Las nieves del tiempo - Associazione "Bellunesi nel mondo"

Las nieves
del tiempo
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A chi è partito, a chi è rimasto
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Tutti i viaggi sono rimpianti
(Darwin Pastorin)
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Perché si parte? Ve lo siete mai chiesto? Qual è l'impulso
che ci induce a chiuderci l'ultima porta alle spalle, dopo un
frugale saluto, uno zaino in spalla e via. Verso l'ignoto. Verso
l'imprevisto. Abbandonando tutto ciò che abbiamo, tutto ciò
che c'è caro. Io me lo sono chiesto spesso. All'epoca non trovai
alcuna risposta. Dopo, alla fine, cosa importa? Ero partito e
tanto basta.
Certo, al primo passo senti dentro qualcosa che si muove.
E non sai attribuirgli un nome. E' una sensazione che nasce
nello stomaco e che sale, sale e arriva sino agli occhi, che la
lasciano uscire. E così, al secondo passo hai già il volto
bagnato, rigato. Mentre tiri su col naso, ti passi il dorso d'una
mano veloce sulla faccia. Al terzo passo guardi di sbieco
indietro, di malavoglia. Il quarto lo allunghi, neanche fossi un
centometrista appena scattato dai blocchi. Il quinto è quello
più difficile, perché tarda ad arrivare. E' lì, sospeso. La gamba è
sollevata e non accenna a scendere al suolo, a chiudere il
movimento. Allora ti volti indietro, per l'ultima volta. Tiri
ancora su col naso, chiudi il passo e vai.
Senza voltarti più.
Man mano che ti allontani, ti senti più leggero. Ti sei
lasciato tutto alle spalle. Che fortuna. Sì, ok, poi ti accorgi che
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ti sei lasciato troppo alle spalle. Sei così leggero perché non hai
niente. Ci sei tu, con quello zaino in spalla. Il resto, è tutto da
costruire. Tu stesso, sei da costruire.
Il viaggio è pura poesia. Seduto davanti al finestrino - cosa
importa se di un autobus, di un treno, di una nave, di un aereo?
- guardi fuori e saluti con la mente la tua terra. Mentre dentro
di te senti ancora, e ancora, e ancora le ultime parole che ti
hanno detto. Non le dimentichi più quelle parole. Ti restano
dentro sino all'ultimo. Spuntano fuori quando meno te lo
aspetti e ti sostengono. E ti accorgi che sono l'unica cosa che
hai, che sono il ricordo più importante che porti nel tuo cuore.
Allora piangi, mentre davanti ai tuoi occhi si disperdono le
ultime immagini di ciò che eri, sfumate nel panorama della tua
terra, che ti saluta con un raggio di sole.
Poi, cerchi di non pensare. E allora, dormi. Che cosa vuoi
sognare? Sembri un pazzo in quei momenti. Pensi solo a ciò
che hai lasciato. Anche nei tuoi sogni. Ti agiti, inquieto. I dubbi
affiorano, ma li cancelli col respiro d'un istante. Le speranze
salgono lente, sino a prendere possesso di te. Quando dopo ti
svegli, sei già arrivato. Ecco la tua nuova vita. Non trattarla
male.
Ma dove sono arrivato? Il primo pensiero è questo. Ciò
che vedi non risponde a quello che ti eri immaginato. Chiudi gli
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occhi, li riapri, forse stai ancora sognando. Nulla. Sei spaesato,
non sai più cosa fare, dove andare. Quasi, pensi, era meglio
rimanere. Ti guardi attorno confuso, cercando un punto di
riferimento. Nessuno. Sembri un automa, quando cammini.
Guardi quel pezzo di carta, dove hai segnato un nome, un
indirizzo. Alzi gli occhi, a leggere le vie. Fermi un passante, con
voce incerta. Arranchi, confuso, spaesato. Gli occhi ti corrono
da quelle righe vergate sulla carta ai nomi delle vie sui cartelli,
alle case, a quei punti di riferimento che chi ti ha indicato la via
ti ha lasciato. Quasi di colpo ti trovi lì davanti. Ripieghi il
foglietto, in una tasca. Ti spazzi il vestito, quasi dovessi stirarlo.
Sistemi i capelli. Ti accarezzi il volto, a controllare la barba, ché
non sia troppo lunga. Vorrai mica fare brutta figura al primo
incontro? Poi, vai.
Bussi incerto. Due colpi leggeri, quasi a non disturbare.
Rumore di passi. E ti ritrovi ancora a sistemarti il vestito, i
capelli. La porta piano si apre. Uno spiraglio che s'ingrandisce
ogni istante. Si spalanca e ti assale una ventata di paura e di
speranza. Attorno a te c'è solo l'ignoto, ma lì davanti, oltre
quella soglia, c'è l'unica ancora che ti rimane. E nella luce,
un'ombra si staglia. Una figura che già riconosci quale legame
con il passato. Sorridi, un timido saluto che si trasforma in un
abbraccio. Pacche sulle spalle. L'invito a entrare. Il vociare a
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chiamare gli altri. Guardate chi è arrivato, dal paese. Nuovi
abbracci, nuove pacche sulle spalle. E poi domande, cento,
mille domande. Ti senti a casa. Non c'è più paura, adesso. Solo
sollievo e speranza.
Non se ne parla di dormire in albergo. Sei del paese, sei di
famiglia, quasi. Si resta lì, con loro. Basta stringersi un po', che
problema sarà mai? E' la tua prima notte lontano, a parte il
viaggio. Ma non ti sei mai sentito così tanto a casa. E i sogni
sono leggeri, lievi. Ti cullano, nel tuo dormire.
Ti avevano detto Vai lì, che ti aiuteranno. Ma mica te lo
immaginavi tutto questo. Ti portano a cercare lavoro, dove già
ci stanno loro intanto, ché così ci scappa una buona parola. E'
un bravo ragazzo, gran lavoratore, viene dal paese. Se poi non va,
andiamo da un'altra parte. O da un'altra ancora, e ancora. La
litania è la stessa. Ti senti osservato, squadrato, spogliato. Poi,
senti distante, come arrivasse da chilometri, quella voce. Sì, va
bene, lo prendiamo in prova, ma che lavori bene, che non voglio storie, la
paga è poca, il lavoro tanto, accontentarsi.
E' serata di festa. Hai trovato il lavoro. Magari non è
quello che avresti sognato, ma occorre accontentarsi, appunto.
Questa è la partenza. Un domani, chissà. Non c'è fretta di
trovarti una casa. Non stai bene qui? Si sta un po' stretti, ma c'è
tutto il calore di casa tua. Cosa vuoi andartene via da solo, stai qui
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con noi. E ti senti rispondere Grazie, prima ancora di aver
capito.
I primi tempi è dura. Sei via da casa, da solo. Anche se ci
stanno loro, gli altri del paese. Ma non è la stessa cosa, non è la
tua famiglia. La nostalgia sta lì nel petto e cresce. Cristo, se
cresce. Il lavoro è duro, faticoso. Ce la puoi fare, devi
dimostrare quello che vali. Magari ci scappa una promozione. I
compagni, per loro sei uno straniero, uno dei tanti, l'ultimo. Sì,
qualcuno lavora bene, ma come fai a fidarti, mica sono dei nostri. La
paga, va be', la paga è quella che è. Accontentarsi. Poi c'è la
lingua, quella lingua che mastichi, che fatichi a comprendere.
Cioè, gli ordini e le bestemmie quando sbagli li capisci al volo.
E' una lingua universale. Sono le altre frasi, quelle non urlate,
quelle magari gentili che proprio non comprendi. Fortuna che
poi a casa parli la lingua del paese, però qua occorre che ti
metta a studiare. Dopo il lavoro, ovvio. A sera, dopo cena,
prima di andare a dormire.
Passano i giorni, le settimane, i mesi. Poi, gli anni. Scrivi
sempre al paese, regolarmente. Sei diventato zio, una bella
bambina. Puttana, è morto il babbo, non ce la faceva più. La
sai la Mirella, quella del fornaio, sì, quella che ti piaceva, si è sposata. La
mamma sta male, vorrebbe tanto rivederti, prima di raggiungere il babbo.
Ma non ce la fai, non ce la fai mai a tornare. C'è il lavoro, non
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puoi andartene così. Poi c'è quella ragazza, conosciuta al ballo,
Dio che occhi. Fatichi un po' a invitarla. La prima volta chiede
lei. La seconda viene facile. La terza è automatica. Non te ne
accorgi che ti trovi in chiesa, già bell'e sistemato. E prima che
te ne renda conto, ecco l'erede. Tutto il suo babbo, l'talian. Va
be', anche molto la sua mamma, ovvio.
E così, non torni mai, ché la tua vita ormai è qui. Il paese?
E' un ricordo lontano, perso in fondo al cuore. Un ricordo che
ti accompagna ogni giorno, a sera, prima di andare a dormire.
Magari domani ne parliamo, torniamo a casa. Ma il giorno
dopo te ne sei già dimenticato. E la vita scorre, scorre via. E si
trascina dietro il ricordo, che pian piano si confonde, si
disperde sino a scomparire. Il paese, gli amici, la famiglia. Solo
vaghi frammenti, lettere ingiallite, foto sgualcite. E quel peso,
quel peso in fondo al cuore. Che ti scoppia dentro, all'ultimo
giorno, e ti riga il volto al momento del saluto. Addio, anzi
arrivederci.
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La vita è fatta così
(Roberto Mariani)
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Ognuno ha il suo Rosebud personale, scriveva Osvaldo
Soriano, e lasciatemi citarne alcune frasi. Ce ne portiamo il
segreto nella tomba. Lo slittino di Charles Foster Kane, in
Quarto potere, non è la verità della sua vita, ma quello che per
lui era stato l'origine della verità. Quello che rimarrà sempre
impercettibile a chiunque altro. Possiamo cancellare o
confondere le tracce di una vita, ma le portiamo sulle nostre
spalle.
Il mio Rosebud, ci ho pensato a lungo. Ciò che mi
caratterizza, che rappresenta per me l'origine della mia vita e
che mi ci riporta, come un filo segreto, sino al mio Aleph è una
lapide. Una lapide in marmo grigio, con una piccola foto in
alto, e sotto solo un nome e due date.
Che forse oggi, a distanza d'anni, il tempo e le intemperie
hanno sbiadito, nonostante la cura che so essere stata prestata a
quella fredda pietra. Simbolo di una vita spezzata. Di che
lapide si tratta, vi starete chiedendo, e perché per me ha
assunto un'importanza così vitale? E' la lapide di mia sorella,
nel cimitero del paese, nella quale rivedo la mia lapide, quando
verrà il momento.
