the human software the human software volume stampato in occasione di il software umano M. Pessione, R. Piaggio, G. Ricuperati............... 3 Scrittura e Architettura intervista a Rem Koolhaas.............................................. 5 Una disciplina sola non può affrontare le sfide del presente TheHuman Software TORINO 27 settembre 2012 Museo Regionale di Scienze Naturali via G. Giolitti 36 Jazz Club Torino via G. Giolitti 30 Produzione culturale e imprese Evento organizzato dalla Società Consortile OGR - CRT nell’ambito della Social Media Week 2012 e del progetto europeo CCAlps Abbiamo una mèta PROGRAMMA: La forma architettonica di un hub delle culture contemporanee L’Opera quasi Totale Nuove narrazioni fra tecnologia, arte e architettura CON Ute Meta Bauer................................................................ 9 Matteo Pessione............................................................ 11 Riccardo Piaggio.......................................................... 13 Joseph Grima.................................................................. 15 Multidisciplinare, Culturale, Commerciale Carlo Antonelli............................................................ 17 Il tempio della sinestesia Marco Rainò.................................................................... 19 l’esperienza interdisciplinare di minimum fax Daniele di Gennaro..................................................... 21 L’uomo è multidisciplinare Alberto Pagliarino...................................................... 23 Ute Meta Bauer, Joseph Grima, Mafe De Baggis, Luca Mastrantonio e Gianluigi Ricuperati La produzione partecipata Scenari e opportunità tra industrie creative e consumatori CON Daniele di Gennaro, Carlo Cresto Dina, Massimiliano Tarantino, Alberto Pagliarino e Riccardo Piaggio Per un hub della cultura e dell’innovazione a Torino CON Altri saperi, altri giornali Massimo Lapucci, Roberto Moriondo e Matteo Pessione Menti selvagge proprio sotto casa Esiste il Software Umano? CON Luca Mastrantonio........................................................ 25 Gianluigi Ricuperati.................................................. 27 I giovani d’oggi (e di domani) non hanno più discipline Max Casacci.................................................................... 29 PARLARE PERCHÈ ASCOLTINO ASCOLTARE PERCHè PARLINO Carlo Cresto-Dina........................................................ 31 1 Carlo Antonelli Performance Il tempo è un bastardo A visit from the goon squad CON Licia Maglietta, Max Casacci, Vaghe Stelle, Jennifer Egan e Peter Saville 2 the human software the human software il software umano Matteo Pessione Riccardo Piaggio Gianluigi Ricuperati Perchè vogliamo immaginare un hub dell’innovazione e della conoscenza multidisciplinare? Perchè crediamo che sia giusto e conveniente - giusto da tutti i punti di vista e conveniente da tutti i punti di vista - puntare sulla qualità delle persone migliori, sulla qualità delle idee migliori, e dare loro forza, e farle crescere. Il software umano è l’unico programma che va perseguito prima degli altri, e a sostegno di qualsiasi altro. Perché vogliamo un luogo di altissima qualità e massima permeabilità sociale e intellettuale, capace di diventare un’antenna locale, italiana, ed internazionale. E la vogliamo nel segno della piena sostenibilità economica, dell’apertura al mercato e nel contempo della totale devozione al vero fulcro del nostro progetto: la compenetrazione totale dei linguaggi. Perché non esiste un’istituzione culturale del genere al mondo. Perché il nostro paese, e la nostra città in particolare, ha necessità di scommettere tutto sui processi della conoscenza – come motore di rigenerazione sociale, spirituale ed economica. Perché per vincere le scommesse di un tempo complesso è necessario inventare nuovi formati per la produzione di conoscenza. Immaginate questo piccolo libro come un programma di sala per una giornata di produzione di conoscenza pubblica. 3 Un quaderno di lavoro nel quale alcune tra le menti più interessanti del paese - e non solo - immaginano un nuovo modo di costruire e sostenere il dialogo tra le discipline, che è già in questo momento lo stemma che presiede ai tentativi più seri di rendere conto di un frangente storico difficilissimo ed eccitante. Ci sono visioni, ragionamenti, proposte, racconti, punti di vista - tutto quel che serve a realizzare un progetto che soddisfi le esigenze del vecchio acronimo pensato tanti anni fa da Raymond Loewy: m.a.y.a., most advanced yet accessible. Ossia - estremamente avanzato, completamente accessibile. Buona lettura. 4 the human software the human software Scrittura e Architettura Intervista a Rem Koolhaas Gianluigi Ricuperati di Una conversazione con Rem Koolhaas su due discipline a confronto Cagliari maggio 2007 I primi passi di Rem Koolhaas verso la scrittura sono legati al giornalismo. Credo che scrivere sui giornali per una persona curiosa di tutto costituisca un piacere e una dannazione allo stesso tempo, perché se da un lato il giornalismo è il mestiere per eccellenza delle persone curiose, dall’altro i giornali tendono a rivolgersi a fasce di pubblico molto specifiche. E uno scrittore curioso di tutto ha bisogno di lettori curiosi di tutto. A lei piaceva scrivere sui giornali? R.K.: Quando ho iniziato, negli anni Sessanta, non c’erano vere e proprie regole professionali nel giornalismo; chiunque poteva farlo, soprattutto in Olanda, dove vivevo e facevo parte di una sorta di “collettivo”, più che di un giornale, che però ha funzionato come trampolino di lancio per un gran numero di scrittori, poeti e anche pittori della nostra generazione. Era una situazione piuttosto insolita perché il caporedattore era una donna, una persona di destra molto irascibile ma anche molto spiritosa, che credeva di essere un capitano d’industria, e che però riusciva a garantire ai suoi autori la massima libertà. Potevo fare quello che volevo e visto che mi interessava il cinema avevo deciso di intervistare Fellini e altri registi italiani, ma anche alcuni architetti come Le Corbusier e Constant. L’unica cosa che il nostro caporedattore pretendeva era che gli articoli non fossero firmati, un’esperienza fondamentale 5 per la mia scrittura, di cui ancora sento