AVVOCATI PARI OPP 19 GIUGNO

CONVEGNO PARI OPPORTUNITA’ NELLE PROFESSIONI – CPO ORDINE AVVOCATI 19 GIUGNO INTERVENTO dr.ssa Gabriella Tanturri Buongiorno a tutte e tutti. Mi occupo di pari opportunità dal 1995, prima all’interno del Comitato Pari Opportunità delle Molinette di cui sono stata vicepresidente, ora all’interno dell’Ordine dei Medici, per cui coordino la Commissione Pari Opportunità. Probabilmente saprete che prima del 1875, alle donne era vietata l’iscrizione all’università. Il Regio decreto del 3 ottobre 1875 all’art. 8 riconosce alle donne la possibilità di iscriversi ai corsi universitari. E’ del 1877 la prima laurea in medicina, a Firenze (Ernestina Paper ebrea di Odessa) ¸la seconda avviene a Torino nel 1878 (Maria Farné Velleda). Le prime laureate in medicina sono quasi tutte ebree, molte sono straniere (Anna Kuliscioff). Come son progredite le cose? Nel 1938 le donne medico in Italia sono 367. Proprio pochine…. Eravamo sì nell’era fascista, ma il problema non era solo il fascismo, era la misoginia e l’arretratezza della cultura italiana, purtroppo ancora presenti al giorno d’oggi. Mi sono laureata nel 1975; ho iniziato l’università nel 1969, l’anno in cui l’iscrizione a medicina è stata liberalizzata a tutti gli istituti superiori con durata degli studi quinquennale (prima ad es a giurisprudenza poteva iscriversi solo chi arrivava dal classico, non chi proveniva dallo scientifico…). Nel 1978 noi donne eravamo l’11% del totale della popolazione medica, ma già nel 1975 le neolaureate rappresentavano oltre il 26% dei neomedici. I dati attuali dicono che oltre il 60% dei neolaureati in medicina è di genere femminile, che le donne finiscono mediamente prima gli studi , e con risultati migliori. Analizzando la popolazione medica nel suo complesso (dati FNOMCeO del 2012) le donne sono oltre il 60% dei medici sotto i 40 anni, rappresentano il 50% degli under 50 anni; scendono al 40% circa sotto i 60, e crollano al 21% sotto i 70 anni. Sul totale dei medici, inclusi quelli pensionati, le donne erano il 30% nel 2005, sono il 38% nel 2012. Le proiezioni sulla base del trend attuale dicono che il sorpasso in Italia avverrà nel 2020 (in Inghilterra è previsto nel 2017). Nel nostro Paese oggi la sanità è donna: la presenza femminile raggiunge infatti il 63,41% circa nel 2009, manifestando una crescita tendenzialmente costante rispetto al 2001, anno in cui rappresentava il 59,08% del personale. Guardando alla composizione delle singole famiglie professionali, si riscontra un 38% totale di medici donne nel Ssn (erano il 30% nel 2005) e un 77% di infermiere. Guardando il settore privato, e qui mi concentro sull’odontoiatria che è la principale categoria di medici che esercitano solo nel privato, secondo i dati FNOMCeO nel 1990 le donne erano il 15,7% (2.842) degli iscritti, al 31 dicembre 2012 il 24,6% (14.300) e dal 2009 ad oggi sono le donne ad avere il primato del maggior numeri di iscritti ogni anno: nel 2009 sono state 456 le nuove donne iscritte contro 354 maschi, nel 2010 403 contro 309, nel 2011 347 contro 320 mentre nel 2012 il numero di nuove dentiste iscritte è stato di 241 unità, contro 214 dei maschi. Se consideriamo il numero di iscritti under 29 a livello territoriale notiamo che, salvo l’Ordine di Benevento e Reggio Calabria, in tutti gli altri la maggioranza degli iscritti sotto i 29 anni è donna. Bisogna dare merito al Servizio Studi dell’ ANDI di aver contribuito a sfatare l’assunto che vuole la donna lavorare meno rispetto al collega maschio in quanto deve occuparsi anche dei figli e della famiglia. 11,47 è il numero medio dei pazienti trattati al giorno da una dentista contro gli 11,73 dei maschi. Non vi sono differenze dunque nell’impegno lavorativo di donne e uomini. Siamo quindi di fronte a un importante aumento numerico delle donne medico. Bisogna valutare se: 1 1) a questo corrisponda un aumento di donne anche nelle posizioni apicali, e se è migliorata la qualità del lavoro delle donne medico . 