Perché? E' molto semplice. E' stato lì, davanti a quel pezzo
di marmo grigio che ho capito, che ho davvero capito con
tutto me stesso - perché sì, prima lo sapevo, ma non lo avevo
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ancora compreso, c'era un che di aleatorio in questa
consapevolezza che non voleva concretarsi - che sarei dovuto
morire, che tutti saremmo dovuti morire. E non si tratta di un
qualcosa di lontano, d'indefinito, ma è una meta alla quale ci
avviciniamo ogni giorno di più, con i nostri stessi passi. Siamo
noi che tracciamo la strada che ci conduce alla tomba. Cavolo,
non è mica una bella scoperta, per un ragazzo di quindici anni.
Quindici anni, e poco più. Tanti ne avevo quando è morta
mia sorella, due anni più grande e una vita che aveva appena
iniziato a sbocciare. Bella come un mattino d’estate in alta
montagna, dolce come il vento della primavera, un sorriso al
quale avresti affidato il mondo e due occhi che cantavano la
poesia. Tre o quattro ragazzi del paese le ronzavano attorno,
com’è logico, ma lei non ci badava ancora, troppo presa dai
suoi sogni. Nei quali anch’io, chissà? per ricordarla meglio?, mi
sono immerso.
Un male antico, di quelli che ti rodono dentro e i dottori ti
guardano con l'aria di chi non sa dove appigliarsi - se non alla
preghiera, e mia madre andava in chiesa tre volte al giorno in
quel periodo - se l'era portata via. Veloce. Poche settimane. Un
primo malessere, passeggero sembrava, che le aveva incrinato
appena il sorriso, ma senza sfiorarle lo sguardo.
Poi l'aggravarsi, l'ospedale e poi via. Nemmeno il tempo di
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un saluto. Nemmeno il tempo di sapere che il futuro le si stava
bruciando, dentro. Funerale e cimitero, con le lacrime che non
smettono di scendere. E che ancora oggi affiorano al ricordo, o
quando dal portafogli esce la sua foto, ormai sgualcita e
sbiadita, dove solo rimane la sua eco. Poi, la lapide. E
l'illuminazione. Ricordati che devi morire. Sì, adesso me lo
scrivo.
Che cosa fai quando ti accorgi che la tua vita è destinata
alla morte, che tutto ciò che farai sarà comunque inutile, che
non puoi sfuggire a quella terra, al diventare, quando sarà il
momento, nulla più che carne per vermi? O ben che vada,
polvere, e nulla più? Non piangi, perché hai già pianto tutte le
lacrime per tua sorella, e i tuoi occhi non ne hanno più per te.
Allora pensi. Cioè, prima ti viene in mente che in fondo è tutto
inutile. Che tanto varrebbe lasciarsi andare, buttarsi via. Vivere
alla giornata, come capita, e tanti saluti. Poi, no, ché vuoi vivere
anche per lei. Le devi almeno questo. Vivere la vita migliore
che puoi. Se non ci riesci, be' almeno ci hai provato. E tanto
basta, tanto è sufficiente per poter dire di aver vissuto.
Qual è la vita migliore? Che cosa posso dirvi? Non c'è una
sola risposta, ciascuno deve trovare dentro di sé la propria. Per
qualcuno magari sono i soldi, averne tanti da non riuscire
neppure a contarli, e volerne sempre di più, e spendere tutti i
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propri giorni ad accumularli. Per qualcuno magari è l'amore, o
la famiglia, o ancora il lavoro. Trascorrere il tempo che
passiamo su questo pezzo di terra inseguendo un sogno solo,
senza osare rivolgere lo sguardo a tutto il resto che ci circonda.
Io, per me, posso solo darvi un suggerimento. Non
crediate che la prima risposta che vi esce dalle labbra sia quella
giusta. No, la risposta giusta si nasconde nel cuore, dovete
estrarla a fatica. Si nasconde, e vi tormenta, senza che voi
riusciate a scorgerla. Magari dopo anni di pensieri e riflessioni.
O magari, nemmeno ci riuscite e allora vi accontentate di
quello che trovate giorno dopo giorno.
Io mi sono accontentato, per un po'. Cioè, stavo lì, al
paese. Dapprima finire gli studi, perché non si sa mai. Poi, un
lavoro, giù alla fabbrica, dove va anche il babbo, dove vanno
anche gli altri fratelli. I turni sempre uguali, scanditi dalla
sirena. Il lavoro di routine, sempre gli stessi gesti, gli stessi
passi. Gli stessi volti, accanto e poi in mensa. Le carte al bar, il
sabato o la domenica, l'unico svago consentito, ché bisogna
risparmiare. Un'uscita con gli amici, per dirsi cosa?, tanto li
vedi tutti i giorni giù alla fabbrica. La monotonia è una vita che
gira, come una ruota. E tu, stai lì e ti accontenti.
Poi, si rompe un ingranaggio. Cioè, non è che si rompa
proprio, più che altro si blocca. E tu con lui. Senti che là fuori,
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oltre le mura della fabbrica, c'è qualcosa, qualcuno?, che ti
aspetta. Ma quando esci e ti trovi in mezzo al paese, tra i volti
sempre uguali, ti accorgi che non è lì. Vai a dormire stanco, e
sogni qualcosa che non sai e non ricorderai. E il mattino, in
fabbrica, di nuovo senti qualcosa, qualcuno?, che da fuori ti
chiama. Vai avanti così per giorni, per settimane. Sentendo
dentro te qualcosa di bloccato, che ti impedisce di sorridere se
non con la sola bocca. Poi, una mattina apri gli occhi e hai
deciso, non sai neppure tu cosa, né come. Ma adesso hai
deciso, questo solo sai. Il cuore, e il ricordo, hanno liberato
quella risposta che giaceva, sepolta, da quel primo giorno
davanti alla lapide. Così, ti ritrovi a sorridere dagli occhi, dopo
tanto tempo. E passi il giorno a pensare a cosa dirai alla tua
famiglia.
Finché non arriva la sera delle decisioni. A cena, tutti
seduti a tavola. Silenzio, non si parla quando si mangia. Ma tu
non ce la fai. E' troppo importante ciò che devi dire. Ho deciso
che vado, dove non lo so, ma qui non ci sto più, non c'è speranza, non c'è
futuro. Lasciatemi partire, sennò qui morirò, un po' ogni giorno, proprio
come lei. Non ci sono grida, c'è solo il silenzio di risposta.
Sguardi preoccupati, e teste che si abbassano e dondolano a
destra e sinistra, con le labbra serrate e, dopo una mano che si
è levata al cielo prima di riabbassarsi fremente, i pugni stretti di
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tuo padre, con una bestemmia che non vuole uscire e che si fa
seguire dal segno della croce. Poi le lacrime di tua madre, i
consigli di tuo padre, il silenzio dei fratelli che t’invidiano
quella scelta che a loro ancora non è dato conquistare. E poi,
abbracci, abbracci senza fine.
La ruota ha ripreso a girare, ma adesso sei tu che la
controlli. Hai deciso, con uno spunto di follia, ripensando a
quei racconti rubati all’osteria, dove vuoi andare, e quando
partirai. Il tempo passa e la data si avvicina. Gli ultimi giorni
giù alla fabbrica, che sì sono sempre uguali, sempre monotoni,
ma ormai non ci fai più caso e riesci a trovare una novità
inesistente anche nel gesto consueto di ogni giorno. Le ultime
partite a carte e bevute con gli amici, che ti guardano con
invidia e commiserazione. L'addio agli amori del passato, che
stai già scordando, ma non lo sai, e che poi ti torneranno in
mente nelle vuote mattine d'inverno. I saluti gettati via, veloci,
quasi facciano meno male.
E poi, l'ultimo sguardo al cimitero, a quella lapide di
marmo che serberai sempre in fondo al tuo cuore. L'ultima
notte sul tuo letto. Poi, il mattino, quando il sole si nasconde
ancora, ti alzi e te ne vai. In silenzio. Come un ladro. Perché in
fondo tu qualcosa stai rubando, la vita di un altro figlio ai tuoi
genitori.
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Se vedi il futuro digli di non venire
(Juan Josè Castelli)
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Adesso sono qui, nella casa per anziani. Mi hanno messo
qui i miei figli, hanno la loro vita, sarei solo un peso per loro. E
io da solo non ci potevo stare più, non che non volessi, anzi:
quanto vorrei ancora la mia libertà!, ma proprio non ce la
facevo, negli ultimi tempi combinavo un disastro dietro l’altro.
E così, non potendo andare a stare a casa loro, mi hanno
portato qui, dopo aver penato non poco a convincermi che era
la soluzione migliore. Per me, hanno detto. Ma penso anche
per loro.
E io mica me l'immaginavo che sarebbe finita così. Non è
che si stia male, no. Però. Vedete, il fatto è che qui nella casa
per anziani il turnover è molto rapido, non fai in tempo a
confessarti che stai già uscendo dalla porta di dietro con il
cappotto di legno. Bello pronto per i tuoi due metri di terreno,
una lapide sgualcita e qualche fiore dozzinale. Ma io non ho
mica tutta questa fretta di uscire. E di sentirmi tre metri sotto
terra, nascosto dal ricordo disegnato su una fredda lastra di
marmo con le date.
Cioè, ho vissuto una buona vita, al meglio che ho potuto.
Probabilmente avrei potuto realizzare od ottenere qualcosa di
più. Magari avrei potuto essere più coraggioso, in alcune
circostanze, o forse meno duro in altre. Se, se, se: potrei restare
qui per ore a riflettere su quello che sarebbe potuto accadere se
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avessi preso una decisione diversa, in un momento qualsiasi
della mia vita. Sono soddisfatto, certo, se mi guardo indietro,
perché le gioie superano di gran lunga i dolori. Ma se mi
guardo davanti, quella lapide per me la vedo ancora distante.
Laggiù alla fine del cammino, che mi aspetta. Senza fretta.
Ho anche degli splendidi figli, che mi vengono a trovare,
con i miei adorati nipoti, quando possono. Magari poco, ma
hanno la loro vita. Al loro posto, probabilmente anch'io farei lo
stesso, se fossi cresciuto nella loro epoca e non nella mia. Ma
se ripenso all'ultima volta che ho visto i miei genitori, la sera
prima di partire, se ripenso a tutte quelle lacrime, ai consigli e
agli abbracci, sento crescere dentro un grande rimpianto e una
nostalgia. E mi dispiace allora che i miei figli vengano così
poco, e vorrei poter uscire per andare io da loro. Per
trascorrere ancora del tempo assieme, prima che per me sia
troppo tardi. Prima che venga il momento dell’addio.
Sia chiaro, però, non ho mica tutta questa voglia di salire al
piano di sopra - o magari a quello di sotto, chi può dirlo? In
fondo, dicono che laggiù la compagnia sia migliore, e che lassù
il vero vantaggio sia solo il clima. Sì, lo so che ci arriverò, ci
arriviamo tutti, prima o poi. Ve l'ho detto che vedo già la mia
lapide, laggiù alla fine del cammino – e so già che foto ci
metteranno, quella col cappello alla Gardel, ma molto più
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vecchio e imbiancato dal tempo di Carlitos, scattata al
battesimo di Sabrina, l’ultima nipotina. Ma se da giovani
corriamo, sempre più veloci, arrivati a una certa età andiamo
via piano. Rallentiamo. E allora, lasciate che ce ne andiamo
anche lentamente. Cos'è tutta questa fretta? Volete forse il
nostro posto, qui nella casa per anziani? Non abbiate fretta,
verrà anche il vostro turno. Dopo.
