La rivista del clero italiano n. 7 e 8 anno 2014

Luglio/Agosto 2014 | Anno XCV
7|8 La Rivista
del Clero
Italiano
EDITORIALE
Per tutti
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FRANÇOIS CASSINGENA-TRÉVEDY
Con tutte le creature. Il cosmo nell’azione liturgica
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GILLES ROUTHIER
«Come ad amici». Lo stile dialogico del Vaticano II
514
ROBERTO VOLPI
La nostra società ha ancora bisogno della famiglia?
531
GIUSEPPE ANGELINI
Per educare un figlio ci vuole un villaggio
545
MARCO POZZA
Una periferia difficile. La voce di Francesco dentro le carceri
561
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Redazione: Alfonso Colzani (segretario), Luca Bressan, Gaetano Di Palma,
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EDITORIALE
Per tutti
non va collocata nel capitolo dei doveri, ma in quello
che racconta ciò che Dio ha fatto per noi. Il luogo più luminoso in cui
scorgere la figura evangelica della missione è il volto di Dio rivelato da
Gesù. Letta alla luce del Crocifisso, la missione acquista dei contorni
molto precisi. Gesù ha rivelato se stesso facendo missione. Capire la
missione non è altra cosa rispetto alla comprensione di Gesù Cristo né
altra cosa rispetto all’essere ‘servo’ del Signore Gesù.
Gesù non solo ha annunciato il Regno, ma lo ha mostrato nella
concretezza della sua esistenza. La vita di Gesù è stata lo specchio
del Regno: della sua presenza e della sua figura. Sottolineo la figura:
la presenza e l’azione salvifica di Dio (questo è, appunto, il Regno) si
sono manifestate nell’evento di Gesù con tratti di sorprendente novità. Nuovi, ad esempio, sono i tratti della misericordia e dell’universalità. Per mostrare la presenza e la figura del regno di Dio, Gesù ha
accolto, servito e perdonato. Questa prassi, che egli stesso ha indicato
come lo specchio dell’amore di Dio nei confronti dell’uomo, è sempre
caratterizzata dall’accoglienza degli esclusi, a cominciare dai peccatori. Nella misericordia di Gesù è poi racchiuso anche il tratto dell’universalità. L’accoglienza di Gesù supera, infatti, ogni differenza tra gli
uomini, travolge ogni barriera emarginante. È vero che Gesù non ha
percorso il mondo intero, però ha fatto crollare tutti gli steccati che ha
incontrato nel suo piccolo mondo. E questa è missione universale. Si
comprende perché Gesù – volendo elencare i segni dell’appartenenza
al Regno – vi abbia incluso anche questo: «Ero straniero e mi avete
ospitato» (Mt 25,35).
Il regno di Dio è missionario nella sua radice. Se mancasse la nota
dell’universalità, non sarebbe più il regno di Dio in tutta la sua verità.
La tensione universale – una nota che dovrebbe apparire, nella misura
del possibile, anche nei gesti pastorali più comuni, se questi vogliono
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La missione
Editoriale
La Rivista del Clero Italiano
essere evangelici – è esigita dalla natura del Regno. L’universalità è
un tratto essenziale che identifica il vero Dio che si è rivelato in Gesù
Cristo.
Mi si permetta di insistere. Se si vuole capire il cammino di Gesù
(le sue scelte e la sua direzione), bisogna partire dalla missione, intesa
come costante preoccupazione per tutti. Compresi i lontani. La venuta di Gesù («per questo sono venuto») è costantemente espressa
in direzione dell’universalità (Mc 1,38; 2,17; 10,45). Secondo Mc 1,38
(e ancor più chiaramente secondo Lc 4,42-43) non si può ‘trattenere’
Gesù, neppure una grande folla può farlo, neppure se tutti lo cercano.
Gesù ha raccolto attorno a sé un gruppo di discepoli perché «stessero con lui». A questo gruppo Gesù ha dato tempo e cure, ma la sua
preoccupazione non ha mai cessato di essere sempre per tutti. Non
si vede un prima e un dopo nella preoccupazione di Gesù. Questo
significa che egli ha pensato al gruppo in funzione della missione, non
viceversa.
I vangeli documentano con chiarezza che Gesù portava il gruppo
in missione. La comunità dei discepoli è itinerante come il Maestro.
Gesù e i discepoli sono costantemente davanti alla folla. Così Gesù ha
superato d’un balzo la vecchia logica – dura a morire – del prima e del
dopo: prima la formazione del gruppo, poi il suo invio in missione.
Gesù fin dall’inizio va ai lontani con il gruppo dei vicini. Non si tratta
di una tecnica pedagogica, ma di una questione di identità: se la comunità non va in missione, se non sta sempre davanti alla folla, mostra
di non aver capito (e accolto) l’evento di Gesù e non si fa più segno nel
mondo di quell’evento. Il sale non è più sale.
Nel vangelo di Marco (3,14-15) si legge che Gesù «Ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare». Lo ‘stare’ non
è la premessa dell’invio, ma molto di più. Il rapporto fra i due momenti è costantemente circolare. È stando con Gesù che si comprende la
necessità dell’andare: perché andare, dove, per quale annuncio. Ma è
andando che si sta veramente in compagnia di Gesù: la sua vita, infatti,
è itinerante, senza fissa dimora.
L’universalità è al cuore dell’evento di Gesù: il Crocifisso è il Figlio
di Dio che muore per tutti e il Risorto è il Signore del mondo. Se si
dimentica la nota dell’universalità, si tradisce profondamente la memoria della morte e risurrezione del Signore. Senza dimenticare, naturalmente, che croce e risurrezione sono strettamente congiunte: la
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signoria di Cristo – che va testimoniata in tutto il mondo – non è altra
cosa rispetto allo splendore dell’amore di Dio (dedizione, servizio,
perdono, povertà) del Crocifisso. Non basta essere presenti dappertutto per potersi dire universali, cattolici: è necessaria una presenza
con precise modalità.
L’universalità è dunque una nota che caratterizza il vero Dio, come
la misericordia, la bontà o altro. Mancasse questa nota non si potrebbe più parlare della figura del Dio di Gesù Cristo. Il ‘per tutti’
è la direzione obbligata, perché qualsiasi gesto pastorale possa dirsi
evangelico. Allora non si può più pensare alla missio ad gentes come
il punto di arrivo degli altri momenti della pastorale, quasi ne fosse
l’ultima tappa, ma è l’orizzonte da cui partire per comprendere ogni
forma pastorale e correttamente configurarla. L’ad gentes – con le sue
note di universalità, annuncio e inculturazione – è il paradigma della
pastorale. Non c’è ‘cura d’anime’ che possa essere volta solo all’interno e ferma sul locale.
Missione ad gentes dice un modo di fare missione, non soltanto né
anzitutto un luogo dove fare missione. Anzi dice un modo di fare pastorale semplicemente, un modo di essere Chiesa. La nota costante è il
‘per tutti’, l’oltre. L’ad gentes dice una tensione e una modalità.
San Paolo descrive una precisa figura di missione, che discende
dalla concezione della salvezza/grazia. La grazia è il vangelo da annunciare, la notizia che precede ogni altra e dà significato a tutto il
resto: Cristo è morto e risorto per noi e, di conseguenza, siamo salvati
dall’amore gratuito di Dio apparso sulla Croce, non dalle nostre opere.
La grazia è il fondamento dell’universalità della missione. Anzitutto
nel senso che la salvezza sta nella fede non nelle culture, e quindi tutte
le culture possono aprirsi al vangelo, e nessun popolo può imporre a
tutti la propria cultura in nome di Cristo. Cadono le barriere fra uomo
e uomo, popolo e popolo: non ci sono più i vicini e i lontani, i degni e
gli indegni, e questo proprio perché l’amore di Dio è gratuito e rivolto
a tutti, in nessun modo condizionato dalle opere degli uomini, dalla
loro appartenenza a un popolo anziché a un altro, dai loro meriti e
dalle loro conquiste.
Anche l’uomo deve concepirsi come dono gratuito, come un’esistenza regalata, che non può, di conseguenza, rimanere chiusa in se
stessa ed essere sfruttata per se stessi, ma deve aprirsi e farsi dono
gratuito per tutti. Se questo non avvenisse, il movimento dell’amore
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Per tutti
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Editoriale
La Rivista del Clero Italiano
gratuito di Dio verrebbe interrotto e distorto, addirittura capovolto:
non più dono ma possesso, non più servizio ma potere. Ecco perché
Paolo annuncia soltanto l’amore di Dio liberando gli uomini da ogni
paura nei confronti della divinità e da ogni angoscia nei confronti
della propria salvezza, ma annuncia al tempo stesso l’amore gratuito
fra noi. Giustamente il missionario è sempre – in nome del suo vangelo – portatore di dignità, libertà e fraternità.
Ma in concreto che cosa significa essere universale, vivere da uomo
universale? La prima cosa da fare è di essere capaci di andare al cuore
del problema dell’uomo. Al di là di molti problemi che ci prendono
e ci distraggono, c’è il grande problema, il problema del senso della
vita, che poi si identifica in ultima analisi col problema di Dio. È un
problema che ci accomuna tutti, al di là delle ideologie e delle razze,
delle latitudini. La prima universalità si scopre qui, nel fondo di noi
stessi. E il primo viaggio da compiere è in verticale. Se ti fai attento agli interrogativi dell’esistenza, puoi dire veramente di aver capito
l’uomo nella sua verità più profonda e generale. Puoi dire di esserti
inserito nella ricerca più universale.
E poi una seconda cosa: non è più possibile rimanere chiusi in noi
stessi, nella famiglia, nella nostra comunità: per vivere bene in questi
nostri stessi ambienti è necessario avere uno sguardo che abbraccia la
Chiesa intera e il mondo intero. Se manca la profondità, siamo frantumati e superficiali. Se manca l’universalità, restiamo uomini settoriali
e chiusi.
Ancor più concretamente possiamo dire che compito di ogni cristiano – che veramente vuole essere cattolico, cioè universale – è di
farsi nel proprio ambiente mediatore fra l’universale e il locale, inserire l’universale nel particolare e aprire il particolare all’universale.
Far vedere, in altre parole, che i problemi del mondo non sono un’astrazione, ma qualcosa di reale che ha incidenza sul nostro stesso ambiente (di lavoro, familiare, sociale, ecclesiale). L’universalità – in altri
termini – deve entrare nella gestione concreta della vita. I bisogni dei
poveri del mondo, per fare un esempio, devono per un cristiano rientrare nel suo bilancio ordinario, non essere qualcosa di occasionale.
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FRANÇOIS CASSINGENA-TRÉVEDY
Con tutte le creature
Presentiamo qui gran parte della relazione che François CassingenaTrévedy (monaco dell’abbazia benedettina di Saint-Martin de Ligugé
e docente di liturgia presso l’Institut Catholique di Parigi) ha tenuto nel maggio scorso al XII Convegno Liturgico Internazionale su
‘Liturgia e cosmo’, presso il monastero di Bose. Il saggio analizza la
profonda relazione della liturgia cristiana con il creato, con quanto
eccede gli spazi fisici, solitamente ‘chiusi’, della celebrazione: dalle
origini essa non è né sorda né cieca rispetto a quanto accade, vive,
respira o semplicemente esiste al di fuori dell’ambito delimitato in
cui si svolge. Con le sue liturgie nutrite dalla parola biblica e dalla tradizione antica, la comunità cristiana chiama in chiesa il mondo creato, convocandolo quasi come ‘concelebrante’, illustre ‘parrocchiano’.
Quanto avviene in chiesa, dunque, non allontana dal mondo naturale,
non isola da esso, ma prende «a piene mani l’aria, la terra, il cielo e
il mare», abbraccia, «con tutta l’estensione della nostra corporeità,
contrassegnata dal segno cosmico e salvifico della croce, il fuori in
tutta la sua grandezza e bellezza». Anzi, la liturgia aiuta a guardare
alla creazione con uno sguardo che la bonifica, la protegge, la consola di tutti i maltrattamenti, nella misura in cui sospende e vieta ogni
impossessamento violento, ogni sfruttamento cieco, per sostituirvi il
senso e il gesto del ‘prendere il cibo’ nell’azione di grazie.
Aerazione mattutina
San Benedetto da Norcia, tracciando nella sua Regola il piano di costruzione delle Ore liturgiche e distribuendo nello scorrere di un tem495
La Rivista del Clero italiano 7/8| 2014
Il cosmo nell’azione liturgica
La Rivista del Clero Italiano
po sapientemente ritmato il buon pane della salmodia, ha stabilito che
la giornata monastica non inizierà mai senza il canto – subito dopo il
versetto d’apertura Domine, labia mea aperies e il salmo 3 – del salmo
94, Venite exsultemus Domino, che s’impone, in seno al salterio, come
l’invitatorio per eccellenza. E questo salmo, fra altre cose grandiose e
forti, afferma:
Sì, un grande Dio è il Signore,
grande re al di sopra di tutti gli dèi.
Nella sua mano sono tutti i confini della terra
e le vette dei monti, lui le abbraccia con il suo sguardo.
Suo è il mare, è lui che l’ha fatto;
la terra asciutta, le sue mani ne hanno posto le fondamenta (Sal 94[95],3-5)1.
François Cassingena-Trévedy
Confesso che questi versetti non passano mai sulle mie labbra e non
risuonano alle mie orecchie senza che io avverta all’istante un’emozione profonda. È un’emozione che partecipa, mi pare, dell’emozione
del mondo stesso in questa ‘orogenesi’, della quale il capitolo 8 del
Libro dei Proverbi – che il lezionario liturgico ama tener in serbo per
le memorie della Vergine Maria – ci rende così magnificamente contemporanei:
Quando non esistevano gli abissi, io fui generata,
quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua;
prima che fossero fissate le basi dei monti,
prima delle colline, io fui generata,
quando ancora non aveva fatto la terra e i campi
né le prime zolle del mondo.
Quando egli fissava i cieli, io ero là;
quando tracciava un cerchio sull’abisso,
quando condensava le nubi in alto,
quando fissava le sorgenti dell’abisso,
quando stabiliva al mare i suoi limiti,
così che le acque non ne oltrepassassero i confini,
quando disponeva le fondamenta della terra,
io ero con lui come artefice (Pr 8,24-30).
Nell’ora in cui tanti uomini e donne si alzano, già rassegnati al fallimento del giorno, già anchilosati da una tristezza penetrante come
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fuliggine, che grande aerazione! Quale privilegio (privilegio del quale bisogna misurare quotidianamente la portata…), di trovarsi nelle
prime logge d’un simile teatro e di introdurre tali vastità nel corteo
ordinario del proprio risveglio! Si dirà ancora, dopo tutto questo, che
ci si condanna al confino, andando in chiesa?
A dire il vero, l’‘Opera dei Sei Giorni’, narrata dalle prime pagine
della Bibbia, si accorda immediatamente con la liturgia, dato che si
svolge come una grande liturgia feriale; l’universo che si costruisce
sotto i nostri occhi, nella luce della Rivelazione, è un universo liturgicamente prefabbricato, se così si può dire, come l’attesta in modo particolare l’indizione del Quarto Giorno: «Dio disse: Ci siano fonti di
luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; siano
segni per le feste, per i giorni e per gli anni» (Gen 1,14). Le «feste», il
cui programma resta ancora tutto da scrivere, si rivelano già sin d’ora
attrattive come dei poli. Resta il fatto che la solidarietà della creazione
e della liturgia non viene smentita all’altra estremità del continente biblico: è nello scrigno di «un cielo nuovo e una terra nuova» (Ap 21,1),
nelle vicinanze del «fiume d’acqua viva, limpido come cristallo» (Ap
22,1), che si celebra, a furia di alleluja, la lode dell’Agnello (cfr. Ap 5 e
19). Nel frattempo – da un Testamento all’altro –, i salmi, destinati alla
liturgia comunitaria del Tempio come pure alla pietà individuale dei
fedeli del Popolo dell’Alleanza, trovano nell’indirizzo al Dio creatore
e nell’evocazione entusiasta della sua opera un tema fondamentale che
imprime il suo sigillo alla coerenza della raccolta (cfr. Sal 8; 18; 64; 9297; 103; 146-150). A questo breviario mi piace accostare la maestosa
dimostrazione cosmica posta da Elihu, e poi dal Signore stesso, come
uno sconcertante sed contra, in risposta alle proteste di Giobbe (cfr.
Gb 36-41), come anche il quadro delle meraviglie della natura che il
Siracide fa precedere al suo elogio delle grandi figure della storia di
Israele (cfr. Sir 42,15-43,33).
Liturgia cosmica? Liturgia del Cristo, «Primogenito di
tutta la creazione» (Col 1,15)
Gesù stesso è uomo dell’aria aperta, delle acque, del cammino, del
fuoco (cfr. Lc 12,49; Gv 21,9), un vivente che posa un piede sul mare
(cfr. Mt 14,22-33; Lc 5,1-11) e l’altro sulle colline (cfr. Gv 6,1-15),
un maestro che tiene una scuola di sapienza e lezioni a partire dalle
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Con tutte le creature
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François Cassingena-Trévedy
La Rivista del Clero Italiano
cose, prendendo in considerazione «gli uccelli del cielo» e «i gigli dei
campi» (Mt 6,26-30), i «granelli» che diventano «alberi» (Mt 13,3132), i «pesci» dalle forme più strane che la «rete» porta sulla riva
(Mt 13,47-50) e le «pecore» smarrite in luoghi solitari (Lc 15,4-7).
Probabilmente è questa massima esposizione del suo essere ai cinque elementi del mondo (il quinto è il genere umano, frequentato
senza riserve) che conduce Gesù a mandare in rovina intorno a sé
l’istinto di sacralizzazione esclusiva di certi luoghi – a disfare la magia
dei luoghi – per annunciare la presenza d’immensità del Dio che «è
spirito: Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a
Gerusalemme adorerete il Padre…» (Gv 4,21-24). Bisogna riconoscerlo: il culto di cui il Cristo pasquale è il destinatario e insieme l’istitutore non è, nella sua essenza, un culto naturistico dei cicli, né delle
energie, né degli elementi – cose tutte dalle quali egli libera – poiché
«anche noi, quando eravamo fanciulli, eravamo schiavi degli elementi
del mondo (hypò tò stoicheîa toû kósmou dedouloménoi). Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da
donna…» (Gal 4,3-4). In breve, la liturgia cristiana celebra non un
eterno ritorno, ma una novità assoluta; non fenomeni ricorrenti della
natura (solstizi) né attività umane in rapporto con i suoi cicli, come
la semina e la vendemmia (almeno non direttamente), ma una storia
universale sotto il segno della salvezza e un evento fondamentale al
cuore di questa storia, cioè l’incarnazione di Dio e la Pasqua di Gesù
Cristo. Del resto, le stesse feste veterotestamentarie (cfr. Es 23,14-17;
Lv 23,5-22; Dt 16,1-16) hanno visto attenuarsi il significato agrario
delle loro origini (azzimi, mietitura, raccolta), per arricchirsi di una
portata memoriale (uscita dall’Egitto, dono della Torà) legata al loro
ridimensionamento soteriologico. Non possiamo dimenticare che la
creazione stessa, come atto di Dio, si integra in una storia della salvezza, come viene attestato in modo eccellente dalla sequenza delle
letture della Veglia pasquale, che fa seguire al racconto della cosmogenesi quello del Passaggio del mar Rosso e che sfocia nel kerygma
della resurrezione. Pertanto, è attraverso il prisma dell’evento pasquale che la liturgia assume la creazione nella sua memoria; in altre
parole, è attraverso il Lógos – che in più è il «Lógos della croce» (1Cor
1,18) – che essa contempla il Kósmos.
Una volta riconosciuto e affermato l’orientamento fondamentalmente storico del culto cristiano, il suo orientamento cosmico non
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7/8 Luglio/Agosto 2014
vi si trova però negato né offuscato, ma semplicemente appare come
correlativo al primo. Joseph Ratzinger, abbastanza di recente, nella
sua opera Introduzione allo spirito della liturgia, ha trattato del dibattito che interessa questi due poli dell’essenza del culto e, tenendo debitamente conto – com’è sua abitudine – della situazione fondamentale
della creazione nell’edificio della fede cristiana, l’ha risolto in modo
equilibrato, cioè vantaggioso per la dimensione cosmica, al punto che
questa riabilitazione appare come uno dei tratti più caratteristici della
sua riflessione:
La liturgia cristiana è chiaramente una liturgia cosmica, ma mediante
Christo, cioè mediante la centralità del Cristo pasquale, del quale le
lettere paoline della prigionia affermano la signoria sulla totalità del
mondo creato, signoria che egli possiede a titolo della sua preesistenza
in quanto Lógos e che gli è concessa come ricompensa della sua kenosi
(cfr. Fil 2,9-11): «Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di
tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e
sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili» (Col 1,15-16). La creazione, che ora «è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio» e «geme e
soffre le doglie del parto» (Rm 8,19-22), si vede interamente trascinata
nell’avventura redentrice e condotta dal Cristo alla sua autentica finalità, cioè alla pienezza della sua vocazione liturgica.
«Dio tutto in tutti» (1Cor 15,28) – prosegue il cardinal Ratzinger –, è questo
lo scopo del mondo, è questa l’essenza del «sacrificio» e del culto. Possiamo
allora dire che lo scopo del culto e lo scopo della creazione nel suo insieme è
lo stesso: la divinizzazione, un mondo di libertà e di amore. In questo modo,
però, anche nella dimensione «cosmica» appare la dimensione storica: il
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Con tutte le creature
Nella teologia moderna si è andata sempre più affermando l’idea che nelle
cosiddette religioni naturali, così come nelle grandi religioni non teistiche,
il culto sia orientato cosmicamente, mentre nell’Antico Testamento e nel
cristianesimo esso abbia un indirizzo storico […]. L’idea di un orientamento
cosmico o storico del culto non è del tutto infondata, ma è erronea se porta
a una contrapposizione radicale: allora si disconosce la coscienza storica che
è sempre presente anche nelle religioni naturali e si svilisce il significato del
culto cristiano di Dio; si dimentica che la fede nella redenzione non può
essere separata dal riconoscimento di fede nel Creatore2.
La Rivista del Clero Italiano
cosmo non è una sorta di edificio chiuso in se stesso, non è un contenitore
inerte in cui la storia può comunque svolgersi. Anch’esso è movimento, da
un inizio verso una meta. Esso stesso è in certo qual modo storia3.
François Cassingena-Trévedy
Una creazione in divenire sacramentale
A livello generale, il lessico della liturgia merita una speciale attenzione: la liturgia ci parla di ‘creazione’, molto più che di ‘natura’, secondo
il senso che noi attribuiamo generalmente a questo termine a partire
dall’Illuminismo, dall’epoca romantica e dall’avvento delle scienze
della natura. Di fatto, se il termine ‘natura’ è eccezionale (lo si trova
solo nel Dies irae, che oggi ricorre nella XXXIV e ultima settimana
dell’anno liturgico4), il termine ‘creatura’ si impone, sia per designare l’insieme della creazione, sia per designare l’una o l’altra creatura
coinvolta, come materia, nella celebrazione liturgica.
Fondamentalmente, il termine ‘creatura’ si caratterizza come termine teologico che esprime un concetto teologico autorizzato dalle
Scritture stesse: designa l’essere naturale, non nella sua esistenza indipendente e bruta, nel suo esserci desolato, ma – in maniera relativa – nel
suo duplice rapporto d’origine, in relazione a Colui che ne è l’autore, e
di destinazione, in relazione a Colui che è anche la sua meta; detto altrimenti, l’essere naturale in quanto contemporaneamente donato da Dio
e ordinato a Dio. L’uso di questo termine presuppone certamente l’atto
di fede nel Dio creatore (espresso nel Simbolo che si recita nel corso
della celebrazione liturgica)5 e costituisce già di per sé una professione
di fede. Nella misura in cui designa una totalità, il termine ‘creazione’
(gr. ktísis, lat. creatura) punta l’indice verso all’Uomo nuovo – il Cristo,
che sta al principio di questa totalità – e così contiene già una sicura connotazione cristologica; e attesta la ricapitolazione dell’universo
operata dal Cristo in persona, come pure quella operata dallo sguardo
credente, allorché questo si posa sulla ‘natura’ nella luce di Cristo. Solo
lo sguardo credente, infatti, può riconoscere una creazione, con la coerenza che questa suppone, laddove altri scorgono semplicemente la
‘natura’ in modo frammentario. In altre parole, solo la fede nel Lógos
(Gv 1,3: «tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato
fatto di ciò che esiste») può abbracciare con lo sguardo il Kósmos e
può ‘convocarlo’ – dargli cioè un nome comune nel linguaggio e una
voce comune nella lode –, cosa che avviene meravigliosamente pro500
7/8 Luglio/Agosto 2014
prio nello spazio-tempo della liturgia. Se indicano un essere relativo, i
termini ‘creazione’ e ‘creatura’ non indicano un essere finito, e ancor
meno un essere chiuso: la creatura, che possiede la sua virtus propria,
è fondamentalmente aperta e offerta alla potentia divina; sta semplicemente in un atteggiamento, in una disponibilità sacramentale (e il
‘sacramentale’ può essere definito come il plusvalore del creato, per
l’iniziativa dello stesso Dio creatore e redentore, a beneficio dell’uomo,
nell’ordine della salvezza). Ci piace riandare all’orazione Super oblata
della V domenica del Tempo ordinario, della quale avevamo citato più
sopra solo l’incipit anamnetico:
Con il suo binomio creatura-sacramentum, la formula esprime in modo
esemplare il processo che impegna tutta l’azione liturgica (nel caso
specifico si tratta del pane e del vino, «frutti della terra e del lavoro
dell’uomo»7), l’avvenire che realmente si dischiude per l’intera creazione attraverso l’‘industria’ liturgica, a partire dal dato assodato – come
ricorda la Costituzione sulla santa liturgia del Vaticano II – per cui sui
sacramenti «s’impernia tutta la vita liturgica»8. Ciò significa che, lungi
dall’essere fissata e limitata nel suo essere, come da una fustella, al termine di un gesto di creazione meccanica, la creatura è in attesa e in divenire sotto la mano del Dio vivente. Così la preghiera di benedizione
dell’acqua, durante la Veglia pasquale, non traccia solo una storia della
salvezza per mezzo dell’acqua, ma – mi si passi l’espressione – una
storia della salvezza dell’acqua stessa, una storia dell’acqua nell’ordine
della salvezza. L’opera della genesi raggiunge la sua pienezza in questa
misteriosa ripresa in mano (nelle mani, a un tempo, divine e umane)
che si opera nel grande sacramentum paschale, come lascia intendere la
colletta del lunedì della IV settimana di Quaresima (la grande settimana, com’è noto, di preparazione battesimale):
O Dio, che rinnovi il mondo con i tuoi sacramenti,
fa’ che la comunità dei tuoi figli si edifichi
con questi segni misteriosi della tua presenza
e non resti priva del tuo aiuto per la vita di ogni giorno9.
