Scout tre novità sulla vita comunitaria – Avvenire

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Domenica
17 Agosto 2014
Chiavi di lettura di una realtà giovanile
SCOUT, TRE NOVITÀ
SULLA VITA COMUNITARIA
www.avvenire.it
3
IDEE
I testi integrali delle omelie e dei discorsi pronunciati
dal Papa nel suo viaggio apostolico in Corea del Sud.
LE LEVATRICI D'EGITTO / 2
IL NOSTRO È UN DIO CHE ASCOLTA E "RICOMINCIA" LA CURA PER NOI
Il grido che ci fa ricchi
di Carla Collicelli
L’
attenzione riservata dai mass media agli
scout dell’Agesci in questo agosto 2014
rappresenta un evento inusuale per chi
segue la cronaca estiva delle
manifestazioni e dei raduni, incontri
sempre importanti e significativi per la comprensione del
clima e dei sentimenti diffusi nel Paese. Soprattutto chi
guarda con apprensione e speranza agli umori della
componente giovanile della società, e in particolare a
quelli dei gruppi giovanili di ambito cattolico, non può
non essere stato colpito dalla nuova visibilità tributata al
movimento scout nella stampa nazionale e nei principali
canali televisivi in occasione della Route nazionale di San
Rossore.
Non che lo scautismo cattolico non abbia già avuto modo
di guadagnare in passato stima e simpatie, per l’azione
educativa che svolge nei confronti delle fasce giovanili
dagli 8 anni in poi secondo un modello di formazione e
uno stile comunitario originali e completi. Dalle regole di
vita della legge scout alla capacità di orientarsi e muoversi
con rispetto e sicurezza nella natura; dalla organizzazione
in piccoli gruppi alla pratica del servizio a favore dei più
deboli; dalla espressione di sé attraverso il canto e la
recitazione alla spiritualità; dallo sviluppo delle
competenze individuali al cammino come scuola di vita.
Fino a oggi, però, quella stima e quella simpatia hanno
trovato riconoscimento in una cerchia relativamente
ristretta di ambienti sociali, mentre al di fuori di essi il
movimento scout viene spesso visto come una sorta di
curiosa anomalia, rispetto alle mode e alla "normalità"
della condizione giovanile nel sul complesso, un qualcosa
da guardare con ammirazione, ma anche con un po’ di
sospettoso distacco. Perché mentre il mondo sembra
andare inevitabilmente verso l’individualismo
consumistico, gli scout insegnano la comunità,
l’essenzialità, la governance partecipativa e ferma e il
valore della strada e del progresso per piccoli passi.
Mentre troppi giovani sviluppano un desiderio, per lo più
scomposto, di emozioni di facile e superficiale consumo,
gli scout insegnano la riflessione, l’impegno, la ricerca di
sé, la fraternità, la spiritualità. Mentre il mondo va verso
un intellettualismo sterile e verso la fuga nel virtuale, gli
scout insegnano la manualità, lo sforzo fisico, la vita nella
natura. Mentre tutto sembra spingere verso un
pessimismo cosmico, gli scout predicano l’ottimismo
della volontà. Mentre le generazioni si allontanano e la
trasmissione della vita e dei valori sembrano non
interessare più, gli scout parlano di scambio
intergenerazionale e di educazione attraverso l’esempio.
Sarebbe interessante, ma lungo e complesso, interrogarsi
sui motivi della nuova visibilità dello scautismo (la
numerosità dei partecipanti, la presenza del presidente
del Consiglio). Vale piuttosto la pena chiedersi cosa
possiamo aspettarci da questa nuova visibilità o cosa ci
auguriamo che avvenga. Le potenzialità dei media oggi
sono una realtà di fatto, ma non sempre la connessione
tra sociale vissuto e amplificazione da parte dei mezzi di
comunicazione di massa produce gli effetti desiderati,
come si deduce da ciò che è accaduto con i social network
e con alcuni recenti movimenti di espressione sociale e
politica (anti-nucleare, no-tav, ecologisti, popolo viola,
indignados ecc.).