E così, passo le giornate seduto sulla panchina, a dare da
mangiare ai piccioni. Molliche di pane, si accontentino anche
loro, come ci accontentiamo noi. A volte arriva qualche altro
ospite – ospiti, così ci chiamano. Ma a me sembriamo sempre
più dei pazienti, stanchi e assetati di una vita che ci sfugge dalle
dita giorno dopo giorno - e chiacchieriamo. Ci raccontiamo dei
tempi andati, di quando eravamo più giovani di adesso. Parole
di esistenze andate in tanti giorni uguali e duri. E non crediate
che ci sia monotonia, anche se spesso ci raccontiamo sempre le
stesse storie. Ormai, la memoria vacilla, per qualcuno più del
corpo, e ogni vecchio, stantio persino, racconto ci appare come
un neonato. A volte, come oggi, sono qui da solo. E mi parlo
addosso. Non è che sono matto, è che ho bisogno di sentire
qualche voce. E se c'è solo la mia, be', bisogna accontentarsi. E
poi, fa bene ricordare.
Se uno non ci presta attenzione, i ricordi si accavallano e si
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confondono nella mente e più passa il tempo, più diventa
difficile ritrovarli, ripescarli, assaporarli nuovamente. Ho letto
da qualche parte, tempo fa, che bisognerebbe allenare la nostra
memoria, cercando di immagazzinare al meglio tutte le nostre
conoscenze, i nostri ricordi, in profondità, per andarli a
ripescare quando servono, lasciando così libere le facoltà più
immediate. Trasformare la nostra memoria insomma in una
sorta di libreria, con tanto di schedario da consultare alla
bisogna. Sì, come se fosse facile. Chi c'è mai riuscito? Io no di
certo, e me ne rendo conto sempre di più. Lo schedario mi
servirebbe averlo scritto, per non perdermi nel fiume di una
memoria che s’ingarbuglia.
Giorno dopo giorno è sempre più difficile ricordarsi cosa
ho fatto nelle ultime ore, con chi ho parlato e di cosa. Certe
giorni, non mi ricordo neppure cosa ho mangiato, o se ho
mangiato. E’ capitato, che volessi tornare a letto subito dopo
colazione, convinto che dovessi ancora andare a dormire.
Brutta bestia, la vecchiaia!
Ma come sono invece nitidi i ricordi del passato, rivedo
volti e luoghi, risento conversazioni, riassaporo persino gli
odori, in certe occasioni. Come fossero eventi appena accaduti.
Quando magari sono vecchi di 50 anni, o anche di più. Penso
ai ricordi dell'infanzia, che a volte mi svegliano la notte, con le
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lacrime che rigano le guancie senza che io possa arrestarle. Mi
rivedo a correre per i prati e le strade del paese, assieme ad
amici dei quali a malapena ricordo il nome, mentre il viso è
così vivo.
Sono ricordi davvero nitidi, anche se sono incasinati,
confusi nell'ordine. E così, continuo a raccontarveli man mano
che mi tornano alla mente. Se vi perdete, poco male. Sono
ingarbugliati per me, figuriamoci per voi. Ciò che conta è
semmai che abbiate voglia di ascoltare il racconto di una vita,
uguale a tante altre. Se poi ci troverete qualcosa d'interessante,
meglio. Sennò, avrete trascorso un po' di tempo ad ascoltare
qualcuno che ha bisogno di parlare. Di ricordare. Di
raccontare.
E che ha bisogno, almeno una volta ogni tanto, anche di
essere ascoltato. Non è che quando parliamo tra noi, ospiti
della casa per anziani, non ci ascoltiamo, sia chiaro. Il problema
è che, come vi ho già detto, cinque minuti dopo, spesso non ci
ricordiamo più cosa ci siamo detti. Per noi, ogni conversazione
è troppo simile a quella della prima volta. Non lo so, forse c’è
un lato positivo in tutto questo, o forse è soltanto l’ultima
ironia che ci regala – ma sarà poi davvero un regalo? – questa
strana vita.
Quante volte mi accorgo, dopo, che mi sono presentato
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ancora una volta, l'ennesima. Pure con l'infermiera, la stessa
che mi assiste da quando sono entrato qui dentro. E' solo che
certi giorni mi sembra un volto nuovo, sconosciuto. E allora le
racconto di me, e ancora, e ancora. E lei, paziente, ascolta
come fosse la prima volta, ma io penso che dentro di sé mi
consideri solo un vecchio pazzo, bisognoso di comprensione e
di sentirsi dire sempre e solo sì, per non impazzire del tutto.
Questa volta con voi è diverso. O almeno è quello che
credo, perché non mi ricordo di avervi mai incontrato prima. E
se così non fosse, portatemi pazienza. E ascoltate anche voi
come se fosse la prima volta, perché io vi racconterò della mia
vita come se fosse la prima volta.
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Il tempo rapisce le promesse
(Terry Brooks)
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Quali sono i momenti della nostra vita che mai e poi mai
potremo dimenticare? Secondo me, quelli legati alla vita e
quelli legati
alla morte. Nascite, matrimoni, funerali,
innamoramenti. Poco altro, diciamocelo. Perché questi sono gli
eventi che più di ogni altro ci formano, ci rendono ciò che
siamo, ci conducono davvero, tappa dopo tappa, dall’infanzia
alla vecchiaia. Il resto, sono solo le rifiniture, le correzioni
infinitesimali, gli sbandamenti di una tela tessuta troppo larga.
E allora, parliamo di vita e di morte, che poi sono due facce
della stessa medaglia. Quella umana.
Mi sembra ieri, che è nato mio figlio. Il primogenito. Ho
chiesto un giorno di permesso, per stare vicino a mia moglie
Rosa, nelle ore decisive. Quando lei è entrata in sala parto,
sono rimasto fuori ad aspettare. Ho fumato credo tre pacchetti
di sigarette, forse più, una dopo l’altra. Io, che a malapena ne
fumavo cinque, di sigarette, al giorno. I miei suoceri erano
seduti in sala d'attesa, in silenzio, ma io mica ci riuscivo a stare
fermo. Andavo avanti e indietro, dentro e fuori. Una sigaretta
via l'altra, la seconda quasi accesa col mozzicone della prima.
Poi, quando è uscita l'infermiera e mi ha dato la notizia, sono
quasi svenuto. Mi hanno dovuto sorreggere, perché non finissi
lungo disteso sul pavimento. E quando l'ho visto, quel
batuffolo rosa che piangeva infastidito dal mondo. Non ho mai
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amato così tanto. Sono corso ad abbracciare la mia Rosa e ho
pianto. Dio, se ho pianto.
I primi giorni andavo al lavoro e poi in ospedale, lavoro e
ospedale, lavoro e ospedale. A casa ci stavo giusto il tempo di
dormire qualche ora, e di buttare qualcosa nello stomaco. Non
avrei mai voluto staccarmi da quelle braccia, da quelle mani
così piccole che non riuscivano a tenere stretto un mio dito, da
quegli occhi nei quali rivedevo, attutiti, quelli di Rosa. Il difficile
è stato quando sono venuti a casa, tutti e due. Perché da lì in
poi ho dormito ancora poco, ma questa volta non per scelta.
La notte non ci lasciava tregua, il piccolo. Ogni due ore,
scattava a piangere. Uno svizzero, sembrava. E siccome per
avere qualche soldo in più facevo degli straordinari, quelle ore
perse di sonno alla lunga si facevano sentire. Ma mica era colpa
sua, lui voleva solo ricordare al mondo che era arrivato. E
quando dormiva, così meraviglioso, noi discutevamo sul nome
da dargli, ché ancora non l'avevamo deciso. C'era l'antica
abitudine di dare ai figli il nome dei padri, qualcosa che ormai
si è perso, con i tempi moderni. Ma che all'epoca aveva ancora
il suo senso - e Dio sa se lo avrebbe ancora, oggi che tutto si
sta sgretolando sotto i colpi martellanti di quella cosa chiamata
modernità. Eppure noi non sapevamo deciderci, tra gli avi di
Rosa e i miei c'era un bel daffare nello scegliere. Alla fine,
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capitò Giovanni, come il mio babbo. E fu giusto così.
Veder crescere i propri figli - perché a Giovanni si sono
aggiunti in pochi anni anche Bruna, come la mamma di Rosa, e
Antonio, come il nonno di mia mamma, che non ho mai
potuto conoscere - è qualcosa che riempie il cuore di gioia, e di
qualche preoccupazione, ammettiamolo. Quando sono piccoli,
non vorresti mai perderli di vista, lasciarli soli per un momento,
nemmeno di notte, quando dormono, certe volte. Ti scopri
così a spiarli, di nascosto, da dietro una tenda, dalla finestra,
dalla porta della camera. Ne ascolti il respiro, per sapere che
tutto va bene. Per capire se sei in grado di dare loro ciò che
meritano, ciò che tu non hai avuto. Di insegnare loro a essere
migliori di te. E se possibile, magari anche più felici, in un
mondo che cambia e che offre sempre meno, ma pretende
sempre più.
La prima parola che dicono, la attendi una vita. Con tutto
il tuo cuore vuoi che sia rivolta a te - e tua moglie pensa lo
stesso, non c'è dubbio. E così provi a insegnargli a dirla, quella
parola, gli ripeti sino allo sfinimento quelle due sillabe
identiche. Hai paura di non essere presente quando parlerà,
perché poi chi ti dice che tua moglie ti racconti davvero cosa il
piccolo ha detto? E allora ogni minuto che passi con lui lo
dedichi a ripetere quelle quattro lettere. Ovvio che dopo, la sua
~ 33 ~
prima parola sia un'altra. Lo hai stufato troppo presto, gli hai
instillato quel sentimento di ribellione che lo accompagnerà per
tutta la vita - e che tu sai essere appartenuto anche a te, essere
appartenuto a tutti i figli, sempre.
La sua prima ribellione è così il non dire quelle due sillabe
uguali - e nemmeno quelle altre due che attende lei, Rosa. Il
piccolo ti guarda con i suoi occhi chiari e quando ha capito di
avere tutta la tua attenzione, sorride illuminando il mondo ed
ecco che se ne esce con altre sillabe. E poi passerai giorni e
giorni a chiederti dove e quando possa averle sentite - una
domanda questa che ti assillerà anche negli anni a seguire, ma
alla quale mai saprai dare una risposta.
