IL MISTERO DI PHU - Viaggi Avventure nel Mondo

TREKKING | Nepal
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IL MISTERO DI PHU
Dal Nar e Phu trek gruppo Civera
Testo di Paolo Civera
Foto di Silvan Zanoni e Paolo Civera
Ci sono luoghi che lasciano nel cuore
un segno. Non importa se abbiamo
viaggiato molto, visitato tanti paesi,
incontrato innumerevoli popolazioni e conosciuto
tanta gente. Improvvisamente arrivi in un ambiente
mai visto e rimani incantato. A me è successo
a Phu, villaggio di circa 250 anime situato a
4.035mt. di altezza in una valle laterale del circuito
dell’Annapurna. Phu mi ha stregato.
Intuisco la sua presenza quando, risalendo la
valle del Nar Khola, al termine della lunga ascesa,
il sentiero è sbarrato da una variopinta porta
d’ingresso in stile tibetano, messa lì come una
sentinella a guardia del regno. La supero e subito
lo sguardo è attratto da una serie di antichi chorten
un po’ in decadenza, coi rosoni decorativi che si
leggono appena. Nella luce che lentamente si
ritrae per l’avvicinarsi dell’imbrunire, nel silenzio
che precede l’acquietarsi della terra, i chorten
sembrano volermi parlare e narrarmi della terra
che presto avrei incontrato dove pace e armonia
vivono indisturbate. Questo senso di mistero e la
patina di antico predispongono la mia curiosità nel
voler sapere chi, in tempi remoti, li aveva costruiti
e, allo stesso tempo, mi stimola a procedere per
vedere cosa mi attende. Lo sguardo fruga pendii
cercando il villaggio di Phu. Una ricerca faticosa,
anche se in realtà il paese è lì davanti, ma così
ben inserito architettonicamente nella montagna,
costruito con le pietre dello stesso colore delle
rocce limitrofe, da sfuggirmi ad una prima occhiata
superficiale. Ci fermiamo incantati. Percepisco
chiaramente che anche i miei compagni ne sono
rimasti affascinati. Dobbiamo camminare ancora
un poco, dobbiamo superare il ponte sul Nar Khola,
per giungere, passando attraverso una mandria
di Yaks che si intrattiene sul sentiero, alle prime
abitazioni.
Abbiamo camminato per lunghe ore, e questo
ci costringe a sospendere la nostra curiosità e il
desiderio di immergerci repentinamente nelle
viuzze, per accogliere l’invito della nostra guida
Kaji a prendere sistemazione in una casa del paese
che ha adibito tre stanze per l’accoglienza dei
viaggiatori. L’alloggiamento è spartano: a terra
ci sono tre materassi, mezzi sfondati in gomma
piuma, ricoperti da un telo dal colore originale
indefinito. La finestra ha cartoni o un pezzo di
plastica al posto dei vetri, la porta è di lamiera
ondulata. Ovviamente la luce non c’è. Il cesso si
trova al piano terra, scendendo una ripida scala
senza ringhiere. E’ sorprendente però come tutti,
senza battere ciglio e senza aver nulla da ridire,
accettino tale sistemazione. Mi rammento quando,
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in altro tipo di viaggi, i compagni si lamentavano
per le più svariate ed insignificanti esigenze tipo:
“L’acqua non è abbastanza calda!” “C’è una
lampadina che non si accende” “ Nel bagno della
mia camera invece della tazza c’è la turca e non
sono abituata” e così via.
Vorrei poter mostrare loro come altre persone
sanno accettare, senza problema
alcuno,
accomodamenti di emergenza rinunciando, senza
difficoltà, alle comodità dei luoghi d’origine. Anche
questa è libertà: sapersi staccare da abitudini e
bisogni che talvolta diventano inutile zavorra. Non
ci si può improvvisare viaggiatori. Occorre buona
volontà e la capacità di sapersi adeguare alle
necessità di persone e luoghi con i quali veniamo
in contatto. E soprattutto avvicinarsi a loro in punta
di piedi, con il rispetto e l’attenzione che meritano.
