STILL LIFE regia e sceneggiatura di Uberto Pasolini

STILL LIFE regia e sceneggiatura di Uberto Pasolini
(tit.or. Id., Gran Bretagna/Italia, 2013)
Trama. Londra. John May (Eddie Marsan) è un impiegato comunale incaricato di provvedere ai funerali
di persone sole e povere, di cui deve ricercare eventuali parenti e amici. Nonostante lavori da più di
vent’anni in modo solerte e coscienzioso, è licenziato nel quadro di una ristrutturazione del personale
municipale. Decide allora di lasciare il servizio chiudendo l’ultimo caso irrisolto, quello di un anziano
alcolista, Billie Stoke. Avrà così l’occasione di incontrare Kelly (Joanne Froggan), la figlia di Billie.
Durata: 87’.
Il film. Al centro di Still Life c’è la solitudine che è
al contempo il tema fondamentale del film e la sua
cifra stilistica. Ha affermato il regista: «Il soggetto
del film nasce dall’immagine di una sepoltura
solitaria, senza nessuno presente: la considero
un’immagine-chiave dell’isolamento che è sempre
più forte nella società occidentale […].
Isolamento, non solo degli anziani, ma anche dei
giovani, che spesso coltivano amicizie virtuali che
non sono vere, perché Internet ti dà la facoltà di
decidere quando chiudere un rapporto con un clic.
Ma non c’è solo questo, basti pensare
all’egotismo e all’egoismo della nostra società,
nonché alla crescente mobilità delle persone, che
lasciano il proprio paese e i legami che
avevano[…]. Considero Still life un film sulla vita,
non sulla morte, e questo isolamento è la prima
cosa che ho toccato. Il mio film più personale: mi
sono raccontato più che in altri film; il protagonista
sono io, molte sue caratteristiche, molte piccole
ossessioni sono le mie». L’incipit delinea il
ripetersi della stessa situazione – un funerale
deserto – all’interno di tre chiese diverse.
Ricorrono i medesimi elementi: il celebrante, il rito
religioso, il feretro, la musica registrata in
sottofondo e il volto tristemente perplesso di John
May. Nessuno è presente alla celebrazione
eccetto lui, il ministro di culto e il morto. Le
sequenze successive descrivono la vita solitaria di
John May, un quarantenne, senza famiglia e
senza amici, che passa le sue giornate tra l’ufficio,
l’obitorio e i cimiteri per poi tornare nel suo
modesto appartamento, dove compie le stesse
azioni: appendere i vestiti – sempre uguali –
all’attaccapanni, consumare un pasto frugale
(tonno e pane tostato), sfogliare l’album in cui
raccoglie le fotografie delle persone che ha
provveduto a seppellire in assenza di parenti.
Silenzio, grigiore, monotonia caratterizzano
l’esistenza dimessa e ordinaria di un antieroe
contemporaneo, il cui cognome primaverile funge
da tragicomico contrasto con la vita invernale che
conduce. Nella prima parte del film, l’inquadratura
è fissa, con il protagonista che attraversa la scena
senza interloquire con nessuno come fosse un
fantasma. A volte, con un taglio improvviso si
passa dall’inquadratura della figura intera alla
mezza figura, con May completamente isolato,
seduto alla scrivania o al tavolo di casa. Il senso
di solitudine del personaggio è accentuato dagli
elementi architettonici del set cinematografico: le
abitazioni popolari sono seriali e anonime, gli uffici
comunali geometrici e ordinari. La fisionomia
minuta del protagonista, con una testa
leggermente sproporzionata per grandezza (una
caratteristica accentuata dalla regia che rinvia,
insieme alla stilizzazione degli ambienti, al genere
del romanzo a fumetti) lo trasforma in una sorta di
“alieno” vagante tra gli umani che, però, a
differenza dei più, non ha perso la dimensione
dell’unicità. In una scena simbolica, un giovane
addetto all’obitorio gli dice: «Signor May, lei è
unico»; e May è ritratto in piedi al fianco dei
cassettoni numerati contenenti le salme. La
ragione che rende unico il protagonista
probabilmente consiste nella sua ricerca di
autenticità che, in un mondo in cui i viventi
sembrano tutti replicare immagini virtuali e
anonime di sé, sta nel confronto con la morte,
quella “fine delle possibilità esistenziali” che per il
filosofo Heidegger sigilla come unica e autentica
ogni vita umana. Per questo la vita di John May
appare speculare ai defunti che sono oggetto
delle sue indagini. Il suo sguardo seleziona
dettagli apparentemente insignificanti ma che ai
suoi occhi appaiono rivelatori di una vita che
potrebbe essere stata anche la sua: i segni delle
dita impresse in un vasetto di crema per il corpo, il
cuscino in cui permane l’incavo lasciato dal capo,
la biancheria stesa ad asciugare, gli oggetti
personali, bottiglie di vino e liquori presenti nella
casa, Cd e dischi negli scaffali. La ricerca dei
familiari degli uomini e delle donne, che sono
ritrovati morti nelle loro case, per May si trasforma
sempre in una detection, un’indagine sulla
persona: chi erano? Quale vita avevano vissuto?