nostalgia. Infatti, successivamente, ricordo di aver scritto Delirious New York quasi come un ghostwriter con una sorta di voce anonima che apprezzavo moltissimo. Tuttavia dopo un po’ di tempo lei mi chiese di occuparmi anche del layout della rivista, quindi di curare sia i contenuti sia la parte estetica, e credo sia stata questa combinazione a suggerirmi l’idea di connettere fra loro arte, scrittura e architettura. Ho spesso avuto l’impressione, confortata da ciò che mi ha appena detto a proposito del ghostwriter, che nella sua scrittura manchi uno dei grandi luoghi comuni nelle scuole di scrittura, oltre che un elemento ricorrente in molte teorie narratologiche: il punto di vista. Questo ovviamente non è una critica, quanto piuttosto il riconoscimento di una peculiarità, come se la voce narrante Koolhaas, anziché scrivere, venisse scritta. Ecco perché mi viene da chiedere: quando un architetto concepisce uno spazio o un paesaggio, pensa al problema del “punto di vista”? R.K.: Uno degli aspetti più piacevoli del mio lavoro è la possibilità di operare in due discipline diverse. Chi scrive può scegliere fra una vasta gamma di generi letterari, a differenza di quanto avviene in architettura dove non c’è la stessa ricchezza di repertorio, o per meglio dire c’è, ma non ci si rende conto di averla. Il mio coinvolgimento con la letteratura è dovuto al fatto che posso assumere identità diverse, e chiunque abbia un background letterario sarà in grado di comprendere che se scrivo Junkspace non sono volutamente la stessa persona che scrive, per esempio, di Singapore. In architettura invece la reazione tipica potrebbe essere: è cambiato, non lo riconosco più. Credo però che, per trasmettere un messaggio con il maggior impatto possibile, la possibilità di scegliere voci differenti sia una libertà preziosa. 6 the human software Ho la sensazione che in alcuni dei suoi scritti Rem Kolhaas sia il ghostwriter di una moltitudine, e che questa moltitudine coincida con una sorta di sistema di interconnessioni nervose dell’identità contemporanea, di una contemporaneità allargata, che sfuma già nella Storia. Ha anche lei ha la stessa sensazione? R.K.: È una faccenda complicata, e naturalmente ha a che fare con la scrittura e con l’architettura. Prima di cominciare a lavorare su New York mi sono reso conto che in architettura esiste sì l’anonimato, ma l’architettura a cui siamo interessati come collettività non è un’architettura anonima, e quindi in un certo senso è legata all’avanguardia. Negli anni Settanta, quando cominciai a farmi un’idea di cosa fosse l’architettura, ancora prima di cominciare a studiarla davvero capii che ciò che realmente contava, in architettura, era la storia delle avanguardie in Germania, in Russia, in misura inferiore in Olanda, in Francia, persino in Cina: il paese dove esse parevano del tutto inesistenti era l’America. Mi sembrava inoltre evidente che i momenti cruciali dell’architettura moderna si fossero tradotti sia in edifici sia in manifesti scritti da menti geniali. L’idea del libro su New York era una specie di formula letteraria in cui in retrospettiva fornivo le prove di un movimento artistico che a mio parere non è meno importante di quello delle avanguardie. Nel corso di un intenso lavoro scoprii che c’erano state, per esempio, relazioni segrete fra le avanguardie sovietiche e americane. In un certo senso quindi l’idea era che il mio non fosse un manifesto, ma un costrutto letterario. Ripeto, non era inteso come scritto sull’architettura, ma piuttosto come una sorta di formula letteraria che permettesse manipolazioni. Uno dei generi che hai praticato è la sceneggiatura cinematografica, e so che negli anni Settanta lei si è 7 the human software cimentato con questo tipo di scrittura. Può raccontarci com’è andata? Ho cominciato a studiare a 26 anni, frequentavo una scuola molto costosa e dovevo guadagnarmi da vivere. Avevo un amico che faceva il regista, così iniziammo a scrivere sceneggiature. Il nostro primo lavoro si intitolava “White slave” ed è stato influenzato da Werner Fassbinder, i cui film sono molto interessanti perché trattano di temi quali la colpa, il piacere, il dramma, la storia, senza che lo spettatore ne percepisca l’estrema serietà. Anche il nostro era un melodramma sull’idealismo il cui protagonista principale era un tedesco buono. Quando lo facemmo, nel 1972, l’Olanda era molto reazionaria per quanto riguardava il perdono ai tedeschi e il film fu fonte di controversie così aspre che il regista dovette abbandonare il paese – io me ne ero già andato – e diventammo entrambi persona non grata. Il secondo film che scrivemmo, e che non fu mai realizzato, era per un regista americano, Russ Meyer, anch’egli autore di melodrammi e di film considerati allora pornografici. Fu scritto nel 1974, all’epoca della scoperta degli enormi giacimenti di petrolio in Medio Oriente, e per me continua ad avere una struttura molto interessante, perché si componeva di tre storie diverse. Rem Koolhaas Architetto olandese, ha progettato con il suo studio OMA alcuni degli edifici più importanti degli ultimi vent’anni, tra i quali la sede della televisione cinese CCTV 8 a Pechino; ha pubblicato alcuni saggi seminali come Delirious New York (1977), ed è considerato uno dei pensatori più rilevanti sui temi della condizione urbana. Vive tra Rotterdam e Londra. the human software Una disciplina sola non può affrontare le sfide del presente the human software C’è una domanda che ci si pone frequentemente in ambiente universitario, ma anche in tanti altri: come sfruttare e utilizzare le nuove forme di produzione e di distribuzione di informazione e di conoscenza, in modo efficace e solido, e duraturo. In altre parole, come sfruttare le nuove reti sociali per produrre conoscenza. La domanda è anche quale approccio seguire per armonizzare il dialogo di tutti i settori delle discipline culturali, come possiamo collaborare, come possiamo trovare accordi ma anche come possiamo essere in disaccordo per vivere in modo proficuo questa nuova dimensione sociale. Io, prima di diventare dean al Royal College of Art di Londra ho lavorato per anni al MIT di Boston e ho potuto assistere personalmente alla nascita di moltissime nuove discipline, la biochimica, le neuroscienze, sappiamo che oggi i problemi e le sfide