Sarebbe davvero un bel risultato se la maggiore
comprensione del movimento scout, da parte di gruppi
sociali e persone che sinora poco lo hanno conosciuto,
desse vita a una riflessione meno scontata su tre aspetti
centrali per la vita comunitaria. Innanzitutto,
l’importanza del lavoro da effettuare su se stessi, e quella
dei cambiamenti che una educazione sana può facilitare
dall’interno nella persona umana, e il valore
dell’educazione a differenza di forme di movimentismo
strumentali alla conquista di posizioni di potere. In
secondo luogo, il valore della contaminazione con la
diversità, sia che si tratti degli emarginati, che dei
portatori di handicap o degli avversari politici. Infine il
significato della reciprocità, come volano per una forza
innovativa coraggiosa, quella che passa attraverso il
riconoscimento delle competenze come base per la
gestione di processi comunitari di sviluppo, da
contrapporre a molte delle consuetudini regressive in uso
delle organizzazioni del nostro tempo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
di Luigino Bruni
L
a prima preghiera che incontriamo nella Bibbia
è un grido, un urlo verso il cielo che si alza da
un popolo oppresso. Per fare l’esperienza della
liberazione occorre prima aver sentito il
bisogno di essere liberati, e poi gridare,
credendo o sperando che di là, o Lassù, ci sia qualcuno a
raccogliere quel grido. Se invece non ci sentiamo
oppressi da nessun faraone, o se abbiamo perso la
speranza che qualcuno ascolti il nostro grido, non
abbiamo ragioni per gridare e non siamo liberati.
Mosè inizia la sua vita pubblica uccidendo un uomo: «Un
giorno Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e
notò i loro lavori forzati. Vide un Egiziano che colpiva un
Ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che
non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo sotterrò
nella sabbia» (Esodo 2,11-12). Mosè, l’annunciatore della
Legge «non uccidere», diventa assassino. In questo incipit
della storia di Mosè, misterioso e per noi un po’
sconcertante, ritorna una delle leggi più profonde della
Bibbia. I patriarchi e i profeti biblici non sono eroi né
modelli di virtù. Ci si mostrano come donne e uomini
tutti interi, talmente umani da includere nel loro
repertorio persino il gesto omicida di Caino. È sulla loro
umanità a tutto tondo che arrivano le loro immense
vocazioni, che iniziano e terminano le loro grandi
esperienze spirituali e sempre umane. Solo se prendiamo
su di noi la loro umanità tutta intera, può accadere che le
loro storie di salvezza diventino anche le nostre, nostre le
loro speranze e le loro liberazioni.
gola, non si grida più, e il nongrido è il primo segno che in
noi è morta la fede-speranza in
quel rapporto.
Le persone, le comunità,
popoli interi, hanno imparato a
pregare gridando. Si scopre che
il cielo non è vuoto quando lo
chiamiamo forte chiedendo,
implorando, che ci ascolti.
Quando esauriti gli sguardi
laterali e frontali,
all’improvviso e con stupore
Salmo 44
senti che te ne resta ancora
uno: lo sguardo si alza verso il cielo, occhi e voce assieme.
E inizia il tempo della preghiera vera.
Svégliati! Perché dormi, Signore?
Dèstati, non respingerci per sempre!
Perché nascondi il tuo volto, dimentichi
la nostra miseria e oppressione?
La nostra gola è immersa nella polvere, il nostro
ventre è incollato al suolo.
Àlzati!
Giovanna, dimenticando il suo patto matrimoniale, è
uscita di casa e non è tornata. Possiamo e dobbiamo
gridare quando Franco, con cui avevamo coltivato e
costruito il sogno di una cooperativa con e per i poveri,
ha seguito i miraggi dei molti guadagni, e ci ha lasciati.
Possiamo e dobbiamo gridare quando chi abbiamo
mandato in Parlamento e nelle Amministrazioni
pubbliche dimentica il patto politico per il Bene comune
e lascia i poveri morire sotto l’oppressione degli
imperatori dell’azzardo o delle armi.