2) Se questo aumento ha comportato una modifica normativa, che tenga conto delle mutate proporzioni di genere. 3) Quanto a questo corrisponda una civile consapevolezza del ruolo che unicamente la donna può svolgere, quello di garantire la prosecuzione della specie. Aumentano le donne nelle posizioni apicali, e migliora la qualità del loro lavoro? Per rispondere alla prima domanda cito un’indagine effettuata alle Molinette negli anni 1999 – 2002, ripetuta nel 2011 – 2013. Le donne medico rappresentavano negli anni fino al 2002 il 43% del totale dei medici in quell’azienda. A livello apicale (primari, per intenderci) erano il 16%. (questo dato crollava al 5% nelle divisioni universitarie, che all’epoca rappresentavano quasi il 50% delle strutture complesse dell’ospedale). Confrontando gli stipendi di donne e uomini, gli uomini guadagnavano più delle donne nelle posizioni non apicali, mentre tra i primari non erano presenti differenze salariali tra uomini e donne (peccato che così poche ci arrivassero….). La stessa indagine è appunto in corso sui dati del 2011 – 2013: le donne medico sono diventate il 48%, i maschi attualmente sono il 52% dei medici. Ma analizzando gli apicali, le donne alle Molinette sono scese dal 16 al 10%. Vi è stata una grande riorganizzazione, molti reparti sono stati chiusi, accorpati, trasformati in strutture semplici… Nella città della salute oggi ci sono 14 dipartimenti, uno solo, quello di medicina di laboratorio, è diretto da una donna. I dati non sono ben confrontabili dato che, mentre nel 2002 ci si riferiva alle sole Molinette, ora la città della salute comprende 4 ospedali: oltre alle Molinette vi è il CTO, Il Regina Margherita e il S. Anna. Le strutture complesse sono in tutto 163, di queste 33 sono a direzione femminile, quindi il 20%: gli ospedali pediatrico e ostetrico-­‐ginecologico hanno per le caratteristiche storiche di queste due specialità, per lungo tempo quasi obbligatoriamente scelte dalle donne medico, una maggior concentrazione di genere femminile a tutti i livelli. Alle Molinette c’è una riduzione di apicali donna. Per rispondere alla seconda questione mi rifaccio ad una osservazione che spesso, molto spesso ci fanno i colleghi (o anche i non colleghi). Me la sono sentita per l’ennesima volta pochi giorni fa al congresso nazionale ANAAO. Me la sono sentita (ed è stata la molla della ricerca di cui vi cito i risultati) dal consigliere di fiducia delle Molinette, alto magistrato in pensione, cui mi ero rivolta per segnalare la discriminazione cui noi donne chirurghe eravamo sottoposte nell’accesso alla sala operatoria: “Voi signore siete appesantite dal carico di cura dei figli e della casa, avete meno energie da dedicare al lavoro”. Ho avuto nei suoi confronti un leggero impulso omicida. E, avendo la netta percezione di lavorare come un mulo, non diversamente dai colleghi, ho raccolto i dati inerenti da una parte i carichi di lavoro (principalmente guardie, reperibilità, turni notturni e festivi, ore straordinarie, quindi la parte “disagiata “ del lavoro), dall’altra il numero di interventi chirurgici eseguiti da ognuno dei componenti l’équipe, prima disaggregati a livello individuale poi aggregati per genere. Preciso che per 16 anni sono stata l’unica donna all’interno di una équipe di chirurgia specialistica di 8 medici. Dal 1997 sono arrivate altre due colleghe, tutte eravamo sposate con figli, le mie due giovani colleghe avevano figli piccoli. I risultati sono stati i seguenti: -­‐ Tutti eseguivano lo stesso numero di guardie e reperibilità e di turni festivi; i turni notturni erano divisi secondo le esigenze di ciascuno (io ho sempre fatto la guardia notturna, per poter stare con mia figlia al pomeriggio) e non costituivano problema. Tutte le donne avevano un certo numero di ore di straordinario, non enorme ma comunque consistente, senza differenze statisticamente significative tra di noi. La situazione tra i colleghi era molto diversa: alcuni 2 -­‐