non possono essere affrontati da una disciplina da sola. Pensiamo al fatto dell’architettura, se si parla di eco sostenibilità l’architettura deve necessariamente collaborare con l’ingegneria perché una disciplina sola non può affrontare le sfide del presente. Ed ecco perché è giusto creare uno spazio in cui ci possa essere una contaminazione tra diverse aree del pensiero. Al MIT di Boston si dà e si è sempre data molta importanza ai giovani, gli si aiuta a compiere i primi passi, ad avvicinarsi al mondo della produzione, a fornire ai giovani le infrastrutture e gli strumenti per passare dal mondo accademico al mondo poi della produzione. Immaginare istituzioni che esplorino il dialogo tra le discipline significa prima di tutto non replicare esperienze già fatte, a qualsiasi latitudine - bensì generarne di nuove, costruire esempi che possano essere di ispirazione per i propri contemporanei e per i posteri. Le nostre stesse biografie dimostrano il cambiamento che è avvenuto nel mondo delle idee e delle professioni intellettuali negli ultimi vent’anni. Io ho iniziato studiando design, poi sono stata curatrice e adesso sono insegnante universitaria. Quindi la biografia non è più una linea continua come poteva essere nel passato ma è invece una dimensione molto più completa e complicata e lo sarà sempre di più per le generazioni future. Ecco perché abbiamo veramente bisogno di un intenso dialogo tra discipline, di questo scambio, che sia uno spazio sperimentale, uno spazio che sia, come dicevamo, un laboratorio in cui le persone si possono incontrare e ci può essere una impollinazione, una in contaminazione reciproca di idee. Ute Meta Bauer Tedesca, ha co-diretto nel 2002 Documenta, l’appuntamento centrale dell’agenda dell’arte contemporanea globale, e ha insegnato per diversi anni al M.I.T. di Boston. Ute Meta Bauer 9 10 Da settembre è preside del Royal College of Arts di Londra, dove vive. Ha curato decine di mostre e suoi scritti sono apparsi in cataloghi e riviste in tutto il mondo. the human software the human software Produzione culturale e imprese Matteo Pessione I network multidisciplinari per l’innovazione e la crescita economica europea In una fase di perdurante crisi dell’economica e dei modelli che finora ne hanno indirizzato le politiche, diventa fondamentale individuare percorsi di innovazione creativa e tecnologica di un territorio. Le industrie culturali rappresentano uno degli asset più interessanti per favorire una crescita sostenibile che generi trasformazioni di ordine sociale e culturale. In questa ottica, la creazione di un hub della cultura, in grado di connettere le imprese, le comunità di creativi locali e internazionali e le più innovative competenze nell’ambito delle nuove tecnologie, diventerebbe leva per valorizzare e rafforzare l’attrattività di un territorio, la sua identità, il suo “software umano”. La prospettiva è quella della creazione di valore economico e sociale. Anche la Commissione Europea ha recentemente riconosciuto l’importanza dei settori culturale e creativo ponendoli tra gli obiettivi prioritari della strategia “Europa 2020”. Nel libro verde “Le industrie culturali e creative, un potenziale da sfruttare” l’Europa invita gli stati membri a: potenziare le sinergie verticali e orizzontali tra il settore culturale e gli altri settori nonché i partenariati tra soggetti interessati, pubblici e privati; favorire la creazione di incubatori di imprese nel settore culturale e creativo a livello locale e regionale, rafforzando in tal modo l’imprenditorialità; vagliare soluzioni per promuovere nuovi modelli d’impresa e consolidare i raggruppamenti di 11 attività creative e i centri di ricerca delle imprese sfruttando le opportunità offerte dall’applicazione e dall’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. È evidente l’importanza attribuita alla capacità di creare connessioni e reti tra le imprese culturali e gli altri settori dell’economia, supportando, in particolare, la fase di ricerca e sviluppo: una delle aree più critiche per le piccole e medie imprese italiane, spesso caratterizzate da risorse inadeguate a sostenere i processi di innovazione del prodotto. Diviene quindi essenziale dotarsi di strumenti e competenze funzionali alla creazione di una piattaforma dedicata alle imprese culturali e alle industrie creative. Un hub capace di garantire un approccio progettuale condiviso secondo quelle dinamiche bottom up che stanno rivoluzionando i processi creativi e i sistemi di raccolta delle risorse economiche da parte dei produttori e delle imprese. Si pensi alla rivoluzione avviata dalle piattaforme di crowd funding tra cui Kickstarter. Piattaforma web internazionale che nel 2011 ha raccolto dalla sua community la strabiliante cifra di 99 milioni di dollari per il finanziamento di progetti nei principali settori culturali: cinema (32 mln), musica (19 mln), design e architettura (9 mln), editoria e letteratura (5 mln), performing art (4 mln). Non a caso, gli stessi ambiti disciplinari nei quali potrebbe operare l’hub torinese della creatività a cui stiamo lavorando! Matteo pessione Lavora per la Fondazione CRT come coordinatore progetti di Venture Philanthropy. È Vice Direttore della Società Consortile OGR – CRT. Docente di Management e Marketing delle 12 Attività Culturali presso l’Università di Torino e tiene corsi e seminari presso la IULM di Milano. Ha collaborato con Alessi Spa e altre realtà del mondo del design italiano. the human software the human software Abbiamo una Mèta Riccardo Piaggio Cosa significa parlare di conoscenza e non semplicemente di creatività, nel contesto della progettazione culturale e delle agorà della cultura? Significa cercare un ritorno a casa dell’idea di artigiano (colui che produce cultura) su quella di artista (colui che «crea»), ricucendo quella frattura, avvenuta con la modernità, tra arte e artigianato, tra arte e vita. E guadagnare una visione multidisciplinare, interdisciplinare e metadisciplinare della cultura (delle culture) e della creatività. È la «speranza progettuale», una dimensione tutt’altro che compiuta, in cui le persone e i sistemi progettano continuamente cultura in relazione. È l’homo faber che si contrappone all’animal laborans. Faber e metadisciplinare. Dove il prefisso meta (μετά) già