Fortunatamente mi accorgo che, per i componenti
di questo gruppo, il problema non esiste, anzi
è come se non ci si aspettasse nulla di meglio.
Sembra uscire dalla loro mente un pensiero che
rincuora: meno male che siamo al coperto, al riparo
dal vento, col nostro borsone aperto davanti al
giaciglio per meglio pescare gli indumenti che ci
servono.
Dopo aver aperto i sacchi a pelo e sistemato nostre
cose, ci concediamo un the per poi iniziare la
conoscenza del paese.
L’impatto con il villaggio è immediato e
sorprendente: i locali si affacciano incuriositi al
nostro passare mentre avanziamo per le viette
strette che si arrampicano su per il paese. Le strade
sono punteggiate da escrementi di yaks che ci
rammentano come l’animale sia dono prezioso per
l’uomo. Le stalle sono nel villaggio, sotto le abitazioni
e alla mattina si incrociano bestie che partono verso
i pascoli per poi tornare a sera verso i loro ricoveri.
L’allevamento è l’attività principale del villaggio,
seguita dall’agricoltura. Ampi terrazzamenti, situati
ai margini del paese, sono coltivati con cura dagli
abitanti di Phu che ne ricavano miglio e patate. Mi
è giunta voce però di una terza attività che vorrebbe
soppiantare le prime due: la ricerca e la raccolta
del fungo Yartsa Gumpa. Un fungo presente non
solo nella valle di Phu e in quella della vicina Nar,
ma più genericamente nelle zone himalayane
poste tra i 3.500 m e i 5.000 m., dal Nepal al
Sikkim al Bhutan. Questo fungo ha visto crescere
la sua richiesta in modo esponenziale, così che la
quotazione è passata, in pochi anni, da un valore di
una decina di $ al Kg ai 25.000 $ attuali. Pare goda
fama e proprietà di essere un “viagra” naturale; da
qui la richiesta soprattutto da parte di ricchi cinesi.
Inoltre lo Yartsa Gumpa ha aumentato la sua
Avventure nel mondo 1 | 2014 - 149
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fortuna dopo la dichiarazione dell’allenatore di due
atlete cinesi, vincitrici di olimpiade, che si erano
“curate” ingerendo quotidianamente dosi di fungo
e verso le quali l’antidoping non aveva riscontrato
nessuna infrazione etica.
Si dice che nel periodo della possibile raccolta i
villaggi si svuotino dei loro uomini, che prediligono
impegnarsi in un’attività che rende loro 4 o 5 volte
di più del lavoro abituale. Nei giorni in cui siamo
rimasti a Phu, però, non abbiamo visto anima viva
frugare tra i pendii della montagna alla ricerca del
miracoloso Yartsa Gumpa.
Abbiamo invece notato che alcune famiglie si
stanno organizzando per cedere le camere delle
loro case ai trekkers od offrire gli spiazzi dei cortili
per piantare tende.
Più che curiosi turisti, salgono a Phu spedizioni
alpinistiche che puntano ai vari 7.000 m della
zona, in parte non ancora scalati.
Osservo incuriosito il villaggio immergendomi nei
suoi vicoli stretti e arrampicati sulla montagna,
e mi chiedo per qual motivo si sia formato un
insediamento tanto isolato dal mondo e in così
alta quota.
Pare che il paese sia frutto di un’emigrazione dal
Tibet, avvenuta in periodo medioevale. Arrivando
dai passi alti, questa popolazione ha trovato, in
quello che poi è diventato il paese di Phu, un
terreno coltivabile posizionato in luogo sicuro
e per questo ha deciso di fermarsi. L’ipotesi
dell’origine tibetana è confermata sia dall’etnia
degli abitanti che non hanno nulla in comune con
le popolazioni che vivono nella Marsyangdi, sia
dalla distanza dal fondovalle.
