Guccini, Roberto Mariani, Nanni Moretti, Darwin Pastorin, Osvaldo Soriano, Luigi Tenco, Massimo Troisi. ~ 87 ~ ~ 88 ~
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