dice molto, l’andare al di là, l’essere insieme. Proviamo ad applicare questa parola, metadisciplinarità, alla missione di un polo culturale, di un museo, di un’agorà della cultura, della creatività e della conoscenza: andare al di là, significa avere una visione, innovare, prendere ciò che esiste non per produrre una somma, ma per immaginare una nuova unità. Questo con i linguaggi creativi (la musica, il teatro, la fotografia, l’audiovisivo), con le discipline della conoscenza (dalla letteratura, alla filosofia, alle scienze), dentro ciascun linguaggio e disciplina e tra l’uno e gli altri. Con una visione insieme poetica ed estetica, oltre che necessariamente etica e sociale. A questo serve un’agorà 13 della cultura, della conoscenza e della creatività: a essere uomini e cittadini liberi e consapevoli. Perché questo concetto aperto non resti né vuoto né astratto, è però necessario che si passi da una visione «contemplativa» dell’arte ad una produttiva della cultura. È necessario un processo che rompa le degenerazioni dovute a quelle che Edward Said definisce «le ortodossie dei campi separati», vale a dire quell’atteggiamento, piuttosto comune, che porta a specializzazioni nei campi più diversi della cultura, dell’arte e della scienza, e che impedisce uno sguardo aperto, autenticamente interrogativo e dunque profondamente libero, sulla realtà. Un polo di produzione culturale metadisciplinare, per usare una metafora che assuma la prospettiva dei network cosiddetti 2.0, dovrebbe essere simile a Linux, piuttosto che a Windows, un sistema aperto e «orizzontale», open source e pubblico, un bazar in una piazza viva, per usare le parole del sociologo Richard Sennett, in cui ciascuno decide cosa vendere e cosa comprare, se barattarla o farsi pagare, se costruirla o coltivarla o commissionarla ad altri. C’è bisogno bisogno di una Casa (un centro “sociale”, anche immateriale) abitata da produttori di cultura che, prima che project manager, siano demiurghi visionari e appassionati, con una meta preziosa da guadagnare. Riccardo Piaggio Giornalista culturale, ricercatore e curatore di eventi culturali, collabora con il Domenicale de «Il Sole 24 Ore» e «Wired Italia». Ha pubblicato saggi per il Melangolo, il Mulino e Marsilio. Ha ideato e diretto Festival ed eventi 14 (Babel, Festival della parola), curato produzioni musicali e culturali. È consulente Autogrill SpA per i progetti innovativi. È ricercatore presso il Centro Studi CSS-EBLA di Torino. Ha condotto attività di ricerca per il Progetto OGR. the human software Joseph Grima La forma architettonica di un hub delle culture contemporanee Per me è inevitabile chiedersi che forma architettonica potrebbe avere un hub della cultura e dell’innovazione dedicata all’esplorazione del dialogo tra discipline diverse. E altrettanto interessante, nel quadro culturale contemporaneo, sarebbe pensare a una specie di piattaforma privilegiata che in qualche maniera funga da trampolino di lancio per iniziative proposte da giovani, o da persone che magari hanno idee ma che non trovano spazio per la realizzazione in altri luoghi e altrove non riescono a incontrare una dimensione di investimento finanziario. Un hub del genere potrebbe avere scopi di sperimentazione scientifica, teatrale, musicale, letteraria, estendersi in tutti gli ambiti.Per essere più precisi, si potrebbe immaginare una sorta di laboratorio aperto, declinato fisicamente in uno spazio costituito da una serie di container, tanti volumi che diventino sede per programmi culturali anche molto diversi tra di loro e che possono essere influenzati l’uno dall’altro attraverso lo scambio di idee e prospettive differenti. Ciò potrebbe essere veramente il seme che riesce a condurre alla realizzazione di un grande progetto culturale e sociale a lungo termine, indipendentemente dall’istituzione stessa. In realtà questa non è un’idea nuova. È esattamente l’ambizione che spingeva l’architetto inglese Cedric Price, che a metà anni Sessanta aveva progettato il Fun Palace, ovvero una struttura che sostanzialmente possedeva 15 the human software l’estetica di una piattaforma petrolifera. E in qualche maniera funzionava davvero così, visto che era un laboratorio di estrazione di materiali culturali grezzi: proprio le idee. La cosa singolare è che non è mai stato realizzato, anche se come sappiamo certe istituzioni come il Beaubourg a Parigi hanno acquisito dall’eredità del Fun Palace la propria forma e identità fisica. Ma ciò che tutti gli altri spazi non sono riusciti a fare è stato appunto realizzare un’istituzione colonizzabile, non unicamente dagli artisti (tipo residenza), e nemmeno soltanto dal pubblico, come nel modello classico del museo o dell’istituzione culturale - ma entrambe le cose, contemporaneamente. Un’idea che è emersa più volte pensando a un hub delle culture contemporanee, è quella di creare non tanto una forma architettonica precisa che in qualche modo determina i suoi contenuti; ma piuttosto di assemblare un kit, una serie di dispositivi spaziali che possono essere combinati e ricombinati attraverso una serie di forme architettoniche mutevoli nel tempo. Quindi un progetto architettonico non necessariamente prescrittivo ma capace di adattarsi, qualcosa che si plasma seguendo le visioni molto forti di chi è di volta in volta a capo di questo spazio. Credo davvero che un’istituzione del genere possa e debba prendersi dei rischi, essendo una piattaforma per la produzione di idee – la merce più scarsa, a qualunque latitudine. Quando si pensa all’impatto internazionale, ecco che la caratura unica di un’istituzione del genere si presenta in tutta la sua forza. Joseph Grima Dopo aver conseguito il dottorato a Londra, ha diretto per anni Storefront for Art & Architecture di 16 New York, ora dirige il mensile Domus. Ha pubblicato saggi di architettura e urbanistica. Vive a Milano. the human software the human software Multidisciplinare, Culturale, Commerciale Carlo Antonelli testo scritto in occasione di un incontro a Torino nel 2010 un luogo che risuona idee fin dal suo ingresso Esiste un problema - ma anche un’opportunità - che riguarda la parola “cultura”. Sarebbe troppo lungo discuterne in questa sede, ma è importante pensare che se c’è una cosa divertente del tempo presente è lo sbriciolarsi delle