Ci vogliono due giorni di marcia per arrivare a
Koto, il primo villaggio di fondovalle dopo aver
percorso un lungo cammino che, per molti tratti
e in tempi abbastanza recenti, è stato scavato
nella roccia. Il Tibet è invece situato alle spalle, a
pochi chilometri dalla frontiera. L’architettura del
villaggio è in stile medioevale, con case addossate
una all’altra ed ampio uso di legno e sasso. Tutte
queste caratteristiche aiutano a decifrare il mistero
di Phu anche se non ho trovato nulla di certo: non
c’è né una relazione né un’ipotesi scritta formulata
in proposito.
Sorprendente è anche un insediamento a valle di
Phu. Il luogo si chiama Lower e Upper Chyako
ed è costituito da un folto gruppo di abitazioni
abbandonate che riportano alla memoria le case
di Machu Picchu in Perù. Solo le bandierine
di preghiera, ormai consunte dai venti e dalle
intemperie, sventolano incuranti in quel silenzio
assoluto.
Girovagando per Phu in compagnia dei compagni di
viaggio, abbiamo conosciuto tre ragazzine, due di
12 e una di 13 anni. Ci hanno raccontato di essere
a casa per le ferie scolastiche, confermandoci
che quasi tutti i bimbi e ragazzini di Phu vanno
a scuola a Pohkara o KTM, lontani dalle famiglie
per la maggior parte dell’anno. C’è sì una scuola
nel loro paese ma con un solo insegnante che
ovviamente non è in grado di occuparsi di giovani
dai sei ai quindici anni. Pertanto il villaggio,
durante il periodo scolare, si svuota dei circa
65 ragazzini che oggi costituiscono la presenza
giovanile di Phu.
Abbiamo chiesto alle fanciulle se desiderassero
trovare un’occupazione nel paese una volta
terminati gli studi; purtroppo hanno risposto,
all’unisono, di no. La loro aspirazione è fermarsi a
Pohkara o Katmandu.
Questa notizia ci ha un po’ rammaricato:
facilmente si intuisce che Phu non avrà vita lunga;
forse il turismo potrà sovvertire l’esodo in atto.
Oppure il fungo.
C’è poi a Phu un ambiente dal fascino particolare:
il Gompa di Tashi Lhakhang . L’intero complesso
occupa tutta l’altura. Lo raggiungo, con una salita
breve ma molto ripida. Man mano che mi innalzo
una successione di bandiere di preghiera, muri
mani, chorten mi accolgono fino ad arrivare alle
residenze dei monaci e infine al gompa.
L’ambiente attorno è suggestivo e di una bellezza
straordinaria, in una collocazione quasi mistica.
In cima al monte, sul piccolo altare dedicato alla
sepoltura in cielo (funerale celeste), si notano
pezzi di ossa umane e sulla base di legno sono
evidenti le tracce degli innumerevoli colpi di
macete per lo smembramento dei cadaveri.
Dalla cima dell’altura la vista è spettacolare. Mi
circondano montagne che si perdono nell’infinito,
con più di un 7000 incappucciato da imponenti
ghiacciai mentre lo sguardo è calamitato dalla
valle sottostante di cui non vedo la fine. In fondo,
nascosto ai miei occhi, c’è il Tibet. Da una valletta
laterale, invece, scendono i nastri argentati dei
fiumi che prendono vita dalle nevi eterne. Sotto
c’è il paese che, visto da qui, sembra un luogo
un po’ pigro e sonnolento aggrappato al monte.
Uno spettacolo da non perdere per chi viene a
Phu. Ritorno al complesso monastico accolto
da monaci ospitali che, senza difficoltà, aprono
le porte del monastero anche a chi arriva fuori
orario. Tutt’attorno ci sono case che ospitano sia
monaci che persone di aiuto al monastero, come
le diverse donne anziane intente alla cucina. Al
momento c’è solo un giovane monaco tirocinante
a cui non par vero di incontrare stranieri incuriositi
della sua sorte e di quella del monastero.
Lascio a malincuore questo luogo che dall’alto
sembra vegliare e proteggere il paese che gli sta
sotto. Chissà se si potrà mai custodirlo? I venti del
“nuovo” non tarderanno a spirare anche qui.
Nel bene e nel male.
Nepal
150 - Avventure nel mondo 1 | 2014
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