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Con tutte le creature
Il pane e il vino che hai creato, Signore,
a sostegno della nostra debolezza,
diventino per noi sacramento di vita eterna6.
La Rivista del Clero Italiano
François Cassingena-Trévedy
Ministero dell’esterno
Sebbene, da un punto di vista storico, mostri una marcata origine urbana (si è infatti sviluppata e ha perfezionato le sue forme nelle grandi
metropoli dell’Impero cristiano), sebbene sia congenitamente legata
al cenacolo (cfr. Mc 14,14-16), al Tempio (cfr. At 2,46), alla domus (cfr.
At 20,7-12), cioè all’interno, al dentro, la liturgia non si svolge, però, e
non si può concepire a porte chiuse, in una specie di impermeabilità
o indifferenza al fuori, nella sua grandezza e bellezza. A dire il vero,
questo fuori le è eminentemente presente; non si limita a circondarla
come mero decoro, ma la riguarda come partner, la interessa, rientra
nell’ambito della sua cura e responsabilità. Di fatto, la preghiera liturgica mostra di essere innanzitutto un forum, uno spazio di parola privilegiato per la designazione, l’enumerazione, l’‘enarrazione’ (enarratio, cfr. Sal 18,2 Vulg.) del cosmo. Si pensi per esempio al modo in cui
l’innario feriale della liturgia delle Ore (soprattutto delle Lodi e dei
Vespri) s’ingegna per scortare, con un lirismo per nulla compromesso
dalla concisione, le peripezie della luce naturale, il va-e-vieni del giorno e della notte, in un continuo contrappunto con l’evocazione della
Luce increata.
E come possiamo poi passare sotto silenzio la propensione della
poesia liturgica a intrecciare stagioni naturali e stagioni liturgiche sullo sfondo di un simbolismo cristologico che ha il suo centro nell’abbinamento della primavera e della solennità pasquale? Ogni mattina
della Quaresima, contemporanea dei segni ancora timidi del rinnovamento, ci fa cantare con perseveranza:
Dies venit, dies tua
per quam reflorent omnia:
laetemur in hac ut tuae
per hanc reducti gratiae10
nell’attesa di quella constatazione piena di stupore del processionale
di Pasqua (Salve festa dies), tratto dai versi di Venanzio Fortunato:
Ecce renascentis testatur gratia mundi
omnia cum Domino dona redisse suo11.
502
7/8 Luglio/Agosto 2014
Tutta la creazione a domicilio
In definitiva, l’azione liturgica non è estranea, né sorda, né cieca rispetto a quanto accade, a quanto vive, a quanto respira, a quanto semplicemente esiste al di fuori dell’ambito delimitato in cui essa si svolge,
al punto che – senza parlare del caso relativamente eccezionale delle
celebrazioni all’aria aperta – può trovare nella bellezza, nella maestosità, nel carattere particolare del quadro naturale che la circonda, un
sovrappiù di significato e di mistero: sappiamo bene come certe architetture contemporanee favoriscano intenzionalmente questa conversa503
Con tutte le creature
In breve, la liturgia sposa continuamente il fuori, nella sua bellezza e
grandezza, o – nell’altra direzione – il fuori accompagna la ‘teodrammatica’ celebrata dalla liturgia a tal punto che la nostra memoria liturgica finisce per fare sistema, per fare corpo, con la nostra memoria
sensoriale: una sinestesia s’instaura e si radica così nell’intimo di coloro che si aprono precocemente e simultaneamente a queste due grandi
istanze civilizzatrici che sono la natura e la liturgia.
Ma la liturgia non si limita a nominare, a raccontare, a cantare: in
quanto «esercizio della missione sacerdotale di Gesù Cristo»12, in quanto «opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa»13 – forte
della mediazione di Cristo e, insieme, del servizio sacerdotale che è stato
affidato all’uomo, «immagine» di Dio, al cuore della creazione (cfr. Gen
1,26-29; 2,8; Sir 17,1-14) –, la liturgia domanda, interviene, agisce, dato
che la leitourghía stessa – come precisa l’etimo di questo termine – si
trova a essere anche un’opera di bene-ficienza pubblica, al cuore della
creazione e a favore della creazione. Una creazione della quale l’uomo
resta naturalmente – in Cristo e in vista di Cristo, «Uomo perfetto» (Ef
4,13) – la misura e il fine, in modo tale che, per una ragione cristologica,
un’ecologia cristiana (come anche una teologia cristiana) non può non
essere antropocentrica, senza però che i diritti della ‘natura’ si vedano sminuiti, anzi... «Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è
di Dio» (1Cor 3,22-23). Resta sempre il fatto che la preghiera liturgica
s’immischia volentieri negli affari della natura: essa esercita una sorta
di ministero della natura, nella convinzione di fede che questa presa in
carico eucologica è efficace – soprattutto nel cuore dell’uomo – e che
non si identifica con una mera verbosità, né con il residuo di un culto
mercantile e apotropaico.
François Cassingena-Trévedy
La Rivista del Clero Italiano
zione, questa dialettica fra il dentro e il fuori14, dotando le chiese di ampie aperture sul paesaggio esterno; sappiamo anche come molte chiese
antiche o recenti siano meravigliosamente e sapientemente ospitali nei
confronti della processione, così sfumata, della luce diurna, e – per così
dire – porose al gemito del vento come al canto degli uccelli. Resta il
fatto che la celebrazione cristiana non si accontenta di una semplice
vicinanza15, di una mera coesistenza – per quanto pacifica – con la natura: la celebrazione cristiana invita, convoca dentro il fuori per farne
un attore, un ‘parrocchiano’, oserei dire, un concelebrante. La Chiesa
nella sua preghiera ufficiale chiama in chiesa tutto il mondo creato. Lo
invita abbondantemente attraverso l’esercizio multiforme dell’oralità
liturgica: ci basterà ricordare l’intenzione ‘ecumenica’16 del repertorio
cantato dell’Occidente latino, che abbiamo già menzionato. Iubilate
Deo omnis terra… Il lessico dei brani gregoriani dell’ordinario della
messa, tratto in gran parte dal libro dei Salmi, tradisce un vivo desiderio di spazio (terra, caelum, extremum, fines, latitudo, orbis), un marcato tropismo verso la totalità (omnis, multitudo, totus) e la pienezza
(adimplere, continere, plenus, replere). Si tratta di un istinto di convocazione cosmica che emerge non solo nel canto, ma anche in quell’altra
prestazione orale della liturgia che è la predicazione, come lo mostra
abbondantemente l’omiletica festale della grande epoca patristica17.
La liturgia introduce la creazione nel suo spazio, la invita nella sua
‘assemblea’ in una maniera molto concreta. Certo, in quanto prodotti finiti che recano nella loro stessa sostanza il segno dell’intervento
umano, il pane e il vino in qualche modo assicurano qui una presenza
‘sintetica’: quella del cielo e della terra che collaborano alla crescita
dei cereali, quella dell’uomo che elabora e innalza la natura al grado di civiltà. Per chi ha occhi capaci di vedere, il pane e il vino non
avanzano soli verso l’altare, ma, per così dire, come ambasciatori e
deputati di tutta la creazione, e, mentre conservano il privilegio del
loro destino, della loro ‘vocazione’ sacramentale – has potius creaturas18 – introducono la natura intera nel loro corteo19. Ma vi sono poi
altre creature che vengono a far parte della schiera dei ‘fedeli’, introdotte da una mano esperta: la pietra – spesso quella locale – invitata
a formare la carne dell’edificio, il legno che ritrova vita nell’arborescenza della navata, la luce il cui prisma si dispiega attraverso le vetrate e, in modo del tutto particolare, i fiori che, nella loro splendida
individualità o in scelta compagnia, offrono al Signore delle colline
504
l’ovazione del mondo vegetale20. La liturgia ‘addomestica’ la natura:
questa affermazione non va intesa volgarmente nel senso che la liturgia sottomette o asservisce la natura, come fanno invece non poche
attività secolari, ma in quel senso anagogico per cui la liturgia innalza
la natura sino alla casa di Dio, la ordina, cioè le dà forma e l’orienta
verso il proprio fine21, come il viticultore costringe dolcemente il giovane virgulto ad appoggiarsi a quella spalliera che, sebbene all’inizio
sembri ostacolarlo, servirà da supporto alla sua futura maturità. La
liturgia si prende cura della natura come di un giardino, la coltiva, la
mette al riparo dalla selvatichezza, per iniziarla all’urbanità divina.
A causa del felice vuoto che instaura nella calca degli esseri e delle
cose, e come se il clima di riverenza che reclama per il Trascendente
posasse il proprio sguardo sul più umile dei suoi fratelli – nel senso
francescano del termine –, lo spazio sacro ha il dono di circondare
di un’aura di silenzio e gravità ogni oggetto, ogni essere naturale che
accoglie nel suo seno: mettendo le creature alla Presenza di Dio, è la
loro propria presenza che esibisce e nobilita.
L’introduzione del cosmo, dei suoi elementi e dei suoi regni nel
microcosmo liturgico avviene infine in maniera figurativa e simbolica,
mediante il ministero dell’arte che manifesta qui tutta la sua vocazione
d’istanza mediatrice fra il mondo della natura e quello della liturgia,
sia sotto il profilo della sobrietà sia sotto quello dell’esuberanza festosa dell’arte che sembra imitare l’esuberanza della natura stessa. Infatti,
è in primo luogo mediante la rappresentazione realista o stilizzata che
il regno animale e il regno vegetale fanno il loro ingresso nello spazio cultuale, che viene così ad assumere in qualche modo le funzioni
dell’arca biblica22, destinato anch’esso a ‘tras-portare’ la colonia della
creazione terreste al completo verso la sua Terra promessa e il luogo
della sua salvezza. Non c’è bisogno di ricordare come l’immaginazione dei mosaicisti abbia trasformato in veri e propri paradisi pareti,
pavimenti e absidi, come croci divengano alberi popolati di uccelli23
o le vetrate risplendano come il firmamento, come alcuni elementi
dell’architettura – si pensi ai capitelli – o alcune parti del mobilio liturgico – pensiamo agli stalli – ricordino in un modo tutto particolare
piante in fiore o torme di animali24. Resta il fatto che, al di là della
semplice decorazione che accorda diritto di cittadinanza a una natura
familiare, sognata, eventualmente temuta, un’intuizione più profonda
viene alla luce, un’intenzione più ambiziosa cerca di esprimersi: è l’in505
Con tutte le creature
7/8 Luglio/Agosto 2014
La Rivista del Clero Italiano
tero edificio che viene concepito come una ‘metafora’, un simbolo, un
compendio. Nella prospettiva mimetica della mistagogia antica, che
si nutriva del concetto platonico (ma anche scritturistico) dell’esemplarità, la chiesa materiale è la metafora di un cosmo orientato verso
una finalità cultuale e di un cosmo che integra per di più la creazione
invisibile; tema ricorrente a partire da Eusebio di Cesarea, nel suo
panegirico sull’erezione delle basiliche costantiniane:
Questo è il grande tempio, che il Verbo – il grande Demiurgo dell’universo –
ha edificato in tutto il mondo che sta sotto il sole, costituendo di nuovo sulla
terra questa immagine spirituale delle volte celesti del mondo dell’aldilà, di
modo che il Padre suo fosse onorato e venerato da tutta la creazione, dagli
esseri viventi e razionali della terra25
fino a Massimo il Confessore:
François Cassingena-Trévedy
La santa Chiesa è l’immagine del mondo sensibile in quanto tale. Ha per
cielo […] il divino santuario e per terra la bellezza della navata. E in modo
inverso […] il mondo è una chiesa: per santuario ha il cielo e per navata
l’ornamento della terra26.
Per la sensibilità romantica – che per esempio si esprime in modo
particolarmente emblematico nel Genio del cristianesimo di
Chateaubriand – si tratterà di una connaturalità globale e pressoché
istintiva dell’edificio religioso, che fa di sé una metafora della natura
nel suo bruto prorompere:
Le foreste sono stati i primi templi della divinità, e gli uomini hanno tratto
dalle foreste la prima idea di architettura. […] Le foreste dei Galli sono
passate […] nei templi dei nostri padri, e i nostri boschi di querce hanno
così mantenuto la loro origine sacra. Le volte cesellate in fogliame, gli
speroni che puntellano i muri, e finiscono bruscamente come dei tronchi
sbriciolati, la freschezza delle volte, le tenebre del santuario, le ali oscure, i
passaggi segreti, le porte abbassate, tutto ricalca i labirinti dei boschi nella
chiesa gotica; tutto fa sentire il religioso terrore, i misteri e la divinità27.
Non è fuori luogo riconoscere all’organo non solo quella funzione di
partner liturgico a pieno titolo («voce di una folla immensa», Ap 19,6)
506
7/8 Luglio/Agosto 2014
che il rituale della sua benedizione mette in evidenza, interpellandolo
come un essere vivente, ma anche una funzione vicaria di vastissima
portata: mediante l’organo, infatti, il «fragore di grandi acque» e il
«rombo di tuoni possenti» (ibi) invadono in qualche modo lo spazio
sacro28, come se questo strumento eminentemente collettivo ‘importasse’ l’intero universo all’interno dell’edificio. Le campane – che beneficiano anch’esse di un formulario di benedizione proprio29 – assumono, a loro volta, il compito di ‘esportare’ la buona notizia evangelica (di cui l’angelus è preambolo e insieme riassunto) su tutta la faccia
della terra, verso gli orizzonti più lontani, e di offrire a quell’annuncio
il suo più ampio uditorio naturale. Il suono non è solamente armonioso, è missionario: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a
ogni creatura» (Mc 16,15).
La collaborazione della creazione alla liturgia, o in altri termini la
«partecipazione attiva»30 della creazione alla liturgia, raggiunge tutta
la sua pienezza nel «sacrificio eucaristico, fonte e culmine di tutta la
vita cristiana»31 (fons et culmen: due immagini, anch’esse prese a prestito – è bene notarlo – dal mondo naturale), per mezzo dell’evocazione eucologica (anamnesi della creazione), dell’impiego sacramentale32
della natura e per mezzo dell’attività artistica.
La creazione è il basamento – il presupposto (posto sotto) – fisico
e insieme teologico dell’eucaristia: è la tavola indispensabile (o la tovaglia indispensabile, cfr. At 10,11) del banchetto, tanto che si può
ben dire che l’eucaristia ‘poggia’ praticamente sulla creazione, ‘siede’
alla tavola della creazione33 e la si può comprendere dal punto di vista teologico solo se si prende pienamente in considerazione questo
fondamento. Vorremmo osare un’immagine un po’ insolita: a partire
dalla sue umili origini campestri – da quel famoso «pane spezzato,
disperso sui monti»34 di cui parla la Didaché –, l’eucaristia del Signore
è una colazione sull’erba e lo sarà «finché Egli venga» (1Cor 11,26).
Ripensiamo alle premesse della moltiplicazione dei pani nel quarto
vangelo: «Rispose Gesù: “Fateli sedere”. C’era molta erba in quel luogo […] Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a
quelli che erano seduti» (Gv 6,10-11)35. Colazione sull’erba, dicevamo,
sulla tovaglia multicolore della creazione36, come una celebrazione e
507
Con tutte le creature
Dalla colazione sull’erba alla Messa sul mondo
La Rivista del Clero Italiano
una consacrazione della sua essenziale e profusa diversità che riflette
la «molteplicità» della Sapienza creatrice stessa (cfr. Sap 7,22: pneûma
polymerés; Ef 3,10: polypoíkilos sophía).
François Cassingena-Trévedy
Per un’ecologia della lode
Quanto avviene in chiesa, dunque, non ci allontana dal mondo naturale, non ci isola da esso, non ci rallenta nella nostra fretta di prendere a
piene mani l’aria, la terra, il cielo e il mare, in una parola, di abbracciare – con tutta l’estensione della nostra corporeità, contrassegnata dal
segno cosmico e salvifico della croce37 – il fuori in tutta la sua grandezza e bellezza. A esso ci rimanda ogni volta la formula del congedo pronunciata dal celebrante: Ite, missa est, come d’altronde è sull’esterno
che ‘dà’, una volta aperta di nuovo, la porta della chiesa. E non è tutto:
l’azione liturgica – l’attività liturgica della Chiesa, se così si può dire,
a un tempo ordinaria e ‘domenicale’ – fa, profondamente, del bene
alla creazione e rappresenta, di conseguenza, un beneficio universale,
per quanto largamente ignorato persino da coloro che celebrano ogni
giorno. La liturgia, come operazione teandrica, aera, ventila, irriga,
illumina, riscalda la creazione; vi ricava una radura «di giustizia, di
amore e di pace»38, ne bonifica l’atmosfera, dissipa i miasmi emanati
da un’umanità tirannica e ingrata; la bonifica, la protegge, la ripara,
la consola, per così dire, di tutti i maltrattamenti, nella misura in cui
sospende e vieta ogni impossessamento violento, ogni sfruttamento
cieco, per sostituirvi il senso e il gesto di «prendere il cibo» e ogni
cosa creata «con letizia e semplicità di cuore» (At 2,4), detto altrimenti, nell’azione di grazie39. Questa è la propensione istintiva giudaicocristiana alla benedizione che precede e avvolge ogni prensione del
creato, che civilizza l’uomo nel suo rapporto quotidiano con la natura
e che gli impedisce di trasformare l’uso in attentato40. Questo dice il
contributo che – mediante i nobili comportamenti che introduce, il
modo di rapportarsi al tempo, allo spazio, alla vita, alla materia – la
liturgia apporta all’ecosistema (e introduce nell’ecosistema) dell’umanità, un contributo non solo spirituale, ma assolutamente concreto.
A questo si aggiunge il fatto che il culto cristiano rende caduchi i sacrifici di animali, con l’inevitabile violenza che implicano41, e libera la
creazione da quell’alienazione sottile, rappresentata da tutte le forme
di idolatria – quelle praticate nell’Antichità pagana42, certo, ma an508
7/8 Luglio/Agosto 2014
che quelle che il mondo contemporaneo secerne – nella misura in cui
smorza, al cuore stesso dell’esperienza fisica indotta dalla celebrazione sacramentale, un certo immanentismo delle energie e assicura, fra
Dio, l’uomo e la creazione, quel gioco di buone distanze che renderà
possibile fra loro l’alleanza. Instaurando con essa un rapporto gratuito
e rispettoso, arruolandola attivamente nella lode, la liturgia – e questo
è l’essenziale – mette la creazione in cammino verso il Regno, che è il
suo stadio compiuto e l’ultima mutazione biologica dei suoi ‘regni’,
nel senso che i naturalisti danno a questo termine: la liturgia le indica profeticamente l’orizzonte e, tenendo conto di tutte le ostilità che
insorgono, le offre già profeticamente asilo. Come non ricordare allora la conclusione della IV Preghiera eucaristica, notevole per la sua
densità teologica, ma anche – bisogna riconoscerlo – per l’immensa
emozione espressa con sobrietà?
Ben al di là di tutte le pianificazioni mondane e di tutte le istanze patentate, al riparo dagli intrecci politici che troppo spesso gravano in
questo ambito, oggi ogni difesa efficace e responsabile della natura,
la promozione della creazione a lode di Dio – promozione assicurata
dall’uomo nell’ufficialità della preghiera ecclesiale come nel segreto
della preghiera personale (cfr. Mt 6,6) – rappresenta senza dubbio
il più grande servizio ecologico che si possa rendere, dato che nulla
meglio della lode è capace di provvedere all’ecologia in modo più efficace, come d’altronde non vi è attività più ecologica della lode. E che
dire, infine, da un punto di vista più soggettivo, e anche più estetico,
a proposito dell’apporto dell’esperienza regolare della liturgia e della sensibilità liturgica a quello che, a partire dall’Illuminismo, è stato
convenzionalmente chiamato «senso della natura»? È una grazia la
possibilità di porre spontaneamente le parole della Scrittura su tanti
paesaggi attraversati e amati, la possibilità di sentir risuonare in situ,
se così posso esprimermi, gli accenti della liturgia. Iubilate Deo omnis
terra!...44 Omnis terra adoret te, Deus…45 Tu enim fecisti omnia, caelum
et terram et universa quae caeli ambitu continentur…46 Orchestrazione
509
Con tutte le creature
[nel] tuo regno, dove con tutte le creature,
liberate dalla corruzione del peccato e della morte,
canteremo la tua gloria, in Cristo nostro Signore,
per mezzo del quale tu, o Dio, doni al mondo ogni bene43.
La Rivista del Clero Italiano
François Cassingena-Trévedy
senza eguali, apparizione di una prospettiva totalmente altra, investitura in un ordine di grandezza totalmente altro, poiché la creazione
appare in maestà – e quindi degna di rispetto – solo se aureolata della
sua Origine e nimbata della sua Fine, mai separata da quella Parola
che, nella liturgia, fa di noi non solo i suoi «servitori» (cfr. Lc 1,2), ma
i suoi «amici» (Gv 15,15).
1
Il salmo 94 viene qui citato secondo la traduzione dell’autore. I testi liturgici d’uso
corrente sono citati in lingua latina secondo l’editio typica del Missale romanum ex
decreto sacrosancti oecumenici concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli pp. VI
promulgatum, Ioannis Pauli pp. II cura recognitum, Typis Vaticanis, Città del Vaticano
2002 (rempressio emendata 2008) e secondo la traduzione italiana del Messale romano
riformato a norma dei decreti del Concilio ecumenico Vaticano II e promulgato da papa
Paolo VI, a cura della Conferenza episcopale italiana, Libreria Editrice Vaticana, Roma
19832 [N.d.T.].
2
J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001,
p. 20.
3
Ibi, pp. 24-25.
4
Mors stupebit et natura / cum resurget creatura / Iudicanti responsura (Liturgia
horarum iuxta ritum romanum, IV. Tempus per annum, Hebdomadae XVIII-XXXIV,
Editio typica altera, Città del Vaticano 2000, p. 489). Si veda anche la formula della
benedizione dell’acqua durante la Veglia pasquale: Deus, cuius Spiritus super aquas
inter ipsa mundi primordia ferebatur, ut iam tunc virtutem sanctificandi aquarum natura
conciperet… (Missale romanum, p. 283, n. 42); «Fin dalle origini il tuo Spirito si librava
sulle acque, perché contenessero in germe la forza di santificare» (Messale romano,
p. 177, nr. 42). Resta il fatto che il termine natura ricorre molto più spesso nella sua
accezione cristologica.
5
La colletta della XXIV settimana del Tempo ordinario invoca esplicitamente Dio che
ha creato e governa l’universo: Respice nos, rerum omnium Deus creator et rector…
(Missale romanum, p. 474); «O Dio, che hai creato e governi l’universo, fa’ che…»
(Messale romano, p. 270).
6
Messale romano, p. 251.
7
Cfr. ibi, pp. 308-309.
8
Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium 6, in Enchiridion vaticanum I, EDB,
Bologna 200218, p. 355, nr. 8.
9
Messale romano, p. 99. La traduzione liturgica italiana, come pure quella francese,
purtroppo omette di tradurre il termine ineffabile, termine apofatico nel quale però
è contenuta tutta la sovraofferta della nuova creazione rispetto alla prima. Si tratta
della medesima eccedenza che la colletta della Messa del giorno di Natale sottolinea
con stupore, mediante l’opposizione delle formule: mirabiliter condidisti / mirabilius
reformasti, delle quali possiamo legittimamente estendere il campo di applicazione, al di
là dell’uomo e attraverso di lui, all’intera creazione (Missale romanum, p. 160).
10
Inno per le Lodi nei giorni feriali della Quaresima, in Liturgia horarum iuxta ritum
romanum II, p. 35.