divisioni tra campi culturali commerciali, tra campi industriali, materici e immateriali, e tra la fruizione e la produzione. Già Alvin Toffler scrisse più di vent’anni fa questo libro sul prosumer, sul consumatore e il produttore, che però pochi mettono in campo. Molti lo mettono in campo nell’economia digitale ma pochi lo mettono in campo quando si tratta di progettare uno spazio vero. Nelle pratiche di progettazione culturale una questione molto forte in questo momento si rifà direttamente a un libro del 1959 di quel signore che si chiama Charles Snow, intitolato “Le due culture”, nel quale l’autore afferma che nel secolo scorso l’informazione scientifica correva a pari passo con la conoscenza culturale. Tutti noi sapevamo negli anni Settanta cos’erano i quanti e cose del genere. In questo momento invece viviamo nella situazione speciale in cui mentre la comunità scientifica conosce più o meno tutto ciò che produce la comunità culturale, la comunità culturale non ha un’idea di cosa produce la comunità scientifica. Cioè è rimasta una nozione delle materie scientifiche che più o meno è basata sulle scoperte del dopoguerra. Quindi la conoscenza che nel Novecento si era avvicinata nel campo scientifico e nel campo culturale 17 si sta riallontanando, quindi scopo di questo posto sarà quello invece di riavvicinarlo ancora perché c’è molta più intelligenza, questo è un mio personale parere, in questo momento nell’avanzamento scientifico e tecnologico di quello che non c’è in campo culturale. Quindi c’è la necessità di riallineare paradossalmente la produzione culturale alla supersonica progressione che sta accadendo in altri campi. Quindi al centro dell’idea di cultura sarà l’idea di diffusione e di informazione su ciò che si può fare e che è già consentito. Questo ci consente di mettere in rete questo luogo con la produzione diffusa di conoscenza che c’è anche sul terreno torinese. Senza farsi troppi problemi su ciò che sono e che erano le vecchie divisioni tra i campi. Altra cosa riguarda la questione commerciale. Io sono fermamente convinto che in questo momento non esiste iniziativa commerciale che si possa definire di successo senza che essa includa della forte intelligenza al suo interno. È una situazione specialmente locale troppo darwiniana nella quale la crisi ha impattato soprattutto in termini di inventiva. In termini di capacità di pensare e in termini di eccessiva restrizione dell’immaginazione, quindi è fondamentale che non ci sia alcuna divisione di saperi. Le due culture non sono solo la cultura scientifica e la cultura così detta umanistica ma anche la cultura commerciale e la cultura intesa come un campo di kindergarten, dove gli adulti sono come dei bambini e si divertono a fare delle cose che poi non producono denaro. Se riusciremo a concepire un luogo che risuona idee fin dal suo ingresso forse riusciremo ad ottenere un luogo davvero unico in Italia o nel mondo e che quindi possa risultare da esempio per istituzioni di questo genere anche da altre parti. CARLO ANTONELLI Ha lavorato per la Sugar di Caterina Caselli, fondato e diretto l’edizione italiana del mensile Rolling Stone, co-prodotto il film 18 pluripremiato ‘Io sono l’Amore’ di Luca Guadagnino. Ha pubblicato diversi saggi. È direttore del mensile Wired, e vive tra Roma e Milano. the human software the human software Il tempio della sinestesia Marco Rainò Viviamo un’epoca pervasivamente transdisciplinare, in cui l’ibridazione di competenze o la miscela di stimoli provenienti da distinti ambiti del sapere produce spesso meraviglie inattese o, in alternativa, nuovi “oggetti” d’interesse ottenuti per amalgama di reagenti apparentemente insolubili. Prendiamo ad esempio un numero recente del magazine Wallpaper, un “servizio moda” tanto tradizionale quanto visivamente anomalo. La scelta dei vestiti presentati nel reportage - realizzata dalla stylist Ursula Geisselmann - è il punto di innesco per una collaborazione sperimentale che coinvolge l’artista audiovisivo Carsten Nicolai e il fotografo Armin Linke, “complici” in un tentativo di esplorazione che non si limita a rappresentare per immagini le architetture di stoffa indossate dalla modella, ma intende interpretarle attraverso una modalità di “decodifica” specifica e originale. Nicolai e Linke realizzano il progetto per il servizio con l’ausilio dell’ANS, un esoterico sintetizzatore fotoelettrico di grandi dimensioni, un solido di metallo scuro inventato nel 1938 dall’ingegnere sovietico Eugeny Murzin e ora custodito, in unico esemplare, presso il Glinka Museum of Musical Culture di Mosca. La macchina - il cui nome deriva dalla composizione delle iniziali del compositore Alexander Nikolayevich Scriabin - produce suoni senza 19 essere uno strumento musicale e senza l’ausilio di un esecutore. La musica, limpida, enigmatica e dai timbri siderali, viene generata in modo autonomo e automatico dalla lettura di un’immagine, perché il sintetizzatore ottico trasforma in suono ciò che si disegna su una lastra resa opaca da un velo di mastice nero o, al contrario, produce sulla medesima lastra una rappresentazione visibile di un’onda sonora. Il dispositivo trasforma strutture grafiche in strutture sonore - e viceversa - sfruttando il metodo del suono foto-ottico utilizzato in cinematografia, in cui una traccia impressa su pellicola viene colpita da un fascio di luce e, in ragione della diversa intensità luminosa dalla quale si lascia attraversare, genera una corrente elettrica che una volta amplificata produce un tono. I pattern dei diversi tessuti, le geometrie dei singoli vestiti, prima fotografati e poi “somministrati” all’ANS da Nicolai e Linke, sono diventati musica e luce. Il minuto traforo a piccoli triangoli di una gonna di Calvin Klein; la ripetizione di un decoro floreale su una camicetta di Gucci; il decor reticolare su un cappotto di Alexander McQueen; tutti segni trasformati in stimoli uditivi o nella proiezione, bianca e luminosissima, del corrispondente spettro grafico dell’onda sonora. I suoni raccontano una piccola storia che parla dell’ingegno umano e accendono nuovi fuochi di conoscenza, offrendo stimoli per ulteriori ricerche. Dando l’occasione - ad esempio - di scoprire che Eduard Artemiev, nel 1972, impiega il medesimo sintetizzatore ANS per realizzare la