Quando un’alleanza si spezza e, senza colpa, finiamo ai
lavori forzati sotto gli imperi, la prima cosa che
dobbiamo fare è gridare, urlare. Queste grida che salgono
verso chi si è dimenticato della sua alleanza con noi, sono
il primo passo di una possibile riconciliazione, perché
dicono a noi e agli altri che siamo coscienti di trovarci
D
opo quell’omicidio, Mosè ha paura e fugge
dall’Egitto, e arriva nella terra di Madian come
straniero (2,15). Gli anni che Mosè trascorre dai madianiti
separato dal suo popolo, sono anche l’immagine
dell’eclisse di Dio che Israele sta vivendo in Egitto.
L’oppressione del popolo, le levatrici d’Egitto, Mosè
salvato dalle donne e dalle acque, si svolgono dentro un
orizzonte di silenzio di Dio, in una notte dell’Alleanza.
Dio in Egitto tace, come se avesse dimenticato la sua
Alleanza. La promessa si è abbuiata, il popolo
dell’Alleanza è oppresso e schiavo in una terra straniera.
Ma il popolo oppresso riesce a trovare la forza per
gridare, e sarà il suo urlo a porre fine a questa notte: «Gli
Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di
lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Dio
ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza
con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la
condizione degli Israeliti, Dio se ne prese cura» (2,24-25).
Fino a questo grido, nella preistoria e storia di Israele
abbiamo incontrato steli, altari e sacrifici che i patriarchi
hanno alzato verso il cielo per ringraziare. Ma per trovare
la prima preghiera siamo dovuti scendere in Egitto, e
arrivare fino ai campi di lavoro forzato. Da lì si è alzata
verso il cielo la prima preghiera d’Israele, che fu urlo
collettivo di un intero popolo schiavo. E come quando
Dio udì nel deserto il pianto del bambino di Agar (Gen
21,17), anche ora ascolta un pianto-preghiera di
oppressi. E risponde. Il Dio biblico non è il dio dei
filosofi: YWHW si commuove, si dimentica, si indigna, ha
orecchie per poter ascoltare il grido dell’oppresso; si
ricorda, si prende cura.
I
n questo grido che sale e che trova ascolto si nasconde
allora qualcosa di prezioso. Se anche Dio può
"dimenticarsi" del patto, e se le grida del popolo oppresso
sono riuscite a fargli ricordare le promesse fatte, allora
gridare è molto importante. È importante sempre, ma è
essenziale quando si eclissa un patto e siamo
abbandonati da chi aveva stabilito con noi un’alleanza,
quando siamo lasciati da qualcuno con cui ci eravamo
fatti delle promesse. Se le urla di dolore dei poveri fecero
terminare il silenzio del cielo e poi aprirono il mare, allora
anche noi possiamo e dobbiamo gridare quando chi è
legato a noi da un patto di reciprocità ci dimentica e ci
lascia schiavi in Egitto.
Se Dio si dimenticò del suo patto e il grido del povero
glielo ricordò, allora Marco può, deve, gridare quando
C
i sono tanti patti che muoiono e non risorgono
perché qualcuno non vuole o non riesce ad ascoltare
il nostro grido di dolore. Gridiamo, urliamo, e nessuno
risponde. Di questi non-ascolti delle nostre grida è piena
la terra. Ma ci sono altri patti che non vengono risanati
perché non riusciamo a gridare. Non ci riusciamo per
mancanza di fede-fiducia in quel patto spezzato, per
orgoglio, o per il troppo dolore che ci ha tolto il fiato. Non
avendo gridato, nessuno l’ha ascoltato, il liberatore non è
arrivato per mancanza del grido di dolore. E così non
sapremo mai se dall’altra parte c’era invece qualcuno che
non aspettava altro che udire il nostro grido per
ricominciare, e che magari continua ancora ad
attenderlo. Non riusciamo a
curare i nostri patti spezzati se
perdiamo la fede che chi ci ha
abbandonato (o che sembra
averlo fatto) può ancora
ascoltare il nostro grido,
commuoversi, e forse
ricominciare. C’è poi anche chi è
certo che l’altro non ascolterà e
non risponderà, ma grida
ugualmente; e non è raro che la
fede-fiducia torni dopo questo
grido disperato. Gridare può
essere un canto d’amore, anche
quando è una preghieradisperata.