In breve, una detection esistenziale sottolineata
da elementi profilmici e da intere sequenze:
quando May entra nell’appartamento di Billy
Stoke, si mette una tuta bianca e inizia a indagare
come detective della polizia scientifica; la sua
classificazione in faldoni, con appunti, foto, oggetti
e il suo ufficio ordinato ricordano un archivio
giudiziario. Del resto, l’appartamento di Stoke è
proprio posto di fronte al suo. Un’esplicita
inquadratura in soggettiva, e in controcampo,
mentre May osserva dalla sua finestra scostando
le tende, quella del vicino dalla parte opposta,
crea un effetto speculare che dice tutto sulla
creazione del doppio. La detection è quindi
mostrata con elementi riconducibili a un
immaginario cinematografico, ma che sottende
aspetti filosofici. May, in realtà, indagando su
Stoke, investiga su se stesso e cerca di dare, per
l’ultima volta, una risposta al mistero della (sua)
esistenza.
Mentre la narrazione procede in breve sequenze,
in un montaggio lineare e pulito, lo spettatore
assiste allo scambio di ruolo tra May e Stoke.
Così, nella seconda parte del film, dopo
“l’incontro” con Stoke e a seguito del
licenziamento, il protagonista inizia a imprimere
una svolta alla sua vita. Da un lato, influenzato
dalla storia di Stoke, May incontrerà i suoi amici, i
suoi ex commilitoni (era soldato nella guerra delle
Falkland) e infine la figlia, con cui sboccia un
sentimento acerbo. Dall’altro, May donerà a Stoke
la sua sepoltura (proprio lo spazio al cimitero,
prenotato per se stesso) e gli passerà i legami
umani ricostruiti nella sua recherche. L’apertura
del protagonista nei confronti del mondo è
rispecchiata fedelmente dalla posizione della
macchina da presa: se nella prima parte del film,
la realtà è colta esclusivamente dal punto di vista
del protagonista, con uso della camera fissa e
campi lunghi, nella seconda parte, con la
comparsa di Kelly, compaiono numerosi campi e
controcampi in cui s’inseriscono altri personaggi in
dialogo attivo col protagonista. L’apertura alla vita
è simboleggiata anche dalla fotografia di Stefano
Falivene in evoluzione cromatica, desaturata
all’inizio, ma poi arricchita dal progressivo
inserimento dei colori a mano a mano che si
risvegliano i sensi di May – i cui occhi all’inizio
sono sempre socchiusi e in ombra e poi si aprono
sempre più mostrando il loro colore azzurro -. Il
risveglio alla vita di John è però frutto anche della
sua pietas, di quel rapporto profondo che intreccia
le esistenze dei vivi e dei morti e che è uno dei
fondamenti del senso religioso, un elemento
fondante della società che nella “cura dei defunti”
vede un modo di preservare la tradizione ma
anche di aprirsi al futuro attraverso l’avvicendarsi
delle generazioni. Il regista: «La qualità della
nostra società si giudica dal valore che assegna ai
suoi membri più deboli e chi è più debole di un
morto? Il modo in cui trattiamo i defunti è un
riflesso del modo in cui la nostra società tratta i
vivi. E nella società occidentale, a quanto pare, è
molto facile dimenticare come si onorano i morti.
Sono
profondamente
convinto
che
il
riconoscimento della vita passata di ciascun
individuo sia fondamentale per una società che
voglia definirsi civile».
Still Life si presenta, infine, come una duplice
riflessione sulla narrazione e sull’immagine. Sulla
narrazione: John May è guidato da una curiosità
artistica. Cercando di ricomporre le storie dei
morti, le Backstory di personaggi “non illustri”, che
sono letteralmente usciti di scena, May cuce
narrazioni, intreccia gradi di separazione che in
vita erano stati assai labili, e soprattutto costringe
le persone a ripensare al proprio rapporto col
defunto. L’insostituibile funzione del racconto è di
articolare il tempo in modo da dargli la forma di
un’esperienza umana, cioè di un’esperienza
sensata: ogni testo narrativo, compreso il cinema,
ordina gli eventi entro un quadro dotato di
significato. Il racconto, proprio confrontandosi con
la morte che del tempo è il limite, diviene così un
atto creativo. E apre la possibilità al
lettore/spettatore di giungere a nuove letture del
testo.