11
Processionale monasticum ad usum Congregationis Gallicae Ordinis sancti Benedicti, E
typographeo Sancti Petri Solesmis, 1893, p. 62 (In die sancto Paschae, strofa 2).
510
7/8 Luglio/Agosto 2014
12
Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium 7, p. 357, nr. 11.
Ibi, p. 359, nr. 12.
14
In merito all’estensibilità della ‘casa’, cfr. G. Bachelard, La poetica dello spazio,
Dedalo, Bari 1975, pp. 77-78: «Talvolta la casa subisce un processo di ingrandimento,
di estensione. Per abitarla, occorre avere una grande elasticità di rêverie, una rêverie
meno disegnata. “La mia casa, dice Georges Spyridaki (Mort lucide), è diafana, ma non
di vetro. Apparterrebbe piuttosto alla natura del vapore. I suoi muri si condensano e si
allentano secondo il mio desiderio. Talvolta, li stringo attorno a me, come un’armatura
isolante […]. Ma, talvolta, lascio allargarsi i muri della mia casa nel loro spazio proprio,
quello della infinita estensibilità”. La casa di Spyridaki respira, essa è un abito fatto da
un’armatura e si estende all’infinito, il che equivale a dire che noi viviamo, a volta a
volta, nella sicurezza e nell’avventura. Essa è cellula e mondo. La geometria è trascesa.
Dare l’irrealtà all’immagine legata a una forte realtà vuol dire portarci nel soffio della
poesia. Alcuni testi di René Cazelles (De terre et d’envolée, 1953) ci illumineranno su tale
espansione, a patto di andare ad abitare le immagini del poeta […]: “Quando cesserò
di cercare l’introvabile casa in cui respira il fiore di lava, in cui nascono le tempeste,
l’estenuante felicità? […] Distrutta la simmetria, fare da cibo ai venti […] La mia casa
la vorrei simile a quella del vento marino, tutta palpitante di gabbiani”. In tal modo, una
immensa casa cosmica si trova in potenza in ogni sogno di casa. Dal suo centro irradiano
i venti, dalle sue finestre volano via i gabbiani. Una casa a tal punto dinamica permette al
poeta di abitare l’universo, o, per dirla in altro modo, l’universo viene ad abitare la sua
casa. Talvolta, riposandosi, il poeta ritorna al centro della sua dimora: […] Tout respire
à nouveau / La nappe est blanche ([…] Tutto respira nuovamente / La tovaglia è bianca).
La tovaglia, un pugno di candore, è sufficiente per ancorare la casa al suo centro».
15
Un edificio religioso degno di questo nome non è semplicemente localizzato in un
paesaggio, non è – se possiamo esprimerci così – il ‘locatario’ di un paesaggio, ma ne
prende parte, costitutivamente; è complice di ciò che F. Debuyst ha chiamato, nel titolo
di una delle sue opere fondamentali, il «genio cristiano del luogo» (cfr. Le génie chrétien
du lieu, Cerf, Paris 1997).
16
Esiste in qualche modo un ‘ecumenismo di natura’ (intesa come totalità del mondo
creato) che funge da base all’ecumenismo di fede e di grazia, che ne precede e anticipa
profeticamente la realizzazione: la creazione è in anticipo sull’uomo per formare una
cosa sola.
17
Cfr. F. Cassingena-Trévedy, Les Pères de l’Église et la liturgie. Un esprit, une expérience.
De Constantin à Justinien, Desclée de Brouwer, Paris 2009, pp. 210-216.
18
Orazione sulle offerte della V domenica del Tempo ordinario: «Il pane e il vino che
hai creato, Signore, a sostegno della nostra debolezza, diventino per noi sacramento di
vita eterna» (Messale romano, p. 251; cfr. Missale romanum, p. 455).
19
Questa realtà d’ordine teologico è stata tradotta da Teilhard de Chardin nel secondo
dei suoi tre Racconti alla Benson (Cristo nella materia), dal titolo L’ostensorio: «Grazie
alla misteriosa espansione dell’Ostia, il Mondo era diventato incandescente, simile nella
sua totalità a una sola grande Ostia. E si sarebbe potuto credere che, sotto l’influsso
della luce interiore che lo invadeva, le sue fibre fossero tese sino al punto di rottura,
per una estrema concentrazione delle sue energie. E io credevo già che, nel rigoglio
delle sue attività, il Cosmo avesse raggiunto la propria pienezza. Ma osservai che un
lavoro molto più fondamentale vi si stava compiendo» (P. Teilhard de Chardin, L’inno
dell’universo, a cura di F. Ormea, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 48).
20
Cfr. F. Cassingena-Trévedy, La décoration: geste de Dieu, geste de l’homme, «La
Maison-Dieu», 272/4 (2012), pp. 99-114.
21
La prospettiva liturgica, estremamente pregnante presso i Padri, sostiene e conferma
la visione di un mondo ordinato e armonioso (‘cosmo-logia’ nel senso proprio del
511
Con tutte le creature
13
François Cassingena-Trévedy
La Rivista del Clero Italiano
termine), una visione che – bisogna riconoscerlo – è meno familiare per l’uomo
moderno, ormai molto sensibile ai disordini del mondo (naturali o causati dall’uomo),
alla sua ostilità, alla sua fragilità, per non dire alla sua assurdità.
22
Si parla non a caso di ‘navata’ e, in francese, di vaisseau, termine che indica un
‘vascello’ ma anche l’interno di un edificio con soffitti a volta o, più in generale, un
edificio dalle dimensioni imponenti, come una chiesa.
23
È evidente che ci stiamo riferendo al mosaico absidale (XII secolo) della basilica di San
Clemente a Roma; cfr. H. Brandenburg, Ancient Churches of Rome. From the Fourth
to the Seventh Century, Brepols, Turnhout 2005, pp. 150-151 (tr. it.: Le prime chiese di
Roma. IV-VII secolo, Jaca Book-Libreria Editrice Vaticana, Milano-Città del Vaticano
20132).
24
Potremmo anche menzionare a questo proposito la tecnica dell’arazzo, così
appropriata alla realizzazione di programmi iconografici di grande estensione: Thetis
Blacker, per esempio, ha realizzato nel 2010 una serie di arazzi per la cattedrale di
Winchester che evocano in maniera molto festosa la ‘nuova creazione’; cfr. Liturgia
e arte. La sfida della contemporaneità. Atti del VIII Convegno liturgico internazionale
(Bose, 3-5 giugno 2010), Qiqajon, Magnano 2011, p. 113 e tavv. 29-30.
25
Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica X,4,69, a cura di F. Migliore e G. Lo Castro,
Città nuova, Roma 2001, vol. II, p. 240.
26
Massimo il Confessore, Mistagogia 3, in L’iniziazione cristiana. Testi patristici, a
cura di A. Hamman, Marietti, Casale Monferrato 1982, p. 218. Circa la reversibilità
del processo simbolico messo in luce da Massimo, cfr. H.U. von Balthasar, Massimo il
Confessore. Liturgia cosmica, Jaca Book, Milano 2001, pp. 153-154.
27
F.-R. De Chateaubriand, Genio del cristianesimo III,1,8, a cura di G. Girgenti e S.
Faraoni, Bompiani, Milano 2008, pp. 667-669.
28
Questa delegazione cosmica è, del resto, sottintesa da alcune espressioni del rituale
della benedizione dell’organo: Pater sancte, rex caeli et terrae, fons totius perfectionis
omnisque sacri concentus inspirator assiduus, «Padre santo, re del cielo e della terra,
fonte di ogni perfezione e ispiratore di ogni vera armonia» (nella preghiera universale:
De Benedictionibus, p. 406, nr. 1062; Benedizionale, p. 609, nr. 1489); Domine Deus, qui
semper antiqua es pulchritudo, semperque nova, cuius sapientia regitur mundus et bonitate
decoratur orbis, te Angelorum ordines collaudant…, te sidera concinunt universa, «Signore
Dio nostro, bellezza antica e sempre nuova, che governi il mondo con la tua sapienza e con
la tua bontà lo rivesti di splendida luce; a te cantano i cori degli angeli …; a te inneggiano
gli astri del cielo, nel ritmo costante del cosmo» (nella preghiera di benedizione: De
Benedictionibus, p. 407, nr. 1064; Benedizionale, p. 610, nr. 1491).
29
Cfr. De Benedictionibus, pp. 395-402, nrr. 1032-1051; Benedizionale, pp. 596-604, nrr.
1455-1477.
30
Cfr. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium 14, pp. 363-365, nr. 23.
31
Concilio Vaticano II, Lumen Gentium 11, in Enchiridion vaticanum I, p. 491, nr. 313.
32
‘Sacramentale’ nel duplice riferimento ai sacramenti e ai sacramentali (acqua
benedetta, luce del cero, rami benedetti); cfr. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum
Concilium 60, p. 393, nr. 109.
33
L’autore ricorre qui al verbo francese tabler inteso secondo tutte le connotazioni
concrete del suo uso, nel senso di ‘stare [a lungo] a tavola’, ma anche di ‘fondare
qualcosa su ciò che è considerato sicuro e affidabile’, ‘contare su’, ‘basarsi’ [N.d.T.].
34
Didaché 9,4, in Didachè. Insegnamento degli apostoli, a cura di G. Visonà, Paoline,
Milano 2000, p. 325.
35
In Giovanni l’episodio avviene in un contesto pasquale (cfr. Gv 6,4) e quindi
primaverile, un particolare non indifferente, dato il legame che la tradizione giudaica
stabilisce fra pasqua, primavera e creazione del mondo.
512
36
Cfr. Efrem de Nisibi, Inni sulla resurrezione 4,4, in Efrem il Siro, Inni pasquali. Sugli
Azzimi, sulla Crocifissione, sulla Risurrezione, Paoline, Milano 2001, p. 362: «Ecco,
Nisan tesse e veste la terra. La creazione è rivestita con una veste di tutti i colori […]».
L’utilizzo e la promozione del colore nel mondo liturgico (paramentali, antependia,
ecc.) costituiscono dei segni e degli ausili che dicono l’ancoraggio della liturgia in una
creazione fondamentalmente policroma; si veda l’altare e l’ambone multicolore della
chiesa di St. Ehrard, a Breitenau, in Austria, realizzati nel 2006 (cfr. Liturgia e arte, tavv.
12-13).
37
I Padri hanno riconosciuto volentieri nella configurazione fisica stessa dell’uomo e
nella sua posizione eretta (statio erecta) un riflesso della struttura dell’universo basata
sui punti cardinali, pervenendo quasi a ‘decifrare’ il segno della creazione persino
all’interno della creazione animata e inanimata; cfr. Tertulliano, La preghiera 29,34, a cura di P.A. Gramaglia, Edizioni Paoline, Roma 1984, pp. 316-317; Cipriano di
Cartagine, A Demetriano 16, a cura di E. Gallicet, Società editrice internazionale,
Torino 1976, p. 102-103.
38
Messale romano, p. 281 (Prefazio della solennità di Nostro Signore Gesù Cristo re
dell’universo).
39
Cfr. Pseudo-Ippolito, Tradizione apostolica 29 (Bisogna mangiare rendendo grazie),
31 (I frutti da offrire al vescovo) e 32 (Benedizione dei frutti), a cura di E. Peretto, Città
nuova, Roma 1996, pp. 133-134. Al § 31 (p. 134) si legge: «Per tutto questo ti lodiamo,
o Dio, e per tutti i benefici che ci hai accordato adornando per noi tutta la creazione di
vari frutti, per mezzo di tuo figlio Gesù Cristo…».
40
Cfr. le Premesse generali del Benedizionale, pp. 19-25, nrr. 1-15, che ricordano il ruolo
della benedizione nella storia della salvezza e nella vita della Chiesa.
41
In uno dei suoi affascinanti canti natalizi, Efrem il Siro pone un ‘grazie’ sulla bocca
dell’agnello: «L’agnello si mise a belare, mentre veniva presentato davanti al Figlio.
Ringraziava così l’Agnello venuto a liberare pecore e buoi dai sacrifici […]» (Efrem di
Nisibi, Inni sul Natale 7,4, in Efrem il Siro, Inni sulla Natività e sull’Epifania, a cura di
I. De Francesco, Paoline, Milano 2003, p. 232).
42
In un inno della stessa collezione, Efrem evoca ancora il sollievo provato dal sole,
dalla luce, dal fuoco, liberati dai culti zoroastriani grazie alla venuta di Cristo: «Il fuoco
approvò la tua nascita, poiché essa aveva rimosso da lui l’adorazione. I Magi lo avevano
adorato, loro che ora si sono prostrati dinanzi a te. Lo abbandonarono e adorarono il
suo Signore […]» (Efrem di Nisibi, Inni sul Natale 22,13, p. 358; si vedano anche le
strofe 7 e 12, pp. 356, 358).
43
Messale romano, p. 417.
44
Canto all’Offertorio della I settimana del Tempo ordinario (Sal 99,1-2); cfr. Graduale
sacrosanctae Romanae Ecclesiae de tempore et de sanctis, pp. 259-260.
45
Introito della II settimana del Tempo ordinario (Sal 65,4); cfr. Messale gregoriano, p.
454.
46
Introito In voluntate tua della XXVII settimana del Tempo ordinario (Est 13,9-11);
cfr. ibi, p. 584.
513
Con tutte le creature
7/8 Luglio/Agosto 2014
GILLES ROUTHIER
«Come ad amici»
La Rivista del Clero italiano 7/8| 2014
Lo stile dialogico del Vaticano II
«Un concilio che non sia recepito è un concilio che rimane senza
effetto». Questa lapidaria affermazione di Y. Congar fa intuire il carattere strategico di un’adeguata riflessione sulla ricezione del Concilio
Vaticano II a 50 anni dalla sua celebrazione. È quanto propone in
queste pagine il prof. Gilles Routhier, docente alla facoltà di teologia dell’Università Laval, Québec, fondando le sue considerazioni su
un metodo che privilegia l’attenzione alle pratiche, e considerando
come gli insegnamenti del Concilio hanno trasformato le relazioni:
anzitutto all’interno delle diverse componenti della Chiesa, quindi
tra cattolici e non-cattolici (credenti di altre religioni, non credenti
ed atei), infine tra Chiesa, ‘mondo’ e Stato. Non appare infatti sufficiente riferirsi ai discorsi, e nemmeno alle istituzioni create per dar
seguito ai principi affermati e creare nuove pratiche: «Le istituzioni e
le pratiche da sole non sono garanti di una vera conversione che si
esprima anche attraverso attitudini di ascolto, di rispetto dei diversi
punti di vista, ecc. Insomma, essa si esprime anche attraverso uno
stile che testimonia una mentalità convertita o un novus habitus mentis». Prestare attenzione allo stile relazionale promosso dal Concilio,
fondato sull’agire di Dio nei confronti dell’umanità, «che si rivolge
agli uomini come ad amici e che conversa con loro», offre un modello all’azione della Chiesa; anche le conversioni di atteggiamenti, di
pratiche e di mentalità richieste dal Concilio Vaticano II dovrebbero
avere un tale radicamento e basarsi su fondamenti spirituali solidi,
pena una ricezione insufficiente perché solo formale.
514
7/8 Luglio/Agosto 2014
che ha effetto sulla vita della Chiesa. Altrimenti, il suo insegnamento
rimane un testo inerte, per non dire lettera morta. Un concilio che
non sia recepito è un concilio che rimane senza effetto, osservava già
Yves Congar1. In seguito, l’idea è stata spesso ripresa e si conviene
generalmente che, se non è la ricezione a conferire la verità al suo insegnamento, è tuttavia essa a dargli tutta la sua efficacia. Nella stessa
prospettiva, H. Müller notava che «quanto non viene recepito non
diventa effettivo e così resta senza efficacia e di conseguenza fittizio,
come testimonia il decreto di unione del concilio di Firenze2». Così,
gli effetti di un concilio si osservano, alla fine, nelle pratiche più che
nei discorsi, o nelle legislazioni. Nel suo studio sulla posterità del concilio di Trento, G. Alberigo notava che «l’efficacia del concilio si gioca
per intero in merito all’applicazione dei decreti disciplinari […]3».
È allora che si guarda a essi non come a un sapere teorico o a una
lettera morta, ma come a una ispirazione vivente per tutto il corpo
della Chiesa, che così acquisisce una vera autorità. È nel corso della
ricezione di un concilio che il suo insegnamento si fa carne nella vita
della Chiesa, si attualizza attraverso le sue pratiche. Dunque, è importante, cinquant’anni dopo il Vaticano II, chiederci se il Vaticano II
si è fatto carne nella vita della nostra Chiesa ed esaminare ciò che ha
trasformato, delle nostre attitudini, delle nostre teologie e dei nostri
discorsi, delle nostre pratiche, delle nostre istituzioni e delle nostre
mentalità. Dovremo anche esaminare quali siano le conversioni che
sono ancora da realizzare se vogliamo che l’interpellanza rivolta dal
concilio alla Chiesa sia intesa e tocchi, fino a trasformarla, la carne del
corpo ecclesiale.
Un tale approccio alla ricezione del concilio comporta però due
presupposti: anzitutto che si intenda, per ricezione di un concilio, l’effetto da esso prodotto, più il processo stesso per il quale un insegnamento conciliare è fatto proprio, assimilato e trasformato dal soggetto
ricevente; in secondo luogo che si comprenda la ricezione come un
processo di trasformazione o di conversione del soggetto ricevente4 e
non semplicemente come la trasformazione del bene assimilato e offerto alla ricezione. Non entro in questa discussione, avendo trattato
la questione altrove.
Sono stato tentato, per svolgere lo studio della ricezione nel modo
515
«Come ad amici»
È solo attraverso la sua ricezione che un concilio è efficace, nel senso
Gilles Routhier
La Rivista del Clero Italiano
più sistematico possibile, di partire da tre ambiti: il munus docendi, il
munus sanctificandi e il munus regendi all’interno del quale sarebbe
appropriato distinguere il governo ecclesiale e l’attività della Chiesa nel
mondo. Questa porta d’ingresso, che permette una comoda distribuzione dell’insegnamento del Vaticano II, è certo legittima e può basarsi
sull’insegnamento del concilio stesso che spesso ha fatto ricorso a queste categorie, ma non è la sola possibile, ce ne rendiamo conto. Si tratta
di un’opzione fondata, ma altri approcci sono ugualmente possibili. Ho
finito per adottare un approccio definito a partire dalle relazioni che
sono in gioco nei diversi documenti del Vaticano II e per chiedermi in
che cosa l’insegnamento del Vaticano II abbia trasformato le relazioni
tra le persone nella Chiesa (tra sacerdoti e vescovi, sacerdoti e laici,
ecc.) o i rapporti tra i cattolici e i non-cattolici (cristiani non-cattolici,
credenti di altre religioni, non credenti ed atei) o quelli della Chiesa
con il ‘mondo’ e lo Stato, ecc. Dobbiamo anche, in tale prospettiva relazionale, chiederci in cosa tale insegnamento trasformi il nostro modo
di pensare i nostri rapporti con Dio. E infine, restando all’interno della
stessa prospettiva, potremmo chiederci come il nostro modo di parlare e di comunicare sia stato toccato dall’insegnamento del concilio.
Questa sistematica in fin dei conti è abbastanza vicina all’enciclica di
Paolo VI Ecclesiam suam sul dialogo che privilegia la prospettiva relazionale, prospettiva rispettata dal Concilio Vaticano II5.
Di passaggio, si sarà osservato che ho distinto diversi ambiti della
vita ecclesiale: quello dei discorsi (la teologia, la parola ecclesiale, la
catechesi), quello delle pratiche, quello delle istituzioni e, alla fine,
quello delle mentalità. Troppo frequentemente, gli studi sulla ricezione si fermano all’esame dei discorsi, il che limita considerevolmente
la portata di tali studi. Il Vangelo ce l’ha insegnato, e lo sappiamo per
esperienza, che non basta dire, perché la cosa più determinante è fare.
Lo studio dei discorsi può coprire e nascondere la nostra incapacità di cambiare le nostre pratiche. La mediazione tra il dire e il fare
si dimostra spesso il diritto, che determina per larga parte le nostre
istituzioni che emergono dai quadri all’interno dei quali s’iscrive il
nostro agire. Un esempio permetterà forse di cogliere meglio le interrelazioni, ma anche le distinzioni tra questi tre ambiti. Possiamo certo,
per esempio, tenere un bel discorso sulla sinodalità e il dialogo nella
Chiesa, senza mai sviluppare istituzioni che lo permettano o ne favoriscano un’effettiva pratica. D’altronde, possiamo benissimo aver
516
7/8 Luglio/Agosto 2014
soddisfatto le prescrizioni canoniche, cioè aver stabilito un consiglio
di presbiterio, ma svuotare del suo contenuto questa istituzione non
sottoponendole le questioni più importanti che riguardano l’azione
pastorale di una diocesi. E si può, ancora, aver istituito un consiglio
del genere, ma senza mai avere sviluppato reali pratiche di dialogo, di
ascolto, di accoglienza dell’espressione dei diversi punti di vista, ecc.
La messa in atto delle istituzioni non viene in tal caso accompagnata
da pratiche omogenee che siano in grado di conferire a esse tutta la
loro fecondità. E infine, le istituzioni e le pratiche da sole non sono
garanti di una vera conversione che si esprima anche attraverso attitudini di ascolto, di rispetto dei diversi punti di vista, ecc. Insomma,
essa si esprime anche attraverso uno stile che testimonia una mentalità
convertita o un novus habitus mentis6.
In definitiva, lo studio della ricezione ci obbliga a distinguere i piani e a non limitarci a uno studio dei discorsi programmatici (che sia
magistrale o teologico, o del discorso giuridico) o dell’esame formale
delle figure istituzionali messe in campo. È l’esame delle pratiche a
risultare l’aspetto più determinante.
I testi del Vaticano II sono saturi dei termini collaborazione, cooperazione, scambio, ascolto, dialogo, ecc. Il verbo collaborare o il sostantivo collaboratio, di cui si trovano 25 occorrenze negli Atti del Vaticano
II, non si ritrovano in nessun altro testo dei venti concili precedenti7.
Quanto a esso, i termini cooperatio, cooperator, cooperor sono usati
rispettivamente 55, 29 e 55 volte contro solo 2, 5 e 10 volte negli Atti
di tutti gli altri concili. Potremmo proseguire così la dimostrazione e
sempre verremmo a concludere che in questo il Vaticano II si distingue rispetto ai concili precedenti. Certo, questi termini non sono sempre usati per descrivere le relazioni dei fedeli del Cristo tra loro, ma
lo sono frequentemente nel quadro degli insegnamenti del concilio in
questo ambito. Così, i sacerdoti sono presentati come i cooperatori
dei vescovi (il termine è utilizzato in due riprese in Lumen Gentium
28, prima di essere ripreso nei Decreti Christus Dominus ai numeri 27,
28, 29, 30, 33, 34 – 6 occorrenze – e Presbyterorum ordinis – 3 occorrenze)8. Dove in precedenza si trovavano rapporti d’ineguaglianza e
di subordinazione, più di frequente si trovano nei testi del Vaticano II
517
«Come ad amici»
I rapporti tra le persone nella Chiesa
La Rivista del Clero Italiano
Gilles Routhier
rapporti più orizzontali. Si ritroverebbe lo stesso vocabolario quando
è in gioco la trattazione dei rapporti tra i laici e i sacerdoti o tra i religiosi e gli altri membri della Chiesa.
Inoltre, uno studio più approfondito mostrerebbe che questi termini formano un campo semantico e che la presenza dell’uno richiama la
presenza degli altri. Per esempio il n. 7 di Presbyterorum ordinis, che
presenta le relazioni tra i vescovi e i sacerdoti e dove ritroviamo il termine cooperazione, fa parimenti appello ai termini consigliare, consiglio, ascolto, consultazione, dialogo, ecc. Inoltre, e ciò è ricorrente,
si pone l’accento su quello che le persone messe in relazione hanno
in comune: «Tutti i presbiteri, in unione con i vescovi, partecipano
del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo», la «comune
partecipazione nel medesimo sacerdozio e ministero» e l’unità di consacrazione, cioè il fondamento sacramentale di quel rapporto che, di
fatto, si afferma esplicitamente nella celebrazione liturgica, mediante
la concelebrazione. Alla fine, si ritrova anche l’idea di partecipazione
e di comunione.
Per non lasciare l’impressione che questa prospettiva relazionale
tocchi solo i rapporti tra i sacerdoti e i vescovi, dirò qualche parola
sui rapporti tra sacerdoti e laici i quali sono anch’essi intesi a partire
dalle nozioni di dialogo, di scambio, ecc. Alla sezione II del capitolo
II di Presbyterorum ordinis, dedicata alle relazioni dei sacerdoti con
gli altri, dopo aver trattato le relazioni tra i vescovi e i sacerdoti (n. 7)
e l’unione fraterna e la cooperazione tra i sacerdoti (n. 8), si affronta
infine la questione dei rapporti tra i sacerdoti e i laici (n. 9). Cito copiosamente questo numero 9:
I sacerdoti del Nuovo Testamento, anche se in virtù del sacramento
dell’ordine svolgono la funzione eccelsa e insopprimibile di padre e di
maestro nel popolo di Dio e per il popolo di Dio, sono tuttavia discepoli
del Signore, come gli altri fedeli, chiamati alla partecipazione del suo regno
per la grazia di Dio (cfr. 1Tes 2,12; coll. 1,13). In mezzo a tutti coloro che
sono stati rigenerati con le acque del battesimo, i presbiteri sono fratelli (cfr.