I
poveri continuano a soffrire.
Qualche volta riescono a
gridare, ogni tanto qualcuno
Sandro Botticelli, «Prove di Mosè» (1481-1482), affresco della Cappella Sistina
raccoglie il loro grido, e arrivano
le liberazioni. Per essere liberati
e fare l’esperienza della liberazione, occorre però essere
poveri, sentire qualche forma di indigenza. Anche se
Per fare l'esperienza della liberazione occorre può apparire paradossale a chi della vita conosce
il lato dei consumi e dei piaceri, l’assenza di
prima aver sentito il bisogno di essere liberati, soltanto
grida può essere una grave forma di povertà. I ricchi e i
e poi gridare, credendo o sperando che di là, o potenti non gridano, e così non possono essere liberati:
schiavi nelle loro opulenze, e non fanno
Lassù, ci sia qualcuno ad ascoltare. I lavori e i restano
l’esperienza della liberazione, che è tra le più grandi e
non-lavori forzati continuano a crescere, ma
sublimi che la terra conosca. La grande indigenza della
società è indigenza di liberazioni, perché le
dai nostri campi di lavoro non si lanciano grida nostra
ricchezze fittizie di merci ci stanno convincendo di non
verso il cielo. La grande povertà è oggi
aver più bisogno di essere liberati. Siamo schiavi in altri
lavori forzati, ma le nuove ideologie dei nuovi faraoni
indigenza di liberazioni, perché le ricchezze
riescono a non farci sentire il bisogno di liberazione.
fittizie di merci ci stanno convincendo di non
Non c’è schiavitù più grave di chi non avverte la propria
condizione di schiavo. È una schiavitù peggiore di quella
aver più bisogno di essere liberati
di chi, sentendosi oppresso, non grida più perché crede
che nessuno lo potrà ascoltare e liberare (che pur sono
abbondanti nelle nostre città mute). Oggi i popoli più
poveri sono quelli opulenti che non gridando non
ingiustamente in Egitto, che soffriamo e vogliamo uscire
vedono o non riconoscono Mosè, e non assistono al
da quella schiavitù.
miracolo di un mare che si apre verso una terra dove
Gridare, però, non è sempre facile. La prima condizione
«scorre latte e miele».
per poter gridare è credere che chi ci ha abbandonato
I lavori e i non-lavori forzati continuano a crescere nel
può essere raggiunto dal nostro dolore, commuoversi per
mondo, ma dai nostri campi di lavoro non si elevano più
il nostro pianto, ricordarsi del patto e voler continuare
grida verso il cielo. È solo tornando indigenti di
l’alleanza. Si grida quando si crede che l’altro ci può
liberazioni che ritroveremo la forza di gridare insieme,
ancora ascoltare, e può ricominciare. Il popolo ebraico
vedremo arrivare nuovi Mosè, e ci metteremo in
gridò perché credeva ancora nell’Alleanza e nella
cammino per attraversare il mare.
promessa, e credeva che il cielo verso cui gridare non
fosse vuoto. Quando, invece, si perde la fede-speranza
[email protected]
che ricominciare è ancora possibile, il grido si spegne in
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Tra nascondino e bici, così imparavamo l’arte della concertazione
estate
vintage
di Umberto Folena
C’
erano estati in cui appena
possibile si giocava in compagnia. Fuori casa. Ma anche dentro, se la pioggia martellava boschi
e prati. E ogni gioco celava una sua
Weltanschauung; o, per dirla semplice alla Tex Willer, «da che parte
stai?». Ebbene, i giochi di quelle estati educavano alla democrazia e
alla libertà. Noi non lo sapevamo,
gli adulti non ci pensavano, oggi
molti sorrideranno ma è così. Perché la lezione democratica sta "den-
tro" il gioco, nella sua struttura.