C'è poi tutto il resto delle prime volte, che attendi con
altrettanta trepidazione, e pure con qualche preoccupazione in
più. Il primo dente, il primo passo in piedi, il primo giorno
all'asilo, il primo giorno di scuola. L'emozione che le
accompagna cresce sempre di più, in te. All'inizio la gridi al
mondo, la condividi con tua moglie - che chissà come mai ha le
stesse sensazioni, ma le sue sono migliori, sono più importanti,
mentre tu sei convinto che le tue siano quelle davvero
importanti. Quando lo accompagnate all'asilo, vi guarda
titubante.
Piange,
vi
si
stringe
addosso,
non
vuole
abbandonarvi. Quale illusione! Sarà l'ultima volta che lo
~ 34 ~
vedrete così attaccato a voi, dopo comincerà a cercare la sua
libertà. E tanti saluti.
La libertà dei figli. Dove inizia? Di solito, quel limite lo
fissiamo noi. All'inizio, vogliamo dar loro la massima libertà certo, senza perderli di vista, questo è ovvio. Siamo pronti a
qualunque sacrificio per loro. Siamo disposti a lavorare il
doppio, il triplo, affinché a essi nulla manchi. Siamo pronti a
soddisfare ogni loro esigenza, quando la consideriamo
ragionevole – e il limite del ragionevole è incredibilmente alto,
se pensiamo a quello che avevamo noi alla loro età.
Poi scatta una molla. Loro crescono e noi, noi
invecchiamo. Non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma invece
di allentare le sbarre della loro libertà, in quell’età nella quale
avrebbero bisogno di prendere il volo, le stringiamo ancora di
più. Arriviamo persino – e in questo, quanto diversi siamo
rispetto ai nostri genitori, cresciuti in un’altra epoca - a
rinfacciare tutto ciò che per loro abbiamo sostenuto, i sacrifici,
le rinunce. Per loro, diciamo. Che poi, in realtà è per noi, ma
non lo vogliamo ammettere. E così, più passa il tempo e più
riduciamo i limiti di quella libertà, sino a quando loro non
trovano la via di fuga e non riescono ad andarsene, come
prima ce ne siamo andati noi. Portando lacrime e dispiaceri, e
illudendo di speranze.
~ 35 ~
E se siamo stati bravi, se siamo riusciti a insegnare loro il
valore di questa libertà, che così faticosamente sono riusciti a
conquistarsi vincendo le nostre resistenze, tornano. Altre volte,
non tornano più. E si rimane lì, soli. A trascorrere le serate in
due, davanti al camino – e poi alla televisione – dapprima
parlando, ricordando, raccontando. Poi, limitandosi a guardare
quelle immagini che scorrono nello schermo, a commentarle
senza convinzione, subendole più che gradirle.
Poi, rimani davvero solo, e allora quell’apparecchio è la tua
ancora, e ti ci aggrappi con tenacia. Lo accendi al mattino
appena sveglio, lo spegni prima di entrare nel letto. Rimane lì, a
trasmettere immagini che guardi distrattamente, per lo più
durante i pasti o la sera. Ma ti accompagna, con il suo ciarlare
vano, nella tua solitudine. Che così, ti sembra pesare meno. Ma
in fondo è solo un’illusione, una delle tante di questa strana
cosa che chiamiamo vita.
~ 36 ~
~ 37 ~
E' bello avere un lavoro,
ma ciò interferisce con il tempo libero
(proverbio yiddish)
~ 38 ~
Il mio primo giorno di lavoro, al paese, è stata quasi una
festa. Cavolo, ero diventato grande, lavoravo assieme al babbo
e ai fratelli, anche se non nello stesso reparto della fabbrica.
D'ora in avanti, avrei potuto decidere io per me stesso, senza
più dover chiedere permesso per ogni cosa. Sì, certo, come no.
Quante illusioni. Uno s'immagina che con la prima paga - che
poi ti arriva dopo che hai lavorato, quindi tu stai lì ad attenderla
con un'ansia che cresce e quando arriva, lasciamo perdere, va tutto diventi possibile. Basta obbedire ai genitori, basta
chiedere gli spicci al babbo per andare all’osteria con gli amici.
Sì, certo, come no. La prima cosa che ti dicono, quando porti i
soldi a casa suona più o meno così: la metà dei soldi la metti via
per quando avrai una famiglia e il resto lo dai a noi, per mandare avanti
la casa. E tutti i miei sogni? Tutte le mie speranze di libertà?
Carta straccia, a essere gentili.
Eppure, quando sono entrato in fabbrica il primo giorno il
mondo mi sorrideva. O meglio io sorridevo al mondo, che
però mi sembrava rispondesse. Non c'era ancora il sole, troppo
presto. Buio, la notte non aveva ancora voglia di passare la
mano. Facce amiche attorno, giusto una o due, di conosciute
già qualcuna in più. Per il resto, volti assonnati, stanchi, cordiali
quanto basta – cioè il tempo istantaneo di un cenno con la
~ 39 ~
mano come saluto - e nulla più. Non siamo qui per stringere
amicizia, per chiacchierare, ma per lavorare. Obbedisco!
E quindi, a conti fatti, non è che il mondo mi sorridesse
così tanto. Io sì però sorridevo, perché mi sentivo grande. Cioè,
ero uno dei più giovani là dentro, ma il sapere – beate illusioni!
- che presto avrei avuto dei soldi miei mi riempiva di gioia,
m'illuminava gli occhi. E così sorridevo, come un cretino.
Soprattutto visto dove sarebbero finiti poi i soldi una volta
arrivati.
All'inizio mi hanno messo in un reparto tranquillo, dove
c'era poco da faticare. Un po' per vedere di che pasta ero fatto,
per capire se valevo qualcosa, se assomigliavo ai miei,
insomma. Ciò passato sei mesi lì dentro, giorno dopo giorno,
sempre le stesse facce stanche, sempre le stesse mezze frasi,
lasciate lì incomplete perché tanto cosa vuoi completare in
questo schifo di paese? Poi, mi hanno promosso. Cioè, io l'ho
presa come una promozione, ma poi chissà. Mi hanno spostato
in un reparto di responsabilità. Come suonava bene quella
parola all'epoca. Solo dopo ho capito la fregatura. Se prima
avevo sempre lo stesso turno, adesso lo cambiavo ogni
settimana. Mattina, pomeriggio, notte. E poi via di nuovo.
Altro giro, altro regalo. Ma sempre uguale nella sua ciclicità.
Ho cambiato tre reparti, nella fabbrica del paese. Non ho
~ 40 ~
capito quale fosse il migliore. Forse nessuno, alla fine. Da
lavorare ce n'era ovunque, sempre. Le facce stanche e bianche
erano sempre uguali, anche se su corpi diversi. Le frasi iniziate
e mai completate si ripetevano identiche. E i turni, dopo un po’
uno si abitua e non ci fa più caso.
Sono stato lì cinque anni, prima di decidere di andare via.
Non mi bastava. Non mi bastava la fabbrica, non mi bastava il
paese. Volevo di più, volevo qualcosa di diverso. Sentivo
crescere dentro di me un sogno, che poi era quello di mia
sorella: viaggiare, visitare luoghi distanti, conoscere gente
diversa. Uscire dal paese e dalla valle. Conoscere il mondo!
Ero giovane, capite. E come tutti i giovani, volevo andare
via per cercare altrove quello che lì non credevo di poter
trovare. Non mi ci vedevo a lavorare sino alla fine dentro una
fabbrica, vedendo sempre le stesse facce, ascoltando sempre le
stesse mezze frasi. Volevo di più. Indovinate com'è andata a
finire. Un altro paese, anche se non altrettanto piccolo. Un'altra
fabbrica, altre facce, sempre uguali, altre frasi, sempre lasciate a
metà. Tanto, cosa vuoi completare in questo schifo di paese?
Di fabbriche, ne ho passate tre, nella mia vita. Alla fine,
tutte eguali. Le differenze stavano solo nel prodotto. E
accontentarsi. Di anni, turno dopo turno, ne ho passati
ventidue lì dentro. Poi ho deciso che ne avevo abbastanza, che
~ 41 ~
era venuto il momento di creare qualcosa di mio, qualcosa da
lasciare, se ci fossi riuscito, ai miei figli. Così, ho aperto un
negozio. Poca cosa, abbigliamento, per uomo e donna.
Rosa è stata contenta di venire a lavorare in negozio, ma
solo per qualche ora al giorno, lei restava un’insegnante.
Giovanni invece, che pure avrebbe avuto l’età giusta per dare
una mano, non ne ha voluto sapere, aveva già deciso di
diventare avvocato e studiava tutto il santo giorno - e quando
poi si è laureato, che festa. Bruna è arrivata subito anche lei,
appena ha potuto, e poi ha preso in gestione tutto quando io
mi sono ritirato. Antonio, il più giovane, ha lavorato qualche
tempo con noi, poi ha deciso di seguire un'altra strada, ha
studiato anche lui, è diventato professore. Proprio come la mia
Rosa.
Il negozio è stata una scommessa, perché ho dovuto fare
anche dei debiti per aprirlo. Mica avevo i soldi necessari, cosa
credete, in fabbrica pagano anche abbastanza bene, soprattutto
se uno lavora di notte, ma non così tanto. Sono andato in
banca, ho spiegato il mio progetto, ho dimostrato di avere un
po' di denaro da parte. Mi hanno dato i soldi subito, dopo aver
messo un'ipoteca sul negozio stesso. Ma quanto ho faticato per
restituirli. Alla fine, a conti fatti ne ho restituiti quasi il doppio
di quelli che mi avevano prestato. Ma si sa, con le banche è
~ 42 ~
sempre così, in qualsiasi paese. Certo, se capita con i privati che
gli devi restituire il doppio di quello che ti hanno dato la
chiamano usura, ma va be'.
Ho deciso di aprire un negozio di abbigliamento per
uomo e donna perché lì al paese dove stavamo ancora uno
uguale non c'era. C'erano negozi solo per uomini o solo per
donne. Ma uno che accontentasse tutti no, non era venuto
ancora in mente a nessuno, ed è stato proprio quello a
convincermi che potesse essere il settore giusto. All'inizio mi
hanno anche guardato storto, come se fosse un qualcosa di
sbagliato, di sacrilego quasi. Venivano gli amici, i parenti, pochi
altri. Poi la gente si è accorta che la qualità era buona e che i
prezzi erano bassi – chissà cosa si aspettavano dal ‘talian - e
hanno cominciato a venire un po' tutti. Dopo qualche tempo,
ho preso a importare capi italiani e gli affari sono migliorati
ancora. Abbiamo dovuto assumere dei commessi, perché noi
da soli non ce la facevamo. Certo, se Giovanni e Antonio
avessero deciso di venire a lavorare con noi, non avremmo
dovuto pagare altre persone, ma loro volevano qualcosa di più
dalla loro vita. Come potevo impedirglielo? Non sarebbe stato
giusto. E così, loro da una parte, con la loro libertà, e noi con il
nostro negozio da un'altra.