Mt 23,8) membra dello stesso e unico corpo di Cristo, la cui edificazione è
compito di tutti (cfr. Ef 4,7 e 16).
Perciò i presbiteri nello svolgimento della propria funzione di presiedere la
comunità devono agire in modo tale che, non mirando ai propri interessi ma
solo al servizio di Gesù Cristo (cfr. Fil 2,21) uniscano i loro sforzi a quelli dei
fedeli laici, comportandosi in mezzo a loro come il Maestro il quale fra gli
518
7/8 Luglio/Agosto 2014
Come vediamo, il Decreto insiste qui anche sulla condizione comune
e condivisa dagli uni e dagli altri: i sacerdoti sono collocati «nel» popolo di Dio, «con tutti i cristiani», «fra tutti i battezzati» e «membri
dell’unico Corpo di Cristo». Sono «discepoli del Signore», «fratelli
tra i loro fratelli», partecipi degli stessi beni del Regno e «pronti a
unire i loro sforzi a quelli dei laici cristiani». Certo, vi è distinzione di
ministero, di funzione e di carisma, poiché essi sono «padri e dottori»
e «a capo della comunità». Tuttavia, la relazione fraterna che troviamo ai numeri 7 e 89, è sempre quella maggiormente valorizzata qui,
dato che il concilio riprende a questo capitolo il linguaggio del Nuovo
Testamento10.
Potrei, ripercorrendo l’insieme dei testi del Vaticano II, dare una
dimostrazione più esaustiva di questo ricorso alle Scritture con la valorizzazione del rapporto di fraternità nell’insegnamento del Vaticano
II. Si tratta in tal caso, come ben comprendiamo, di ben altro che una
febbre egualitaria e una proposta di tipo ideologico, piuttosto qui ci
519
«Come ad amici»
uomini «non venne ad essere servito, ma a servire e a dar la propria vita per
la redenzione della moltitudine» (Mt 20,28). I presbiteri devono riconoscere
e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico
nell’ambito della missione della Chiesa.
Abbiano inoltre il massimo rispetto per la giusta libertà che spetta a tutti
nella città terrestre. Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, tenendo
conto con interesse fraterno delle loro aspirazioni e giovandosi della loro
esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da
poter assieme riconoscere i segni dei tempi. Provando gli spiriti per sapere se
sono da Dio (cfr. 1Gv 4,1), essi devono scoprire con senso di fede i carismi,
sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici,
devono riconoscerli con gioia e fomentarli con diligenza […]. Allo stesso
modo, non esitino ad affidare ai laici degli incarichi al servizio della Chiesa,
lasciando loro libertà d’azione e un conveniente margine di autonomia, anzi
invitandoli opportunamente a intraprendere con piena libertà anche delle
iniziative per proprio conto (cfr. LG 37) […].
I fedeli, dal canto loro, abbiano coscienza del debito che hanno nei confronti
dei presbiteri, e li trattino perciò con amore filiale, come loro pastori e padri;
condividendo le loro preoccupazioni, si sforzino, per quanto è possibile, di
essere loro di aiuto con la preghiera e con l’azione, in modo che essi possano
superare più agevolmente le eventuali difficoltà e assolvere con maggiore
efficacia i propri compiti (cfr. LG 37).
La Rivista del Clero Italiano
si immerge in ciò che è tipicamente cristiano e questa relazione tipica
con gli altri è innanzitutto di natura spirituale. Il vocabolario impiegato dal Vaticano II per descrivere le relazioni tra i membri della Chiesa
cattolica è più egualitario e meno verticale. Certo, non si cancella il
carattere gerarchico della Chiesa, ma la relazione gerarchica è fortemente temperata da un vocabolario più orizzontale, senza contare che
non si presenta mai la Chiesa come una monarchia, ma come un popolo inserito nella «famiglia umana», altro esempio della predilezione
del concilio per un vocabolario più orizzontale.
A mio parere, il Vaticano II converte o cristianizza la virtù naturale
di obbedienza. Quest’ultima, trattata nel n. 7 di Presbyterorum ordinis
in quattro paragrafi, trova un quadro appropriato. Nei primi due paragrafi viene ricordato il dovere del vescovo di prendere consiglio, di
ascoltare, di consultare e di scambiare pareri con i sacerdoti della sua
diocesi, poi il testo richiama il dovere corrispondente dei sacerdoti
di rispettare e di obbedire al loro vescovo. L’obbedienza non viene
dunque mai da sola o non è mai presentata in modo assoluto, ma è
considerata nel contesto di una mutualità e di una reciprocità di rapporti tra fratelli, fondata sulla partecipazione a un unico sacramento.
È, come ricorda il testo, «pervasa dallo spirito di cooperazione» e rispettosa delle funzioni che spettano a ognuno. Siamo dunque davanti
a un rapporto di inter-dipendenza più che dentro un sistema di assoluta dipendenza gerarchica.
Oggi potremmo chiederci come questo fermento evangelico e conciliare vivifichi ancora il corpo ecclesiale e determini i rapporti fra
i cristiani nella Chiesa e a quale conversione siamo ancora chiamati
dall’insegnamento del Vaticano II sullo scambio, il dialogo, la consultazione, la cooperazione e la collaborazione tra cristiani.
Gilles Routhier
I rapporti tra cattolici e non cattolici
Il Vaticano II ha innovato anche il capitolo delle relazioni tra i cattolici
e i non-cattolici (cristiani non-cattolici, credenti di altre religioni, non
credenti e atei). Ciò è stato osservato dai papi Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI che, riflettendo sulle acquisizioni del Vaticano II, hanno entrambi insistito su questo fatto. Nella sua lettera apostolica Tertio
millennio adveniente, nella quale Giovanni Paolo II ritorna in modo
approfondito sul Vaticano II, il papa enumera le grandi acquisizioni
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7/8 Luglio/Agosto 2014
del concilio. Tra di esse, dopo averne enumerate alcune – la maggiore
attenzione alla Parola di Dio, la riforma della liturgia, la promozione
delle diverse vocazioni cristiane, la riscoperta della collegialità episcopale – il papa segnala l’apertura ai cristiani delle altre confessioni
e ai membri delle altre religioni e a tutti gli uomini del nostro tempo.
Per quanto lo riguarda, nel suo indirizzo rivolto alla curia romana del
22 dicembre 2005, Benedetto XVI riconduce a tre grandi questioni il
programma del concilio:
Come vediamo, nel passo del suo indirizzo dove il papa riassume in
un certo senso i grandi assi dell’insegnamento del Vaticano II, tutto
ruota intorno alla definizione di nuovi rapporti tra la Chiesa e i suoi
interlocutori. Nel caso che ci interessa, si tratta di nuovi rapporti tra la
Chiesa e i non-cattolici. Tali nuovi rapporti si esprimono in particolare
sul piano del vocabolario usato per parlare degli altri e per descrivere
le relazioni che s’intrattengono con essi. È così che esso ci ha insegnato a guardare e a designare gli altri in modo diverso. Innanzitutto,
ci ha condotti – fino nella liturgia – a chiamare fratelli separati coloro a cui si affibbiava il nome di eretici e di scismatici, a considerare
come credenti coloro che si designavano in precedenza come pagani,
empi, popolo deicida o miscredenti, a vedere uomini di buona volontà
in quelle persone che, pur non aderendo al cattolicesimo, cercavano
anch’essi il bene comune e la riuscita del mondo.
521
«Come ad amici»
Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande che ora,
durante il Vaticano II, attendevano una risposta. Anzitutto occorreva
definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne […]. In
secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato
moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni e ideologie,
comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo
semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante
tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con
ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della
tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione
del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di
fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno
sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e
definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.
La Rivista del Clero Italiano
Fedele all’adagio di Prospero d’Aquitania, Lex orandi, lex credendi,
la liturgia riformata, fedele all’insegnamento del Concilio Vaticano II,
testimonia questo nuovo modo di rapportarci agli altri. Qui mi limiterò
a un esempio tratto dalla grande preghiera litanica del Venerdì Santo:
Gilles Routhier
Preghiamo anche per gli eretici e
gli scismatici affinché Dio nostro
Signore li sottragga a tutti i loro
errori e si degni di ricondurli al seno
della nostra santa madre, la Chiesa
cattolica e apostolica.
- Dio onnipotente ed eterno che salvi
tutti gli uomini, e che non vuoi che
alcuno perisca, getta uno sguardo su
queste anime, sedotte dalle astuzie
del demonio, fai che esse rinuncino
alla perversione dell’eresia, che i loro
cuori smarriti si pentano e tornino a
volgersi all’unità della tua verità.
Preghiamo per tutti i fratelli che
credono in Cristo; il Signore Dio
nostro conceda loro di vivere la
verità e li raduni e li custodisca
nell’unità della sua Chiesa.
- Dio onnipotente ed eterno, che
riunisci i dispersi e li custodisci
nell’unità, guarda benigno al
gregge del tuo Figlio, perché
coloro che sono stati consacrati da
un solo battesimo formino una sola
famiglia nel vincolo dell’amore e
della vera fede. Per…
La preghiera del messale del 1962 (rimesso in uso) rivolge uno sguardo spregiativo sugli altri cristiani. Niente in questa preghiera che faccia allusione alla comunione – benché imperfetta – conservata con i
fratelli cristiani (ritroviamo di nuovo il linguaggio della fraternità), e
niente neppure sui beni spirituali conservati al di fuori dei limiti visibili della Chiesa cattolica: la parola di Dio scritta, la vita della grazia,
la fede, la speranza e la carità, altri doni interiori dello Spirito santo e
altri elementi visibili, come insegna il concilio. Mentre una volta si insisteva su ciò che separava e opponeva, ormai si insiste su ciò che si ha
in comune e su ciò che ci unisce, la fede in Cristo e l’unico battesimo.
Anche in questo caso, l’unità ha un fondamento sacramentale.
Anche qui, il lessico del Vaticano II si distingue da quello che ritroviamo negli Atti degli altri concili e la differenza non è solo semantica.
Anche qui, si ritrovano i termini caratteristici che abbiamo incontrato
sopra: dialogo, collaborazione11, cooperazione, ecc. In effetti, questo
nuovo sguardo ha interessato non solo la liturgia ma anche la catechesi e la predicazione, come ci indica il Decreto Unitatis redintegratio12,
la Dichiarazione Nostra aetate13 e la Costituzione Lumen Gentium14.
Essa interessa anche la vita dell’intera Chiesa in ragione del lavoro
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7/8 Luglio/Agosto 2014
I vescovi devono esporre la dottrina cristiana in modo consono alle necessità
del tempo in cui viviamo: in un modo, cioè, che risponda alle difficoltà e ai
problemi, dai quali sono assillati ed angustiati gli uomini d’oggi […].
E poiché la Chiesa non può non stabilire un colloquio con l’umana società
(Ecclesiam suam, AAS 56, 1964, p. 639) in seno alla quale vive, incombe
in primo luogo ai vescovi il dovere di andare agli uomini e di sollecitare e
promuovere un dialogo con essi. Ma perché in questi dialoghi di salvezza la
verità vada sempre unita con la carità, e l’intelligenza con l’amore, è necessario
non solo che essi si svolgano con chiarezza di linguaggio, con umiltà e con
mitezza, ma anche che in essi a una doverosa prudenza si accompagni una
vicendevole fiducia; perché tale fiducia, favorendo l’amicizia, è destinata a
unire gli animi (Ecclesiam suam, AAS 56, 1964, pp. 644-645). (CD 13)
Il dialogo costituisce dunque non solo una categoria del discorso che
segna i rapporti tra cattolici e non cattolici, ma una categoria che ha
523
«Come ad amici»
in comune, delle iniziative molteplici e delle collaborazioni in diversi
ambiti tra cattolici e non-cattolici15, mentre si era privilegiato soprattutto, fino ad allora, uno sviluppo parallelo, talora quasi in regime di
apartheid. Le diverse dimensioni del dialogo ecumenico e del dialogo
inter-religioso, dialogo di vita, dialogo delle opere, il dialogo spirituale
e il dialogo teologico indicano fino a che punto sono tutte le dimensioni della vita cristiana a essere coinvolte. È dunque l’intero nostro
rapporto con gli altri – atteggiamento, linguaggio, lavoro e vita in comune – a essere interessato da questo insegnamento.
Su questo capitolo non ci si è accontentati di bei discorsi. Si sono
sviluppate pratiche e si sono messe in campo delle istituzioni. I nuovi organismi curiali creati nel corso del concilio o immediatamente
dopo e in dipendenza dal concilio ci orientano nella stessa direzione:
il Segretariato per l’Unità dei cristiani (1960), il Segretariato per i noncredenti (1964), il Segretariato per le religioni non-cristiane.
Inoltre, le pratiche evangelizzatrici e missionarie o il modo di entrare in relazione con i non cristiani hanno conosciuto forti cambiamenti
nel corso dei decenni che sono seguiti al concilio. Non resta comunque
meno importante rivisitare l’insegnamento del Vaticano II su questo capitolo, in particolare quello presentato dal Decreto Christus Dominus e
che riguarda il modo di proporre la dottrina cristiana, questione che fa
direttamente eco al discorso inaugurale di Giovanni XXIII:
La Rivista del Clero Italiano
segnato della sua impronta profonda le istituzioni e le pratiche, fino
ai dialoghi (istituzioni e pratiche) del periodo post-conciliare. Non ci
si può rappresentare la Chiesa cattolica del dopo concilio ignorando
questa categoria che ne ha segnato la vita.
I rapporti della Chiesa con il mondo e con lo Stato
Gilles Routhier
Come abbiamo visto sopra, per Benedetto XVI il Concilio Vaticano II
è stato chiamato a definire nuovi rapporti tra la Chiesa e la scienza moderna e lo Stato moderno. Più globalmente, il papa segnalava che «il
concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa
e l’epoca moderna». Anche in questo caso, a essere in gioco è il modo
di entrare in relazione. Questa relazione riguarda stavolta la Chiesa
e l’epoca moderna: la cultura, la società, lo Stato, insomma il mondo
moderno. Ancora una volta si tratta, come sottolinea il papa, di pensare secondo nuovi termini il rapporto. Per valutare correttamente tale
novità, vale la pena, con Benedetto XVI, di ritornare sul rapporto, che
si era sviluppato durante gli anni precedenti il concilio, fra la Chiesa e
l’epoca moderna. Benedetto XVI lo caratterizza come segue:
Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo
a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la «religione
entro la sola ragione» e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese,
venne diffusa un’immagine dello Stato e dell’uomo che alla Chiesa e alla
fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro
della fede della Chiesa con un liberalismo radicale e anche con scienze
naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la
realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua
l’‘ipotesi Dio’, aveva provocato nell’Ottocento, sotto Pio IX, da parte della
Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell’età moderna. Quindi,
apparentemente non c’era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva
e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano
i rappresentanti dell’età moderna.
Si trattava dunque, almeno nella sua fase iniziale, di un rapporto antagonistico e di reciproca esclusione, caratterizzato dall’opposizione,
dal rifiuto dell’altro e dalla condanna. Poco a poco tuttavia, tale rapporto si era modificato, in particolare durante i decenni precedenti il
524
7/8 Luglio/Agosto 2014
concilio, come precisa ancora una volta papa Ratzinger, aprendo così
la via a una ridefinizione di questi rapporti con il Vaticano II.
La nuova definizione dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato moderno, tra la Chiesa e la società e la cultura si ritrova in particolare nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo di questo tempo, la
Dichiarazione sulla libertà religiosa e il Decreto sull’attività missionaria
della Chiesa. È in queste trattazioni che si ritrovano di nuovo i termini
collaborazione e cooperazione16. Così, il mutuo dialogo tra la Chiesa
e il mondo è preso in considerazione in Gaudium et Spes 4017 e si
stabilisce, in una felice reciprocità, che non solo la Chiesa può offrire
il suo aiuto alla società, ma che anch’essa riceve un aiuto dal mondo
d’oggi (GS 40-44). Insomma, è un rapporto di stretta solidarietà e di
reciproco servizio a descrivere la nuova relazione, come lo definisce il
preambolo della Costituzione18.
Oltre a tale reciprocità nei rapporti, i termini utilizzati descrivono
qui anche un rapporto orizzontale tra la Chiesa e il mondo: i cristiani
sono membri della città, mentre la Chiesa cammina insieme all’umanità e condivide la sorte terrena del mondo (GS 40). Essi fanno parte
della stessa famiglia umana, espressione che torna con frequenza.
525
«Come ad amici»
Nel frattempo, tuttavia, anche l’età moderna aveva conosciuto degli sviluppi.
Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di
Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella
seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in
modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso
loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di
comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano
progressivamente ad aprirsi l’una all’altra. Nel periodo tra le due guerre
mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato
cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico,
che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi
fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via
sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e
la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che come tali lavorano con
un metodo limitato all’aspetto fenomenico della realtà, si rendevano conto
sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della
realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è
più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare.
La Rivista del Clero Italiano
Gilles Routhier
Anche in questo caso, si è passati dalla parola agli atti, promuovendo nuovi organismi che si facessero carico della cooperazione presa
in considerazione dal concilio. Penso in particolare al Segretariato
per i non credenti (1964), divenuto in seguito il Consiglio pontificio
per la cultura e la Commissione pontificale Giustizia e Pace (1967).
La creazione di tali nuovi organismi rivela l’orientamento scaturito
dall’insegnamento del concilio che si dedicava a ripensare la presenza
e l’azione della Chiesa cattolica in un mondo che cambiava o che, a
causa della dilatazione delle frontiere del mondo e del pluralismo religioso e delle convinzioni che lo segnava sempre di più, non poteva più
pensarsi in termini di cittadella cattolica o di cristianità.
Tuttavia, la creazione di nuovi organismi, per quanto essenziale
possa essere tale misura, non è di per sé sufficiente. Come segnalavo
prima, bisogna annodare insieme atteggiamenti, pratiche, istituzioni e
mentalità. Nuove pratiche e mentalità rinnovate (novus habitus mentis) si acquisiscono in particolare grazie alla formazione. A questo capitolo, il concilio offre due indicazioni. La prima si trova nel Decreto
Optatam totius ai nn. 15 e 19. Da un lato, dopo aver dato qualche indicazione sulla formazione filosofica dei seminaristi, che deve in particolare tener conto «delle ricerche filosofiche moderne, specialmente di
quelle che esercitano maggiore influsso nel loro paese, come pure del
progresso delle scienze moderne», il passo si conclude così: «Così i
seminaristi, provvisti di una adeguata conoscenza della mentalità moderna, potranno opportunamente prepararsi al dialogo con gli uomini
del loro tempo (Ecclesiam suam, AAS, LVI, 1964, pp. 637 ss.)». Un
po’ più avanti, torna la stessa preoccupazione:
In generale si coltivino negli alunni quelle particolari attitudini che
contribuiscono moltissimo a stabilire un dialogo con gli uomini, quali sono
la capacità di ascoltare gli altri e di aprire l’animo in spirito di carità ai vari
aspetti dell’umana convivenza (Ecclesiam suam, AAS, LVI, 1964, passim,
soprattutto pp. 635 ss. e 640 ss.)» (OT 19).
Il Decreto Apostolicam actuositatem affronterà anch’esso la questione
della formazione al dialogo nella sua sezione sull’adeguata formazione
dei laici [31], ricordando che, «quanto all’apostolato per l’evangelizzazione e la santificazione degli uomini, i laici debbono essere particolarmente formati a stabilire il dialogo con gli altri, credenti o non
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7/8 Luglio/Agosto 2014
credenti, per annunziare a tutti il messaggio di Cristo»19. Vediamo subito quale sfida rappresenti entrare in questa nuova mentalità e quale
conversione presupponga prendere sul serio il Vaticano II in materia
di relazioni con gli altri.
Come ho segnalato in precedenza, non bisogna considerare tali cambiamenti come nuovi orientamenti strategici più conformi allo spirito
del tempo, un modo più dolce del confronto per assicurarsi che la
voce della Chiesa venga sentita nel contesto attuale. L’ho rilevato, ciò
dipende più da un’opzione spirituale profonda e da un richiamarsi
al Vangelo che dall’azione strategica. Ancor più, il rapporto dialogico tra le persone nella Chiesa, tra la Chiesa e i cristiani non cattolici, i credenti delle altre religioni e i non credenti prende a modello
la relazione stessa che si instaura tra Dio e l’umanità: «Con questa
Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli
alla comunione con sé» (Dei Verbum 2). Così, la Chiesa è chiamata
ad adottare i costumi di Dio, lui che si rivolge agli uomini come ad
amici e che conversa con loro. Se le pratiche della Chiesa non si radicano a questa profondità e se dipendono solo da opzioni strategiche,
rischiano sempre di venire rimesse in discussione e abbandonate. E
anche le conversioni di atteggiamenti, di pratiche e di mentalità richieste dal Concilio Vaticano II devono radicarsi a tale profondità e
devono basarsi su fondamenti spirituali solidi. Altrimenti, esse avranno solo il carattere di mode passeggere, al più daranno l’impressione
di prescrizioni esteriori e non di legge interna che ispira l’azione dei
cristiani e della Chiesa.
Questa dimensione fondamentalmente dialogale del rapporto tra
Dio e l’umanità è ripresa al n. 25 di Dei Verbum: esso insegna che «la
lettura della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera,
affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo; poiché “quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli
divini” (Ambrogio, I doveri dei ministri, Libro I, 20, 88)». Nello stesso
senso, la Costituzione Gaudium et Spes preciserà che
527
«Come ad amici»
Il rapporto di Dio con l’umanità come fondamento
dell’azione della Chiesa
La Rivista del Clero Italiano
L’aspetto più sublime della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione
alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo
con Dio. Se l’uomo esiste, infatti, è perché Dio lo ha creato per amore e, per
amore, non cessa di dargli l’esistenza; e l’uomo non vive pienamente secondo
verità se non riconosce liberamente quell’amore e se non si abbandona al suo
Creatore. Molti nostri contemporanei, tuttavia, non percepiscono affatto o
esplicitamente rigettano questo intimo e vitale legame con Dio (GS 19).
Questa forma relazionale strutturante per la persona umana e che costruisce il cristiano ha dunque un fondamento teologale.
Solo una volta che si è situato a tale profondità spirituale e teologale l’invito al dialogo che attraversa tutto l’insegnamento conciliare si
può passare dal rapporto tra Dio e l’umanità al rapporto tra le persone
nella Chiesa e al rapporto tra la Chiesa e gli altri. È d’altronde questo
concatenamento logico che ci propone il Decreto Ad gentes:
Come Cristo stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli attraverso
un contatto veramente umano alla luce divina, così i suoi discepoli, animati
intimamente dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo
ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi a un dialogo sincero e
comprensivo, affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua
munificenza ha dato ai popoli; e insieme devono tentare di illuminare queste
ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l’autorità di
Dio salvatore (AG 11).
Dall’azione di Cristo si passa a quella dei suoi discepoli e l’anello che
lega i due è un comparativo «dello stesso» («sicut ipse Christus… ita
eius discipuli»). È dunque l’atteggiamento e la pratica del Cristo a dovere in ultima istanza guidare e ispirare quelli dei discepoli del Cristo.
Gilles Routhier
(Traduzione di Mario Porro)
1
Y. Congar, La réception comme réalité ecclésiologique, RSPT, 56 (1972), p. 374.
H. Müller, Rezeption und Konsens in der Kirche. Eine Anfrage an die Kanonistik,
«Österreichisches Archiv für Kirchenrecht», 27 (1976), p. 15. Egli riprende di recente
quest’idea in Realizzazione della cattolicità nella Chiesa locale, in J. Manzanarès - H.
Legrand - A. Garcia Y Garcia, Chiesa locale e cattolicità: Atti del colloquio internazionale
di Salamanca, EDB, Bologna 1994.
3
G. Alberigo, La ‘réception’ du Concile de Trente par l’église catholique romaine,
«Irénikon», 58/3 (1985), pp. 311-337.
2
528
7/8 Luglio/Agosto 2014
Si veda G. Routhier, Vaticano II, ricezione, movimento ecumenico: tentativo di
articolazione, in G. Routhier, Il Concilio Vaticano II. Ricezione ed ermeneutica, Vita e
Pensiero, Milano 2006, pp. 72-74.
5
Sulla ricezione dell’enciclica Ecclesiam suam da parte del Vaticano II, si veda G.
Turbanti, La ricezione comparata delle Encicliche Pacem in Terris e Ecclesiam suam, in
Giovanni XXIII e Paolo VI: due Papi del Concilio, Atti del convegno internazionale di
studi (Roma, 9-11 ottobre 2002), Coll. Centro Vaticano II, 4, 2004.
6
In questo caso si tratta di un’espressione di Paolo VI, espressione da lui utilizzata in
diverse occasioni. Sul senso di tale espressione, si veda L. Örsy, Novus habitus mentis:
New Attitude of Mind, «The Jurist», 45 (1985), pp. 251-258 e The Meaning of Novus
habitus mentis: The Search for New Horizons, «The Jurist», 48 (1988), pp. 429-447. Si
veda anche D.E. Eintschel, A New Way of Thinking, «The Jurist», 44 (1984), pp. 41-47.