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avevano un surplus di orario incredibile, quasi “vivevano” nell’ospedale (500 ore di straordinario arretrate…) , altri erano addirittura in debito di orario: 70 ore di debito. Ho correlato gli straordinari, positivi o negativi, con il numero di interventi/anno per ciascun collega: chi era in debito orario non subiva penalizzazioni nell’accesso alla sala operatoria, non eseguiva meno interventi – anno. Fino a che ero l’unica donna dell’équipe eseguivo circa il 5% del totale degli interventi chirurgici (1 su 8, rappresentavo il 12% dell’équipe); in tre (tre su 10, il 30% dell’équipe) eseguivamo il 10% degli interventi. Quindi la percentuale era scesa dal 5% al 4% per me, era del 3% per le colleghe…. Quello che si è verificato, aumentando la forza lavoro femminile nella divisione chirurgica, è stata la delega alle donne dei compiti più ripetitivi e meno qualificanti, liberando tempo per la formazione e per la chirurgia più qualificante ai colleghi. Ho presentato i dati di questa ricerca nel 2007 a Caserta, nel convegno FNOMCeO “Medicina e Sanità declinate al femminile” : diverse altre relatrici, provenienti da altre regioni italiane, hanno portato risultati simili. L’aumento numerico delle donne medico può avere un effetto paradosso: può essere inversamente proporzionale alla qualità del lavoro delle donne medico, e non comportando un aumento di qualificazione non porta con sé automaticamente un trend migliore nella progressione di carriera… 2) Vi sono modifiche normative che tengano conto delle mutate proporzioni di genere? Il lavoro dei medici ospedalieri è regolato dalle leggi nazionali che riguardano il pubblico impiego , la sanità, la maternità , e dai contratti nazionali di categoria. I contratti sono fermi da 5 anni. L’unico risultato davvero positivo ottenuto da un nostro contratto per le donne è stato ottenuto con il contratto sul part time dell’8 giugno 2000, integrativo del CCNL 1998/2001 dell’area della Dirigenza Medica e Veterinaria del SSN. Si è con qs contratto ottenuto per tutti, inclusi i medici a tempo determinato da almeno tre anni, il part time (da cui fino allora eravamo esclusi in quanto…DIRIGENTI! La figura del dirigente medico è stata definita nel 1991, per ottenere una definizione dei contratti specifica per l’area della dirigenza). Il part time dei medici è legato a comprovate esigenze familiari e sociali (figli sotto gli 8 anni, assistenza a parente con handicap o gravemente malato…) e non può eccedere il 3% della dotazione organica complessiva, incrementabile per comprovate esigenze di un ulteriore 2%, quindi massimo il 5%. Per gli infermieri il tetto è il 20 %. Nel 2011 come sindacato ANAAO ho chiesto a 25 tra ASL ASO AOU e centri privati convenzionati di dimensioni rilevanti i dati dei part time medici, per valutare se vi fosse l’esigenza di incrementare la percentuale, mediante trattative decentrate o a livello regionale. L’indagine è terminata a fine 2011. I risultati sono stati: ha risposto il 92% delle strutture interpellate, con dati riguardanti più di 9000 medici; i dati quindi erano rappresentativi della realtà del part time ospedaliero in Piemonte Il part time era utilizzato dall’1.9% dei medici, 174 su 9035, di cui il 10% maschi Le strutture private erano “di manica più larga” nella concessione del part time, utilizzando criteri meno restrittivi nel concederlo. Le conclusioni sono quindi che, al momento attuale, le clausole indicate nell’integrativo sul part time non rappresentano un problema per la categoria dei medici ospedalieri. Questo è dovuto anche all’alta età media degli ospedalieri (sopra