Sono rimasto a lavorare lì sino a quando sono andato in
~ 43 ~
pensione. Ventiquattro anni, prima di cedere la mano. E mi è
costato andarmene via, ma ormai non riuscivo più a tenere
dietro agli ordini dei clienti. Dopo che ho sbagliato per quattro
volte di fila l'ordine e il conto, mia figlia mi ha detto che forse
era il caso di lasciare tutto a lei e di restare a casa. Ero
diventato inutile, insomma. O forse peggio, dannoso. E così,
spedito a casa, a instupidirmi davanti alla televisione.
Dopo oltre quarant'anni di lavoro adesso potevo
dedicarmi solo a me stesso. Sì, ma cosa mi restava ormai? Rosa
non c'era più e io ero solo, con l’unica compagnia di
quell’elettrodomestico e, ogni tanto, dei nipoti. Che ci stavo a
fare a casa? Così, continuavo lo stesso ad andare in negozio,
quasi tutti i giorni, per vedere se c'era bisogno di qualcosa, se i
clienti avevano bisogno di qualche suggerimento, se potevo
ancora rendermi utile. Certo, come no. Bruna ha retto tre
settimane scarse, poi abbiamo litigato, mi ha cacciato via e non
sono più entrato in negozio. Aveva ragione lei, lo so, però è
così triste, sentirsi vecchi, inutili, dannosi. E soli, dannatamente
soli. Con l’unica compagnia, per il puro gusto di sentire un’altra
voce, di un cialtrone che parla da uno schermo nel salotto,
mentre tu girovaghi per casa.
~ 44 ~
~ 45 ~
Certo: siamo musiche che rimangono negli altri
(Osvaldo Soriano)
~ 46 ~
Vi ho già parlato della mia famiglia, vero? Rosa, la mia
bellissima e amatissima moglie. Giovanni, Bruna, Antonio, i
miei adorati figli. Andrea, Sabrina, Mathias, la luce dei miei
occhi stanchi, i miei nipoti. Non abbastanza, dite? Allora
cercherò di porre rimedio, di dirvi tutto ciò che c'è da sapere su
di loro, o almeno tutto ciò che conta. Poi, sia chiaro, tornerò a
parlare di me. In fondo, questa è la mia vita, mica la loro.
Rosa. Ricordo come fosse ieri quando l'ho vista la prima
volta, alla festa del paese. Io ero lì, impacciato, nel mio vestito
buono, appoggiato a una colonna, un bicchiere di caipira in
mano, che gustavo lentamente. Mi guardavo attorno, a disagio.
Non sapevo ballare e lì per conquistare una ragazza bisognava
per forza invitarla a ballare. E poi, ancora ero impacciato con la
lingua, biascicavo mezze parole, e mi confondevo col dialetto
del paese. Mentre giravo lo sguardo da una parte all'altra della
stanza, mi sono perso nel fondo di due occhi verdi. Mi stava
guardando, già da un pezzo mi disse poi. La faceva sorridere la
mia aria indifesa e smarrita, le faceva tenerezza. Rimasi lì a
guardarla per non so quanto, prima di volgere altrove lo
sguardo, rosso in viso.
Quando poi tornai a guardare verso di lei, dopo altre due
caipire, aveva accanto due ragazzi, che la stavano invitando a
~ 47 ~
ballare. Ridevano tutti e tre, e io sentii una punta di gelosia, e
mi maledissi per la mia mancanza di coraggio. Poi, lei sorrise,
mi guardò e si alzò. Passò in mezzo ai due senza curarsi delle
loro frasi, dei loro gesti, e si accostò a me. Allora, mi disse, mi
fai ballare? Vi giuro, stavo per svenire. Credo di averle pestato i
piedi per tutta la durata del ballo, perché dopo, quella sera, non
abbiamo fatto altro che parlare, ben distanti dalla pista da ballo
però.
Ci siamo piaciuti subito, eravamo così simili. Lei, figlia di
emigranti, nata lì. Io emigrante di mio. Ci univa il ricordo della
patria d'origine, lontana, anche se venivamo da due paesi
diversi, io da un piccolo borgo montano, lei da una città di
pianura, appena più grande. Ci univa il crescere in un paese che
faticavamo ancora a sentire nostro, con una lingua che
entrambi masticavamo a fatica - mentre ci capivamo così bene
nel nostro dialetto, che pure era diverso. E poi, ovvio, ci univa
l'amore.
Non so se voi credete nell'amore a prima vista. Qualcuno
dice che è come sentire le farfalle nella pancia. Io non le ho
mai mangiate, né ho intenzione di cominciare alla mia età,
quindi non lo so se sia giusto il paragone. Ma è certo che
qualcosa dentro che ti si muove e ti scombussola le viscere lo
senti. Ti cresce dentro e ti porta a essere ancora più goffo di
~ 48 ~
quello che potresti essere, o che sei, abitualmente. Con Rosa
quel qualcosa dentro lo abbiamo sentito tutti e due, quando ci
siamo guardati negli occhi la prima volta, da distante. I suoi,
così verdi, sembravano il mare, all'alba, dopo una notte di
pioggia. Puliti, profondi, immensi. Era impossibile non
innamorarsi di lei.
Negli occhi di Rosa mi sono perso per quasi quaranta
anni, sino a quando un brutto male non se l'è portata via.
Anche lei, come mia sorella. Dopo quella sera, abbiamo
cominciato a frequentarci, a uscire assieme. Prima con i suoi
amici, poi, vinta la resistenza dei suoi genitori, da soli, ché
sentivamo il bisogno di un po' d'intimità. Non so se capite. Nel
frattempo, lei ha finito gli studi - ve l'ho detto che Rosa aveva
cinque anni meno di me? Dopo, abbiamo deciso di sposarci e
andare a vivere assieme. Abbiamo comprato una piccola
casetta, non troppo distante da dove abitavano i suoi, con
qualche sacrificio, com'è giusto che sia quando si vuole
costruirsi una famiglia.
A quel tempo, lei aveva iniziato a insegnare ai bambini. Le
piaceva essere una maestra, essere circondata da bambini. A
volte ero quasi geloso, di tutta l'attenzione che lei dedicava al
suo lavoro, ai suoi alunni. Poi, mi guardava negli occhi e tutto
passava, come potevo continuare a essere geloso? Rosa ha
~ 49 ~
dedicato tutta la sua vita alla famiglia e alla scuola. Quando
abbiamo aperto il negozio le ho detto di venire a lavorare lì, di
lasciare l'insegnamento. Sapete cosa mi ha risposto Come posso
abbandonare i miei ragazzi? Ed è rimasta lì, venendo in negozio
solo alcune ore al giorno - ma questo forse ve l'ho già
raccontato.
Un giorno Rosa ha cominciato a sentirsi male, aveva un
dolore qui, allo stomaco. Roba da niente, secondo lei, le serviva
solo un po’ di riposo. Ma il giorno dopo, lo sentiva ancora.
Così, siamo andati dal dottore, che le ha fatto fare visite su
visite. Poi ci ha detto che non c'era nulla da fare, che era solo
questione di tempo. Ancora.
Sapete? Ho pianto solo io. Rosa no, ha sorriso anche in
quell'occasione, con i suoi meravigliosi occhi verdi. Mi ha
asciugato le lacrime, mi ha guardato e mi ha detto Mi hai
regalato la vita che volevo, perché dovrei essere triste? E se non sono triste
io, non devi esserlo nemmeno tu. Non ha cambiato nessuna delle sue
abitudini e ha costretto anche noi a continuare a fare quello
che avevamo sempre fatto, come se non fosse successo nulla.
Poi, una mattina di fine settembre, mentre il sole si affacciava
svogliatamente, ha smesso di sorridere.
Giovanni, il primogenito, ha gli stessi occhi verdi di Rosa.
Adesso è un avvocato, sempre di corsa, si è sposato e a due
~ 50 ~
bambine, Andrea e Sabrina, e la più piccola ha ereditato ance
lei gli occhi della nonna. Vivono tutti nella capitale e così li
vedo poco. A un certo punto, prima di finire qui dentro,
sembrava che dovessi andare a stare con loro, ma come si fa?
Giovanni e la moglie hanno due bambine piccole, non hanno
bisogno anche di un bambino grande, che gli complichi ancora
di più la vita. E che, a differenza di Andrea e Sabrina, non
imparerà più ad arrangiarsi da solo, ma avrà sempre più
bisogno di aiuto.
Bruna è sempre stata la mia preferita. Non lo so se tutti i
genitori facciano delle preferenze riguardo ai propri figli, ma io
ho sempre avuto un affetto maggiore per lei, forse perché era
l'unica figlia femmina e quindi era sempre in inferiorità nei
giochi o nelle discussioni con i fratelli. Lei, ve l'ho detto, lavora
al negozio, se n’è innamorata subito e non ha mai pensato a
un’altra occupazione. Si è sposata e ha un figlio, Mathias. I
primi tempi, quando non potevo più stare in casa da solo, ho
abitato con loro. Ma com'era già successo al negozio, abbiamo
retto poche settimane. Forse, è sempre stata la mia preferita
perché ha un carattere come il mio, e per questo adesso che
invecchio non riusciamo a stare assieme.
Antonio è il piccolo, quello al quale Rosa voleva più bene
– anche lei aveva le sue preferenze, che credete. Ha preso il
~ 51 ~
carattere da lei e la voglia di insegnare. Non ai bambini però,
non sembra amarli troppo. Insegna all’università. Ha una
compagna, ma non parlano mai di matrimonio e quando mi
vengono a trovare ed io accenno il discorso, sono sempre bravi
a mettersi a parlare del tempo, e io non posso insistere. Come
sono cambiati i tempi, una volta appena un ragazzo e una
ragazza si conoscevano e si piacevano, cominciavano subito a
progettare di metter su famiglia, a pensare al matrimonio.
Adesso? Si accontentano di stare assieme, perché non si sa mai, ti
rispondono quell’unica volta che accettano di parlarne.
Antonio non ha mai parlato di prendermi a vivere con lui,
forse perché non avendo una famiglia propria non vuole troppi
legami, ma alla fine è quello che viene a trovarmi più spesso,
qui, nella casa per anziani.
~ 52 ~
~ 53 ~
In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo
per mantenersi vivi e continuare a sognare
(Henry Laborit)
~ 54 ~
Una volta al mese, la direzione della casa per anziani ci
porta giù in città, per una passeggiata. Poche ore, sia chiaro.
Giusto per farci respirare un'aria un po' diversa e per farci
sentire ancora vivi. Perché qui dentro il trascorrere sempre
uguale delle giornate molto spesso porta a interrogarsi su
questo: siamo già morti e questa noia assoluta è il paradiso?
L'ho sempre detto che l'inferno sarebbe preferibile, clima a
parte. Nell'attesa di capire cosa vi sia in serbo per me, nel
giorno dell'addio, evado da queste mura - che sanno a volte di
prigione - con la mente. E viaggio. Visito posti che ho visto e
luoghi che mai vedrò. E spesso, ripenso a quel primo viaggio,
lontano nel tempo, che mi ha condotto qui.