7
Si consulti il Thesaurus conciliorum oecumenicorum et generalium Ecclesiae catholicae,
Series A - Formae, Brepols, Turnhout 1996.
8
Il termine ricorre frequentemente per descrivere le relazioni fra il vescovo e i sacerdoti;
si dirà che i sacerdoti sono i «saggi collaboratori dell’ordine Episcopale»; che «il vescovo,
[…], consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori, come figli…», LG 28; che i sacerdoti
sono «provvidenziali cooperatori dell’ordine episcopale», CD 28; e CD 27 li designa
per primi «tra i cooperatori del vescovo nel governo della diocesi». Lo stesso termine,
«cooperazione», definisce anche i legami tra i sacerdoti stessi e la partecipazione dei
laici all’apostolato dei pastori (LG 33).
9
Sottolineo le diverse occorrenze del termine: «Per questa comune partecipazione nel
medesimo sacerdozio e ministero, i vescovi considerino dunque i presbiteri come fratelli e
amici» (n. 7). Ciò contrasta con quanto si legge in Lumen Gentium 28 (testo precedente) che
dichiarava che i vescovi dovevano considerare i sacerdoti come «figli e amici» e considerarsi
come il loro Padre. Le stesse espressioni sono riprese all’articolo 16 di Christus Dominus.
Presbyterorum Ordinis va oltre: un emendamento introdotto all’epoca dell’ultima redazione
sostituì il termine «padre» con quello di «fratello» che non si trovava nelle versioni
precedenti, che ritessevano allora i legami con le relazioni fondamentali proposte dal Nuovo
Testamento, il che indica la maturazione delle idee all’interno stesso del processo conciliare.
Il n. 8 è saturo del linguaggio della fraternità: «Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine
del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità
sacramentale»; «ciascuno è unito agli altri membri di questo presbiterio da particolari
vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità»; «Per tali motivi, i più anziani devono
veramente trattare come fratelli i più giovani». «Animati da spirito fraterno, i presbiteri non
trascurino l’ospitalità»; vanno incoraggiate le «associazioni che […] fomentano – grazie
ad un modo di vita convenientemente ordinato e approvato e all’aiuto fraterno – la santità
dei sacerdoti nell’esercizio del loro ministero»; «E per quanto riguarda coloro che fossero
caduti in qualche mancanza, li trattino sempre con carità fraterna e comprensione, preghino
per loro incessantemente e si mostrino in ogni occasione veri fratelli e amici».
10
Con la nozione di assemblea per designare la Chiesa, quella di fratelli è una delle
più presenti nel Nuovo Testamento per designare il rapporto tra i cristiani. Si veda At
1,15; 11,1; 12,17; 14,2; 21,17-18, ecc. Sulla designazione della Chiesa come fraternità,
si veda Michel Dujarier, L’Église-Fraternité 1. Les Origines de l’expression ‘adelphotesfraternitas’ aux trois première siècles du Christianisme, Cerf, Parigi 1991.
11
Si ritrova il termine in AA 27; UR 4,12 (collaborazione con gli altri cristiani e i fratelli
separati); AA 27, NA 2 (con i non cristiani).
12
«Se dunque alcune cose, sia nei costumi che nella disciplina ecclesiastica ed anche
nel modo di enunziare la dottrina – che bisogna distinguere con cura dal deposito
vero e proprio della fede – sono state osservate meno accuratamente, a seguito delle
circostanze, siano opportunamente rimesse nel giusto e debito ordine» (UR 6).
529
«Come ad amici»
4
La Rivista del Clero Italiano
13
Gilles Routhier
«Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio
non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di
Cristo» (NA 4).
14
Si veda il capitolo VIII sulla Vergine Maria: «Con lo studio della Sacra Scrittura,
dei santi Padri, dei dottori e delle liturgie della Chiesa, condotto sotto la guida del
magistero, illustrino rettamente gli uffici e i privilegi della beata Vergine, i quali sempre
sono orientati verso il Cristo, origine della verità totale, della santità e della pietà. Sia
nelle parole che nei fatti evitino diligentemente ogni cosa che possa indurre in errore i
fratelli separati o qualunque altra persona, circa la vera dottrina della Chiesa» (LG 67).
15
Sulla collaborazione tra cattolici e cristiani non cattolici, si veda UR 4 («Inoltre
quelle comunioni vengono a collaborare più largamente in qualsiasi dovere richiesto
da ogni coscienza cristiana per il bene comune») e 12, poiché tutto il numero è
dedicato alla collaborazione, in particolare nel campo sociale, con i fratelli separati:
«Tutti i cristiani professino davanti a tutti i popoli la fede in Dio uno e trino, […] e
con comune sforzo nella mutua stima rendano testimonianza della speranza nostra,
che non inganna. Siccome in questi tempi si stabilisce su vasta scala la cooperazione
nel campo sociale, tutti gli uomini sono chiamati a questa comune opera, ma a
maggior ragione quelli che credono in Dio e, in primissimo luogo, tutti i cristiani,
a causa del nome di Cristo di cui sono insigniti. La cooperazione di tutti i cristiani
esprime vivamente l’unione già esistente tra di loro, e pone in più piena luce il volto
di Cristo servo. Questa cooperazione, già attuata in non poche nazioni, va ogni
giorno più perfezionata – specialmente nelle nazioni dove è in atto una evoluzione
sociale o tecnica – sia facendo stimare rettamente la dignità della persona umana, sia
lavorando a promuovere il bene della pace, sia applicando socialmente il Vangelo, sia
facendo progredire con spirito cristiano le scienze e le arti, come pure usando rimedi
d’ogni genere per venire incontro alle miserie del nostro tempo, quali sono la fame
e le calamità, l’analfabetismo e l’indigenza, la mancanza di abitazioni e l’ineguale
distribuzione della ricchezza. Da questa cooperazione i credenti in Cristo possono
facilmente imparare come ci si possa meglio conoscere e maggiormente stimare gli
uni e gli altri, e come si appiani la via verso l’unità dei cristiani».
16
Si veda in particolare, nella seconda parte di Gaudium et Spes, il capitolo IV sulla vita
della comunità politica e il capitolo V sulla salvaguardia della pace e la costruzione della
comunità delle nazioni.
17
Si veda anche il n. 3.
18
Si vedano in particolare i numeri 1 e 3.
19
Cfr. Pio XII, Enciclica Sertum laetitiae, 1° novembre 1939, AAS 31 (1939), pp.
635-644; cfr. Id., allocuzione ai ‘laureati’ dell’Azione cattolica italiana, 24 maggio
1953.
530
ROBERTO VOLPI
L’articolo di Roberto Volpi, statistico e scrittore, riassume la tesi fondamentale di un libro che, con l’identico titolo, verrà pubblicato nel
prossimo mese di settembre dall’editrice Vita e Pensiero. La famiglia
oggi non gode di buona salute. Ha assunto molte forme (estesa, ricostituita, allargata, di fatto, unipersonale, convivente, non convivente…), ma soprattutto, al di là dei discorsi retorici, sembra caratterizzata da una perdita di prestigio e attrattiva che si misura in numeri
di matrimoni e di figli mai così bassi nella storia d’Italia. Le cause di
questo scivolamento, peraltro condiviso con gli altri Paesi occidentali, sono tante, ma il vero punto della frantumazione della famiglia
come la conosciamo, della sua polverizzazione verso forme sempre
meno impegnative e sempre più contingenti e provvisorie, è culturale, più che statistico o normativo, e trova la sua origine nella transizione in atto nell’Occidente post-moderno da un tipo di società i
cui assetti economico-produttivi necessitavano di una forte famiglia
di tipo tradizionale a una società che cerca invece nell’individuo la
sua forma base. Un individuo che non si fa problemi a essere tale, ma
che anzi rivendica i caratteri, i vantaggi, e perfino la superiorità della
sua condizione. Un individuo che non sostituisce però la famiglia, ma
se ne serve ibridandola, infiltrandola, cambiandola. Se è impensabile
invertire la tendenza, è però importante vedere lucidamente gli scenari che essa apre per il futuro. La domanda è: terranno le società
e i Paesi occidentali se continuerà lo scivolamento verso forme di
famiglia a sempre più bassa responsabilità individuale e di coppia, se
i tassi di fecondità e di nascite rimarranno drammaticamente lontani
dalla soglia di sostituzione delle generazioni? Famiglia e società sono
531
La Rivista del Clero italiano 7/8| 2014
La nostra società ha ancora
bisogno della famiglia?
La Rivista del Clero Italiano
ben più saldamente intrecciate di quanto oggi si tende a pensare.
La sfida è aperta. La Chiesa si accinge a raccoglierla nell’imminente
Sinodo dei vescovi dedicato, appunto, alle «Sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione».
Roberto Volpi
Legami di coppia a minor grado di responsabilità
funzionali alle società post-moderne
Chiunque intenda riflettere sulla famiglia e sui nuovi modi di concepirla, sulle nuove forme ch’essa prende nelle società occidentali, deve riconoscere almeno questo: che nel passaggio dalla famiglia fondata sulla
coppia unita in matrimonio e aperta ai figli alle forme di oggi – coppie
e famiglie di fatto, coppie di fatto non conviventi – che non poggiano
sul vincolo matrimoniale, e per le coppie non conviventi neppure sulla
coabitazione, quel che si è affievolito è il grado della responsabilità che
si è disposti a investire in un progetto di vita in comune con l’‘altro’.
E questo per non parlare del crescente numero di quanti decidono di
non volere investire in un progetto di questo tipo, preferendo rimanere
single.
C’è molta letteratura tesa a rimarcare come, tutto il contrario di
quel che si potrebbe pensare, proprio le coppie di fatto, per non essere istituzionalizzate, o per esserlo in misura assai inferiore rispetto a
quelle unite in matrimonio, debbano impegnarsi di più, lottare di più,
azzardare di più per mantenere saldo il loro vincolo, la loro più libera
unione e che, proprio in conseguenza di questo maggiore impegno,
otterrebbero risultati migliori, in termini di tenuta e durata di questa
unione, rispetto a quelli delle coppie unite in matrimonio.
Difficile che sia così. È infatti chiaro, dati alla mano, che il matrimonio religioso, che rappresenta il legame a più alto tasso di responsabilità individuale e di coppia, è significativamente più stabile di quello
civile. Dunque la discesa verso la minore responsabilità nella formazione delle famiglie ha presentato il conto in termini di una maggiore
provvisorietà delle stesse famiglie.
Ma va altresì riconosciuto che le forme di coppia e di famiglia a
minor grado di responsabilità non sono che la conseguenza della crisi
della famiglia tradizionale basata sulla coppia unita in matrimonio e
532
aperta ai figli. Crisi ch’è a sua volta la conseguenza di una serie di fattori
che potremmo riassumere in una formula: le società post-industriali,
post-moderne di oggi, le post-moderne società fondate sulle tecnologie informatiche della comunicazione e dell’informazione, sull’economia terziarizzata e l’espansione dei servizi, e segnatamente di quelli
alla persona, sui rapporti interindividuali sempre più al tempo stesso
virtuali e immediati, queste società sono interessate a uno sviluppo
di forme di famiglia e di simil-famiglia (si pensi alle coppie di fatto
non conviventi) agili, basate al proprio interno su centri/momenti il
più possibile individuali di decisione, ovvero e più pragmaticamente,
sulla moltiplicazione all’interno delle famiglie delle possibilità e delle
forme di scelta, azione e consumo. Una tale moltiplicazione dei centri
individuali di decisione e di scelta consente infatti più elasticità nei
rapporti di lavoro e organizzativi della società e nella vita di relazione.
Imprime un superiore grado di autonomia e velocità alle decisioni da
prendere sulle vicende quotidiane come sulle azioni e i programmi
di più lungo respiro. Permette, infine, di vivere con più forza l’oggi,
facendo del domani sostanzialmente una sua continuazione/proiezione, perché portare la responsabilità di noi stessi è cosa diversa e più
semplice dal portare una responsabilità che si fa carico di altri, della
famiglia, dei figli.
Lo scivolamento verso il meno delle forme di famiglia
La linea delle società occidentali post-moderne tendente a porre tutte le forme di famiglia su un piede di parità, indipendentemente dal
livello di responsabilità dei singoli e di coppia che comportano, per
quanto ispirata a una concezione la più universalistica possibile dei
diritti, o proprio per questo, finisce col creare una fonte di contraddizione tra il livello sempre più alto dei diritti e il livello sempre più
basso della responsabilità della ‘forma di famiglia’ che sta alla loro
base. Si legifera molto in tema di famiglie, e particolarmente di figli,
perché in questa situazione potenzialmente contraddittoria in cui a
diritti individuali e di coppia crescenti fa da contraltare una famiglia
a sempre minor grado di responsabilità non fanno che aprirsi i varchi
per ogni possibile tentativo da parte dei singoli di venir meno ai propri doveri – di padre, di madre, di tutore, di genitore affidatario, ecc.
Siamo di fronte a una sorta di indifferenza delle società post-mo533
La nostra società ha ancora bisogno della famiglia?
7/8 Luglio/Agosto 2014
Roberto Volpi
La Rivista del Clero Italiano
derne rispetto alle diverse tipologie di famiglia. Ma questa indifferenza
non si traduce in neutralità rispetto a queste tipologie, perché le soluzioni più facili – quelle, vale a dire, implicanti un minor grado di responsabilità e di istituzionalizzazione – tendono a farsi strada rispetto
a quelle più difficili, mentre queste ultime rischiano a lungo andare la
marginalizzazione, se non c’è alcun vantaggio a preferirle, pur presentando maggiori difficoltà. Perché imbarcarsi in progetti di famiglia più
complicati se, sul piano dei vantaggi come dei diritti, non c’è alcuna
differenza rispetto a progetti più semplici e che non presentano, semmai non dimostrassero di funzionare come si sperava, le stesse implicazioni e complicazioni per arrivare a scriverci sopra la parola ‘fine’?
In Italia tra il 2004 e il 2012 a fronte di 47 mila matrimoni religiosi
in meno l’aumento di matrimoni civili tra celibi e nubili è stato di
appena 3 mila unità, cosicché si può ben dire che il matrimonio civile
si avvantaggia assai poco dei tanti matrimoni religiosi in meno. I ‘vincitori’ in tema di famiglia in Italia non sono state neppure le coppie
di fatto – che assai lentamente e con grande fatica si sono portate a
un milione e 200 mila su 14,3 milioni di coppie – ma solo e soltanto
le famiglie unipersonali da un lato e le coppie di fatto non conviventi
dall’altro. E se una valutazione di quest’ultimo fenomeno è problematica, data la sua evanescenza fenomenologica non meno che sentimentale, sappiamo invece benissimo che nei venti anni tra i censimenti
del 1991 e del 2011 coloro che si possono definire come i ‘veri celibi/
nubili’, in quanto di 25 anni e più d’età, sono aumentati di quasi 5 milioni, il doppio dell’aumento complessivo della popolazione italiana,
arrivando a 10,5 milioni. Non c’è fotografia che possa meglio dimostrare come negli ultimi decenni ogni modello di coppia/famiglia che
implicasse un forte investimento di responsabilità individuale ha ceduto il passo al modello opposto basato sulla poca o punta responsabilità individuale. In questo scivolamento verso il meno appare altresì
evidente che la linea dell’indifferenza degli stati occidentali rispetto
alle diverse tipologie di famiglia ha finito col premiare proprio quelle
tipologie (di famiglia come di non famiglia) che implicavano una minore rinuncia alle libertà e ai diritti individuali e insieme un minore
impegno di responsabilità personale.
Alla crisi del matrimonio e alla parallela esplosione delle famiglie
unipersonali, passate a rappresentare il 30 per cento di tutte le famiglie, si va d’altra parte sempre più affiancando la rinuncia a fare figli.
534
Sono assai difficili le valutazioni quantitative di questo fenomeno, ma
non fanno che aumentare le proporzioni di donne che a certe età dichiarano di non volere figli – o di non volerne altri se già ne hanno. Più
in generale, sta scomparendo il desiderio di figli in senso plurale, ai
molti figli si preferisce di gran lunga un solo figlio o nessun figlio. Ma
lo stesso figlio unico, se pure basta alla coppia non può certo bastare
alla società nel suo complesso.
Tutto in tema di famiglia si ridisloca e ridisegna verso il basso, il
poco, il meno. Con una caratteristica ancora, che aggrava il quadro
d’insieme: ogni passaggio dello scivolamento, le tendenze di cui si
compone, le relazioni tra queste tendenze, e i risultati finali di un tale
processo sembrano così conseguenti e ineluttabili da passare quasi
inavvertiti. Lo scivolamento avviene in un clima di ovvietà più che di
rassegnazione, l’ovvietà che circonda i fenomeni dei quali non c’è vera
coscienza, quelli che non sembrano poter essere e divenire che nel
modo in cui sono e divengono. E che non paiono affatto, proprio in
ragione di questa ovvietà, tendenzialmente pericolosi.
Annacquamento della famiglia e annacquamento della
società, fuga dalla famiglia e fuga dalla società e dallo
stato: i legami ignorati
Per essere cellula occorre non soltanto far parte di un organismo che
funziona come tale, ma anche che l’organismo necessiti di ‘quella’
cellula. Oggi è lecito il dubbio se serva ancora la cellula famiglia a
quell’organismo che è la società post-moderna italiana, europea e più
in generale occidentale. Dubbio che ne implica un altro non di minor
peso: ha davvero davanti un futuro fecondo, positivo, una società che
può fare a meno della famiglia nelle forme in cui l’ha forgiata proprio
la democrazia – e che del resto serviva, e serve, a sostenere il democratico svolgimento della vita della società?
Anche dal punto di vista della continuità delle società attraverso
le nascite, proprio una funzione, e forse la più essenziale, fin qui assicurata dalle famiglie (da tutte le famiglie della storia, anche le più
lontane dalla forma famiglia odierna), se ci fermiamo al solo aspetto
strettamente tecnico il problema è ormai almeno teoricamente risolvibile indipendentemente dalle famiglie: ovuli e spermatozoi si possono
raccogliere in banche apposite, fare incontrare in vitro, nei laborato535
La nostra società ha ancora bisogno della famiglia?
7/8 Luglio/Agosto 2014
Roberto Volpi
La Rivista del Clero Italiano
ri, e impiantare successivamente nell’utero di donne che non necessariamente ne saranno le madri riconosciute. In tutti questi passaggi
c’è bisogno più di individui che di famiglie. Sempre da un punto di
vista strettamente tecnico-teorico, la stessa riproduzione sessuale che
scaturisce in modo diretto dai rapporti sessuali uomo-donna può diventare superflua. Per dar vita a un embrione, in fondo, c’è bisogno
dell’incontro dei gameti, delle cellule sessuali maschili e femminili,
non del rapporto sessuale tra partner dei due sessi.
La frantumazione della famiglia in unità sempre più piccole che si
sciolgono e ricompongono con facilità, così come le nuove forme di
famiglia a sempre minore intensità di responsabilità individuale, con
la conseguente moltiplicazione dei centri di decisione al suo interno e
l’elasticità di movimento e di azione dei singoli legata a queste caratteristiche delle famiglie: tutto ciò è congeniale, lo si è detto, alle società
post-moderne di oggi. Queste società potrebbero, continuando nella
direzione che hanno impresso a queste materie, arrivare fino al punto
di essere fondate e organizzate sic et simpliciter sul solo individuo,
sull’individuo che può certo legarsi – se crede, se vuole – ad altri individui in vari modi e con varie intensità e responsabilità, ma restando
sempre lui il protagonista, anima e cellula e centro delle post-moderne società odierne e a venire. A ben guardare tutto sembra andare
proprio in questa direzione: le leggi, il diritto di famiglia, l’estensione
dei diritti civili, le tecniche di procreazione, il pensiero, la cultura.
Persino, e inequivocabilmente, i dati statistici. I dati statistici già ci
consegnano la fotografia di una società che non ha fatto che muoversi,
per gradi ma tutt’altro che insensibilmente, da una caratterizzazione
forte di famiglia a un’altra, che col tempo diventa sempre più netta, di
individuo e individualismo.
Ma, ciò detto, risulta con sempre maggiore evidenza che l’assottigliamento, e più ancora l’annacquamento della famiglia, quasi il suo
sciogliersi come forma sociale organizzata, ci sta consegnando non
semplicemente una cellula più fragile e meno vitale a fondamento della società, ma anche una società a sua volta, e di conseguenza, più
incerta, claudicante, meno solida e solidale. Si è scoperto, e si va scoprendo, cioè, che più si indebolisce la famiglia nella sua versione tradizionale, in profonda crisi eppure ancora prevalente, e meno la società
ha un centro attorno al quale riconoscersi e organizzarsi.
La famiglia si è andata vieppiù trasformando da una ‘forza forte’ in
536
una ‘forza debole’ della società. Ma questa trasformazione non si sta
dimostrando indifferente per la società – qui è il punto. Il dibattito
ruota attorno alle forme di famiglia e al loro riconoscimento e, curiosamente, tiene fuori la società, come se davvero ci fosse una cesura
netta: le famiglie da una parte, con le loro problematiche, evoluzioni e
trasformazioni, e la società dall’altra, con dinamiche e assetti del tutto
indipendenti da quel che succede sul lato delle famiglie. Ma non è così
che vanno le cose: il grado di responsabilità che sta alla base della formazione della coppia non è un qualcosa che si ferma alla coppia, che
ha valore unicamente in quell’ambito. Il grado di istituzionalizzazione
col matrimonio non è pari, neppure di fronte al loro riconoscimento
come unioni civili, a quello connesso alle coppie di fatto. E il grado
di istituzionalizzazione rappresenta specificamente il legame – il tipo
ma anche la forza di quel legame – che collega e tiene stretta la famiglia alla società e la società alla famiglia. La società, in Occidente, si è
sempre nutrita di quel legame e di quel grado di istituzionalizzazione
almeno da quando esistono gli stati moderni.
Pensare che l’annacquamento della famiglia, il suo diluirsi in forme a sempre minor grado di responsabilità individuale e di coppia,
e il contemporaneo affievolirsi del livello complessivo di istituzionalizzazione dei legami tra famiglie e società, tra famiglie e stato, possa
avanzare lasciando la società e lo stato inalterati è un errore grave e
colpevolmente sottovalutato. Eppure è sotto gli occhi di tutti che c’è
un parallelo cambiamento, correlato all’evoluzione delle famiglie, dei
connotati costitutivi tanto della società che dello stato, e che questo
cambiamento si traduce in una minore capacità di tenuta unitaria e
solidale della società e in un sempre minor tasso di riconoscimento e di identificazione da parte dei cittadini nello stato di cui fanno
parte. Sono in atto processi assai significativi di allontanamento dei
cittadini tanto dalla società che dallo stato. Di questi processi si discute con passione. Ma quel che continua a passare sotto silenzio è
il loro legame con quegli altri processi che hanno investito negli ultimi decenni l’universo delle famiglie, trasformandolo in profondità, e
minacciando di farlo ancora di più. La fuga dei cittadini dallo stato
non è estranea alla ‘fuga’ dalla famiglia alla quale abbiamo assistito e
assistiamo. Tra le due fughe, tra i due allontanamenti corre, piuttosto,
una profonda sintonia.
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La nostra società ha ancora bisogno della famiglia?
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Roberto Volpi
I tanti modi dell’individuo e dell’individualismo di
‘ibridare’ le famiglie, di fatto depotenziandole
Le società post-moderne di oggi stanno virando verso l’individuo singolo, ma non già in sostituzione della famiglia quanto in relazione con
essa e servendosi di essa.
L’individualismo non distrugge, come si potrebbe pensare, le famiglie, si limita a cambiarle. E il cambiamento avviene nel segno del
depotenziamento della ‘forma famiglia’, della sua minore intensità,
forza e tenuta. E quindi in ultima analisi nel segno del rafforzamento
dell’individualismo.
Da un punto di vista strettamente formale questa virata può apparire in Italia assai meno appariscente di quella ch’è in atto in altri Paesi
occidentali, e segnatamente europei, giacché – formalmente, appunto – la famiglia tradizionale è da noi ancora quella che può vantare il
monopolio delle forme riconosciute di famiglia – una cosa, questa,
quasi unica nel panorama europeo dove il riconoscimento giuridico di
forme di famiglia non fondate sul matrimonio, e a volte neppure sulla
coppia eterosessuale, è assai diffuso. Ma da un punto di vista sostanziale è proprio l’Italia, con la Germania e la Spagna, che sta bruciando
le tappe di una tale riconversione. E questo proprio perché in pochi
altri paesi sono in fase così avanzata i modi che ha il singolo individuo
di sostituire la famiglia, infiltrandola, ibridandola, e di porsi così a
fondamento della società.
Il primo modo è la scelta della famiglia unipersonale, ovvero della
non famiglia, di una famiglia ch’è tale solo per la statistica, ma non
certo per il senso comune, che comincia a concepire l’idea stessa di
famiglia solo a partire dall’incontro tra due persone.
Il secondo modo è dato dalla coppia di fatto non convivente. È
la forma più diffusa di quello che potremmo chiamare ‘singolismo
opportunistico’ che molti, sbagliando, imputano pressoché esclusivamente a difficoltà di ordine economico-materiale che costringerebbero persone in età di sposarsi o almeno di convivere a ripiegare su una
modalità che consente loro di avere relazioni sentimentali e sessuali
con una tendenza alla stabilità senza però doversi impegnare in una
vita a due.