i 50 anni) causata dal blocco del turn over. La situazione potrebbe modificarsi con lo sblocco del turn over, questa indagine dovrà essere riproposta tra qualche anno. 3 4) La maternità è sostenuta e garantita? La risposta non è positiva: nei contratti, in nessun contratto, è stata inserita la sostituzione obbligatoria di maternità. In un periodo di crisi e di contrazione degli organici come l’attuale, quando una collega annuncia l’inizio di una maternità si crea una situazione negativa, dovuta al carico di lavoro ulteriore che, senza compensazioni, cade su chi opera nella stessa divisione. Spesso al suo rientro la collega è fatta oggetto di mobbing,: chi lavora con lei ha avuto un peggioramento improvviso nella qualità di vita per aumento di turni di guardia reperibilità mansioni…. Abbiamo fortemente richiesto l’apertura di un tavolo di trattative su questo problema….i vertici sindacali, di tutti i sindacati, sono maschili: la sostituzione di maternità per ora rimane un obiettivo non di primo livello. L’aumento della precarietà del lavoro, dei contratti a termine, hanno comportato una scelta di maternità da parte delle colleghe in formazione specialistica: durante la specialità (della durata di 4 o 5 anni ) la maternità è garantita fino a due maternità nel corso degli studi. I 5 mesi di assenza vengono recuperati al termine del ciclo di studi. L’assegno di maternità comprende la parte fissa dello stipendio, che ammonta a 1500 euro (lo stipendio totale è di 1800). Questa garanzia di copertura economica ha fatto sì che circa un terzo delle specializzande decidano, durante il corso di studi, di avere un figlio. Se non vengono assunte in un lavoro dipendente infatti la copertura della maternità è “assicurata” dall’ENPAM, e ammonta a una cifra pesantemente inferiore, 4000 euro circa per il totale dei 5 mesi . Un dato molto interessante relativo alle scuole di specializzazione è il riscontro di una inversione di tendenza storicamente e culturalmente rilevante: le donne escono dai settori di specializzazione considerati femminili (pediatria, ginecologia, psichiatria) per inserirsi in ambiti storicamente considerati maschilI, come la chirurgia e la radiologia. Le uniche specialità in cui sono ancora in minoranza (ma non assenti) sono urologia -­‐ chirurgia toracica – ortopedia – chirurgia maxillo faciale – neurochirurgia – chirurgia plastica -­‐ medicina d’emergenza. Sono, in molte Università, in maggioranza in chirurgia generale e cardiochirurgia. Sono pari in chirurgia ORL. In tutte le altre specialità sono in maggioranza. In parallelo gli uomini della sanità ospedaliera (medici e infermieri) si collocano preferibilmente in urgenza, strumentazione, tecnologia. In una sanità che sta evolvendosi, orientata al lavoro di équipe e alla presa in carico globale della persona, la diversa presenza femminile potrà portare contributi appropriati in tali direzioni? Questa è la sfida e la speranza. La bioetica se n’è accorta già da anni: ha tracciato infatti un modello di genere, femminile e maschile, che differenzia nell’uno rispetto all’altro lo sviluppo di relazioni, la gestione dei gruppi, la conduzione di imprese, in generale, insomma, in tutti quei ruoli strategici improntati fino ad oggi al maschile. In particolare in ambito sanitario, le risorse di genere femminili risulterebbero più congeniali ed in sintonia, anzi strategiche, per allargare i confini del modello biomedico fino ad oggi imperante, per procedere verso gli aspetti psicosociali dello star bene. Edith Stein, morta ad Auschwitz, dottore della chiesa e compatrona d’Europa, diceva che le relazioni di cura dovevano essere proibite agli uomini. Diceva che ci son compiti che possono essere svolti con maggior sapienza dagli uomini, altri dalle donne: la professione medica è compito per la sapienza delle donne……… Grazie per l’attenzione. Gabriella Tanturri 4