meravigliosa, visionaria colonna sonora del Solaris di Andrei Tarkovsky. Ma questa è un’altra storia. marco rainò Nato a Torino nel 1970, è architetto, designer e art director. Fondatore insieme a Barbara Brondi dello studio BRH+, affianca 20 all’attività di progettista l’impegno come critico e curatore, occupandosi di architettura di ricerca e design sperimentale. the human software the human software l’esperienza interdisciplinare di minimum fax Daniele di Gennaro All’inizio dell’esperienza di minimum fax, (1992), cambia il concetto stesso di editoria. I fruitori “si fanno sentire” prima via fax, poi sul web, flussi di informazioni e di indicazioni preziose si muovono in senso inverso: non è più l’editore a somministrare dall’alto verso il basso una cultura “necessaria” volta a rimediare al peccato originale del non sapere ancora. Il mestiere dell’editore diventa sempre più una mediazione di sensibilità, un atto di ascolto e selezione, di incontro e di vera relazione fra le persone. A questa prima situazione di inevitabile apertura ne succede un’altra. Lo stesso contenuto della ricerca editoriale si può sviluppare e può prendere vita su diversi piani linguistici e formati: un’inchiesta giornalistica testuale, un romanzo o un libro di poesie possono dare vita a uno spettacolo teatrale, un documentario, un abbinamento editoriale libro più homevideo, a un adattamento per un lungometraggio o a puntate di serial fiction. E ognuno di questi processi può essere raccontato in un progetto didattico di formazione per l’ulteriore racconto dei mestieri della cultura e dei metodi della sua comunicazione. Ognuna di queste attività diffonde in altri ambiti di risonanza il medesimo contenuto e dallo stesso genera altri valori economici. La ricerca editoriale inizia quindi a ragionare essenzialmente in termini di contenuto: l’orologeria produttiva di libri, teatro, audiovisivo, formazione, 21 dipende dalla stessa serie di attenzioni. Ricerca di linguaggi innovativi, cura dei processi produttivi e dei loro dettagli, cura degli standard qualitativi: quindi identità e riconoscibilità che generano mercato, domanda e stimolo alla concorrenza. Mentre gli artisti non sono quindi più monomaniaci verticali di una sola arte ma subiscono l’influenza di più generi linguistici, la multidisciplinarità si impone non come un’addizione asettica di linguaggi, ma un movimento di arti e attitudini che dialogano integrandosi fra di loro e generando nuove formule con piena identità e dignità di genere. Il concetto di creazione artistica aumenta quindi il suo senso trasformativo, dove i debiti intellettuali e artistici sono rintracciabili non solo all’interno di una sola disciplina. In tante città del mondo il ricupero di spazi post industriali ha generato dei varchi sociali dove le persone vivono quotidianamente questo virtuoso ed esteso fenomeno dialogico. Creare le condizioni perché questi spazi si moltiplichino generando sul piano culturale qualità di scambio sociale e sostenibilità economica è la risposta più efficace in un periodo economico e psicologico come quello attuale, in cui l’esperienza dell’incertezza fa sì che le città e i loro settori di produzione culturale tendano al contrario a chiudersi. Daniele di Gennaro Nato a Roma nel 1967, ha fondato nel 1994 la casa editrice Minimum Fax, e a seguire le unità di produzione audiovisiva Minimum Fax Media e 22 teatrale Minimum Fax Live. È docente presso l’Università la Sapienza di Roma nel Master in Editoria, Giornalismo e Management Culturale. the human software the human software L’uomo è multidisciplinare Alberto Pagliarino Non è tanto l’arte o la produzione culturale in genere a essere interdisciplinare. È l’uomo a esserlo. E lo è perché è l’unico modo che ha per fare esperienza del mondo che lo circonda e per comprenderlo: un mondo complesso, difficile e meraviglioso. Allora pensare a un evento culturale in termini monolinguistici (solo musica, solo danza, solo parola, ecc.) significa offrire a chi partecipa un’esperienza che lo farà sentire segmentato. Un accadimento culturale interdisciplinare considera invece l’uomo nella sua totalità, come un essere che gusta, che ascolta e vede, che ha intelletto, che ha pancia e ha cuore. Una produzione culturale che mi considera come essere capace di tutte queste possibilità di esistenza contemporaneamente mi dà la possibilità di una esperienza più piena. È il caso del Teatro di Comunità dove l’organizzazione di un grande evento culturale offre a chi partecipa la possibilità di muoversi all’interno delle proprie abilità umane – le relazioni sociali e rituali, le declinazioni dell’intelletto, il movimento e la percezione dello spazio e del tempo attraverso i cinque sensi - ed è in questo potersi spostare dall’una all’altra che si può produrre un livello di esperienza interamente interdisciplinare. Un evento culturale totale è quello in grado di far vivere a chi partecipa una comprensione del mondo attraverso la declinazione armonica e integrata di diversi linguaggi. Fare esperienza: 23 mettere in moto i diversi livelli con cui l’uomo può percepire, comprendere, vivere. Immergendosi nella drammaturgia dell’evento, ad esempio, si potrà ascoltare un attore che racconta una storia di vita vissuta, il pubblico attraverserà i luoghi in cui quelle storie hanno preso vita, si sentirà una musica in sintonia con le emozioni e i sentimenti che la drammaturgia dell’evento vuole toccare nel far fare una precisa esperienza allo spettatore. Gli spazi verranno trasformati attraverso installazioni scenografiche in sintonia con le parole ascoltate, le sensazioni percepite e i silenzi. Potrà accadere che da un vecchio muro scrostato fioriscano rami carichi di gemme e fiori, che uno spazio venga trasformato da un gioco di specchi, che vengano offerti a chi ascolta cibo e bevande scelti appositamente, che ci sia la possibilità per chi partecipa di condividere le esperienze fatte attraverso momenti rituali o addirittura di intervenire attivamente nell’opera. Secondo questa consapevolezza la domanda che ci muove nell’organizzazione di un evento culturale interdisciplinare non è tanto “cosa è” quell’evento – che porta con sé il rischio di chiuderlo in una categoria piatta come spettacolo, aperitivo, lettura, ecc. -, ma “cosa fa” e cioè come i