Era una buia mattina d'autunno - sarà un caso, è la
stagione dei cambiamenti, nella mia vita - quando ho aperto
per l'ultima volta la porta di casa, su al paese. Dormivano
ancora tutti. I saluti, gli abbracci e le lacrime c'erano stati alla
sera. Sarebbe stato troppo penoso ripeterli anche il mattino, e
così sono partito in silenzio. Ho guardato indietro, per
imprimermi nella mente più ricordi possibili. Un sospiro. Ho
chiuso gli occhi. Sono uscito, chiudendomi la porta alle spalle.
Ho riaperto gli occhi e mi sono avviato, con il primo passo.
Senza più voltarmi.
Ho attraversato la piazza ancora addormentata. Sono
~ 55 ~
salito sulla corriera, nei posti dietro. Per potermi voltare, per
l'ultimo saluto a ciò che stavo lasciando. Solo quando il paese è
scomparso all'orizzonte - e la fabbrica è stata l'ultima immagine
- ho chiuso gli occhi e mi sono addormentato. Dopo, ho preso
il treno, per raggiungere il porto, attraversando l'Italia.
Ammirando dai finestrini paesaggi che mai avevo visto e
che più avrei rivisto. Lontane, le montagne, vicina, tanto da
poterla sfiorare, la pianura, che vedevo per la prima volta. E
poco più in là, il grande fiume, del quale avevo solo sentito
parlare in racconti sperduti, che poi sfocia nel mare, che poi si
tuffa nell'oceano – come ci avevano spiegato a scuola, quando
non eravamo troppo distratti.
Quando mi sono affacciato al porto, che emozione! Tutta
quell’acqua messa assieme non l’avevo mai vista, e anche
immaginarla era stato difficile. E quante barche, di tutte le
dimensioni. La più grande, era quella che aspettava me e la mia
valigia di cartone. I miei ricordi e le mie speranze. I miei sogni
e la mia sete di vita.
Salire la scaletta della nave, mica è facile. Prima hai la terra,
l’unica cosa che hai conosciuto in tutta la tua vita, seppur così
diversa lì in pianura dalle tue solide montagne, sotto i piedi, poi
quel pezzo di metallo che galleggia. Ti vengono i dubbi. Che
sto facendo? Incespichi, ti volti indietro, ti spingono, perché
~ 56 ~
rallenti la fila è c'è sempre quello che ha fretta di fuggire.
Ma tu, stai fuggendo dal passato o stai partendo per il
futuro? Non lo sai, e forse è un insieme delle due cose, e così
avanzi piano, titubante. Poi, rimani lì, attaccato al parapetto e
guardi giù, la riva. Chi parte e chi resta. Tutti salutano. E tu, lì
da solo, ripensi ai tuoi di saluti, già così lontani da appartenere
al mondo dei ricordi. Una lacrima ti riga il viso, mentre
lentamente la nave lascia l'approdo e si avvia verso l'ignoto.
Trentasei giorni di macchina e vapore, canta l'inno
migrante. Ai miei tempi, qualcosa in meno. E con qualche
inconveniente in meno a bordo, perché la nave non era così
stipata come quelle di una volta. Sì, certo, terza classe, e
accontentarsi. Ma non ci si stava proprio come topi. Avevamo
ognuno il nostro spazio. Intimità zero, ma accontentarsi anche
in questo caso. Una branda, per dormire, con sotto il posto per
la valigia. Bagno - sì, va be', chiamalo bagno, pure toilette
sarebbe eccessivo - in comune. L'unico momento in cui potevi
sperare di essere solo, con i tuoi pensieri, era quando salivi in
coperta e osservavi quella distesa d'acqua azzurra.
Voi, avete mai visto l'oceano? E' qualcosa d'incredibile, di
maestoso. Di pauroso. Ovunque volgi lo sguardo, vedi solo
acqua. E ringrazi Dio di sapere nuotare, di avere imparato giù
al torrente – che quando era in piena è il massimo di acqua
~ 57 ~
messa assieme che hai visto prima di ammirare il grande fiume
dal treno, e poi il mare - quando d'estate andavi a cercare un
po' di sollievo con gli amici. Che così, se per caso la nave
affonda e tu riesci a tuffarti, per la prima mezz'ora ti salvi.
Perché, a che cavolo ti serve saper nuotare quando sei disperso
in mezzo all'oceano? Quando te ne accorgi, quando scopri la
risposta, senti qualcosa che ti sale dentro. Ti appoggi al
parapetto. E rimetti anche l'anima.
I primi due giorni li ho trascorsi così. Guardando i pesci
negli occhi, con il viso che aveva lo stesso colore dell'erba,
quando andava bene. La situazione è migliorata, quando ho
capito che restituire subito tutto ciò che bevevo e mangiavo che provavo a bere e mangiare - non era una soluzione. Così,
ho cominciato a godermi il viaggio. Passeggiavo per la nave,
curiosavo, vedevo gente. Facevo cose, insomma, come direbbe
qualcuno. In questo modo, la traversata è scivolata via, quasi
veloce. E un pomeriggio, dopo quella che è parsa un'eternità,
l'abbiamo avvistata: Terra! Eravamo finalmente arrivati.
Certo, come no. Intanto, dopo lo sbarco, la quarantena.
Per assicurarsi che non porti con te anche qualche malattia
strana. Poi, devi ancora raggiungere la vera metà, sei appena a
metà del viaggio. Tu sei sulla costa, ma devi arrivare
nell’interno. Hai voglia: giorni e giorni di cammino, con un po’
~ 58 ~
di fortuna di carro.
E quando sei lì, che attraversi questa nuova terra, e ti
guardi attorno, vedi che tutto è diverso da casa, dal paese. E'
tutto più grande, più immenso. Come l'oceano, quasi, ma
almeno qui qualche confine, lontano, lo vedi. E tu ti senti
piccolo, insignificante. Devi inoltrarti in quello sconfinato
continente. Deglutisci, un sospiro, poi vai. Che Dio t'assista.
Il secondo viaggio è forse ancora più lungo del primo. E
altrettanto spossante. Certo, avere terra sotto i piedi e tutto
attorno migliora un po' la prospettiva delle cose. Ma non
sapere dov’è la fine, se laggiù in lontananza dove appaiono
delle alture o ancora oltre, non aiuta. Soprattutto per chi era
abituato ad avere le montagne che delimitavano, a pochi km,
ogni possibile orizzonte.
E poi, anche le stelle lassù in alto, nella notte, sono così
diverse da quelle alle quali eri abituato. Nessuna Stella polare a
indicarti la rotta, ma solo quella strada Croce del Sud. E poi
costellazioni nuove e sconosciute, che lentamente imparerai a
conoscere con gli anni.
Quattro settimane a mangiare polvere, circondati da una
terra che sembra nemica. Dove non vedi nulla che ti sembri
familiare. Gli alberi, l'erba, gli animali sono diversi. Tutto è più
grande, più minaccioso. Ogni tanto ti sembra di scorgere, ma è
~ 59 ~
solo un'illusione non c'è dubbio, degli occhi che ti scrutano dal
folto della foresta. Ma quando fissi lo sguardo, vedi solo piante
e foglie. Così guardi avanti e non ci pensi più. Sino a quando
non ti cade ancora lo sguardo lì in mezzo e ti chiedi per
l'ennesima volta chi te l'abbia fatto fare. E tremando, guardi
avanti.
In mare, bene o male, c'era la possibilità di tenersi puliti
con una certa facilità. A terra, l'unica soluzione è l'acqua dei
fiumi. Gelida anche a mezzogiorno. Così ti limiti a un lavaggio
veloce e non ti curi troppo di te stesso. Il risultato è che alla
fine, quando torni a vedere un barlume di civiltà, sei rozzo,
barbuto, incolto, come direbbe l’amato poeta.
La prima cosa quando trovi il paese, alla fine del viaggio, è
quella di cercare un barbiere almeno, per non presentarti
troppo stravolto a chi dovrà aiutarti. Va bene un'espressione
vissuta, ma non esageriamo. Ti rimetti in sesto, perché sai che
adesso sei davvero arrivato. Ora comincia la tua nuova vita.
Sarà migliore di quella che ti sei lasciato alle spalle. Non hai
alcun dubbio mentre ti avvii, con passo incerto, lungo quelle
strade sconosciute. Cercando un nuovo inizio, saldamente
ancorato a quel paese che ti porti dentro e non ti abbandonerà
mai.
~ 60 ~
~ 61 ~
Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole
perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole
(Fabrizio de André)
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Spesso ho pensato se non fosse il caso di tornare.
Attraversare un'altra volta questa mia nuova terra e poi
l'oceano, in direzione contraria. Salire al paese, per rivedere i
luoghi della mia infanzia e giovinezza. Qui luoghi che non vedo
da 50 anni e che ho sempre conservato nel mio cuore, e che
oggi ricordo ancora così vividi, quasi li avessi appena vissuti.
Quasi non me ne fossi mai andato, in quella lontana mattina
d'autunno.
Incontrare, magari seduti al solito tavolo all’osteria, vecchi
amici, che chissà se saprei più riconoscere, modificati dagli
anni, così diversi da quei ricordi cristallizzati in me. Visitare i
miei morti, su al cimitero, osservare quelle tre lapidi di marmo,
quella che è stata l’inizio della mia seconda vita e le altre due
che non ho mai visto, per un saluto veloce, magari per un fiore,
perché poi non è che serva a molto, te li porti nel cuore anche
loro. Anzi, loro sono gli unici che ti accompagnano giorno
dopo giorno, anno dopo anno, con tutto quello che ti hanno
insegnato, con tutto quello che ti hanno detto. Con tutto quello
che tu non hai mai detto loro, magari solo perché non ne hai
avuto il tempo.
E poi, vedere i segni del tempo sulle case, là dove sono
nato, là dove ho mosso i primi passi, là dove sono cresciuto e
infine laggiù dove mi sono innamorato, la prima volta. Quanta
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nostalgia che proverei. Forse anche quanta delusione, se i
luoghi fossero così cambiati da non riconoscerli – e a vedere
ciò che è accaduto qui, c’è questo terrore. E forse, anche per
questo, per non soffrire di delusione, alla fine non sono mai
tornato.
Ci ho pensato molto, però, sapete, a ripercorrere la strada?
All'inizio ho pensato di tornare perché qui era tutto così
difficile. Straniero in terra straniera, con una lingua che
masticavo a fatica, un lavoro eguale a quello che avevo lasciato.
Nessuna certezza, tante insicurezze, una solitudine costante e
un vuoto incolmabile nel cuore. Ma come fai ad accettare un
fallimento senza combattere? Così, ho stretto i pugni e sono
rimasto.