Il terzo sta nella coppia di fatto vera e propria, quella convivente.
La scelta della coppia di fatto, al posto di quella unita in matrimonio,
538
si basa proprio sul desiderio di preservare, sia pure in dosi inevitabilmente più contenute, un regime di vita fondato su se stessi e di
trasferire quel regime, quel modello, per quanto è possibile, nella vita
di coppia.
Ma ci sono modi di affermazione dell’individuo anche nelle famiglie a tutti gli effetti, perfino in quelle tradizionali. Il modo per eccellenza è quello di arrivare al matrimonio a età sempre più avanzate.
L’altro è quello della scelta di non avere figli.
L’affermazione dell’individuo non significa né implica, dunque,
l’individuo al posto della famiglia, la sostituzione della famiglia con
l’individuo. Questa è una società che non può certo prescindere
dall’individuo e dal desiderio del singolo di affermarsi, di trovare il
suo posto nella società, il migliore che gli è consentito e che è nelle sue
potenzialità di conquistare. Ma qui si parla di individuo e individualismo non in sé ma in sostituzione di una diversa prospettiva di vita
imperniata sulla famiglia. Si parla di individuo e individualismo che
permeano la famiglia dall’interno quantomeno smorzandone il carattere comunitario e cooperativistico. Si parla dell’autoaffermazione di
sé che si manifesta in modi tali non già da escludere la famiglia quanto
da abbassarne il grado, il tenore, l’intensità fino a livelli minimi. E così
minimi, anzi, da rischiare di annullare lo spirito stesso e fin quasi il
senso della famiglia.
E si parla di individuo e individualismo che non solo non si mettono al servizio della famiglia, quando pure entrano a tutti gli effetti in
situazioni di famiglia, ma vedono nella famiglia – e piegano la famiglia
di conseguenza a questa funzione – un altro terreno, una nuova opportunità per realizzarsi più compiutamente come tali.
In conclusione, a una società che richiede un minor grado di famiglia, una densità di famiglia decisamente blanda rispetto a un passato
anche piuttosto recente, corrispondono oggi molti modi di affermare
l’individuo e l’individualismo proprio in rapporto con la famiglia, sia
astenendosi dal fare famiglia sia mettendosi nell’impresa di farla, ma
al più basso livello possibile, cominciando tardi e rinunciando ai figli
o fermandosi a un solo figlio. Anche nella scelta del figlio unico è infatti possibile scorgere una sorta di compromesso tra la spinta verso
la famiglia e quell’individualismo – quel senso di sé – che si intende
sacrificare il meno possibile, compatibilmente con la scelta di una famiglia a tutti gli effetti.
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La nostra società ha ancora bisogno della famiglia?
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Roberto Volpi
Siamo in una fase di transizione
L’obiezione che può essere mossa a quanto appena argomentato è che,
in fondo, sempre si è potuto scegliere di non sposarsi, così come sempre si è potuto optare per la convivenza anziché per il matrimonio, o
decidere di sposarsi ma senza volere figli e via enumerando. Ma l’obiezione non regge. È il quadro di riferimento, culturale prima ancora che
normativo, a essere completamente cambiato. Ciò che prima veniva
visto e vissuto come un’eccezione, uno strappo a regole e visioni di
coppia e di famiglia condivise, oggi è tranquillamente accettato da
tutti come qualcosa che ha la stessa normalità di ogni altra possibilità
o modalità a questo riguardo.
Chi rinuncia al matrimonio pur avendo un compagno o una compagna e magari dei figli, gode forse di minore considerazione sociale
per questa rinuncia? Gode di minor considerazione sociale una coppia di coniugi per il fatto che non intendono avere figli, pur potendone avere, perché ‘preferiscono godersi la vita’?
In effetti stiamo diventando indifferenti a queste pur non propriamente sottili distinzioni. Ma ciò succede perché il quadro di riferimento rappresentato dalla società e dalle sue esigenze è drasticamente mutato rispetto al passato. E ancora sta mutando. Siamo, anzi, in una fase
di transizione tra un tipo di società i cui assetti economico-produttivi,
e conseguentemente anche socio-culturali, necessitavano di una forte famiglia di tipo tradizionale e una società, quella post-moderna di
oggi, che necessita non solo di meno famiglia tradizionale, ma di meno
famiglia tout court.
Credo che la famiglia corra il rischio di contare di meno, ma più ancora in modo diverso, trattandosi di un ibrido individuo-famiglia che
avrà, se già non ha, più del primo che della seconda, e che si declinerà
nei tanti modi che abbiamo appena visto e in altri ancora che prenderanno vita sul tronco, ormai a sua volta suddiviso piuttosto in polloni,
della famiglia. Potrà andare così perché tra l’individuo e la famiglia non
può esserci nient’altro di intermedio e, d’altro canto, oltre la famiglia
non potrebbe che esserci qualche altra formazione sociale ancora più
strutturata e vincolante e una simile evoluzione non si concilia affatto
con gli indirizzi, gli assetti e le necessità delle società post-moderne.
È probabile dunque che la famiglia seguirà due direzioni che ne accentueranno la trasformazione ancora più radicale, e cioè: (a) assecon540
dando il fiorire delle forme di famiglia a minor grado di famiglia, ovverosia continuando a smantellare ogni tratto di confine e di distinzione,
di fronte alla legge e dunque alla società stessa, tra le diverse tipologie
di famiglia e (b) separando sempre di più la nascita dei bambini dalla
coppia eterosessuale e dai rapporti sessuali tra uomo e donna.
Senza politiche di natalità assai spinte i tassi di fecondità dei Paesi
occidentali scenderebbero a 1,2-1,3 figli per donna, com’era venti
anni fa in Italia, e forse ancora più in basso, facendosi via via sempre
più insostenibili. Non è così chiaro quali fattori si riflettono, con che
intensità e con quali interazioni tra di loro, sul tasso di fecondità, ma
è irrealistico pensare che non pesi, tra questi fattori, la tipologia delle
famiglie. Così com’è irrealistico pensare che la perdita di terreno della
famiglia tradizionale, che potrebbe continuare ad aggravarsi, non finirà per condizionare pesantemente i tassi di fecondità, anche al di là
delle politiche di sostegno alla famiglia che i singoli stati riusciranno
ad attuare. E questo perché mentre l’apertura verso i figli è in certo
senso connaturata alla famiglia tradizionale lo è meno alle coppie di
fatto, meno ancora alle coppie di fatto non conviventi e alle situazioni
che neppure possono definirsi di coppia.
Intervenire sulla famiglia per fermare il declino delle
società occidentali. Ma è ancora possibile?
Una studiosa della sensibilità di Claudia Mancina ha messo in guardia dall’idea assai diffusa «che la famiglia sia in declino per effetto
dell’azione disgregatrice delle forze della modernità, che si manifestano nella prevalenza della ricerca individuale della felicità sulla fedeltà
ai valori della vita in comune», affermando tra l’altro che «la vita in
famiglia è pur sempre la scelta principale di uomini e donne d’oggi».
Per la verità, uno sguardo alla composizione dell’universo delle famiglie ci toglie ben presto ogni illusione al riguardo. Nell’universo dei
24,6 milioni di famiglie italiane le coppie con figli sono solo 9,1 milioni, 5,2 milioni sono le coppie senza figli e 2,3 milioni le famiglie monogenitoriali. A queste situazioni di famiglia si aggiungono 7,3 milioni di
famiglie unipersonali, e mezzo milione di famiglie senza nuclei, ovvero
di non famiglie a tutti gli effetti. Se a questi dati si aggiunge che quasi
6 famiglie su 10 sono composte da una-due persone si capisce bene
come l’affermazione di Claudia Mancina vada proprio intesa nel suo
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La nostra società ha ancora bisogno della famiglia?
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Roberto Volpi
La Rivista del Clero Italiano
senso strettamente letterale. Quanto al legame tra sviluppo dell’individualismo e declino della famiglia esso appare in tutta la sua evidenza,
sol che si voglia capire come lo «sviluppo dell’individualismo» non
comporti la nuda e cruda distruzione/sparizione della famiglia bensì il
suo inevitabile scivolamento verso una sempre minore intensità di famiglia. Non si tratta di giudicare tra famiglia e non famiglia, e neppure
tra una forma e l’altra di famiglia. Si tratta di guardare all’intensità, al
tasso di famiglia presente nella società italiana e nelle altre realtà occidentali, quindi al tragitto costantemente al ribasso che ha percorso
e che ha portato l’Italia a una media di componenti per famiglia pari
ad appena 2,3. Perché l’individualismo non si manifesta affatto come
un prendere o rifiutare la famiglia, non ha in sé questa rozzezza, non
funziona così. L’individualismo oggi non distrugge ma conquista alla
sua logica le famiglie, in certo senso annettendole a sé – ibridandole,
come si è detto.
Cosicché, alla fine s’impongono, tra tutti, certi interrogativi: terranno società e Paesi occidentali dove le nascite sono ben lontane anche soltanto dall’avvicinare la soglia di sostituzione dei 2,1 figli per
donna? Dove aumenta a vista d’occhio il processo d’invecchiamento,
anche a seguito del continuo innalzamento della speranza di vita alla
nascita? Dove la sostituzione delle generazioni più anziane con quelle
più giovani si farà sempre più insufficiente mentre i livelli di carico
sociale sulle spalle della popolazione in età lavorativa saranno sempre
più alti? Dove contingenti annui d’immigrati dell’ordine del 60-80 per
cento delle nascite, com’è stato per anni e decenni per molti Paesi europei, saranno sempre più difficili da accogliere e integrare?
Ma mentre questi interrogativi passano si può ben dire di bocca in
bocca, gli interrogativi sulla tenuta delle famiglie, e delle famiglie tradizionali in primis, non si affacciano neppure. Contraddizione somma, perché non c’è risposta possibile a questi interrogativi al di fuori
di una ripresa della famiglia e, per tutti i motivi visti sin qui, di quella
tradizionale in modo particolare. Dire questo significa d’altro canto
dire, sempre per quello che abbiamo visto, che la famiglia deve essere
messa in grado di porre un argine, un freno, all’invasione nelle sue
fibre più vitali, più costitutive, dell’individualismo che la sta ibridando
a tutto suo vantaggio. La scommessa si gioca su questo terreno e sta
in questo difficile equilibrio famiglia-individuo. Nessuno può pensare
di fare arretrare l’individualismo, anche in considerazione del fatto
542
che la società post-moderna di oggi questo richiede: più individuo e
meno famiglia, più individualismo e meno familismo (pur nella sua
veste migliore), meno intensità di famiglia e meno vincoli e più libertà
dell’individuo all’interno delle famiglie. La società può reggere a un
equilibrio che pencoli anche vistosamente verso l’individualismo, a
patto però che il bilancio demografico tra nascite e morti non si alteri
in modo non recuperabile. Questo è il limite che non può valicare. Ma
l’individualismo se lasciato a se stesso tende invece nelle moderne società del benessere a superare quel limite, e dunque a portare al declino non della sola famiglia ma della società nel suo insieme, degli stati.
La strada battuta dall’Occidente, anche sull’onda della stagione dei
diritti che si è aperta già dal secondo dopoguerra, e che ha avuto un’accelerazione via via crescente dagli anni Sessanta, è stata ed è quella di
ampliare il ventaglio delle forme di famiglia riconosciute e di porre
sostanzialmente sullo stesso piano, a partire dai diritti dei figli, tutte le
forme di famiglia, comprese quelle omosessuali. Ciò consente, come si
è visto, all’individualismo di potersi esprimere all’interno delle diverse
forme di famiglia, e non soltanto al loro esterno, non soltanto nella
rinuncia alla famiglia, nella non famiglia, ma nella famiglia. E questo,
naturalmente, è un bene perché la possibilità dell’individualismo di
ibridare la famiglia non fa necessariamente del primo il nemico irriducibile della seconda. Ma il punto debole di questo accomodamento,
ch’è peraltro funzionale alle società post-moderne come quella italiana, consiste nel volume insufficiente delle nascite, nell’insufficiente
livello che il tasso di fecondità è capace di raggiungere oggi e riuscirà a
raggiungere domani. Nessun Paese europeo raggiunge in modo franco la soglia di sostituzione delle generazioni consistente in un tasso di
fecondità di 2,1 figli in media per donna, un paio la sfiorano soltanto,
altri cinque o sei la scrutano da un divario di 0,2-0,3 di distanza, ma
due decine di Paesi non l’avvistano neppure, per così dire. E questo
nonostante anni, e per non pochi di questi Paesi almeno tre decenni,
di politiche interventiste sulla natalità di grande impegno anche economico. E nonostante contingenti d’immigrati in entrata, sempre più
difficilmente sostenibili, che in tutti i più grandi Paesi europei si sono
attestati su quote oscillanti per anni e decenni tra il 60 e l’80 per cento
delle nascite annue.
Ciò significa che quelle politiche non bastano e che i movimenti
migratori non danno garanzie neppure sul piano riproduttivo. Quel
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La nostra società ha ancora bisogno della famiglia?
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La Rivista del Clero Italiano
Roberto Volpi
che servirebbe è un rilancio in grande stile, anche dal punto di vista
culturale, oltre che su quello delle provvidenze e delle misure per incrementarne la natalità, delle famiglie tradizionali che si basano sul
matrimonio, a più alto tasso di responsabilità, natalità e tenuta. Ma
questa linea di condotta cozza contro tante difficoltà, non ultima quella del politicamente corretto, linea che si è imposta in tutto l’Occidente
e che si oppone a che vengano fatte preferenze, meno ancora culturali
e ideali, tra forme e tipologie diverse di famiglia. Né le società postmoderne, con le loro forze, tendenze, assetti premono in questo senso, essendo più interessate agli individui che alle famiglie, e più agli
individui in seno alle famiglie che alle famiglie nella loro unitarietà, e
operando semmai per allentare la presa, e i connessi vincoli, delle famiglie sugli individui. Ecco, è proprio una tale linea del politicamente
corretto che alla lunga potrebbe, paradossalmente, portarle a una non
più recuperabile decadenza.
544
GIUSEPPE ANGELINI
Quali sono oggi le cause della grande precarietà delle scelte di vita,
come il matrimonio, il sacerdozio o la vita religiosa? Da questa domanda muoveva l’articolo di don Aristide Fumagalli apparso sul numero di aprile («La formazione fragile»). Esso ha sucitato una ripresa
del tema da parte di G. Gillini e M.T. Zattoni (5/2013, pp. 383-400)
e ora del teologo moralista milanese mons. Giuseppe Angelini. La
riflessione proposta in queste pagine si sofferma in particolare sulla
tendenziale assenza del profilo morale nell’educazione, indispensabile nella formazione di una persona davvero capace di volere, cioè
di disporre di sé attraverso scelte concrete. Se questo oggi avviene
sempre di meno è perché sono venute meno quelle forme di vita
condivise, nella famiglia e nella società, che attraverso l’ethos comune mediavano i significati essenziali del vivere. «Per educare un figlio
ci vuole un villaggio», ha recentemente ed efficacemente affermato
papa Francesco.
Sul tema dell’educazione ho avuto occasione di esprimermi già molte
volte1, e sempre da capo ho cercato di mettere in luce due aspetti distinti dell’‘emergenza educativa’: per un primo aspetto il compito di
educare è diventato oggi estremamente arduo, al punto da apparire
addirittura impossibile; per un secondo aspetto sembra che le forme fino a oggi correnti del pensiero non offrano gli strumenti teorici
adeguati anche soltanto per comprendere quel compito; tanto meno
adeguati alla sua soluzione.
Riprendo la riflessione, sollecitato da un contributo di Aristide
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La Rivista del Clero italiano 7/8| 2014
Per educare un figlio
ci vuole un villaggio
Giuseppe Angelini
La Rivista del Clero Italiano
Fumagalli, apparso tre mesi fa su questa stessa rivista2. Lo faccio nella speranza che il confronto con quel contributo offra opportunità
apprezzabili per precisare la qualità del mio stesso approccio; esso
propone infatti una riflessione assai accurata sulla questione, e per
molti aspetti anche vicina all’approccio da me praticato; mi riferisco
in particolare alla denuncia della rimozione del profilo morale dell’educazione, come più in generale dell’orizzonte teologico morale della
riflessione complessiva. Il contributo di Fumagalli offre in tal senso
un significativo test: mi paiono operanti su di esso, come su gran parte
della saggistica corrente sui temi dell’educazione, pregiudizi secolari
assai difficili da rimuovere che mi pare pregiudichino in partenza l’istruzione adeguata della questione educativa. La teologia non ha una
consistente tradizione per ciò che si riferisce all’interesse per l’educazione; e d’altra parte il tema appare per sua natura tale da non poter
essere semplicemente aggiunto come nuovo capitolo all’impianto teorico tradizionale; impone invece una rinnovata trattazione di carattere
fondamentale.
L’approccio da me praticato sul tema dell’educazione incontra una
certa fatica a essere condiviso; prima ancora, a essere registrato; e non
credo proprio che la circostanza possa essere spiegata per riferimento
alla difficoltà della lingua. La interpreto invece come il riflesso delle profonde correzioni che tale approccio comporta rispetto a modi
di pensare profondamente radicati nella tradizione, e nella mentalità
ancora corrente. Davvero si tratta di modi di pensare? Non si tratta
forse più modestamente di modi di dire? In ogni caso, la persistenza
di tali pregiudizi impedisce di istruire la questione educativa con la
necessaria radicalità.
La questione educativa infatti è, per sua natura, una questione ‘radicale’, nel senso che la sua istruzione esige di andare alle radici della
nostra tradizione culturale, rispettivamente dei nostri modi di pensare
l’uomo e la sua esperienza pratica. Questa è una mia convinzione di
fondo, per la quale stento a trovare riscontro nella letteratura corrente. La cosiddetta ‘emergenza educativa’ da molti denunciata3 non è
soltanto una questione grave, tra le molte altre proposte dalla situazione civile presente; costituisce invece un indicatore della radicale
problematicità che affligge la transizione civile presente. A una tale
emergenza non si può rispondere dunque facendo semplicemente di
più sul preciso fronte dell’educazione, o magari facendo di più sull’an546
7/8 Luglio/Agosto 2014
cor più preciso fronte dell’educazione morale; l’educazione non si realizza mediante iniziative regionali espressamente dedicate al tema;
non si realizza anzi tutto così e sopra tutto così; si realizza invece – o
malauguratamente manca di realizzarsi – attraverso le forme complessive della vita comune.
Di emergenza educativa si deve parlare oggi esattamente per riferimento al fatto che le forme della vita comune decisamente stentano
a realizzare un compito, che un tempo appariva invece scontato; mi
riferisco al compito dell’ethos. L’ethos era insieme dimora di tutti e
forma del soggetto; le forme della vita comune realizzavano un tempo
il compito di dare forma alla visione del mondo del singolo, senza
che neppure si proponesse la necessità di formulare quel compito in
maniera esplicita.
La valenza olistica – per così dire – della questione educativa è riconosciuta anche dalla riflessione di Aristide Fumagalli, almeno in maniera
virtuale; ma, appunto, in maniera soltanto virtuale. Egli procede dalla considerazione della attuale crisi delle «scelte di vita», delle scelte
dunque mediante le quali la persona dispone di sé per la vita intera;
si tratta, tipicamente, delle cosiddette scelte vocazionali, matrimonio,
sacerdozio, consacrazione religiosa. Per altro lato, tuttavia, egli rileva
anche come, prima ancora che si determini la crisi delle scelte menzionate, si realizzi «la rinuncia sempre più diffusa a dare forma permanente alla propria vita» (p. 3); non accade soltanto che le scelte di vita già
fatte vadano facilmente in crisi; spesso accade che addirittura si rinunci
in partenza a operare scelte del genere. Una tale rinuncia equivale, in
radice, all’abdicazione pura e semplice a volere. Volere davvero infatti
non è possibile se non a prezzo di volersi, di disporre dunque di sé, di
accettare che le scelte concrete impegnino per sempre.
Fumagalli evoca a tale riguardo la diagnosi proposta da Umberto
Galimberti nel suo fortunato saggio L’ospite inquietante. Il nichilismo
e i giovani4; appunto il nichilismo sarebbe la minaccia di fondo che
grava sulle nuove generazioni. Il nichilismo equivale alla volontà di
nulla, e quindi al nulla di volontà. A tale denuncia Galimberti fa corrispondere per altro un rimedio che pare abbastanza futile: la proposta
è di risvegliare la cosiddetta ‘creatività’ dei giovani; gli adulti debbono
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Per educare un figlio ci vuole un villaggio
Il nichilismo dei giovani
La Rivista del Clero Italiano
insegnare ai ragazzi l’«arte del vivere», come si esprimevano i Greci
antichi; essa consisterebbe nel riconoscere le proprie capacità, nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura; questo dovrebbe consentire ai giovani di «innamorarsi di sé». Il rimedio all’ospite inquietante
del nichilismo sarebbe dunque addirittura il narcisismo. La proposta
cerca autorizzazione nella riflessione di Nietzsche:
Giuseppe Angelini
No, la vita non mi ha disilluso. Di anno in anno la trovo sempre più ricca,
più desiderabile e più misteriosa – da quel giorno in cui venne in me il
grande liberatore, quel pensiero che la vita potrebbe essere un esperimento
di chi è volto alla conoscenza – e non come un dovere, non una fatalità, non
una fede. […] La vita come mezzo di conoscenza. Con questo principio nel
cuore si può non soltanto valorosamente, ma anche gioiosamente vivere e
gioiosamente ridere5.
In realtà, proprio Nietzsche avrebbe da insegnare molto di più e di
altro a proposito del nichilismo, e del cronico difetto di volere che
affligge gli ultimi uomini. Esso è alimentato dalle forme del rapporto
sociale in epoca moderna, e quindi dalla spasmodica cultura del soggetto che allora fiorisce. Con un secolo di anticipo, e con sorprendente lungimiranza, Nietzsche avverte come proprio questa sia la malattia
radicale che insidia gli uomini moderni, quelli che egli stesso ha definito gli «ultimi uomini».
Egli li ha descritti come piccoli, piccoli; quasi come pulci; li ha
descritti e ha deprecato il loro deciso scetticismo a fronte delle grandi
parole; ha denunciato soprattutto la loro dichiarata rinuncia al compito grandioso di volere; essi apparivano ai suoi occhi come gioiosamente attestati sulla scelta di sostituire il consenso del prossimo
all’impossibile volontà. Davvero del ‘prossimo’ quel consenso? No,
non esageriamo; l’approvazione da cercare è soltanto quella degli altri, dei soci assai più che dei prossimi. Gli ultimi uomini sanno bene
infatti che è meglio non avere ‘prossimi’; «Folle chi ancora inciampa sulle pietre, e negli uomini». Incapaci di volere, essi ammiccano;
irridono le grandi parole di un tempo, solenni addirittura sacre, e
strizzano l’occhio: «“Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E
stella?” – così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio». Gli ultimi
uomini dicono di avere inventato la felicità, e quando ricordano il
modo di vivere dei loro padri, le loro molte devozioni, le molte cose
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sacre da rispettare, le molte leggi da osservare, dicono che «una volta
erano tutti matti»: «Nessun pastore e un solo gregge! Tutti vogliono
le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente in maniera diversa, va da sé
al manicomio»6.
La questione radicale, e cioè se sia possibile per l’uomo volere, è
al centro di tutta la riflessione teorica di Nietzsche che tuttavia incrocia, e lo fa con crescente insistenza, la questione storica e pratica;
questa seconda acquista rilievo dominante negli ultimi anni del suo
itinerario. Proprio il ritratto assai severo ch’egli propone degli ultimi
uomini, o anche – com’egli si esprime con formula deliberatamente
provocatoria – degli uomini «democratici», appare come il documento univoco della consapevolezza che egli aveva del nesso stretto che
lega la questione del volere alla complessiva questione civile. La rinuncia al compito di volere, giudicato dagli ultimi uomini francamente eccessivo, non è il risultato di una dottrina, come invece suggerisce
Galimberti; è assai prima e assai più il risultato delle forme effettive
assunte dalla vita comune nelle società democratiche e laiche. La recensione precisa dei modi di dire e soprattutto di ammiccare propri
dell’uomo democratico costringe – per così dire – Nietzsche a rilevare
l’indecente banalità che gli ideali moderni di emancipazione hanno
realizzato nella loro declinazione sociale. La lingua rimane per molta
parte quella eroica degli ideali liberali moderni; la realtà è assai più
piccola. Mentre in precedenza Nietzsche imputava agli ideali ascetici
la responsabilità di sancire equivocamente l’abdicazione al compito di
volere, ora riconosce che quegli ideali sono stati in realtà il primo tentativo di abilitare l’uomo a volere, e fino a oggi rimane l’unico tentativo riuscito. Le due interpretazioni, obiettivamente in conflitto, sono
insieme presenti nel saggio La genealogia della morale:
Tuttavia nella circostanza che l’ideale ascetico ha avuto in generale un così grande
significato per l’uomo, si esprime il fondamentale dato di fatto dell’umano
volere, il suo horror vacui: quel volere ha bisogno di una meta – e preferisce
volere il nulla piuttosto che non volere. – Mi si intende?… Sono stato inteso?...