diversi linguaggi artistici, sociali e scientifici agiscano su chi è lì presente. E lo trasformino. Alla meraviglia del fare esperienza serve uno spazio dedicato. Un luogo dove possano prendere forma e incontrarsi linguaggi diversi. Uno spazio aperto a comunità di spett-attori attive e partecipi e alla sperimentazione di forme e di relazioni trasversali e di dispositivi culturali innovativi. Alberto Pagliarino È docente di Teoria e Tecniche del Teatro Educativo e Sociale presso l’Università di Torino. È autore di eventi teatrali 24 e culturali. È Direttore Artistico del progetto europeo Caravan. Artists on the Road di cui la Fondazione CRT è capofila. the human software the human software Altri saperi, altri giornali Luca Mastrantonio Una delle cose più divertenti del suonare a quattro mani il pianoforte è la convivenza in uno spazio ristretto di note, spalla a spalla ci si divide le scale, toni e melodie, accompagnamento, dovendo rispettare lo stesso tempo. Difficile, e divertente, è fare da o avere il coautore. La prima volta con una collega venezuelana, per raccontare in maniera critica e documentata quello strano Caudillo pop di Hugo Chavez. A parte la scrittura diretta di alcuni capitoli, ho svolto il ruolo, sorprendente, del lettore implicito (l’ideale destinatario, cioè un italiano che sa poco del caudillo rispetto ad una venezuelana) divenuto autore esplicito (autore di testi e committente di altri). Più editor che coautore. Per L’irrazionalpopolare, scritto con il critico d’arte Francesco Bonami, abbiamo suonato a distanza. L’idea del libro è venuta mentre si commissionavano i pezzi per Il Riformista e l’abbiamo scritto a distanza, con il fuso orario Italia-Usa, essendoci visti un paio di volte, poche ore. Credo che questa dimensione non strettamente individuale del mio lavoro derivi da quello che ho fatto nei giornali, prima a Il Riformista e ora a La Lettura del Corriere: un lavoro collettivo, crossover per quanto riguarda i settori, nel tentativo di creare un open space mentale, una Rete di collaboratori che crei una specie di intellettuale collettivo. Per dire: seguendo i meccanismi dell’arte contemporanea, la volatile ma seducente oscillazione delle 25 sue valutazioni, si comprende meglio tanto la Finanza quanto il mondo dell’editoria odierno. Idem con la tv, che ha fatto gli italiani, linguisticamente parlando. A non seguirla ci si analfabetizza, ci si colloca al di fuori di narrazioni globali come le fiction americane. I nuovi linguaggi amo ibridarli con vecchie grammatiche o sintassi. Chiedendo per esempio agli scrittori Errico Buonanno e Tommaso Pincio di produrre testi sintetici e autonomi, un tot di tweet, per narrare l’affondamento del Titanic e la bio di Marilyn mettendoli online rispettando quasi il tempo di lettura. Luca Mastrantonio Nato a Milano nel 1979, ha diretto le pagine culturali del Riformista. Ha collaborato con Radio Città Futura, Radio24 e 26 RaiCinema. È arrivato al Corriere della Sera nel 2011, per la progettazione e realizzazione dell’inserto La Lettura. the human software the human software Menti selvagge proprio sotto casa Gianluigi Ricuperati S’intitola The WIlderness. Downtown. L’ha girato Chris Milk. Lo trovate all’indirizzo www.thewildernessdowntown.com. La musica è degli Arcade Fire. La tecnologia è di Google. Secondo me - e ragiono su queste cose da molti anni, vivendo e lavorando sospeso tra mondi espressivi diversi come la letteratura, l’arte, l’architettura – è un esempio semplice, eccitante, efficace, di dialogo riuscito fra pensiero sofisticato e urgenza pop, tensione emotiva e avventurosità tecnologica: musica, video, arte digitale, gioco mentale, gioco sentimentale. La storia è questa: per la canzone We Used to Wait, uscita nel 2011, anziché realizzare il video, la band di Montrèal uno dei gruppi rock di maggior successo critico e popolare degli ultimi vent’anni - ha lavorato con gli ingegneri di Mountain View per combinare l’esperienza di fruizione di una canzone e del suo clip con l’esperienza di utilizzo di Google Earth. La canzone parla di tante cose, ma tra le tante parla di adolescenza, come la maggior parte dei testi rock: l’invito è di digitare sulla mascherina l’indirizzo esatto del luogo in cui si è cresciuti, in cui si è passati dall’infanzia alla giovinezza: la casa in cui si è diventati grandi, insomma. Dopo qualche istante, l’applicazione rumina dati, e a meno che tu non abbia passato i tuoi tredici anni nello stretto di Bering (ma ormai le fotocamere di Google arrivano nei posti più inattesi), inizia una meravigliosa combinazione di 27 immagini in movimento che si allineano miracolosamente alle fotografie zenitali del motore di ricerca. Il ragazzino che corre è uguale per tutti. Il contesto in cui corre – grazie all’abile sovrapposizione dei programmatori e del regista, e alla naturale tendenza del cervello a dare unità di luogo e di tempo a ciò che vede sullo schermo – è diverso per ciascuno. La canzone è toccante. L’effetto è magnetico: mai un video musicale è stato così personalizzato, talmente personalizzato che sembra sia stato fatto per te – sembra che la canzone sia stata scritta per te. E sembra che ciò che si guarda, e si ascolta, le parole le note le immagini, appartengano a un taglio di realtà che è stata per davvero. Dura quattro minuti o poco più. Provatelo. Se siete sentimentali, avrete qualche ragione per provare a piangere un po’. Se siete rapiti dalle idee, avrete un’idea praticamente perfetta: popolare, avanzata, di diamante. Se siete interessati, come noi, alla conversazione furiosa tra discipline, avrete la musica la narrazione visiva, la geografia e la tecnologia, armonicamente vicine ad esplodere, per esplorare qualcosa che vi tocca il cuore, e la mente – e dice un paio di cose vere sull’essere umano. Nel progetto che stiamo sognando, sarà pieno di persone come Chris Milk. Gianluigi Ricuperati Scrittore, ha pubblicato diversi saggi e romanzi. Il suo prossimo romanzo uscirà da Mondadori. Scrive su Repubblica, IL, Il Sole 24 Ore - Domenicale, GQ, Rolling Stone, Domus. Ha collaborato come curatore 28 e consulente con musei, festival, fondazioni bancarie e altre istituzioni italiane ed estere. Ha fatto l’autore per Le Invasioni Barbariche. Ha condotto attività di ricerca per il Progetto OGR. the human