Poi, lentamente, col passare degli anni, ti crei una tua vita e
allora pensi di tornare per una breve vacanza, giusto il tempo
di un saluto. Che sarebbe più il tempo del viaggio che quello in
cui rimani al paese, perché non è che puoi prenderti delle
vacanze troppo lunghe. Un abbraccio ai tuoi, qualche lacrima a
soffocare i racconti degli anni, una corsa al cimitero e a quella
lapide di marmo, e poi via di nuovo indietro, verso la tua nuova
vita. Ma i soldi non bastano mai per affrontare il viaggio, e
allora rimandi. E rimandi anno dopo anno.
Poi il tempo e i soldi ci sarebbero pure, ma sei diventato
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vecchio e ti spaventa tutta quella strada. Che tu ricordi lunga e
immensa, e che nella realtà è diventata nel frattempo invece
molto più breve. Magari solo grazie allo sviluppo dei mezzi di
trasporto, magari perché quel primo, e unico, viaggio ti ha
svuotato dentro più di quanto mai avresti immaginato. E hai il
terrore che ricapiti ancora, che tu arrivi svuotato al vecchio
paese, e che dopo tu non sia più in grado di affrontare l'oceano
- o forse nel frattempo l'azzurro cielo - una terza volta, per
tornare alla tua nuova vita.
Così, rinunci ancora, e ancora, e ancora. Poi, è troppo
tardi, lassù al paese non ti è rimasto quasi più nessuno, se non
nipoti che non hai mai conosciuto, dei quali hai letto in lettere
sbiadite o che hai visto in foto rattrappite, e tu nel frattempo ti
trovi abbandonato nella casa per anziani, e tanti saluti.
Credo che anche un'altra paura mi abbia sempre impedito
di tornare. Non avevo rivalse da mostrare, non dovevo
dimostrare a chi era rimasto che avevo avuto ragione io ad
andarmene – anche se all’inizio la paura di tornare con un
fallimento sì che mi aveva bloccato, ve l’ho detto. Ma le rivalse,
che sciocchezze! Ha ragione chi parte e chi resta. Ha ragione
chi riesce e chi fallisce, ma l’ho capito tardi. Ha torto, forse,
solo chi non ha mai sognato e si è accontentato di tenere gli
occhi bassi, senza affrontare la vita e il mondo, resistendo
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passivo all’avanzare incalzante dei giorni. No, la mia paura era
diversa. Tornare a rivedere il paese e non riconoscerlo più.
Non riconoscere i vecchi amici, o magari non trovarli più.
Tornare a casa, e sentirmi straniero. Ancora una volta straniero,
come quando sono arrivato qui tanti anni fa.
Non ho mai pensato, come cantava Carlitos, che tornando
al paese non avrei più avuto né pene né oblio. Non ho mai
pensato che sarei stato al riparo dalle delusioni. Al contrario.
Certo, come canta lui nei miei sogni, diurni o notturni, mi sono
sempre visto tornare con la fronte appassita e le tempie
inargentate dalla neve degli anni – e non è un caso che questa,
con il cappello come lui, sarà l’immagine che resterà di me, dal
marmo freddo di una lapide banale, senza angeli che spezzano
le catene o altri inutili ghirigori di vanità. Ma ho sempre avuto
la certezze delle delusioni che avrei sofferto, soprattutto su al
cimitero, davanti a quel marmo, con gli anni moltiplicatosi. Ho
sempre avuto paura dell'incontro con il passato che ritorna. E
così, l'ho sempre fuggito. Rimandando all’infinito un ritorno
che mi attirava e respingendo allo stesso tempo.
I contatti li ho tenuti praticamente solo con casa. I primi
tempi, anche con qualche amico, con chi ero cresciuto e non
avrei visto invecchiare. Lettere queste ultime che con il
trascorrere del tempo sono diventate sempre più rade. Difficili
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da scrivere, per il poco tempo a disposizione. Ancora più
difficili da leggere, per la scarsa voglia, o forse la paura, di
ascoltare racconti sempre uguali, come sempre uguale era la
vita lassù al paese, prima e dopo di me. Di ricevere notizie
sempre più tristi. Mi bastava quello che leggevo, con la fatica
per la disabitudine a quella lingua materna che ormai non
praticavo più, nelle lettere che arrivavano da casa.
Queste non sono mai venute meno. Nemmeno quando
grazie al telefono abbiamo potuto riascoltare le nostre voci,
così invecchiate dalla vita, così stravolte dalla distanza. Chissà,
forse è anche la consapevolezza di essere invecchiati, di essere
cambiati, a contrastare quella voglia di tornare che senti in
fondo al cuore, e che col trascorrere degli anni diventa sempre
più piccola.
Sia consapevolezza o sia paura, ho sempre ascoltato lei e
non il richiamo di casa. Non la nostalgia. Il mio paese, la casa
dove sono nato, la famiglia che ho lasciato, e quella prima
lapide di marmo, sono ricordi e sensazioni che porto nel cuore,
come tutto ciò che ho vissuto in questa vita.
Ma ciò che più mi accompagna in questi miei ultimi giorni,
che mi auguro non essere così ultimi, sono i ricordi della mia
seconda vita. In questo paese che da straniero mi è diventato
familiare, segnato da una lingua che prima masticavo e
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biascicavo a fatica e che oggi contraddistingue anche i miei
sogni – pure quelli ambientati nel remoto passato lassù al
paese.
Sono i giorni con la mia Rosa, e con i miei figli. Sono le
memorie di un’esistenza vissuta al meglio delle mie possibilità.
O almeno questo è ciò che credo, ciò di cui m’illudo quando
viene l’ora mia e appoggio la testa sul cuscino, prima di
abbandonarmi alle notti.
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Tristeza não tem fim, felicidade sim
(Vinicius de Moraes)
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Sapete cosa mi manca di più della mia vita, oggi che sono
nella casa per anziani? Il poter andare allo stadio. Ormai, negli
ultimi anni ci avevo fatto l'abitudine, avevo il mio
abbonamento, il mio posto prenotato, sempre quello anno
dopo anno. Ma adesso, non ci lasciano uscire, se non quella
volta al mese tutti assieme - e non certo per andare allo stadio e devo quindi accontentarmi di ciò che passa la radio, o la tv. E
non è la stessa cosa.
Sì, va bene, la televisione ti mostra i primi piani, i dettagli,
ti descrive le azioni lontane, quelle che allo stadio a volte non
riesci a cogliere bene. Ma l’emozione che regala una partita
vissuta dal vivo, quelle nessuna radio, nessuna televisione la
possono trasmettere. L’emozione di stare seduto accanto agli
altri tifosi, di indossare la tua sciarpa con i colori della tua
squadra e sventolarla all’aria. L’emozione di esultare tutti
assieme per un goal segnato, o di abbattersi collettivamente per
un goal subito.
Certo, non è che allo stadio sia tutto rose e fiori. Negli
ultimi anni i giovani hanno cominciato a proporre un tifo più
violento, più contro l’avversario che a favore dei propri
beniamini. Ma spero che sia solo un sentimento di passaggio,
che sia solo l’inesperienza per la vita che li porta a disprezzare
gli altri per la loro fede.
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Già quando stavo al paese mi ero appassionato al calcio.
Giocare in fondo è facile. Un prato - o uno spiazzo a caso,
anche una strada, un cortile - e un pallone, anche solo di
stracci. Un po' di gente di qua, un po' di là. Le giacche a
segnare le porte, quando va bene. Giocavi e ti sentivi Meazza o
Piola. Anche se c'era sempre quello saccente, che aveva letto di
un giocatore ancora più bravo, straniero ovviamente. Certo,
come no. Chi era più forte del Bepìn Meazza all'epoca? Va be',
a parte noi ragazzini incoscienti nei nostri sogni a occhi aperti.
La prima squadra che mi ha fatto innamorare aveva la
maglia rossa e blu. Gli altri ragazzini, su al paese, tenevano per
la Juventus, com'è normale che sia. Qualcuno teneva al Torino,
o al Genoa, o alla Pro Vercelli. Pochi alle altre, ché non c'è mai
stata storia. E poi, c'ero io, con la mia passione per il Bologna.
Quello che tremare il mondo fa. Quello capace di interrompere
la striscia di cinque scudetti dei bianconeri. Quello guidato dal
più grande allenatore dell'epoca, un ungherese che oggi
nessuno ricorda più: Árpád Weisz, che morì - ma lo seppi solo
tardi, troppo tardi si scoprono sempre le cose importanti,
quelle che contano davvero, che danno valore alla vita - ad
Auschwitz, travolto dalla follia dell'uomo.
Era ungherese, Weisz, aveva smesso presto di giocare, a
causa di un infortunio, dopo aver partecipato anche alle
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Olimpiadi. Era diventato allenatore, e di quelli bravi. Ma di lui,
come ho detto, ho scoperto quasi tutto solo dopo. All’epoca,
mi interessava solo che ci faceva giocare il calcio più bello del
mondo e che ci faceva vincere.
Arrivava dall’Ambrosiana, questo ungherese tranquillo, e lì
aveva fatto esordire, diciassettenne appena, proprio Bepìn
Meazza. Ci regalò due scudetti e il trofeo dell’Esposizione
universale di Parigi, che ancora oggi non ho capito che coppa
fosse. E poi, fu cacciato dai fascisti e dalle loro leggi razziali, fu
cacciato da chi credeva che esistessero uomini diversi a
seconda del colore della pelle, della “razza”, come la
chiamavano nella loro colossale stupidità. Una stupidità che
provocò oltre sei milioni di morto solo nelle camere a gas.
Ma lasciatemi tornare al calcio, perché questa vicenda per
fortuna l’ho vissuta solo da lontano. Sono partito dal paese
prima che la pazzia dilagasse. E poi, la Storia, quella seria e
vera, ci ha già raccontato quello che successe, meglio di come
posso farlo io con i miei ricordi distanti, nel tempo e nello
spazio.
Ovviamente, quando sono arrivato qua non ho potuto
seguire le vicende dei miei rossoblù. Anche a causa della guerra
che sarebbe iniziata di lì a qualche anno. Le notizie mi
arrivavano sporadiche, grazie alle lettere dal paese. E siccome
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amavo il calcio, ho scelto di tifare per una squadra locale, quella
italiana, dalla maglia verde e bianca. Il Palestra Italia - che poi
ha dovuto cambiare nome, costretto sempre in ossequio a
quella follia dell'uomo che rischiò di distruggerci tutti. Quanti
campioni hanno giocato qui, quanti ne ho visti di persona.
Djalma Santos, Vavá, Altafini, Cattani, furono alcuni dei primi
eroi di quegli anni. Qualcuno poi è arrivato anche in Italia,
come il Mazola.
All’epoca riuscii a risparmiare – avevo imparato dagli
insegnamenti del babbo a mettere via metà paga per il futuro –
per poter andare allo stadio, il nuovo Pacaembu, il giorno
dell’inaugurazione. Vincemmo 6-2, credo contro il Coritiba, e
fu festa grande per tutti, giocatori e tifosi. E come
sventolavamo al vento i nostri fazzoletti – le bandiere e le
sciarpe erano ancora là da venire.