«Assolutamente che no, signore!». – Cominciamo dunque da capo7.
Se si prescinde dall’ideale ascetico, l’uomo, l’animale uomo non ha avuto
fino a oggi alcun senso. La sua esistenza sulla terra è stata vuota di ogni
meta; «a che scopo l’uomo?» – fu una domanda senza risposta; mancava
la volontà per uomo e terra; dietro ogni grande destino umano risonava, a
guisa di ritornello, un ancor più grande «invano!». Questo appunto significa
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Per educare un figlio ci vuole un villaggio
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La Rivista del Clero Italiano
l’ideale ascetico: che qualcosa mancava, che un’enorme lacuna circondava
l’uomo – egli non sapeva giustificare, spiegare, affermare se stesso, soffriva
del problema del suo significato. Soffriva anche d’altro, era principalmente
un animale malaticcio: ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema,
bensì il fatto che il grido della domanda «a che scopo soffrire?» restasse senza
risposta. L’uomo, l’animale più coraggioso e più abituato al dolore, in sé non
nega la sofferenza; la vuole, la ricerca perfino, posto che gli si indichi un
senso di essa, un «perché» del soffrire. L’assurdità della sofferenza, non la
sofferenza, è stata la maledizione che fino a oggi è dilagata su tutta l’umanità
– e l’ideale ascetico offrì ad essa un senso!»8.
Pur assai sensibile alle questioni poste dalla transizione civile, o – come
oggi diremmo – alle questioni di carattere antropologico culturale,
Nietzsche non elaborò certo alcuna precisa teoria circa il nesso tra
coscienza e cultura; tanto meno produsse una diagnosi circa i fattori
determinanti del nichilismo degli ultimi uomini, che pure egli descrisse in termini tanto precisi. Rimane merito indubitabile della sua critica
quello d’aver segnalato con tempestività e vivacità di accenti il rischio:
l’uomo così come da sempre lo abbiamo conosciuto, quell’uomo che
credevamo ‘naturale’, minaccia ormai di finire. Per vivere, egli ha bisogno di una cultura, di condizioni sociali. Appunto in questi termini
dev’essere descritta la consistenza radicale dell’emergenza educativa.
Giuseppe Angelini
Educazione e generazione
Per intendere la qualità di tale rischio, un rilievo assolutamente centrale, e invece per lo più ignorato, ha il nesso che lega l’educazione
al rapporto tra le generazioni. Quel nesso si è realizzato di fatto da
sempre, ovviamente, e tuttavia mai è stato pensato; proprio grazie alla
sua ovvietà è apparso ai filosofi praticamente invisibile. Quando è nata
la pedagogia quale disciplina filosofica distinta, e cioè nel ’700, non
ha in alcun modo riconosciuto il rilievo fondamentale dei genitori;
né ha riconosciuto che l’educazione, molto prima d’essere deliberatamente perseguita come un obiettivo, si realizza in maniera spontanea. L’educazione è stata considerata come l’opera di un precettore,
in ogni caso di uno specialista, non invece com’essa in realtà è, l’opera
della madre e del padre. Per troppo tempo l’educazione è stata pensata quasi non avesse a che fare con la generazione.
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È stata pensata – più precisamente – in termini puerocentrici, quasi
fosse l’opera volta a rimediare alle incapacità native del puer, a procedere da un assunto assai dubbio, che cioè fosse del tutto noto in
generale quali siano le facoltà umane e quale la loro forma adulta e
compiuta. È stata ignorata una circostanza, che invece appare assolutamente evidente: molto prima d’essere perseguita come un obiettivo,
l’educazione si produce di fatto; e si produce propiziata appunto dalla
relazione tra genitori e figli. Ogni madre e ogni padre sono per il figlio,
e anche fanno per il figlio, assai più di quanto espressamente sanno e
si propongono. Essi sono e fanno assistiti da una sensibilità affettiva e
rispettivamente da un codice culturale; appunto il codice dei significati elementari del vivere, che sono obiettivamente iscritti nella cultura
dell’ambiente sociale, rende quei medesimi significati disponibili per
il singolo; più precisamente, le forme del rapporto sociale, plasmate
dal codice culturale, consentono l’articolazione dell’esperienza primaria in termini universali; consentono la responsabilità, l’attitudine cioè
del singolo a rispondere di fronte a tutti delle sue scelte.
Soltanto in seconda battuta il genitore scopre il senso dei gesti che
compie e delle parole che dice al figlio; in prima battuta parole e gesti non hanno neppure bisogno d’essere pensati per essere proposti.
Addirittura occorre riconoscere che i genitori comprendono quel che
essi fanno e quel che promettono soltanto grazie al figlio stesso, alle
sue risposte, alle certezze in lui suscitate e alle attese in lui accese.
Quando finalmente l’educazione diviene obiettivo deliberatamente
perseguito, esso assume la fisionomia di fondo di una ripresa: il genitore risponde davanti al figlio della promessa che in prima battuta gli
ha fatto senza neppure rendersene bene conto.
Questa ripresa intenzionale di significati si produceva un tempo
con proporzionale naturalezza. Essa era consentita, per un primo lato,
dall’alto grado di consenso culturale; i significati elementari del vivere,
iscritti nelle forme del rapporto sociale, erano infatti a tutti noti e da
tutti condivisi. Per un secondo lato, quella naturalezza era resa possibile dall’alto grado di integrazione sociale della famiglia. Che cosa si
debba intendere per integrazione lo si capisce quando si metta a confronto il modello dei rapporti tra famiglia e società oggi assolutamente
dominante con quello di un tempo. Oggi quei rapporti sono divenuti
di sostanziale estraneità; un tempo erano invece di profondo intreccio; la famiglia era organo di line, oggi invece è organo di staff. Essa
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Per educare un figlio ci vuole un villaggio
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La Rivista del Clero Italiano
non è più la cellula primaria della società, ma l’istituzione specialistica
alla quale la società affida il compito di produrre i suoi membri.
Alla famiglia compete in esclusiva il compito – così dicono i sociologi (in particolare T. Parsons) – della socializzazione primaria, di quella
che un tempo si chiamava appunto educazione, e che ora è concepita
come abilitazione al rapporto sociale; l’ipotesi è che proprio attraverso i rapporti primari il minore maturi quella fiducia di base, che sola
gli consente di sostenere poi le relazioni secondarie, e cioè i rapporti
sociali. Il codice (affettivo) della socializzazione primaria appare però
tutt’altro rispetto a quello della socializzazione secondaria; di conseguenza questo secondo genere di rapporto manca l’obiettivo di riprendere i paradigmi di valore acquisiti nella relazione primaria e articolarli
per riferimento alla grande società. La prima rassicurazione affettiva,
propiziata appunto dai rapporti famigliari, rimane soltanto tale, e non
diventa principio generativo della complessiva visione del mondo.
Nell’età dell’adolescenza si manifesta in maniera molto evidente questo inconveniente: il minore protesta la propria emancipazione dalla tutela dei genitori; rivendica quindi la propria autonomia,
o addirittura la propria autarchia, per tutto ciò che si riferisce alla
cultura, e dunque ai giudizi pratici e alla propria visione del mondo;
ma insieme chiede il loro consenso. Pretenderebbe che esso fosse incondizionato, concesso in forza della sua qualità di figlio, e non invece
a procedere da una valutazione di merito. Questa sconnessione tra la
pretesa di una conferma affettiva e il rifiuto di un sindacato di merito
rende manifesta nella forma più clamorosa la sconnessione tra affetti e
significati, che è come dire tra relazione parentale e relazione tra pari.
Giuseppe Angelini
La società senza padri
La sconnessione di cui si dice non riguarda per altro soltanto la precisa età dell’adolescenza, ma la generalità dei rapporti, e soprattutto
la cultura dello spazio pubblico. La filosofia pubblica della vita, e soprattutto quella pubblicitaria, raccomanda come via vincente quella
del perpetuo esperimento. Lo stesso rimedio al nichilismo prospettato
da Galimberti, come già abbiamo ricordato, è quello della cosiddetta
‘creatività’ dei giovani, che è come dire la perpetua invenzione della vita, dunque il pregiudiziale rifiuto di ogni imperativo che venga
dalle generazioni precedenti, e quindi dalla testimonianza dei padri:
552
«Nessun pastore, e un solo gregge», appunto. Il rimedio a questo difetto dei padri non può certo essere quello realizzato con un supplemento
di ‘valori’, che è come dire con un supplemento di raccomandazioni
ideali proposte in termini verbali e didascalici. L’appello ai cosiddetti
‘valori’ costituisce l’escamotage retorico al quale la lingua recente ricorre per articolare appunto l’istanza morale, all’interno di un sistema di
rapporti sociali che manca di rendere evidente l’imperativo morale. Ma
una tale evidenza non può in alcun modo nascere dal cielo dei cosiddetti ‘valori’; deve nascere invece dalle concrete esperienze di prossimità. Quando lo scriba, volendo scusarsi, chiede a Gesù: «E chi è il mio
prossimo?», Gesù non risponde con l’appello al valore della prossimità, racconta invece la storia di un incontro concreto, che con assoluta
chiarezza presenta un imperativo (cfr. Lc 10,29-37). All’origine dell’evidenza morale, e dunque della coscienza, stanno le effettive esperienze di prossimità che si realizzano nella nostra vita, e realizzandosi suscitano un impegno; non sta l’evidenza di ipotetici valori. Al difetto di
forma morale, che affligge i rapporti umani nello spazio metropolitano,
anonimo e affrettato, non si può certo rimediare mediante raccomandazioni ideali; occorre invece portare a parola il messaggio espresso dai
rapporti umani effettivi in maniera soltanto latente.
Al difetto dei padri – in particolare – non si può rimediare facendo
come se. Appunto questa pare la ricetta proposta nei tempi recenti
dagli psicologi sensibili alla denuncia della «evaporazione del padre»
formulata da Jacques Lacan già nel 1968; egli notava come proprio
quella «evaporazione» disponeva le condizioni per la distanza di tutti
nei confronti di tutti addirittura per una segregazione del singolo, dissimulata sotto il velo dell’universalismo omologante:
Io credo che nella nostra epoca la traccia, la cicatrice dell’evaporazione del
padre è quella che potremmo mettere sotto la rubrica e il titolo generale della
segregazione. Noi pensiamo che l’universalismo, la comunicazione della
nostra civiltà omogeneizzi i rapporti tra gli uomini. Al contrario, io penso
che ciò che caratterizza la nostra era – e non possiamo non accorgercene – è
una segregazione ramificata, rinforzata, che fa intersezioni a tutti i livelli e
che non fa che moltiplicare le barriere9.
La risposta alla denuncia data dai discepoli di Lacan negli anni recenti
assume appunto i tratti del come se. Il padre è evaporato e non c’è ri553
Per educare un figlio ci vuole un villaggio
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Giuseppe Angelini
La Rivista del Clero Italiano
medio; nessuno potrebbe aspirare realisticamente al profilo simbolico
del padre nel mondo laico e disincantato in cui viviamo. E tuttavia i
figli hanno bisogno di qualche cosa come un padre. Hanno bisogno
infatti del divieto; soltanto esso consente loro di passare dal regime
compulsivo del bisogno al regime spirituale del desiderio; di un desiderio che sia in grado di rimanere fermo senza soggiacere al ricatto
della soddisfazione immediata, tra mattina e sera. Per il bene dei figli
occorre dunque che i padri propongano divieti e facciano come se credessero a una Legge sacra, che in realtà non conoscono10.
Al difetto del padre non si può rimediare mediante la raccomandazione di fare come se; occorre invece mostrare come l’eclisse del padre
non sia affatto così radicale e inesorabile, come le chiacchiere correnti
suggeriscono. Essa è l’effetto di una censura, di dinamiche sociali e
culturali, le quali possono essere rimediate, e anzi debbono essere corrette. Mi riferisco per un primo lato al regime di sequestro domestico
nel quale vive la famiglia affettiva contemporanea, appartata e difesa
entro lo spazio metropolitano. Mi riferisco per altro lato alle forme
della comunicazione pubblica, a quella ‘sfera pubblica astratta’ disegnata appunto dai mass media e dalla comunicazione delocalizzata da
essi propiziata; in questa sfera appunto non c’è né padre, né madre,
né principio di giorni né fine, ma siamo tutti come Melchisedek (cfr.
Eb 7,3). Appunto in quella sfera pubblica astratta si realizza nella forma più evidente l’universalismo finto della società senza padri, di cui
diceva Lacan.
L’evaporazione del padre non può essere in alcun modo rappresentato come un dato di fatto senza rimedio. Per opporsi alla minacciata
fine dell’uomo, che è indissolubilmente legata alla fine del soggetto,
occorre resistere insieme a quella sorta di evanescenza della figura del
padre, che nella nostra società secolare e democratica di fatto si prospetta. La figura del padre è indispensabile al processo di identificazione psicologica del figlio; è necessario insieme alla configurazione
morale della sua coscienza; è indispensabile alla realizzazione dei processi di tradizione culturale da una generazione all’altra.
Ma certo la figura del padre, come tutte le figure fondamentali dell’umano, non possono essere definite idealmente, o in termini
essenzialistici; pur comunque indispensabili all’articolazione dell’umano, esse trovano definizione materiale soltanto attraverso le forme
storiche della cultura. In tal senso la figura del padre necessario, e
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Tornando al confronto con Fumagalli
L’ospite inquietante della vita dei giovani è, secondo Galimberti, il nichilismo; Fumagalli in qualche modo consente, salvo precisare quella
figura ricorrendo a un preciso vizio morale, noto alla tradizione cristiana, l’accidia. Sulla scorta di Tommaso, essa è descritta come quoddam taedium operandi. La specificazione del taedium per riferimento
all’operare consente a Tommaso di scendere alle radici propriamente
morali di quel vizio, al di là dei suoi profili psicologici.
L’accidia non è la sola infezione passionale che, penetrando nella
libertà come dall’esterno, ne ammorba le facoltà motorie e mentali.
L’accidia è la libertà stessa che, al suo interno, si paralizza. In tal senso
essa è più che passione che s’insinua nella libertà invalidandola; è,
semmai, passione acconsentita, vizio. L’accidia è ‘paralisi spirituale’,
non nel semplice senso di indolenza nelle pratiche religiose, ma di
complessiva svogliatezza dello spirito umano11.
Quel che convince meno in questa descrizione è l’assunto implicito,
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Per educare un figlio ci vuole un villaggio
possibile anche per i figli del nostro tempo, è figura che può trovare
definizione unicamente attraverso la ripresa ermeneutica e critica delle forme effettive che assume la relazione parentale nel nostro tempo.
Occorre evitare due ingenuità insieme, nelle quali il pensiero cattolico e le forme della predicazione ecclesiastica di fatto spesso sono cadute
in epoca contemporanea. La prima ingenuità è quella della ‘legge naturale’, intesa come figura di legge che potrebbe e dovrebbe essere fissata
dalla ragione a prescindere da ogni riferimento all’esperienza storica
concreta; questa ingenuità è stata per lungo tempo alimentata da una
malintesa volontà di dialogo con il pensiero laico, liberale e – almeno
negli auspici – razionale. La seconda ingenuità, più recente, è quella
evangelica, o anche – se così possiamo esprimerci – kerigmatica; essa
presume che l’identikit ideale del padre possa essere fissato a procedere
immediatamente dalle Scritture, dunque dall’immagine del Padre eterno del Signore nostro Gesù Cristo. Le Scritture possono certo aiutare
la ripresa ermeneutica e critica delle figure storiche della paternità, così
come di ogni altra figura dell’umano; le Scritture debbono anzi offrire
questa risorsa; ma sarebbe ingenuo pensare che esse possano parlare
da sole, senza l’apporto della precomprensione offerta dalla tradizione
culturale di cui il lettore è figlio.
Giuseppe Angelini
La Rivista del Clero Italiano
quello della esteriorità reciproca tra «infezione passionale» e libertà;
quel che convince meno è quindi l’idea che possa darsi una «libertà
stessa», la quale sarebbe la scaturigine originaria dell’agire e che «al
suo interno» essa possa paralizzarsi; quel che convince meno è di conseguenza l’identificazione dell’accidia come «pigrizia metafisica», la
quale intaccherebbe l’origine stessa della libertà e si riferirebbe alla trascendenza divina. Se anche questa descrizione dell’accidia ha qualche
giustificazione a livello di riflessione morale – e certo essa l’ha – non è
tuttavia questo discorso che può descrivere la malattia del nostro tempo denunciata da Nietzsche, il difetto cioè delle condizioni che sole potrebbero abilitare la volontà. Il precipitoso assunto che sussista un’accidia metafisica, la quale starebbe addirittura al di là dell’accidia intesa
in senso psicologico, suscita il prevedibile sospetto di moralismo, da
intendere appunto come assunzione di un’evidenza morale che sarebbe immediata, non psicologicamente, né socialmente e culturalmente
mediata. Un’evidenza morale e religiosa così fatta non sussiste.
Tommaso scava la verità dell’accidia – scrive Fumagalli – «sino alla
radice dello spirito dell’uomo», e tuttavia «non esclude e anzi contempla la connessione che l’accidia intrattiene con le sue propagazioni
fisiche e psichiche: il dolore fisico e la depressione psichica, infatti,
gravano sulla libertà, offuscando la ragione e debilitando la volontà»;
vedo qui da capo confermata la visione della volontà, e in generale
delle facoltà spirituali dell’uomo, come facoltà che sarebbero costituite come tali a monte rispetto alla vicenda, e dunque all’esperienza
sensibile pratica attraverso la quale soltanto – invece – esse prendono
forma.
Il difetto di un pensiero a proposito della mediazione sensibile e
pratica della volontà, così come della coscienza morale, non interessa
soltanto il pensiero di Tommaso, ma interessa tutta la tradizione dottrinale cristiana. Proprio quel difetto rende il pensiero cristiano stesso
sprovveduto a fronte dell’emergenza educativa, e all’emergenza civile
in genere. È giusto denunciare il «nuovo conformismo», e la «troppa
psicologia nella vita quotidiana»12; e tuttavia occorre anche comprendere come questa inflazione della lingua psicologica, più precisamente
della lingua propria della psicologia di indirizzo clinico, abbia all’origine ferite obiettive, che la realtà umana conosce nel quadro della
società tardo moderna. E la ferita sofferta dalle nuove generazioni per
l’assenza dei padri e della loro testimonianza è certo tra le maggiori.
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Affermare che, dopo Tommaso, si perderebbe la radice propriamente
morale dell’accidia, e questo accadrebbe a motivo di un processo di
deterioramento che risolve il vizio nei suoi sintomi psico-fisici, appare
in tal senso semplicistico.
La deprecabile piega terapeutica della nuova cultura scaturisce
da fattori civili, e anzi tutto dalle forme assunte dall’esperienza famigliare, molto prima che da presunte involuzioni del pensiero teorico.
Mancano di realizzarsi quelle condizioni psicologiche e sociologiche,
che sole potrebbero promuovere l’attitudine dei minori a volere; appunto questo difetto sistemico rende necessario un pensiero esplicito
a riguardo di tali condizioni; un tale pensiero non era parso prima di
oggi necessario. Il compito di un tale pensiero non va certo lasciato
a psicologi e psicosociologi; ma se filosofi e teologi non si cimentano
con il compito è inevitabile che si realizzi una deriva terapeutica della
cultura pubblica tutta.
Cordialmente consento con le perplessità espresse da Fumagalli
circa «la ribalta guadagnata dalla spiritualità e dalla psicologia» in fatto di formazione religiosa; meno mi persuade l’ipotesi che tale ribalta
abbia cioè «finito per oscurare la dimensione propriamente morale»;
in prima battuta almeno, non sono la spiritualità e la psicologia che
oscurano la forma morale della vita, ma sono le forme effettive della
cultura. A un tale oscuramento occorre che la teologia, la filosofia e le
forme del sapere teorico in genere rispondano chiarendo come la formazione della coscienza del soggetto, e della sua formazione morale
in specie, dipenda da condizioni psicologiche e sociologiche precise.
L’inflazione della psicologia e della spiritualità nello spazio pubblico
del nostro tempo, e in particolare nei discorsi atti a margine della cura
per l’umanità dell’uomo, non nasce in prima istanza da una prevaricazione di quegli approcci, ma dall’incapacità obiettiva che la dottrina
morale trasmessa dalla tradizione mostra di comprendere i problemi
posti dalla crisi del costume. Rispondere a quella crisi con un supplemento di ascesi non è una soluzione adeguata; anzi appare pericoloso.
Per pensare la relazione dinamica tra il momento psicologico e
quello propriamente morale della crescita del minore, e della vita
umana in genere, occorre decisamente mutare il modello teorico di
fondo secondo cui pensare l’umano. Occorre, più precisamente, superare quella che io chiamo la «antropologia delle facoltà» per la quale l’uomo sarebbe l’animale a cui si aggiunge la facoltà superiore della
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La Rivista del Clero Italiano
Giuseppe Angelini
ragione. L’uomo non è una sostanza specificata dalle sue qualità; è
invece quel soggetto singolare, immediatamente attestato dalle prime forme della coscienza, dunque della sua presenza a sé, propiziata
dall’esperienza passiva dell’essere affetto.
Occorre superare la lingua raccomandata dell’antropologia delle
facoltà; non si può dunque parlare di natura, grazia e libertà come
di forme distinte dell’umano, in se stesse definite. «A differenza della natura e della grazia, la libertà dipende direttamente dall’uomo»,
dice Fumagalli; essa sarebbe «ciò che specificamente lo costituisce in
quanto uomo». Egli riconosce poi certo anche che «la libertà non è indipendente dalla natura e dalla grazia», ma insieme che «nemmeno né
è – normalmente – succube». Appunto «alla morale compete propriamente di considerare le strutture e i dinamismi che consentono alla
libertà di interagire con la natura e la grazia»13. Questi modi di dire
ribadiscono l’assunto, secondo il quale natura, grazia e libertà potrebbero essere considerate come aspetti dell’umano definiti a monte del
loro rapporto, a monte del dramma che li lega. Appunto l’idea che la
libertà sia la facoltà suprema dell’uomo, che specificamente lo costituisce in quanto uomo, e sia facoltà suscettibile d’essere definita senza la
memoria, e quindi senza il racconto di una vicenda, mi pare dubbia, e
anche pericolosa sotto il profilo delle conseguenze che se ne traggono
in ordine all’educazione. Mi riferisco alla proposta di un’intensificazione degli atti mediante i quali produrre l’abito corrispondente:
Affinché un vizio prenda consistenza non basta un solo atto, ma ne sono
necessari molti. La ripetizione seriale degli atti, in relazione anche alla
loro intensità, produce gradualmente nel soggetto la disposizione stabile
a operare atti della medesima specie di quelli che l’hanno prodotta, ciò
che la Scolastica chiamava habitus. Il diverso grado di stabilità e intensità
raggiunto dalla disposizione corrisponde al diverso grado di inesione al
soggetto agente14.
L’abito, e soprattutto la qualità virtuosa dell’abito, non deriva certo
dalla semplice ripetizione degli atti corrispondenti; deriva invece dalla
promessa dischiusa dalle prime forme dell’agire; da quelle forme che
realizzano una sorprendente prossimità; da quelle forme che, proprio
perché promettenti, appaiono anche impegnative; esse sono all’origine della connotazione morale dell’agire. Perché la promessa in esse
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iscritta possa trovare articolazione proporzionalmente univoca debbono realizzarsi condizioni che un tempo di fatto si realizzavano in
forma spontanea; nella società segnata da una profonda frattura tra
famiglia e società meno facilmente si realizzano. Appunto a tale difetto deve portare rimedio la riflessione pedagogica.
In un recente intervento sul tema educativo papa Francesco ha citato
«un proverbio africano tanto bello: “Per educare un figlio ci vuole un
villaggio”»; e lo ha parafrasato in questi termini: «Per educare un ragazzo ci vuole tanta gente: famiglia, insegnanti, personale non docente,
professori, tutti!»15. Non solo ci vuole tanta gente, ci vuole un’alleanza
tra questa gente. E l’alleanza è quella resa possibile dalla condivisione
dei significati elementari della vita, e dunque dalla cultura. Così infatti
può essere definita la cultura intesa nel suo senso antropologico: come
il complesso dei significati elementari della vita iscritti nelle forme della vita comune. L’educazione si produceva un tempo, e può prodursi
fino a oggi, non a opera della scuola e in genere di istituzioni espressamente deputate a questo compito; non fondamentalmente così; ma
fondamentalmente attraverso le forme della vita stessa. Attraverso le
forme della vita della famiglia, anzi tutto; attraverso poi le forme della
vita sociale, riconosciute per altro nella loro obiettiva ragione di debito nei confronti della famiglia, dell’alleanza coniugale tra uomo e
donna, della primaria alleanza tra genitori e figli. Un «villaggio» così
inteso oggi stenta molto a realizzarsi; per questo ardua appare la stessa
educazione. Il rimedio non può essere di fare a meno del villaggio;
occorre invece reperirne pazientemente le incerte tracce, portarle a
evidenza e incrementarne la consistenza. In ogni caso il compito di
educare moralmente non può essere separato dal compito di educare
in genere, né quello di educare può essere separato dal compito più
complessivo di vivere.