software Max Casacci I giovani d’oggi (e di domani) non hanno più discipline Mi capita spesso spesso di venire interrogato sul futuro della musica, sulle possibili forme di fruizione divulgazione, sostenibilità economica. Ritengo sia difficile riferirsi alla musica prescindendo dalla stessa, per considerarla unicamente un prodotto in cerca di nuove collocazioni nello scenario incerto di questa epoca Insomma è difficile se non impossibile tracciare una previsione senza partire dalle caratteristiche dei nuovi musicisti e dei futuri fruitori. Alziamo lo sguardo dalle cifre e dai bilanci e osserviamo che cosa succede nel mondo vero, quello dove la musica è una necessità primaria che impregna le abitudini, modalità di comunicazione tra i ragazzi. Provate ad immaginare se nel passato gli adolescenti, avessero avuto accesso quotidiano a apparecchi fotografici, macchine da presa, moviole centraline di montaggio video, studi di registrazione audio, strumenti musicali, sofisticati programmi di eleborazione grafica, e canali diretti con tute le principali realtà creative del pianeta. In tempo reale. Provate, adesso, a pensare che è quello che sta succedendo in questi anni. I ragazzi oggi crescono con una quantità enorme di strumenti espressivi, un tempo inaccessibili per costi tecniche di apprendimento, a portata di mano. Con questi strumenti familiarizzano giocandoci da quando sono bambini. 29 the human software E tutte queste possibilità sono racchiuse nello schermo di un personal computer, sul tavolo di una cameretta. Provate ora a considerare che i nostri lap top, smar phone, tablet, sono anche apparecchi dotati di canali che potenzialmente consentono la divulgazione, promozione e distribuzione e vendita, di opere creative. Osservando le caratteristiche dei musicisti più giovani, la loro propensione a non considerare al musica come un o spazio finito e a sé stante, la loro disinvoltura nell’utilizzare in parallelo linguaggi e tecniche espressive sovrapposte, non credo di sbagliarmi affermando che siamo alle porte di un potenziale i Rinascimento creativo. Dove la musica , da sempre vettore primario di creatività giovanile, sarà il nuovo perno per veicolare opere: visive, narrative, interattive e chissà quant’altro. Abbiamo quotidianamente nelle nostre tasche, dispositivi che rappresentano ancora dei contenitori vuoti, in attesa di opere che ne sappiano sfruttare tutte le potenzialità. I musicisti di domani saranno costretti a essere artisti a tutto tondo, non si limiteranno a scrivere e a eseguire canzoni o temi musicali, ma saranno spinti a esprimersi con differenti tecniche, cercando a 360 gradi il modo per sostenersi attraverso la propria creatività. Avranno inoltre la necessità di cercare attraverso le strade del suono nuove forme di sostenibilità economica, saranno costretti a sconfinare dal solco della tecnica strumentale, dai modelli e dagli stereotipi precedenti. E i nuovi ascoltatori, non saranno solo ascoltatori. MAX CASACCI Dopo un’iniziale esperienza con gli Africa Unite, ha fondato i Subsonica, uno dei gruppi rock di maggior successo di pubblico 30 e critica in Italia. Ha scritto una canzone registrata da Mina, ideato e diretto festival musicali, prodotto nuovi gruppi. the human software Carlo Cresto-Dina PARLARE PERCHÈ ASCOLTINO ASCOLTARE PERCHè PARLINO È un’impressione sempre più frequente e precisa. Come se si fosse prodotta, si stesse producendo in questi anni, una frattura nel mestiere di raccontare per immagini. Guardando un film, o anche solo leggendo una sceneggiatura, un progetto per un film, si sente immediatamente: ci sono autori che sembrano essersi resi conto di questa frattura, altri che sembrano essere restati indietro. Ci sono opere che pertengono al tempo presente, altre che magari sono infiocchettate di musica rap, parlano slang più o meno moderni, o affrontano temi di bruciante attualità, ma sembrano essere pensati per il-secolo-scorso. Aver provato ad indagare questa frattura accomuna e rende prezioso, a mio giudizio, il lavoro degli autori con cui tempesta ha lavorato in questi anni, Alice Rohrwacher, Leonardo Di Costanzo, Maurizio Braucci e gli altri. Come se noi insieme, ciascuno progredendo per un pezzo e poi condividendo, si stesse mettendo a punto un modo di raccontare il presente e di renderne conto, si cominciasse a capire questa frattura. Sono “presenti” le opere e gli autori che concentrano le loro energie non sull’espressione della loro sensibilità individuale, più o meno dolente, ma quelli che sono capaci di elaborare un percorso creativo, o meglio ancora un processo generativo che determina il film. Alice Rohrwacher ha sintetizzato scherzando “dopo la politique des auteurs e 31 the human software la politica delle opere, è tempo della politica dei processi”. Certi film sono diversi perché sono fatti in modo diverso. E attenzione: non significa che gli autori non servano più, al contrario. Solo che servono autori con un’altra energia! Un talento unico e ardito è necessario per ideare, come ha fatto Leonardo Di Costanzo, il complesso processo creativo che ha generato quell’opera unica che è L’intervallo, un talento lucido e robusto gli è servito per reggere nel tempo questo processo e condurlo alla fine, sapendo mettere insieme altri talenti come Maurizio Braucci e Mariangela Barbanente che hanno scritto e riscritto per mesi, mentre Antonio Calone e Alessandra Cutolo cercavano per strada i ragazzi, organizzavano con loro, sera dopo sera, laboratori di espressione e scrittura per riuscire a “tradurre” con loro i testi e i significati del lavoro. Il risultato è nel film, e chi l’ha visto sa di cosa parlo. Lavorare sul processo creativo è accettare un atteggiamento completamente nuovo, dove non ci si affanna più a “parlare perché il nostro tempo ascolti” ma si cerca invece, con fatica e umiltà, di imparare ad “ascoltare perché il nostro tempo parli”. Carlo Cresto-Dina Ha fondato nel 2008 Tempesta con cui ha prodotto Corpo Celeste diretto da Alice Rohrwacher (Cannes 2011, Sundance 2011, Ingmar Bergman Award for Best 32 International Debut Feature 2011, Nastro d’Argento Opera Prima 2011) e L’intervallo diretto da Leonardo Di Costanzo (Venezia 2012, Toronto 2012, FIPRESCI Award 2012). Vive a Londra.
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