Se penso ai giocatori che ho amato o che ho visto giocare,
devo confessare che il più grande di tutti non ha giocato per i
miei colori. Anche se in realtà è stato talmente grande che ha
giocato per tutti, che ha indossato tutte le maglie del mondo,
pur avendone portata soltanto una, bianconera. Perché
chiunque avrebbe voluto poter gridare di gioia a un suo goal, a
un suo dribbling, a una sua finta. Alla sua unica finta, sempre
quella, dovuta a quella gamba storta e più corta per la
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poliomelite. Quella finta che ingannava chiunque e lo metteva a
sedere, mentre lui scappava via con il pallone.
Manoel Francisco dos Santos, Mané Garrincha. E' stato
l'atleta della gente, l'allegria del popolo, l'angelo dalle gambe
storte. Era di Rio de Janeiro, e forse anche a questo si deve la
sua costante allegria. La sua gamba sinistra era più corta della
destra, a causa della poliomelite e di qualche accidente che gli
combinarono i medici. Non poteva camminare correttamente,
ma giocava divinamente. Aveva una finta, sempre quella, tutti la
conoscevano, tutti, ma nessuno era in grado di resistere. Lui
partiva e l'avversario era a terra, frastornato, disperato alla
ricerca del pallone e di Garrincha, che già volava verso la porta.
Per irridere, nella sua gioia senza fine, anche il portiere con
un'altra, e poi un'altra ancora, delle sue meravigliose finte in
danza.
Giocò con il Botafogo e con la nazionale brasiliana, vinse
due mondiali, uno praticamente da solo. E quanto era
immenso in campo, tanto era fragile fuori. Si perse, nel
successo, anche lui. Un matrimonio fallito e un grande amore,
che gli attirò l'ira e l'antipatia del suo popolo - e come me li
ricordo quei momenti, quanto disprezzo che quella passione
suscitò. Come fummo ingrati, capaci subito di dimenticare
tutte le gioie che ci aveva regalato, tutti i sorrisi che ci aveva
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strappato con le sue giocate, con i suoi dribbling. Come
fummo capaci di abbandonarlo nella polvere. Soprattutto c'è
stato l'alcool, che l'ha accompagnato lungo il viale del
tramonto. Sino a quel 20 gennaio 1983, quando il passerotto
prese il volo. E allora d'improvviso ci ricordammo di lui, e
finalmente, come sempre troppo tardi, lo ringraziammo per
essere vissuto.
Ne ho visti tanti di calciatori, in questi lunghi anni. I
brasiliani, dal vivo quasi tutti. Gli altri più tardi, alla tv. Pelé,
Best, Cruijff, Platini, Zico, Maradona, Van Basten. Tutti
straordinari, tutti incredibili. Uno solo è stato immenso: Mané
Garrincha. Per vederlo giocare, disse Vinicius de Moraes,
persino la rivoluzione sociale in marcia si fermava, perché il
suo calcio era una forza del popolo. L'ho visto giocare, e non
lo dimenticherò mai. Obrigado Garrincha, por vôce ter vivido
- come qualcuno, restituendoci il tardivo ricordo a noi che
l'avevamo così in fretta dimenticato, l'ha voluto salutare, dai
muri di Rio, nel giorno dell'ultimo dribbling.
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~ 77 ~
Et si c'était a refaire, je referais ce chemin
(François Mitterrand)
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E così, adesso sono qui, nella casa per anziani, che do da
mangiare ai piccioni – ormai si sono affezionati, e quando mi
vedono seduto sulla panchina mi raggiungono, qualcuno ho
iniziato anche a chiamarlo per nome - e parlo da solo. O
meglio, parlo con voi, che non è proprio la stessa cosa, ma ci
assomiglia molto, che credete. Mentre aspetto che passi il mio
funerale, perché vedete non si muore quando si deve, ma
quando si può. Come ha detto un generale, tanti anni fa, dopo
essere scampato a plotoni d'esecuzione, rivoluzioni e altre
amenità. Io sinora sono scampato alla vita, e tanto mi basta.
Le mie giornate scorrono uguali, con ritmi dettati da altri.
Per certi versi, sembra di essere tornati in fabbrica, con i buoni
vecchi turni di una volta, gli orari regolari, e sempre identici
giorno dopo giorno. Ma che volete, tocca accontentarsi.
Ancora.
Sveglia presto al mattino, colazione. Passeggiata nel parco
e panchina, se capita c’è qualche altro ospita col quale parlare,
sennò pazienza, si parla da soli. E si dà da mangiare ai piccioni.
Pranzo e siesta obbligatoria - che per me che ancora adesso
odio dormire al pomeriggio significa restare a letto, senza
neppure poter ascoltare la televisione, perché disturberei gli
altri, e rileggere, un vecchio libro. Passeggiata pomeridiana nel
parco e panchina, anche qui, se capita c’è qualcuno col quale
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scambiare due parole, sennò si racconta al vento – che peraltro
è un ascoltatore assai cordiale – e si dà da mangiare ai piccioni.
Cena, un po' di televisione, ma non troppa che sennò si
disturba. A letto quando inizia a imbrunire, o al massimo poco
dopo. Qualche pagina di un libro – ormai di nuovi non ne
leggo più, ma mi piace riprendere in mano quelli che mi hanno
accompagnato in quest’esistenza, sfogliarne le pagine, rileggere
alcuni brani, oppure anche affrontarli dalla prima all’ultima
parola - e poi, luci spente. Si dorme, si sogna. E via così. Un
giorno appresso all’altro.
C'è tanta noia, quello sì. E tristezza. Del resto, immerso in
un ambiente di vecchi abbandonati, e malandati, non potrebbe
essere altrimenti. Parliamo tra di noi, ci raccontiamo sempre le
stesse storie, ché tanto, ben che vada, dopo due giorni le
abbiamo già dimenticate e ci sembrano ogni volta nuove. Ci
concediamo quel breve ritorno alla vita durante le gite
settimanali. Ma poi, siamo sempre qui, chiusi tra le mura della
casa per anziani e del suo giardino. Chiusi in noi stessi.
Per fortuna, ogni tanto vengono a trovarmi i miei figli e i
miei
adorati
nipoti. Non quanto vorrei, ovviamente.
Dipendesse da me, li vorrei qui ogni giorno, soprattutto
Andrea, Sabrina, Mathias. Vorrei vederli crescere come ho
visto crescere Giovanni, Bruna, Antonio. E invece, vengono
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quando possono, o forse quando si ricordano. Non dico che
mi abbiano dimenticato, questo no, ma certo per loro è una
bella consolazione sapere che io me ne sto qui nella casa per
anziani. E che loro non devono quotidianamente venire a
vedere come me la passo, se combino disastri, se mi serve
qualcosa o se mi arrangio. Se respiro ancora.
Per loro è una consolazione. Per me ha il sapore di un
abbandono. Ma come ho già detto, non ne faccio loro una
colpa. Sono vissuti, nonostante gli insegnamenti familiari, in
un’epoca che non prevede la conservazione della memoria, che
non consente il rispetto per gli anziani. Un’epoca che s’illude
che parcheggiarli, sino alla morte, da qualche parte fuori vista
sia la soluzione. Un’epoca malsana. Che spero finisca in fretta e
le nuove generazioni sappiano tornare agli insegnamenti del
passato, alle tradizioni. Al rispetto per la vecchiaia, tra le altre
cose.
E qui dentro, il tempo sembra non passare mai. Un giorno
qualcuno non si sveglia. Un giorno arriva un volto nuovo. Vien
quasi da ridere, ma sono queste le uniche novità che ci sono
davvero rimaste. Nessuno che se ne esca di sua volontà, o
perché richiamato a casa dalla famiglia. Si esce solo con le
gambe in avanti, nell’abito di legno.
Che vi devo dire, tocca accontentarsi. Ancora, come
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sempre. Come ci si è accontentati nel corso degli anni. A volte,
penso che la vita non sia altro che una lunga sequenza di
"accontentarsi". Intervallata da poche scelte, che poi alla fine
sono quelle che caratterizzano la nostra esistenza e ci possono
rendere felici di aver vissuto. O, se sono sbagliate, che ci
dannano negli ultimi momenti che trascorriamo su questa palla
di fango.
E io delle mie scelte sono contento, ve l’ho detto. Niente
se, niente ma, tranne quando lo sconforto mi assale e mi
servirebbe una bottiglia di cachaça per scacciarlo. Se tornassi
indietro, probabilmente rifarei le stesse identiche scelto,
ripercorrerei lo stesso identico cammino. Affronterei ancora
quel viaggio verso l’ignoto, dal paese natio a questo d’adozione.
Lavorerei ancora in una fabbrica, per poi stufarmi e cambiare
fabbrica, rinchiuso tra turni e facce sempre uguali. Per poi
cercare un altro lavoro mio, avendone l’opportunità. Mi
specchierei ancora, e ancora, e ancora, negli occhi verdi di una
nuova Rosa, per perdermici dentro sino quasi ad affogare e
costruire con lei una vita e una famiglia.
Ma soprattutto, lo so, lo sento nel cuore, neppure
rivivendo la mia vita dall’inizio troverei mai la forza di tornare
lassù al paese. Avrei sempre quelle paure ad accompagnarmi,
rimarrei un viaggiatore che rifugge il proprio passato, e che in
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fondo non si sa davvero fermare. Perché, ammettiamolo, la
avrei terminato il mio viaggio solo se avessi trovato la forza di
tornare a casa. Anche solo per un giorno, per rispecchiarmi in
quelle lapidi e poi ripartire e tornare qui.
Ormai qui, nella casa per anziani, si è fatta sera. Le luci
dentro sono già accese, comincia anche a essere fresco e la luna
mi sorride di lassù. Sono arrivato quasi al capolinea, ma che vi
devo dire? Sono contento. La mia vita è stata meravigliosa. Ho
amato e soprattutto sono stato amato, e mica tutti possono
dirlo.
Ho avuto le mie quattro gioie, i miei otto dolori,
affrontando ogni giorno come un'avventura. E ora, la morte è
l'unica avventura che mi rimane. Così, lasciatemi solo, a godere
della brezza notturna - si sa mai che non ve ne sia un'altra.
Tornate a casa, voi che potete.
Addio, anzi arrivederci. E l'ultimo, spenga la luce.
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Sparse qua e là, vi sono citazioni, alcune dichiarate, alcune
accennate. Appare doveroso ricordare qui gli autori così
spudoratamente ammirati o copiati: Carlos Gardel, Fabrizio de
André, Gabriel Garcia Marquez, Guido Gozzano, Francesco
Guccini, Roberto Mariani, Nanni Moretti, Darwin Pastorin,
Osvaldo Soriano, Luigi Tenco, Massimo Troisi.
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