Nascondino, per esempio. Se giocassero dei finanzieri o dei broker, a "stare sotto" sarebbe il più povero o il più
debole, che in genere coincidono.
Non solo l’ultimo, ma chiunque "libera tutti". E se chi "sta sotto" è troppo abile, basta legargli tra loro i lacci
delle scarpe: insondabili regole del
mercato, presumibilmente. I ragazzi
di quelle estati, invece, per decretare
chi stava sotto facevano la conta.
Quella delle tre civette sul comò era
un capolavoro dadaista. Nessuno si
chiedeva che cosa ci facessero quelle
tre civette che sul comò insidiavano
la virtù della figlia del dottore; la filastrocca suonava bene e tanto bastava. Neorealistica era invece quella del
vecchio contadino che suonava la chitarra sotto la cappa del camino. E poi
ci si nascondeva, e si veniva pescati,
e alla fine si tifava per l’ultimo rimasto libero, che poteva liberare tutti
condannando chi stava sotto a star
sotto un’altra volta, cosa peraltro divertente assai. L’ultimo poteva salvare tutti, simpatici e antipatici; era il liberatore; e se un ragazzo sentiva il bisogno di interrompere il gioco, gridava «bando!» e tutti si fermavano, nessuno si sognava di non rispettare la
tregua. Nascondino era una lezione
di diplomazia.
Poteva poi capitare che due amici avessero a disposizione una sola bicicletta e un solo gioco del 15 (la tavoletta con 16 spazi e 15 tessere da met-
tere in ordine, facendole scorrere con
il pollice). Tutti e due volevano innanzitutto andare in bici e poi anche
giocare al 15. Che fare? Secondo la
logica liberticida e prevaricatrice, il
più grosso e prepotente avrebbe dovuto dare uno spintone al più mite e
mingherlino e tenersi sia la bici sia il
15; invece i ragazzini arguti di quelle estati prendevano questa salomonica decisione. Uno fa il gioco del 15
mentre l’altro va in bici; appena il primo risolve il 15, si cambia. E il più abile al 15 va di più in bici. Un raffinatissimo esercizio di concertazione
democratica.
Ci furono estati in cui il Corriere dei
piccoli allegava straordinari giochi da
tavola, da incollare su cartoncino e ri-
tagliare. Erano belli e insegnavano
storia e tradizioni popolari. C’è chi ha
consumato fregate e vascelli nella ricostruzione della battaglia navale di
Trafalgar, inglesi di qua, francesi e
spagnoli di là, un dado e vai con le
bordate, secondo le stesse identiche
regole del Risiko, ma mezzo secolo fa.
Potevi vogare per far vincere la tua Repubblica marinara alla regata storica.
Costruire un vero stadio olimpico e
diventare un mezzofondista o un giavellottista ai Giochi di Tokyo. O correre
il Palio di Siena con l’Istrice o l’Oca, in
una ricostruzione tanto realistica da
far vincere perfino un cavallo scosso.
Fuori intanto pioveva e non vedevi
l’ora che smettesse perché avevi le tue
Colt 45 belle calde e una banda di A-
pache mescaleros stava per dare
l’assalto al cortile davanti a casa tua,
dove le cinque automobili parcheggiate erano barricate dietro le quali
organizzare una strenua, eroica resistenza. Bisognava sbaragliare quei
rinnegati in fretta perché alle 17.30
davano Rin Tin Tin e l’unico televisore nel paese di F., sopra Rovereto,
era al bar Da John. E così imparavi
pure dove ficcare la acca dentro il
nome John, perché quelle erano estati democratiche, ma pure alfabetizzate. I compiti delle vacanze? Li
facevi con i giochi da tavolo del Corrierino e andando all’unico bar dotato di televisore a canale nazionale. Yuhuuu, Rinty!
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