1
Rimando in particolare al saggio G. Angelini, Educare si deve, ma si può?, Vita e
Pensiero, Milano 2002, che fin dal titolo suggerisce il paradosso; a quel saggio sono
seguiti poi molti articoli: L’educazione cristiana oggi. Le difficoltà pratiche e le questioni
teoriche, in AA.VV., Generare alla vita e alla fede, AVE, Roma 2003, pp. 74-127; La
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Per educare un figlio ci vuole un villaggio
***
Giuseppe Angelini
La Rivista del Clero Italiano
coscienza morale e le possibilità della sua formazione, in La responsabilità dell’educazione
professionale, a cura di F. Chiarle, M. Pidello e L. Ronda, Carrocci Faber, Roma 2003,
pp. 51-72; Le età della vita, in J.J. Pérez-Soba - O. Gotia (a cura di), Il cammino della
vita: l’educazione, una sfida per la morale, Lateran University Press, Città del Vaticano
2007, pp. 57-83; L’educazione cristiana. Congiuntura storica e riflessione teorica, «La
Rivista del Clero Italiano», 91 (2010), pp. 516-534; L’educazione cristiana. I nodi teorici
fondamentali, «La Rivista del Clero Italiano», 91 (2010), pp. 32-46; L’educazione è ancora
una questione?, in A. Toniolo (a cura di), Il senso dell’educazione nella luce della fede, Ed.
Messaggero Padova - Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2011, pp. 61-88.
2
A. Fumagalli, La formazione fragile. Ipotesi sull’attuale crisi delle scelte di vita, «Rivista
del Clero Italiano», 95 (2014), pp. 258-275; vedi sul tema educativo anche il successivo
contributo, M. Zattoni - G. Gillini, La formazione ai due sacramenti ordinati alla salvezza
altrui. Uno sguardo alle direttrici di fondo, «La Rivista del Clero Italiano», 95 (2014),
pp. 383-400.
3
L’educazione è stata scelta dalla CEI quale tema per gli Orientamenti Pastorali del
decennio 2010-2019, com’è noto; la scelta è stata annunciata dal card. Angelo Bagnasco
nella Prolusione alla 59a Assemblea Generale CEI del 25-29 maggio 2009 usando
appunto l’espressione emergenza: l’espressione ‘emergenza educativa’, usata con
significativa frequenza da Benedetto XVI (vedi anche il suo discorso alla 61a Assemblea
Generale della Conferenza Episcopale Italiana, del 27 maggio 2010), è ripresa tre
volte nel documento programmatico del decennio, Educare alla vita buona del vangelo,
Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020.
4
Feltrinelli, Milano 2007.
5
Il testo è tratto da La gaia scienza (1882), § 324, ed è citato da U. Galimberti, L’ospite
inquietante, a esergo del suo cap. 12, «Il segreto della giovinezza. Per un risveglio della
simbolica giovanile», p. 163.
6
Citiamo liberamente dal famoso ritratto degli ultimi uomini tracciato da Zarathustra
davanti alla folla, nel Prologo di F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e
per nessuno, in Opere complete, vol. VI*, Boringhieri, Torino 1978, pp. 10-12.
7
F. Nietzsche, Genealogia della morale, Terza Dissertazione, § 1, in Opere complete, vol.
VI**, Boringhieri, Torino 19864, p. 299.
8
F. Nietzsche, Genealogia della morale, Saggio III, § 28, ibi, p. 366.
9
La Nota sul padre e l’universalismo di J. Lacan costituisce una risposta dell’autore
all’intervento di Michel De Certeau, gesuita e membro della scuola di Lacan, al
Congresso dell’École freudienne de Paris sul tema «Psicoterapia e psicoanalisi», tenuto
a Strasburgo l’11, 12 e 13 ottobre 1968; vedi «Lettres de l’École freudienne», n. 6,
ottobre 1969 e n. 7, marzo 1970, p. 84.
10
Mi riferisco in specie a M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca
ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011; vedi di lui anche il successivo
Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano
2013; l’autore è ottimo divulgatore, autore di una delle esposizioni più pregevoli
del pensiero di Lacan, M. Recalcati, Jacques Lacan, vol. 1: Desiderio, godimento e
soggettivazione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012.
11
A. Fumagalli, La formazione fragile, pp. 265-266.
12
Alludo al fortunato saggio di Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia
nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2005.
13
A. Fumagalli, La formazione fragile, pp. 263-264.
14
Ibi, p. 267.
15
Discorso del Santo Padre Francesco al mondo della scuola italiana, 10 maggio 2014,
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/may/documents/papafrancesco_20140510_mondo-della-scuola.html.
560
MARCO POZZA
Una periferia difficile
La voce di Francesco dentro le carceri
E
ra il pomeriggio di giovedì 28 marzo 2013, il primo Giovedì Santo
da papa di Jorge Mario Bergoglio. Eravamo agli inizi del suo pontificato e quella rimase una giornata programmatica: la mattina, parlando ai sacerdoti nella giornata dell’istituzione del sacerdozio, pennellò
l’immagine semplice e disarmante dell’odore delle pecore: «Questo vi
chiedo: di essere pastori con l’odore delle pecore, pastori in mezzo al
proprio gregge, pescatori di uomini»1. Nel primo pomeriggio varcava
la soglia del carcere minorile romano di Casal del Marmo per celebrare la liturgia della lavanda dei piedi con i detenuti ivi reclusi. Fu il suo
primo viaggio apostolico fuori dal Vaticano – se si esclude l’atto di
affidamento alla Salus Populi Romani compiuto all’indomani dell’elezione: un viaggio per andare incontro a pecore dall’odore sgradevole,
dentro una realtà dalla difficile decifrazione, in una terra di nessuno
come il mondo delle carceri. La verità di quell’incontro tanto inatteso
quanto sorprendente si dispiega nella semplicità di una domanda: «Io
voglio sapere una cosa: perché sei venuto oggi qua a Casal del Marmo?
561
La Rivista del Clero italiano 7-8| 2014
Questa appassionata nota di don Pozza, cappellano del carcere di
massima sicurezza ‘Due Palazzi’ a Padova, richiama un aspetto significativo di quell’attenzione privilegiata che papa Francesco sta mostrando per le ‘periferie esistenziali’: il mondo delle carceri. Esso si
trova di fatto ai margini della vita sociale e della considerazione nelle
nostre comunità. Il comportamento e le parole di Francesco invitano
piuttosto a farsi prossimi a questo universo così difficile, per suscitare
in coloro che vi consumano i propri giorni la speranza di una nuova
vita: «Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore».
La Rivista del Clero Italiano
Marco Pozza
Basta solo quello», chiede uno di quei giovani detenuti a Francesco.
La sua riposta fu scarna, eppur accattivante: «È un sentimento che è
venuto dal cuore; ho sentito quello […]. Le cose del cuore non hanno
spiegazione, vengono solo»2.
Quei piedi bagnati, asciugati e baciati – anche quelli di Giuda
ebbero lo stesso trattamento dei piedi degli altri discepoli (Gv
13,1-20) – rimangono il fotogramma che racchiude la confidente
complicità che s’è instaurata tra il papa delle periferie e il mondo
di coloro che abitano le carceri: «Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di
civiltà di una nazione», scrisse un giorno François-Marie Arouet.
L’entrare nel carcere – come poi nel Porto di Lampedusa e in molte
altre periferie esistenziali – sembra per Francesco quasi un prestare lo sguardo al mondo per illuminare quegli anfratti dell’umano
dove il quotidiano narra l’eterna lotta tra la Vita e la Morte, tra la
Verità e la Menzogna, tra la Speranza e la Disperazione.
Le carceri, dunque, come terra benedetta per Francesco: «Io vedo
la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile
chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti: si devono curare le sue ferite, poi potremo parlare di tutto il resto»3. Aprire
la porta, curare le ferite, annunciare un tempo di misericordia: echi,
annunci e incontri che sono divenuti la trama di una relazione tra il
papa delle periferie e gli uomini che vivono dietro le sbarre. Nella più
perfetta continuità evangelica: nei Vangeli la realtà più importante del
Nazareno non è la denuncia del peccato bensì la salvezza dell’uomo
dalle fauci della morte, incoraggiandolo a riprendersi la vita.
Lo sguardo di Francesco oltre le sbarre delle carceri è la risposta
dei detenuti a quello sguardo. Vorrebbe essere questo il senso della
nostra riflessione. Vincendo l’inerzia dei troppi luoghi comuni che
s’addensano a proposito delle carceri e additando lo scandalo celebrato da Paolo: «Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia»
(Rm 5,20).
Gli accenni di Francesco al mondo delle carceri
È come una brusca scampanellata nel cuore della notte. Da lì – da
quell’arresto atteso, sospettato o improvviso – ha inizio qualsiasi avventura dentro il mondo delle carceri.
562
7-8 Luglio 2014
Così scriveva Solzenicyn nella sua monumentale opera Arcipelago
Gulag. Tutto ciò che verrà dopo, altro non sarà che «la lunga coda
di una vita sconvolta e svuotata», per chi vi è incappato e per coloro
che, per contraccolpo, avvertiranno le ripercussioni nel loro quotidiano. Alla sorpresa dell’arresto, Francesco propone e contrappone
la sorpresa della Grazia, quella che a guardarla da fuori non sempre è
comprensibile: «Lasciarsi sorprendere da Dio»5. Il tempo della disgrazia, dunque, come possibile preludio al tempo della Grazia6. L’errore
come pietra d’inciampo ma anche occasione di una presa di posizione:
il risultato finale dipende dal come questa esperienza verrà vissuta. Che
cos’è infatti la conversione se non un tentativo di re-immaginarsi l’esistenza, rielaborando l’errore e talvolta l’orrore alla luce della Grazia?
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha richiamato
spesso le istituzioni politiche al loro dovere di salvaguardia della dignità dell’uomo carcerato; l’Unione Europea ha richiamato l’Italia per il
trattamento riservato ai suoi detenuti; le ricerche posizionano l’Italia
al penultimo posto a livello europeo, appena sopra la Serbia, per le
condizioni dei suoi luoghi di detenzione. Il tutto pur essendo la patria
di Pietro Verri e di Cesare Beccaria, pur avendo una delle Costituzioni
più illuminate del mondo. Il carcere, insomma, appare come un universo dolente e sommerso, caratterizzato dalla povertà dei percorsi di
riabilitazione. In questo contesto lo sguardo e la voce di papa Francesco
non appaiono come un qualcosa d’improvviso e d’inatteso ma si pongono fedelmente nella scia di alcuni documenti e gesti dei suoi predecessori7. Due tra tutti: Angelo Roncalli – San Giovanni XXIII – il 26
dicembre 1958 varcò per la prima volta la soglia del carcere romano di
Regina Coeli, appena ventiquattr’ore dopo aver portato la sua carezza
ai piccoli ricoverati al Bambin Gesù. San Giovanni Paolo II, in occasione del Giubileo del 2000, parlando ai detenuti del medesimo carcere chiese coraggiosamente un gesto di clemenza, ribadito poi nello
storico discorso alla Camera dei deputati: «Senza compromettere la
necessaria tutela della sicurezza dei cittadini, merita attenzione la situa563
Una periferia difficile
Occorre dire che è lo scompiglio di tutta la vostra vita? Che è un vero fulmine
che si abbatte su di voi? Che è uno sconvolgimento spirituale inimmaginabile
al quale non tutti possono assuefarsi e che spesso fa scivolare nella follia?
[…]. L’arresto è un istantaneo, sbalorditivo gettarvi, precipitarvi, trapiantarvi
da una condizione in un’altra4.
Marco Pozza
La Rivista del Clero Italiano
zione delle carceri, nelle quali i detenuti vivono spesso in condizioni di
penoso sovraffollamento». Fu questa la richiesta d’aiuto che espresse,
prospettando quel di più che potrebbe accadere nel cuore dei reclusi: «Un segno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della
pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non
mancherebbe di stimolarne l’impegno di personale recupero in vista di
un positivo reinserimento nella società»8. C’è una pena da scontare e
che mira essa stessa, almeno nelle intenzioni, a recuperare l’umano e il
sociale del detenuto; ma c’è anche un’attenzione particolare nel salvaguardare la dignità di chi nella vita ha deragliato.
L’incipit di Francesco fu in perfetta periferia, dietro le sbarre del
carcere romano di Casal del Marmo (Roma), come sopra ricordavo.
Sorpresi da quel gesto così inaspettato e cordiale, nella prossimità di
quella Pasqua i detenuti percepirono d’essere da subito nel cuore di
questo papa ch’era appena giunto dalle periferie del mondo per essere
voce di chi non ha più voce alcuna dentro la trama del quotidiano.
Uno sguardo di preferenza che Francesco ribadì durante un’udienza del mercoledì in Piazza San Pietro dove, parlando della Chiesa
come Madre, diede luce e voce ad una delle immagini più struggenti
che s’accendono nelle galere, quella delle madri dei detenuti: «Una
mamma sa ‘metterci la faccia’ per i propri figli, è spinta a difenderli, sempre. Penso alle mamme che soffrono per i figli in carcere o in
situazioni difficili: non si domandano se siano colpevoli o no, continuano ad amarli e spesso subiscono umiliazioni, ma non hanno paura,
non smettono di donarsi»9. L’entrare nelle notti senza più speranza,
quel cercare a tentoni i figli smarriti nei baratri di dipendenze e chimere, quell’ostinato inseguire l’uomo laddove è andato perdendosi è
l’alfabeto dell’amore tipico delle madri. Che – sembra suggerire papa
Francesco – è possibile comprendere solamente se si riscopre quella
maternità faticosa e sin quasi insopportabile d’essere madri di figli
dalle biografie difficili. Come quelle dei detenuti, per l’appunto, dove
i fili del bene s’intrecciano inevitabilmente con i fili del male, complicandone la decifrazione.
Un’attenzione verso le carceri che si è poi tradotta in un incontro,
quello tra il papa e i sacerdoti che lavorano all’interno degli istituti di pena. In quell’udienza semplice e densa di sorpresa, Francesco
parlò attraverso un’immagine che trafisse il cuore del popolo recluso, che non esitò ad aggrapparvisi per non soffocare di disperazione:
564
«Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna – furono
le parole di Francesco. Lui è lì, piange con loro, lavora con loro, spera
con loro; il suo amore paterno e materno arriva dappertutto. Prego
perché ciascuno apra il cuore a questo amore»10.
L’attenzione di Francesco verso questo mondo sommerso sembra
mostrare un’innata convinzione: che la giustizia – come rifletteva Paul
Ricoeur – non sia uno scarno ‘pagare un conto’ ma abbia piuttosto i
connotati dello ‘sciogliere dei nodi’. Sul patibolo degli infami, al termine di un’esistenza implosa in se stessa, al ladrone non fu concesso
di scegliere come vivere ma di fronte all’Amore poté decidere come
morire: da sgraziato o da graziato. Padrone del suo tempo e costruttore della sua storia, in punto di morte intuì che nella sorpresa di quello
sguardo si celava la grande svolta della sua esistenza: e la colse appieno, mostrando d’essere nato per il Cielo (Lc 23,32-43). Cosa fece in
quel caso Gesù se non ricordare a quell’uomo fiaccato dalla sua stessa
storia d’essere ancora capace d’Infinito?
Questo, però, non elimina la responsabilità personale e il papa
mostra di saperlo bene: la Grazia non è a basso prezzo11. Chi opera all’interno degli istituti penitenziari conosce la stranezza di questa
forma di povertà, che rischia di fare scordare la doppia direzionalità
di quelle storie. Il rischio è alto: fuori sono tutti delinquenti, dentro
sono tutti dei poveri. Le responsabilità rimangono, gli atti compiuti pure, la fatica dell’accettazione anche. Ciò che Francesco invita a
fare è portare dentro il di più del Vangelo: quel perdono gratuito e
incondizionato di Cristo che non cancella la pena, ma le offre la possibilità di una prospettiva diversa. Come accadeva in coloro che s’imbattevano nel Nazareno: «Le risposte che dava erano parole inattese.
Semplicemente, non riferendosi solo al passato, Gesù apre gli occhi
delle persone su una nuova dimensione. Le induce ad un’ampiezza di
orizzonti prima sconosciuta»12. Il Vangelo offre un’apertura sorprendente sul futuro, permettendo una nuova lettura anche della propria
esecuzione della pena.
L’ordo iustitiae e l’ordo amoris
Rimane un caposaldo della riflessione sulla giustizia la celebre espressione attribuita ad Ulpiano, giurista del III secolo: «Unicuique suum
tribuere» («Dare a ciascuno il suo»). È da precisare cosa significhi
565
Una periferia difficile
7-8 Luglio 2014
La Rivista del Clero Italiano
quell’aggettivo possessivo. C’è solo un’esigenza materiale o si nasconde anche un di più dell’anima, del cuore, finanche della speranza?
«Non lasciatevi rubare la speranza, non lasciatevi rubare la speranza!
Capito?» – è stato il saluto finale di papa Francesco ai giovani detenuti
di Casal del Marmo. Come dunque armonizzare la punizione con la
speranza?
Il cristianesimo afferma un di più: cerca di ricomporre l’ordo iustitiae con l’ordo amoris, mostrando come entrambi i termini si compenetrino vicendevolmente: «La misericordia senza giustizia è madre
della dissoluzione […] la giustizia senza misericordia è crudeltà»13
scriveva san Tommaso d’Aquino. Nel Vangelo l’uomo misericordioso
è innanzitutto l’uomo giusto, colui che avverte in sé quella fame e
sete della giustizia celebrata nelle Beatitudini: «Beati quelli che hanno
fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6). La giustizia divina – letta come sintesi di giustizia e amore – non annulla la
giustizia umana ma tende a trascenderla. Fino a compierla nell’amore.
Sembra questa la radice dell’attenzione di Francesco verso il mondo della reclusione: non basta parlare di giustizia giusta, di certezza
della pena, di rigetto della vendetta: sono slogan che mettono in disparte la compassione, la pietà, forse anche il perdono. È necessario
reimmettere dei contenuti in questi concetti, tentare di riappropriarsi
di una misura, di un senso e di un significato sin dentro le mura di una
cella. Un riappropriarsi del tempo: esiste un prima in cui si commette
un reato, esiste un mentre in cui poter prendere consapevolezza dei
propri atti e riprendersi la vita, esiste un dopo nel quale s’apriranno le
porte delle carceri e c’imbatteremo in uomini che, se vorremo recuperati, dovremmo incontrare prima, nel segreto delle celle: il dopo è
inevitabilmente legato a un mentre solidale e costruttivo.
Marco Pozza
La risposta dei detenuti alla voce di Francesco
La risposta dei detenuti alla voce di Francesco non s’è fatta attendere a lungo. I sacerdoti che abitano il mondo delle carceri possono
constatare l’aumento della partecipazione alla vita sacramentale dopo
l’elezione di papa Francesco. Una partecipazione che è forse la conseguenza di una dichiarazione: «Io ho una certezza dogmatica: Dio
è nella vita di ogni persona. Anche se la vita di una persona è stata
un disastro, se è stata distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque
566
7-8 Luglio 2014
L’invito pressante e incessante di Francesco è quello di abitare le periferie dell’umano, laddove l’uomo s’affatica nel ricercare il significato
della sua esistenza.
Pastoralmente l’immagine della periferia funge da richiamo a una
nuova presenza cristiana dentro la storia: la prossimità all’umano nel
mentre esso versa in una situazione di emergenza. È l’avventura raccontata dalla Scrittura stessa, laddove i momenti di maggiore difficoltà
esistenziale – la dimensione dell’esilio, il tempo del deserto, l’andare
del Nazareno verso Gerusalemme – divengono il momento favorevole, l’occasione propizia per una purificazione dell’immagine stessa di
Dio, di se stessi, dell’intera storia della salvezza. Costretto dalle circostanze e pressato dall’esigenza della conversione, è facendo esperienza
del limite e dell’errore che nell’uomo s’affaccia la possibilità di una
guarigione del suo immaginare se stesso all’interno del mondo.
L’eco della freschezza evangelica che Francesco sta diffondendo
dentro il grigiore del mondo della detenzione, ci spinge ancora oltre.
Di Dio e dei suoi misteri si è spesso amato parlare come di ciò che
sta all’origine; quando, invece, Dio intesse rapporti con il presente
567
Una periferia difficile
altra cosa, Dio è nella sua vita»14. Anticipata da quell’altra confidenza
condivisa pochi giorni dopo la sua elezione: «Dio mai si stanca di
perdonarci, il problema è che noi ci stanchiamo di chiedere di perdono – sono le parole di Francesco nel suo primo Angelus – non ci
dobbiamo stancare mai, Lui è il padre amoroso che sempre perdona,
che ha misericordia per tutti noi». Vivere la liturgia e i sacramenti,
in particolar modo l’eucaristia domenicale, diviene per taluni di essi
l’occasione di rendere presente nella loro vita la verità di loro stessi,
facendo rinascere il bene anche dalla terra del male nella quale si è
giocata una parte della propria esistenza. Un riappropriarsi della trama magari sfilacciata della propria storia con Dio – o per taluni un
iniziare a tessere la loro storia con Dio – per giungere a ritrovare se
stessi e gli altri. Dentro le carceri, la vita sacramentale mostra dunque
i lineamenti di un apprendistato alla vera giustizia con se stessi, che
non è tanto quella di pagare un conto bensì quella di sciogliere dei
nodi nella propria storia: quasi un riscoprire quel valore medicinale
di alcuni sacramenti, laddove l’indegnità del cuore – «O Signore, non
son degno di partecipare alla tua mensa. Ma dì soltanto una parola e
io sarò salvato» – si cura coltivando fedelmente la propria vita di fede.
La Rivista del Clero Italiano
dell’uomo fino a diventare possibilità d’immaginare un futuro diverso. Dio non è solo questione di ragione, ma innanzitutto di affetto. È
questo il guadagno della presenza cristiana dentro le carceri: aiutare
l’errante a meditare sul suo passato, iniziando a progettare il suo futuro. Il tutto nel tempo presente, della presenza, dell’oggi: nel tempo
di un incontro – quello con il Risorto – nel quale le pietre scartate
del proprio passato divengono le medesime pietre alle quali si rimette
mano per ricostruire la propria storia.
Marco Pozza
1
Francesco, Omelia del Santo Padre. Santa Messa del Crisma, 28 marzo 2013, www.
vatican.va.
2
Francesco, Omelia del Santo Padre. Santa Messa nella Cena del Signore, 28 marzo 2013,
www.vatican.va.
3
A. Spadaro, Intervista a Papa Francesco, «Civiltà Cattolica», 3 (2013), pp. 449-477.
4
A. Solzenicyn, Arcipelago Gulag, I, Milano 1975, p. 19.
5
Francesco, Omelia nella Basilica del Santuario di Nostra Signora di Aparecida, 24 luglio
2013, www.vatican.va.
6
Il carcere, da questa prospettiva, mostra di poter diventare un tempo favorevole
nella ricostruzione dell’uomo: è un luogo nel quale al grado minimo di libertà d’azione
può corrispondere il grado massimo di libertà d’immaginazione e, dunque, d’azione
interiore. Daria Galateria nel suo libro Scritti galeotti (Palermo 2012) – nel quale
ripercorre l’avventura di quarantatré scrittori finiti in cella per i motivi più svariati –
mostra come l’immaginazione, quand’è costretta, cresce e accresce il desiderio stesso.
7
Sono storicamente attestate molte visite dei papi alle carceri, visite che divenivano
l’occasione per chiedere un miglioramento delle vite dei prigionieri. Si attesta della
visita di Innocenzo X (1650), di Clemente IX (1704), di Leone XII (1824 e 1827), Pio
IX (26 ottobre 1868). Senza dimenticare il radiomessaggio che Pio XII ha dedicato a
tutti i carcerati del mondo nel Natale del 1951. La prima visita di un papa avvenuta
sotto l’occhio delle telecamere fu quella di Giovanni XXIII (Regina Coeli, 26 dicembre
1958). Seguiranno quelle di Paolo VI (Rebibbia, 9 aprile 1964), Giovanni Paolo
II (Rebibbia, 27 dicembre 1983 per incontrare Alì Agca e nel 2000 in occasione del
Giubileo), Benedetto XVI (Casal del Marmo, 18 marzo 2007 e Rebibbia il 18 dicembre
2011).
8
Giovanni Paolo II, Discorso di sua Santità Giovanni Paolo II, 14 novembre 2002, in
www.vatican.va.
9
Francesco, Udienza generale, 18 settembre 2013, www.vatican.va.
10
Francesco, Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti al convegno nazionale dei
cappellani delle carceri italiane, 23 ottobre 2013, www.vatican.va.
11
Un concetto espresso con limpidezza durante la visita in Brasile nell’estate del 2013:
«Sei protagonista della salita; questa è la condizione indispensabile! Troverai la mano
tesa di chi ti vuole aiutare, ma nessuno può fare la salita al tuo posto. Ma non siete
mai soli! La Chiesa e tante persone vi sono vicine. Guardate con fiducia davanti a
voi, la vostra è una traversata lunga e faticosa, ma guardate avanti» (Francesco, Visita
all’Ospedale Sao Francisco de Assis Na Providencia, 24 luglio 2013, in www.vatican.va)
12
M. Werlen, Fuoco sotto cenere, San Paolo, Milano 2013, p. 34.
13
Tommaso, In Matth. Evang., V, lect. 2, n. 249.
14
A. Spadaro, Intervista a Papa Francesco, p. 470.
568