Sull’immagine: May, che non possiede immagini
di sé, riempie un album con foto appartenenti a
tutte le persone che ha “accompagnato” alla
sepoltura; è quella la sua vita che scaturisce dalla
morte. Così come avviene per l’immagine
(primitiva, ma poi anche cinematografica): «La
nascita dell’immagine è strettamente connessa
alla morte» scrive il filosofo Régis Debray; nello
spettacolo di un individuo morto vediamo il nostro
doppio «il nulla in sé, questo “non-so-che che non
ha nome in nessuna lingua”. Trauma abbastanza
stupefacente
da
invocare
subito
una
contromisura: fare un’immagine dell’innominabile,
un doppio del morto per mantenerlo in vita e, per
contraccolpo, non vedere questo non-so-che in
sé, non vedere se stessi come quasi niente.
Iscrizione significante, ritualizzazione dell’abisso
per raddoppiamento speculare». Perciò, «Se
l’immagine scaturisce dalle tombe, è per un rifiuto
del nulla e per prolungare la vita. la plastica è un
terrore addomesticato. Ne consegue che più si
cancella la morte dalla vita sociale, meno viva è
l’immagine e meno vitale risulta il nostro bisogno
d’immagini». Il titolo del film è in questo senso
emblematico. Still Life ha più significati: “natura
morta”, “ancora vita”, ma anche “vita ferma” e “vita
fotografata”.
Dal punto di vista stilistico, Pasolini ha scritto
un film improntato ad una drammaturgia
dall’impianto tradizionale a servizio dell’intreccio
che, senza perdere la propria anima fiabesca,
coglie alcuni problemi della società occidentale
contemporanea, come la solitudine e la perdita
dei riferimenti relazionali.
Sullo sfondo della
vicenda traccia anche una sottile critica sociale
all’oggi (la perdita del lavoro, gli effetti psicologici
distruttivi della guerra nell’animo dei reduci) senza
però ambizioni di denuncia. Una regia lieve e
pacata, fatta di lunghi piani fissi e sottile direzione
degli attori, che evita di cadere in pietismi facili
A cura di Fabio Bressam
secondo un canone di eleganza e umanità
coerente alla produzione britannica del film; non
mancano, all’interno del dramma, momenti di
tenero umorismo, resi possibili dalla performance
minimalista di Eddie Marsan, attore finalmente
protagonista dopo tanti ruoli da comprimario o
caratterista. Per Still Life, un film che rifiuta con
decisione gli attori famosi e i linguaggi
magniloquenti, Pasolini ha dichiarato di aver
seguito il magistero di Yasujiro Ozu, anche se non
ha adottato le sue inquadrature fisse e ha
permesso alla macchina da presa – per quanto
austera sia la sua guida – di muoversi se non di
aprirsi; del resto, il regista sapeva che un rigore
radicale avrebbe reso più difficile l’accettazione
del suo discorso. Allo stesso modo egli non ha
rinunciato, dopo il rigoroso minimalismo della
narrazione, a un finale emotivamente sollecitante,
non tanto la morte del protagonista ma il suo
funerale: disertato dai vivi, affollato dai morti. Le
lunghe sequenze silenziose, i colori tenui, le luci
morbide (che riportano perfettamente il tempo
londinese) e il sottofondo musicale (dell’ex moglie
Rachel Portman), aggiunto solo in rare occasioni
e caratterizzato dal piano quale elemento
dominante, conferiscono al film quell’atmosfera
intima e malinconica e quel pizzico d’ironia che
addolciscono
la
tristezza
del
soggetto.
Il regista Uberto Pasolini Dall’Onda è nato a Roma il 1 maggio 1957 da
famiglia aristocratica e benestante (la madre era nipote di Luchino
Visconti); non ha invece alcuna parentela con Pierpaolo Pasolini. Dopo
essersi trasferito a Londra, in cui continua a vivere, ha lavorato con
successo per 12 anni come banchiere in una società per investimenti della
City. In seguito la passione per il cinema lo ha condotto a collaborare con
vari registi come David Puttnam, Roland Joffè, David Mamet, Emir
Kusturica svolgendo mansioni anche umili, fino a quando trova una propria
collocazione come produttore cinematografico. Nel 1995 produce
Palookaville di Alain Taylor e nel 1997 Full Monty del regista Peter
Cattaneo, il più grande successo commerciale di un film inglese con
sceneggiatura originale. Segue come produttore diversi film tra cui I vestiti
nuovi dell’imperatore di Alain Taylor (2001) e Bel Ami (2012) regia di D.
Donnellan e N. Ormerod. Nel 2007 esordisce come sceneggiatore e regista
del film Machan-La vera storia di una falsa squadra, ispirato alla vicenda
reale di un gruppo di giovani cingalesi che emigrano in Germania
spacciandosi per componenti della squadra nazionale di pallamano. Still
Life è la sua seconda regia. Nel 1995 ha sposato Rachel Portman che
lavora nel mondo del cinema come curatrice delle colonne sonore, da cui
ha avuto tre figlie e da cui recentemente ha divorziato.